sabato 12 aprile 2025
Problemi di base scrittoriali - 853
La divina marchesa
Con molte illustrazioni,
una lunga storia pubblicata vent’anni fa, sulla “ereditiera italiana (milanese,
ndr.) nata ricca, sposata ricca, che tutto aveva perduto al tempo della morte,
in caratteristico stile surreale”. Che ne fece la vedette di mezzo mondo
fashion, se non di tutto, per mezzo secolo. Un “personaggio”, del tutto
contemporaneo, e invece stranamente trascurato.
Nata nel 1881, la
marchesa è morta, penniless, nel 1957, “erede di una immensa ricchezza,
avendo speso in abiti e gioielli più di qualsiasi altra regina nella storia”.
Nata Luisa Annan, figlia di un ricchissimo industriale tessile milanese,
nobilitato col titolo di conte da Umberto I, che ne era spesso ospite, sposata
a un marchese Casati Stampa di Soncino, col quale fece una figlia di cui nessuno
si è mai occupato, a 22 anni debuttava con la liaison del secolo, con
D’Annunzio. Dopodiché farà le cronache mondane per mezzo secolo. Seducendo,
seppure solo in immagine, molti scrittori, per lo più americani (tra essi da
ultimo Kerouac), almeno tre generazioni di scrittori. Imperando da Venezia
dapprima (dal palazzo poi preso da “un’altra pretessa”, Peggy Guggenheim), e
poi a lungo da Parigi. Dagli sgoccioli della Belle Époque ala Jazz Generation,
da Cocteau, Man Ray, Paquin, Schiaparelli fino a Karl Lagelfeld, Yves
Saint-Laurent, Gucci, Roberto Cavalli, di persona, sempre eccentrica,
trasgressiva, eccessiva, e in immagine. “Eccezionalmente alta e cadaverica, con
una testa a forma di spada, e un viso piccolo ferino, che veniva sommerso da
occhi incandescenti”, coltivò in ogni eccesso l’immagine di sé – “l’animale
totem di Casati, come di Medusa, era il serpente: una creatura che squama la
pelle e ipnotizza con lo sguardo”.
Una lettura breve, una
ventina di pagine, che soppianta stranamente la copiosa biografia della
marchesa degli americani Scot D. Ryerson e Michael Orlando Yaccarino, di
venticinque anni fa, “La sua infinita varietà”. Thurman vi aggiunge notazioni
importanti sulla scena parigina tra le due guerre, desunte dalle sue ricerche
attorno a Colette, e su Isak Dinesen, di cui ha scritto molto.
Colette era “una
truculenta carnale e frugale «figlia
della natura»,
perennemente dura lavoratrice e allergica alla morbosità”. Ma entrambe, Colette
e Casati, erano “credenti nel mondo degli spiriti, frequentatrici delle stesse
medium alla moda, etc”, con Jean Lorrain, Montesquiou, Diaghilev, Isadora
Duncan, Natalie Barney, lo stesso D’Annunzio, etc.. “Dinesen sembra avere
stilizzato la persona stregonesca della vecchiaia – quella della baronessa
Blixen – su Casati. Per nascita, appartenevano alla stessa classe, i nouveaux
riches, e alla stessa generazione di donne che aspiravano a essere
altrettanto pericolose quanto le loro madri era state innocue”.
Molti modi di essere di Blixen-Dinesen in tarda età l’accomunano alla
marchesa, spiega Thurman in dettaglio. Premettendo: “Anche se non ho prove che si
incontrarono, certamente si incrociarono a Parigi”. Blixen-Dinesen comunque
adottò la figura “emaciata”, “fondotinta pastosi e occhi aureolati neri”, ebbe
la stessa passione per compagni nobili e poveri, per le eccentricità, per un
“barbarismo Orientale filtrato da un velo di snobberia ancien-régime”.
Judith Thurman, The Divine Marquise, The New Yorke Classics, 3 aprime
venerdì 11 aprile 2025
Ma Adenauer voleva la Bomba
La “pregiudiziale
atlantica” o “formazione atlantica” è ornai un dato di fatto per la politica
della Germania, di destra e di sinistra, da più generazioni. Per Kohl recentemente,
e ora von der Leyen, come per il socialdemocratico Schmidt mezzo secolo fa. Ma
la tentazione di fare da sé, con un briciolo anche di non-atlantismo, se non di
anti-atlantismo, è sempre circolato, seppure sottotraccia: nella Ostpolitik che
ha caratterizzato i cancellierati socialisti di Brandt e di Schröder, nell’indifferenza
di Merkel. Ma c’è di più: la politica di riarmo del nuovo patto di governo di
Berlino trova un precedente nell’ultimo Adenauer, nel 1962-63, estesa allora
anche al nucleare.
Da sempre
rigidamente atlantico, e con un ministro della Difesa, il bavarese Franz Josef
Strauss, altrettanto rigidamente schierato, Adenauer si avvicinò negli ultimi due
anni di governo, a fronte della distensione avviata da Kennedy con Kruscev dopo
la crisi dei missili di Cuba, verso un’Europa autonoma anche nella difesa. Comprese
le armi nucleari.
Nell’ultimo
biennio di Adenauer alla cancelleria è una sinfonia discordante a tre parti. Kennedy
riflette su un impegno formale a non dotare la Germania di Bonn di armi
atomiche. Ancora più risoluta su questo impegno è l’Inghilterra. Mentre Adenauer
non perde occasione per dichiarare che la Germania non può tollerare che le sue
forze armate non possano disporre di armamento nucleare.
Non potendo
sfidare Kennedy, Adenauer si fa sostenitore di De Gaulle. E ne incoraggia in ogni
occasione la costituzione di una solida force de frappe nucleare – come nucleo
di una “potenza di deterrenza” eurocontinentale.
Il 5
agosto 1963 Stati Uniti e Gran Bretagna firmano a Mosca il trattato “Teststop”,
che mira a bloccare il “club atomico” – un trattato contro la Cina, ma anche contro
la Francia e la Germania. Adenauer non può reagire – è anche alla fine del cancellierato:
indebolito nel suo partito, resterà al potere fino a metà ottobre. Ma fa sapere
a Kennedy che non è d’accordo, e moltiplica le aperture a De Gaulle. Fuori dalla
cancelleria si farà apertamente polemico con la politica americana di appeasement,
a suo avviso, con Mosca, sancita a ferragosto del 1965 con la proposta dell’accordo
di non proliferazione nucleare: per Adenauer “l’Europa è consegnata ai russi” –
il suo ultimo impegno politico, seppure da grande pensionato, sarà la critica
di questo trattato.
Trumpeide
È perfino
affascinante, tanto è assurdo, il tifo per la Cina anche dei media dell’establishment,
poteri forti, ceto dirigente, società civile che dir si voglia dei ricchi e
dei potenti, come “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, il “Corriere della sera”,
nella controversia con gli Stati Uniti. Per un paese di cui sono note le
pratiche commerciali scorrette, e che è saldamente comunista, governato da un
partito totalitario, con pugno di ferro. Tra America e Cina come si fa a tifare
Cina? L’antiamericanismo non era legato al vecchio Pci? I media sguazzano nel cupio
dissolvi – o non sar anno già morti?
Dice il
giusto solo Pascal Lamy, l’ultimo dei mohicani socialisti - come dire degli
ultimi che ci capiscono - che Montefiori da Parigi ha avuto l’intelligenza di
far parlare, anche se poco: “Di fatto Trump ha imposto un embargo sulla Cina, anche se non lo chiama tale. E i cinesi non lo stanno gestendo affatto come una
questione commerciale, ma geopoliiica. Sono pronti allo scontro”. Cioè, la Cina
non si nasconde. Si è filocinesi con giudizio?
Tantissimo
spazio ai dazi da Trump, da settimane, da mesi ormai, ma in chiave di mostruosità
– enormità, astrusità, anche ridicolaggine. Come se fosse una gag, istrionica,
folle. Mentre è articolata, molto. Esenta le materie prime e i prodotti
energetici. Canada, Messico e America Latina, alla fine, rientrano nella
ginnastica normale dei dazi. Prevede – preannuncia prima d’imporre. E prevede “dazi
reciproci scontati”, di molto: applica la metà dei dazi che ogni paese applica
ai prodotti americani. Si garantisce anche le manipolazioni del cambio (leggi: Cina).
E contro le “barriere non tariffarie”.
Queste barriere
sono non da poco: lavoro minorile, femminile, comunque sfruttato, libero
inquinamento, sussidi all’export, furti di proprietà intellettuale. Specialmente,
quindi, si garantisce contro la Cina. Ma non solo: il capitolo sulle barriere
non tariffarie dell’Unione Europea è lungo trenta pagine.
Questa storia non la racconta giusta
Un saggio del 2006,
breve, per denunciare la guerra all’Iraq: “Trent’anni fa abbiamo subito una
sconfitta militare - combattendo una guerra che non si poteva vincere contro un
paese di cui non sapevamo nulla e nel quale non avevamo in gioco interessi
vitali. In Vietnam andò male, ma ripetere lo stesso esperimento dopo trent’anni
in Iraq è una forte prova in un processo per stupidità nazionale”. Ripubblicato,
per il titolo-civetta, in chiave anti-Trump – contro cui la rivista è costantemente
critica. Se non che il Vietnam gli Stati Uniti devono a John Kennedy, il presidente
di cui Schlesinger fu lo storico amato e l’amico devoto.
Resta come lettura,
concisa e insieme approfondita, del farsi della storia come storiografia. Nelle
sue varie tendenze o fasi: politica (dinastica, militare), sociale, di classe,
dei diritti, ideologica o postmoderna, e storytelling o narratologia. Tenendo presente che “il presente
incessantemente ricrea, reinventa, il passato. E in questo senso tutta la storia,
come Benedetto Croce ha detto, è storia contemporanea”.
Arthur Schlesinger jr., History
and National Stupidity, “The New York Review”, free online
giovedì 10 aprile 2025
Ombre - 769
Bastano due o tre giorni d’impazzimento delle Borse al ribasso, e i fondi passano subito dal (modesto) attivo al rosso di due e tre punti. Poi sopravvengono due giorni d’impazzimento delle Borse al rialzo e niente, i fondi sono sempre rossi di vergogna, al 3 e anche al 4 per cento. Il carovita è inferiore alle attese? Si agita il rischio recessione - un rischio si trova sempre. Quando finirà l’horror di questo sifonamento dei risparmi di milioni di persone, ardentemente consigliato dalle banche, a opera di veri e propri ladri del risparmio, professionali?
Si fanno
ogni giorno pagine e pagine su Trump personaggio, quale lui si vuole da
politico-uomo di spettacolo. Sempre con grandi “ooh!” per i suoi colpi di scena.
Che invece sono scritti nei documenti, del ministro del Tesoro, del Council of
Economic Advisers, con dinamiche già previste, al giorno e all’ora. Nessuno legge,
basta spararla ogni giorno grossa? Ma il sensazionalismo, peraltro ripetitivo -
siamo sempre ancora ben in vita – non stanca i lettori, invece di stuzzicarli?
Viene
salvato di tutto il governo Trump, ovunque rappresentato come un baraccone, di pagliacci,
incapaci, semidementi, solo il ministro del Tesoro Scott Bessent. Solo perché è
– è stato per metà vita – socio di Soros? L’“informazione” è orientata?
Bessent
in effetti veste bene, taglio sartoriale (inglese? Napoletano?). Ma anche Trump
2, benché faceto, intrattenitore incontinente, va ora ben vestito. Mentre Bessent
è il vero ispiratore, autore, regista di questa “commedia all’italiana” che sono
i dazi – o come sgonfiare unilateralmente il caro-dollaro.
Questo,
che pure è l’essenziale, non si dice. Si accredita invece la “voce” (di chi?) che
Bessent è contrario ai dazi…. Un vero signore, chissà perché sta col Mackie
Messer Trump, Jack-the-Knife.
Si fa l’elogio
in Parlamento di Paola Del Din, intraprendente eroina della Resistenza, ma a opera
del re d’Inghilterra. Sì, perché addestrata dagli inglesi come paracadutista,
ma perché non c’è su questa donna affascinante da ogni punto di vista, a
partire dal fratello maggiore già ucciso dai tedeschi, ancora in vita a 102
anni, nessun best-seller di “storia”, nessun film, nemmeno uno
sceneggiato, un medaglione, un’intervista? Perché non era del Pci. Anzi, era
della Brigata Osoppo, che quelli del Pci s’ingegnavano di assassinare a tradimento.
Poi si dice la Liberazione: di chi a opera di chi?
Tra gaffes
e complimenti il re inglese è attorniato, si direbbe assediato, da
leghisti, La Russa, Fontana, Simonetta Matone. Che poi si dicono anti-europeisti.
Pensano di prendere qualche voto più con Carlo contro von der Leyen?
Nell’aula
affollata in Parlamento per il discorso del re inglese, ambientalista avant-lettre
, conservazionista, c’era vuoti, sensibili, sul lato sinistro dell’emiciclo,
guardando dalla presidenza, dove siedono Verdi e Sinistra, Democratici, 5 Stelle.
Per essere repubblicani? O non saranno contro la “perfida Albione”, i ruoli si
rovesciano?
Racconta
Saronni a Bonarrigo sul “Corriere della sera” di un viaggio avventuroso a Berlino
Est per una gara d’inseguimento: “Arrivammo al confine di notte: i cani lupo, i
fari dalle torrette, i Vopos con i mitra puntati. Ci tennero ore a fianco di
una donna con due bambini piccolissimi che perquisirono facendole spremere
anche i tubetti di dentifricio. La sua umiliazione….”. Non era un caso, era la
normalità, nel 1974, appena ieri.
Si fanno
molte pagine, com’è giusto, sui dazi di Trump. E si sentono le lamentele degli
industriali che ne potrebbero essere colpiti. I quali però tutti, senza eccezione,
non lamentano tanto i dazi, possibili, eventuali, futuri, ma invece la “iperregolamentazione”
europea. La burocrazia, attiva, costosa, dannosa. E il green deal Ue,
una transizione accelerata a cui nessun’altro al mondo si applica o si sente
obbligato. Doveva essere una furbata – prendiamo la testa dell’innovazione – e
invece è una stupidaggine – la piccola Europa che salva la grande terra?
A fine marzo 2025 il National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers, che il ministro Usa del Commercio indirizza ogni anno al presidente, fa un riferimento in testatina alla European Union portion of the Report, talmente essa è complessa. Prende la parte maggiore del Rapporto, 32 o 32 pagine, ed elenca una quarantina di pratiche "scorrette" - anche autolesive: sussidi, barriere, alle importazioni e agli investimenti, classificazioni, etichettature e regolamentazioni minute e contorte: sanità,
fito-sanita, pesticidi, biotecnologie, gas ad effetto serra, packaging,
plastica, servizi digitali (“Digital Services Act”), tassazione dei servizi
digitali, tassa sulle emissioni di CO2 dei prodotti importati (Carbon Border
Adjustment Mechanism). Un dirigismo minuto, asfissiante, e infine balordo.
E la
Germania invece di casa discute? Di riprendersi l’oro depositato, per ragioni
di sicurezza ed economia, a Fort Knox negli Stati Uniti. Depositi che nessun altro
prova a riprendersi. Non la Russia prima della guerra e delle sanzioni. Non la Cina,
che è l’obiettivo dichiarato della guerra monetaria e commerciale di Trump. La
Germania è proprio immutabile.
Trump è
Trump – è l’America - e, quali che siano gli obiettivi reali della sua guerra
dei dazi, non c’è niente da fare, giusto qualcosa da dire, da discutere. Ma è
vero, come lui dice, o gli fanno dire, che con l’Iva l’Europa castra e si castra.
P.es. in Italia, specie nei servizi, dove è la causa e il motore dell’economia
in nero, degli arricchimenti facili, delle disparità sociali. Una verità talmente
evidente. E non se ne può nemmeno discutere.
Di Lorenzo
Necci la figlia Alessandra può ricordare sul “Corriere della sera”, per i vent’anni
dalla morte, che “è stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che gli è valsa
quarantadue assoluzioni”. Altro che riforma, ci vorrebbe la ghigliottina.
Un’“inchiesta
giudiziaria” naturalmente da sbirri, non di giustizia. Impuni. Anzi
privilegiati, sui media, al Quirinale, in carriera, nei poteri veri.
Sempre Alessandra
Necci dice: “Papà fu portato in prigione senza sapere di che cosa lo accusavano.
Quando uscì, alla fine della detenzione su cui la Cassazione espresse una
sentenza netta, la prima cosa che fece fu di scrivere al presidente della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro, con un rendiconto del suo operato”. “Risposte?”, chiede
l’intervistatore. “Nessuna”. Di Scalfaro e “Mani Pulite”, e i processi Sofri,
non si fa la storia. Perché?
Si
discute a Roma, discutono i romanisti, se e perché la loro squadra di calcio,
che non perde da quindici partite (ne ha vinte 11 e pareggiate 4) e nelle
ultime otto ha preso solo due gol, “non gioca bene”. Che è una scemenza - i tifosi
intendono che vince ma senza il “bel gioco”. Ma quanta passione, di un tifo che
riempie l’Olimpico, 63 mila posti, anche per le amichevoli. Che in mani olandesi
o spagnole diventerebbe un business enorme, altro che Real Madrid.
È curioso
come i tg e i giornali italiani, anche quelli che si penserebbero di destra, parlano
di Trump, dei dazi e di ogni altro impiccio, come i media americani, che sono stati
e sono anti-Trump sempre e comunque. Più che di destra e sinistra, ribolle sempre
l’antiamericanismo, della “cattolica” (duplice Italia.
Il balletto, poco truce, dei cadaveri
Tenuta su da Brignano,
il gonfio bamboccione solitario e imbranato, orfanato dai genitori emigrati
politici nella Germania sovietica, all’epoca del paradiso in terra, e cresciuto
dalle suore, che si vuole agente segreto e spia e scopre tutto, una grande occasione
per molte attrici in ruoli comici, una rarità: Gabriella Pession, Paola
Minaccioni, Grazia Schiavo.
Del film si è già
detto un anno fa: i morti compaiono, assassinati, e scompaiono, e non si sa se
non sono parto della fantasia di Brignano, guardiano di un supermercato col
culto di James Bond – in realtà curioso di indizi, invadente come Sherlock
Holmes. Ma senza Grandi Potenze in lotta, una storia di corna e di “bonazze” –
una black comedy, su temi italici.
Rivisto, una grande
occasione, per soggetto, sceneggiatura, interpretazioni strepitose, sprecata dalla
distribuzione con la programmazione dell’uscita, due anni fa, in agosto.
Alessandro Pondi, Una
commedia pericolosa, Rai 1, Raiplay
mercoledì 9 aprile 2025
A Pechino la metà del debito Usa
La partita dei dazi è una partita Usa-Cina. Ed è monetaria. Con molto teatro a fare scena, per qualche spicciolo, minuscolo, accessorio, beneficio su altri fronti, Canada, Messico, Ue, Giappone, Corea.
“Trump ha minacciato di punire i Paesi che smettono di usare il dollaro
come riserva monetaria”, scriveva a novembre, subito dopo il voto ma prima della
presidenza Trump, quello che poi è diventato il il suo Presidente del Comitato
dei Consiglieri Economici, Stephen Miran. Vuole solo indebolire il dollaro, troppo forte da troppi anni. Di svalutazione non si può parlare, non è pratica lecita, e quindi si parla di guerra dei dazi, ma il fine è un altro “accordo del Plaza”, come quello del 1985,
che chiuse la turbolenza monetaria e aprì la lunga stagione della globalizzazione.
E si capisce che prende di punta, con la politica dei dazi per indebolire il dollaro,
in primo luogo la Cina. Dazi per costringere i partner a rivalutare. Come Reagan fede quaranta anni fa con il Giappone.
Le riserve in dollari (i “tesoretti” in dollari) detenute da paesi esteri sono calcolate in 8.530 miliardi, un quarto del totale dei Treasury. A fine 2024 alla sola Cina era in
capo un terzo abbondante dei dollari detenuti fuori dagli Stati Uniti: 3 trilioni. Seguivano
il Giappone, con 1,2 trilioni, la “Svizzera” con 800 miliardi, l’India 600,
Taiwan 560, Arabia Saudita 450, Corea del Sud 420, Singapore 350, Ue solo 80 (ma tra i primi dieci Paesi detentori di Treasury figurano Lussemburgo, Cayman e Irlanda).
Si capisce da questo quadro la diversa reazione ai dazi di Trump. Della aloofness
cinese, per esempio, confuciana?, la correttezza distaccata. Specialmente
visibile a fronte dell’agitazione europea – ridicolo al confronto l’allarme che si
fa circolare in Germania sulle riserve in dollari della Bundesbank.
Non sembra invece riuscire il secondo fine assegnato alla manovra di Miran, lo spostamento degli investimenti esteri in Treasury dal breve al lungo termine: nei quattro mesi a fine febbraio le banche centrali straniere hanno aumentato di 131 miliardi gli investimenti in Treasury a breve, riducendo quelli a lunga scadenza di 87 miliardi.
Chicken run Trump-Cina – o i dazi per ristrutturare il debito Usa
Il dollaro è troppo
forte, va svalutato, o altrimenti…. Il presidente dei consiglieri economici di
Trump, del Council of Economic Advisers, aveva anticipato a novembre l’attuale
strategia dei dazi: un dollaro più debole oppure dazi a tutti. “Storicamente”,
dichiara in apertura dello studio, “gli Stati Uniti hanno perseguito approcci multilaterali
per gli aggiustamenti monetari. Molti analisti credono che non ci sono mezzi
per provocare unilateralmente la svalutazione della moneta, ma questo non è
vero”. E promette, ma senza toni minacciosi: “Descriverò alcune potenziali vie
per una strategia di aggiustamento monetario, multilaterale o unilaterale, e i
mezzi per mitigare effetti collaterali indesiderati”. Mettere dazi su misura a
tutti i partner la prima mossa.
Il debito va ristrutturato
(quello che, incidentalmente, l’Italia non ha fatto prima di aderire all’euro e
ora le costa così tanto caro, la “palla al piede”). E nello stesso tempo va riguadagnata, col rilancio della produzione interna sostituiva di importazioni, con i dazi e la svalutazione del dollaro, la creazione in America di posti di lavoro
qualificati, a reddito elevato – oggi l’occupazione è al massimo, malgrado l’entrata
ogni anno di milioni di immigrati, legali e non, ma molti devono fare due e tre
lavori per sopravvivere.
Lo studio è chiaro, esplicito. Prevede perfino un intervento unilaterale del Tesoro americano, che la legge consentirebbe, un International Emergency Economic Powers Act del 1977. Una legge che conferisce alla presidenza poteri discrezionali anche in materia di “guerre economiche”, fino a una supertassa (“tassa d’uso”) sulle riserve straniere in dollari.
Miran non è un economista
in cattedra. Dottorato a Harvard, ha lavorato nell’industria finanziaria – da ultimo
a lungo, Senior Strategist, nella società di gestione investimenti Hudson Bay
Capital. Ma nella trattazione fa riferimento spesso all’attuale ministro del Tesoro,
il banchiere Scott Bessent, socio di Soros per un quarto di secolo, poi titolare
di una società d’investimenti analoga allo Hudson Bay Capital, il Key Square
Group. Il quale ne ha avallato, e applicato fino ad ora alle lettera, presupposti e misure.
Miran è esplicito: ci
vuole una “versione 21mo secolo di accordo valutario multilaterale”. Analogo all’Accordo
del Plaza del 1985, imposto e ottenuto da Reagan, con beneficio di tutti – segnò
l’avvio della globalizzazione, che in effetti è stata la maggiore rivoluzione
economica da due o tre secoli, dopo quella industriale. In sostanza, una
ristrutturazione del debito lordo statunitense, che è a livelli e viaggia a ritmi
italiani, attorno al 130 per cento del pil. Per il quale paga cifre enormi.
Il “mondo” dovrebbe
vendere i suoi dollari, per rivalutare le proprie monete. Favorendo anche,
indirettamente le esportazioni americane. E\o scambiare i Treasury Bond, i Bot
americani, di cui è goloso, per la stabilità e per gli elevati rendimenti, con obbligazioni dello
stesso Tesoro americano ma a scadenza “secolare” – a lungo termine.
Il “privilegio esorbitante
del dollaro”, denunciato da molti economisti in polemica con Washington dagli
anni 1960, si è trasformato in un handicap. Per l’economia. Specialmente per l’industria
– quindi per il lavoro, l’occupazione qualificata, i redditi. Questo sistema, del
dollaro über alles, “avvantaggia i settori finanziari dell’economia”, ma
danneggia la produzione, e la produttività.
La critica non è nuova. Le
prime risalgono a una quindicina d’anni fa, per esempio di Fred Bergsten, che è
stato vice-ministro del Tesoro di Carter e poi animatore di molte istituzioni
di studi economici internazionali. Del resto, Miran è in linea col “dilemma del
dollaro “ di Triffin, che richiama subito, l’economista americano-belga che
criticava negli ani 1950 gli accordi monetari di Bretton Woods, il sistema dei
cambi fissi, basato sul dollaro: il dollaro, moneta nazionale, non può fare da moneta
mondiale. Per farlo, per essere effettivamente moneta di riserva globale, gli Stati
Uniti devono costantemente indebitarsi. Creare più moneta di quanto ne hanno
bisogno, avere (e finanziare) una bilancia dei pagamenti costantemente in deficit.
Miran lo spiega con un grafico eloquente: pur con oscillazioni, il trend
è netto, si va da un avanzo di 150 miliardi nel 1960 a un disavanzo di 1.200
miliardi nel 2024, con un deterioramento costante nei sessant’anni.
Coi dazi il deprezzamento
sarà automatico? Si può dire che Trump – Miran per lui - vuole rivoluzionare il
dollaro. O almeno indebolirlo.
Con la Cina il discorso americano
è semplice: “La lista degli abusi della Cina sul sistema internazionale del
commercio è lungo e variato, dai sussidi di Stato alle industrie da esportazione
a puri e semplici furti della proprietà intellettuale e ai sabotaggi aziendali”. Rappresaglie? “Poiché gli Stati Uniti sono un
grande bacino di domanda per il mondo, con robusti mercati dei capitali, possono
fare fronte a rappresaglie più facilmente di qualsiasi altra nazione con probabilità
di vincere, come a un game of chicken” – “gioco del pollo”: nella teoria
de giochi chi sa fermarsi immediatamente prima del baratro, avendo accumulato un
tragitto più più lungo dell’avversario. Era una scommessa, il chicken run,
all’origine, nel film “Gioventù Bruciata, 1955. E non è una scommessa semplice –
quasi una “roulette russa”.
Stephen Miran, A User’s
Guide to Restructuring the Global Trading System, Hudson Bay Capital, free
online
I
martedì 8 aprile 2025
Problemi di base vitali (852)
spock
“Può il presente
aiutare il passato”, Han Kang?
“Può il passato
aiutare il presente”, id.?
“Possono i
vivi salvare i morti”, id.?
“Possono i
morti salvare i vivi”, id.?
“La vita anela
alla vita” (id.), anche da morti?
“Morire è
diventare freddi (id.) anche da vivi?
spock@antiit.eu