Ultimamente finge che niente stia succedendo, Silvio Berlusconi, ma un po’ come don Abbondio si tirava fuori dagli eventi: non vede, non sente, parla di altro. Anzi, parla solo con l'avvocato, che non fa nulla per non assomigliare all'Azzeccagarbugli. Per sei mesi non ha avuto un ministro delle Attività Produttive, poi ne ha nominato uno senza peso specifico. Da fine giugno la Consob non ha un presidente, che tocca al governo nominare. Un posto delicato in un organismo delicato, il controllo dei mercati finanziari: ma Berlusconi tentenna. “L’uomo del fare” è singolarmente inerte.
L'uomo è palesemente disorientato. Vaga solo per ville sterminate, senza familiari e senza più amici, si circonda di ragazze di nessuna attrattiva se non le facce puttanesche, si lamenta dell'ingratitudine come ogni beghino in confidenza con Dio. L'età, invece che saggezza, gli ha portato amarezza, e la moglie. Una vicenda inverosimile, questa, che peraltro è solo all'inizio. La vendetta della moglie-medea è solo all’inizio, se ne può antivedere agevolmente il percorso: dopo il governo, Berlusconi dovrà perdere l’azienda, per qualche giudice se non per errori di mercato, mentre i figli si dilanieranno. Le medee sono cattivissime, ed essere femministi o galanti, come si diceva, non aiuta, la donna è naturalmente amazzone, ama uccidere, smembrare. C'è insomma più di un fatto personale alla radice dell'incertezza e dell'incapacità dell'uomo. Ma c'è anche un sistema inefficiente di governo, paradossale per l'"uomo del fare" ma incontestabile.
Lo stallo è il segno più evidente delle divisioni nella coalizione di governo, Lega compresa, e più ancora della sterilità di un certo modo di governo, legato a un uomo e ai suoi umori. Non del carattere dell’uomo, che quando si tratta del Milan o di Mediaset o di altro affare privato sa essere anche rapido e sempre conclusivo. No, proprio del metodo di governo: di una coalizione che solo si muove se il capo si muove. Del sistema elettorale plebiscitario, costruito su un uomo, senza i contrappesi parlamentari di iniziativa e controllo (il Parlamento è jugulato: o fiducia o elezioni).
Un terreno su cui non c’è gara, una posta su cui correre da solo, l’idea non era male: la politica del fare. Realizzando infine, pensarci!, il famoso paradosso della tartaruga più veloce del veloce pie’ d’Achille. L’Italia ne ha il mito. Dal cav. Mussolini che in un’estate prosciugava le paludi pontine, dopo aver mietuto il grano, all’ing. Mattei che costruiva oleodotti in una notte – anche se il petrolio non c’era. Berlusconi stesso, si può dire, in una notte, o due, costruì ben tre tv. Ma a Roma come i romani, si può dire: Berlusconi si adegua. È così arrivato a metà di una legislatura solidissima in Parlamento e non ha fatto niente: federalismo, giusto processo, intercettazioni, tasse sul lavoro? Annunciando naturalmente imminenti riforme, che poi sono in attesa da quindici anni: fisco, giustizia, opere pubbliche. In un quadro lezioso di aggiornamenti e rinvii, ripensamenti e approfondimenti, precisazioni e miglioramenti, nel quadro delle corrette procedure democratiche, anche se con un pizzico di qui lo dico e qui lo nego, ci sono e non ci sono, e io non ho detto questo. Insomma della politica del non fare. O, come la teorizzò il sommo Andreotti, del governo attraverso la crisi. Dell’esserci e non esserci appunto, dire e non dire, e mai fare – la politica della durata, certo, si può anche metterla alla Proust.
E siamo finiti a un uomo che la moglie vitupera in piazza a giorni alterni. E che per farsi una scopata, uno che si ritiene ed è, dovrebbe essere, bello-e-buono, ricco, potente, intelligente, spiritoso, maschio, deve ricorrere a una puttana. Per giunta pettegola, collaboratrice dell’onesto sbirro della Finanza, il colonnello…(call…). Che nomina ministro due volte uno che dire incapace è fargli un complimento, l’ex funzionario savonese della Dc Scajola. Che mette giustamente al governo tante donne, ma tutte più o meno belle senza carne – si dice senz’anima, ma l’anima è la carne. Anche la Prestigiacomo, una che si tuffava con Fini (poi lui trovò l’amante già svezzata da Gaucci), e si sa che il nuoto fa bene alla salute, non si sa che abbia mai fatto al governo.
Berlusconi può non averne colpa. Ma è il fallimento del ghe pensi mì, del lombardismo. Si prenda l’università, un problema tanto semplice che non si poteva pensare che Berlusconi in persona se ne occupasse. L’ha perciò confidato a due signore, la Moratti e la Gelmini, il “la” è d’obbligo in Lombardia. Che non sanno neppure esse di che si tratta, ma essendo lombarde hanno la soluzione in pugno. Come Malpensa. Hanno preso l’università e l’hanno riformata. E poi riformata ancora. Senza nemmeno i decreti attuativi. E senza quindi effetto, eccetto quello di bloccare l’esistente, aggravando i problemi. Le due signore magari qualcosa avrebbero voluto farlo, per orgoglio, ma sono politicamente zero. La loro università sembra la media obbligatoria agli esordi, imbottita di supplenti: la sola differenza è che i supplenti venivano pagati come insegnanti, mentre i dottori in cattedra non sono pagati, e non accumulano punti per la carriera.
Letizia Moratti ha contingentato i ricercatori, pretendendo che non superassero i cinque anni di attività , ma ha fatto una legge che impedisce qualsiasi concorso. In questi dieci anni l’insegnamento universitario è stato svolto da cultori della materia, non necessariamente col dottorato. Un esito talmente assurdo che dirla incapacità è poco. Razionalizzando, bisognerebbe pensare le due ministre impegnate in realtà a scardinare l’università pubblica, e reintrodurre la selezione sociale attraverso le università private, dove si compra e si paga quello che si consuma. Può essere: è il loro mondo sociale è quello, la dignità è privata. La tecnocrate Moratti si è peraltro distinta nello scioglimento del più ricco e meglio governato centro di ricerca, l’Istituto Nazionale di fisica della Materia, gestito da troppo “comunisti”, dentro il vecchio Cnr della vecchia guardia Dc, compreso il presidente Maiani. Ma, poi, si vede Maria Stella Gelmini bloccare l’unico concorso che in dieci anni le università avevano approntato perché fulminata da un articolo di Giavazzi sul “Corriere della sera” che propone un nuovo modo di costituire le commissioni di esami. E non si può pensare che l’economista della Bocconi, distinto antiberlusconiano, o il “Corriere della sera” vogliano la morte dell’università. Ne vogliono, naturalmente, una migliore, “Milano” non è città illuminista?
Ci si interroga ancora, dopo quindici anni, sui motivi del successo di Berlusconi. Per il populismo si diceva, ma non ha funzionato. Per la politica spettacolo si dice, ma non funziona: Berlusconi in video è un flop, e anzi si danneggia. Le elezioni del 2008 e le successive hanno manifestato in modo perfino eccessivo la vera ratio del voto al centro-destra: l'attenzione verso i problemi. I problemi di oggi, non quelli di ieri: il governo della spazzatura e dei terremoti, e della globalizzazione in qualche misura, la sicurezza, di polizia e economica, contro i ladri d’appartamento e contro la speculazione, più opportunità per il lavoro autonomo, più previdenza, meglio distribuita, più certezza processuale se non normativa, e quello che rimane del welfare. Ben confezionati in un programma. Non dettagliato ma preciso, il governo del fare. Di cui a questo punto nessuno più si fida, se non per la figura del venditore. Che è, appunto, eccezionale: dell’antipolitica il re è Berlusconi. Ma la sbrigativa personalizzazione dell’esecutivo finisce anch’essa ineluttabilmente nell’inerzia. Si vedano i due casi cui il presidente del consiglio personalmente ha messo mano, la spazzatura a Napoli e la ricostruzione all’Aquila.
Nel governo precedente, del 2001, confortato da larga maggioranza, Berlusconi non fece la riforma del fisco, tante volte promessa, né quella della giustizia. Giusto la legge Biagi, dal nome dello studioso socialista che poi il governo, col sempre provvido Scajola, lasciò solo. In questa legislatura, in cui Berlusconi ha vinto tutte le elezioni, il federalismo è ancora in attesa, così come la solita riforma della giustizia. È ora a metà legislatura, e non ha prodotto niente, se non l’andirivieni parlamentare sul federalismo. Sembrava che avesse risolto il problema della spazzatura a Napoli e del terremoto dell’Aquila, e invece ne è solo offeso, che i due problemi non si siano risolti. A questo ritmo l’uomo del fare resterà negli annali come il più improduttivo in politica, nelle questioni grandi come nelle piccole. Che forse non è un male, ma certo non per il Paese.
Volendo confluire nell’opinione irridente dei belli-e-buoni della Repubblica, il sistema berlusconiano è nato in un ipermercato, dove Fini fu sdoganato, e finisce in un bordello, tra mogli amanti di lungo corso, a letto e negli affari. Ma sarebbe riduttivo, è anzi il moralismo algido meneghino, delle ben berlusconiana Milano: c’è di più di una risata. Volendo sottilizzare, lo stallo è l’esito finale, dissolutore, dello stesso sistema berlusconiano, o del consumismo. Il consumismo è certo equalizzatore e socializzante. È una moderna ideologia di redenzione, ben più viva ed efficace delle vecchie, socialiste. Con basi teoriche anche solide, e non tanto nell’utilitarismo di Bentham quanto nel nucleo stesso dell’Illuminismo: se la ragione e l’egoismo razionale sono destinati a trionfare, il consumismo è il loro veicolo naturale. Tanto più il modello è indicato per l’Italia, alla quale risolve cancellandolo un problema che non è mai stato risolto in un secolo e mezzo di storia: l’utilità, cioè l’inutilità e anzi la dannosità, della funzione pubblica. Nel consumismo lo Stato e la democrazia sono solo un servizio pubblico, come la luce e il gas: fanno osservare le leggi, a volte. Si capisce che gli italiani siano stati grati a Berlusconi di averli sollevati da questa commedia degli equivoci, limitando il loro ruolo al voto.
Ma il consumismo, poi, viaggia veloce: la soddisfazione delle insoddisfazioni va a ritmo sempre più rapido, ed è quindi condannata al disincanto, e anzi all’insofferenza, sotto forma di apatia o noia. Non potendo essere soddisfatta all’infinito, ciò non è possibile fisicamente né filosoficamente – è il problema del moto perpetuo. Così come l’antipolitica, che presto è destinata a scoprirsi vuota. Essendo improduttiva, anche delle stesse chiacchiere della tv, che non possono che finire presto ripetitive. È una forma di democrazia integrale, buona anche per gli stupidi e i violenti, ma anarcoide: incerta cioè e inaffidabile, senza più leadership possibile – i “persuasori occulti” già lo sanno, Il bisogno di novità, in sostituzione delle forme lente dell’essere, la pedagogia, la tradizione, la storia, è autodistruttivo. È un esito obbligato, senza più miracolo possibile: una umanità sazia e indifferente diventa presto paranoica. In famiglia, eh sì, e fuori. Disamorata, ostile. Ma su questo ci sarà tutto il tempo per indagare a fondo.
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