Le generazioni sono “successive”. Sono generate, lo dice il nome: ognuna è figlia della precedente, e in sé si qualifica con la successiva (quella che essa ha generato).
Si può quindi dire che l’Italia pena e vaga sotto la sferza del Sessantotto. La generazione del Sessantotto ha voluto di più e si è presa di più, i diritti, il privato prepotente, il lavoro fisso, la baby pensione, il posto senza il lavoro, e senza la qualifica, ma non lascia che macerie, la politica e l’opinione pubblica avendo ridotto a complotto, opera dei pupi, furbi. Anzi non lascia nulla alla sua generazione, si tiene quello che c’è e il resto non coltiva e non ripara.
Il Sessantotto è stato libero perché era figlio della ricostruzione. Un quarto quasi di secolo di crescita, e di aperture, interdisciplinare, di grippo, di speranza, di liberazione, per gli europei vecchi e nuovi. La vecchia Europa residuava, in Indocina, in Algeria, ancora in Vietnam. È stata una generazione di liberi. Che però ha impiantato una società chiusa. Faziosa, prepotente (“meno so più mi tocca”) già negli anni Settanta, carrierista e approfittatrice successivamente. Piena di sé, prevaricatoria, non solo nella convivenza civile (caso tipico l’università: tutto il malessere vi viene non più dallo Stato ma dagli accademici), ma perfino nella legge (giudici, diversità cattocomunista).
Era maligno il germe degli anni del viaggio a Chiasso? Oppure è vero che la libertà si coltiva lavorando, cioè realizzandola, e non bamboleggiandola?
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