venerdì 13 maggio 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (89)

Giuseppe Leuzzi  

Dovendo guardare il mondo da sotto in su ogni sorta di malanno s’accompagna al quieto vivere: gobba, lombaggine, cervicale, e l’infinita serie di mancanze per difetto di ossigeno e la disperazione, la vista sempre ardua rivelandosi, sfocata, incerta, fosca per non potere, o volere, la propria nullità vedere, specialisti in sguardi assenti da scemo di paese, al quale si è bene dare divertita compassione. È come la storia scrutare con strepito magari inarmonico di fanfare in assetto posteriore poco onorevole. L’odio uccide e l’invidia, più dell’avidità.

Aspromonte 
Il toponimo ricorre in Francia. Flaubert ne registra uno nella foresta di Fontainebleau, collinare, dove “il sentiero fa zigzag tra pini tozzi, sotto rocce dal profilo angoloso”. È un paesaggio familiare, ma pini tozzi abbarbicati alle rocce ce ne sono in molte montagne. “Tutto questo angolo della foresta ha qualcosa di rattenuto, un po’ selvaggio un po’ raccolto”, aggiunge Flaubert, e questo è solo dell’Aspromonte vero e proprio. È francese il poema del luogo, l’antica canzone in lasse romanze del 1180 circa in ambito normanno, “Chanson d’Aspremont”. Sulla difesa della cristianità contro gli africani che hanno invase il meridione. Di auspicio per la crociata che i re d’Europa preparavano a Messina attorno a quell’anno, padroni di casa i Normanni ormai elevati al rango regale. “Aspro\ il Monte è bruciato appena ieri”, Giuseppina Amodei, poetessa di Bova (nell’antologia “A mio padre”). La canzone di gesta è stata però sempre di gusto popolare, e si è conservata fino a recente, un quarto di secolo o una generazione fa. Orlando e i paladini di Francia, benché “materia di Francia”, sono stati un epos popolare in Sicilia. Nel senso che spopolavano fino a quando c’era epos, dunque fino agli anni 1980, nelle piazze con i cantastorie, all‘opera dei pupi, e sulle sponde dei carretti. In Calabria, che vive in una sorta di glaciazione, un’apnea dove tutto si è smarrito, l’epos è residuato nell’Aspromonte. È residuato fino agli anni 1990, noto agli ultimi camminatori nel boschi, che già erano anche loro residuali e di piccolo numero. Spesso mescolato col Guerin Meschino, anch’esso materia in qualche modo di Francia, ma molto spuria. Nella congerie voluminosa delle chansons de geste, la cui “storia” è più spesso dovuta alla rima, alle ottave cantabili. Il “Guerin Meschino” è tutto d’invenzione di Andrea da Barberino, quindi del Quarrocento. Ma il personaggio Guerin in qualche modo si connette a Girart, il cavaliere che fu concorrente dei figli di Carlo Magno, ai quali tentò di strappare un regno di Borgogna - entità che rimarrà sempre utopica, tra l’Alta Provenza, il Nord Italia, e il Reno fino alle Fiandre. Ad Andrea da Barberino si deve anche un adattamento della “Chanson d’Aspremont”. Si fa – si faceva – nella tradizione orale disinvolta commistione di storie, vicende e personaggi. Essa deriva in buona misura dall’autore dei rifacimenti cavallereschi, Andrea da Barberino. In particolare ritorna frequente, nel “Guerin Meschino”, la Sibilla, la maga. Una Saba Sibilla fronteggia a Polsi, al centro dell’Aspromonte, il luogo di culto con più continuità nella storia dell’Europa, dal suo antro la Madonna della Montagna. La stessa commistione si fa nell’opera dei pupi a Palermo.

L’Italia comincia in Calabria 

Nelle celebrazioni dell’unità si nasconde il Piemonte dietro Garibaldi, e si cancellano Mazzini e Gioberti, che ne furono i veri promotori, dopo i moti del 1830-32 (e Cattaneo, Ferrari, Montanelli). È vero che Mazzini nel 1834 era stato condannato a morte dai Savoia – insieme con Garibaldi. Ma manca pure il Sud. Da dove invece il movimento unitario e repubblicano partì. Il ’48 cominciò nel ’47. Il 29 agosto 1847, a Reggio Calabria. Le riforme del papa Pio IX nella seconda metà del 1846, e il pamphlet di Luigi Settembrini e della Giovane Italia nel luglio del 1847, “Protesta del popolo delle Due Sicilie”, avevano radicalizzato i liberali del Regno. Il re Ferdinando II rispose subito, l’11 agosto, ma con misure economiche, che furono giudicate irrisorie - un po’ come oggi i regimi nordafricani e del medio Oriente: i liberali volevano riforme politiche. Un comitato segreto fu costituito a Napoli, con a capo Carlo Poerio, figlio di Giuseppe, il patriota calabrese che aveva aperto le porte di Napoli ai liberatori francesi nel 1799. Coadiuvato da un comitato siciliano, composto dagli avvocati Benedetto Castiglia, Michele Bertolami, Giovanni Interdonato, Giovanni Denti, dal principe Ruggero Settimo di Fitalia, e da Mariano Stabile. E da un comitato calabrese, che animavano i baroni Vincenzo Marsico e Vincenzo Stocco, il marchese Federico Genoese (poi Genoese De Zerbi), i fratelli Francesco e Giacinto Plutino, sposti a due genoesi (una famiglia di patrioti: o fratelli Agostino e Antonino Plutino, e il figlio di Agostino, Fabrizio, saranno con Garibaldi nel 1860), i fratelli Giandomenico e Giannandrea Romeo, il dottor Francesco Saverio Vollaro, il giovanissimo Pietro Foti. Si decise che si sarebbero ribellate prima le province. Ma solo Reggio e Messina si dissero pronte, stabilendo l’insurrezione per il 10 settembre. Poi, per impazienza, e per evitare tradimenti, le sollevazioni furono anticipate. Il 29 agosto i fratelli Romeo, i fratelli Plutino, il marchese Genoese, radunati alle pendici dell’Aspromonte un migliaio d'uomini, si avviarono alla volta di Reggio. Il 2 settembre la città era presa, al grido di “Viva Pio IX! Viva l'Italia! Viva la costituzione!” La guarnigione, colta alla sprovvista, si arrese. Sul forte fu innalzata la bandiera tricolore. Furono costituiti una milizia cittadina sotto gli ordini di Giovannandrea Romeo, e un governo provvisorio presieduto dal canonico Paolo Pellicano (o Pellicanò), di cui erano parte i capi colonna degli insorti, Domenico Muratori, Antonio Cimino, Casimiro De Lieto, Pietro Mileti, e il marchese Genoese. Il canonico si presentò con un proclama all’insegna di “Viva il re costituzionale Ferdinando II! Viva la libertà! Viva l’indipendenza italiana!” Intanto era fallito il moto di Messina. L’1 settembre gruppi di giovani avevano percorso la città con la bandiera tricolore, inneggiando a Pio IX, alla Madonna della Lettera, protettrice della città, e all'Indipendenza italiana. Tentarono poi d’impadronirsi dell’arsenale. Ma la reazione ne ebbe ragione in poche ore: fra i militari ci furono otto morti e dieci feriti, tra cui il colonnello comandante Busacca, degli insorti uno rimase ucciso, parecchi furono fatti prigionieri, gli altri trovarono scampo a Malta o in Corsica o presso le popolazioni della campagna. All’appello di Reggio il re rispose inviando suo fratello il Conte di Aquila con cinque navi, su cui presero posto tremila soldati, al comando del generale Alessandro Nunziante e del tenente colonnello Michele De Cornè. Le truppe presero terra il 4 settembre al Pizzo e, protette dalle artiglierie delle navi, marciarono contro Reggio. Il governo provvisorio fu indeciso se resistere in città, o fare una sortita, raccogliere gli insorti della piana di Gioia Tauro e della Locride, e attraverso le montagne marciare verso Catanzaro e Cosenza. Prevalse questo progetto, Reggio fu evacuata, le truppe borboniche vi penetrarono senza resistenza. Il conte d’Aquila con due fregate passò a Messina, mentre tre fregate restavano a presidiare Reggio. Gli insorti di Locri-Gerace per qualche giorno sembrarono poter riuscire nell’impresa. Capitanati da Gaetano Ruffo, Domenico Salvatori, Rocco Verduci e Michele Bello, catturarono il cavaliere Buonafede, che aveva condotto le operazioni contro i fratelli Bandiera, occuparono i paesi vicini, Bovalino e Gioiosa, e puntarono su Roccella, sostenuti da un gruppo di fuoriusciti capitanati da Pietro Mazzoni. All’arrivo delle truppe di Nunziante, però, le bande d’insorti si sciolsero. I fuoriusciti di Reggio, invece, inoltratisi nelle boscaglie di Staiti, combatterono per due settimane contro le truppe regie e e le guardie urbane. Quanto Giandomenico Romeo e il nipote Stefano, che comandavano le bande, furono soverchiati e uccisi dalle guardie urbane e i contadini di Pedavoli (oggi Delianuova), le bande si dispersero. Molti, tra essi i Plutino, si misero in salvo a Malta (Foti a Costantinopoli), altri si nascosero nei boschi e vissero alla macchia fino il giorno dell’amnistia. Seguirono i processi, a Messina e Reggio. A Messina fu fucilato il calzolaio Giuseppe Sciva, nove insorti, tra cui tre preti e due frati, furono condannati all’ergastolo (due morirono in prigione), su dieci fuggiaschi di cui si conosceva il nome il generale Landi pose una “taglia di trecento ducati ciascuno se consegnati vivi e di mille se consegnati morti”. Per i moti di Reggio ci furono otto condanne a morte. Cinque dei condannati, Ruffo, Verduci, Salvadori, Bello e Mazzoni, furono fucilati a Locri-Gerace il 2 ottobre. Si ricorda la morte degli ultimi due, che erano molto amici: Bello chiese perdono all’altro di essere la causa di quella morte immatura avendolo convinto ad insorgere, mentre il Mazzoni lo ringraziò di avergli procurato una simile gloria. Gli altri furono giustiziati a Reggio a novembre. Altri dieci condannati a morte, tra cui il canonico Pellicanò, ebbero la pena commutata nell’ergastolo a vita. Su diciannove che erano riusciti a fuggire, furono poste grosse taglie. Molte le condanne a pene minori. A Napoli furono arrestati altri calabresi leuzzi@antiit.eu

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