venerdì 6 luglio 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (134)

Giuseppe Leuzzi

Fra le tante critiche possibili ad Angela Merkel dopo il vertice europeo del 30 giugno, i grandi giornali tedeschi su un solo tasto insistono: “Si è arresa agli Stati del Sud”. Non è vero ma il Sud è evocativo: è il regno del male.
Più semplificatorio di tutti è lo “Spiegel”, settimanale di Amburgo, città di mare, aperta quindi si penserebbe sul mondo, ma del Nord, che bolla la Merkel “ostaggio del Sud”. Sempre il Nord è aggressivo nei confronti del Sud: per quale colpa?

Il vino più consumato è il Nero d’Avola, ha soppiantato il Chianti - ormai vino d’esportazione, in Germania, negli Usa, molto “americano” peraltro, nella strutturazione, nel gusto. Il più grande produttore di vini siciliani è Zonin, di Verona. La squadra di calcio di Palermo è di Zamparini, un veneziano: l’ha riportata in serie A e ci naviga bene. Numerosi altri “padani”, piccoli e grandi, prosperano in Sicilia, terra di ogni bruttura secondo i loro giornali: mafia, disordine, burocrazia, disorganizzazione, corruzione. Su un solco da tempo consolidato, dalla dinastia palermitana dei Cassina, dal senatore Verzotto.
Anche gi investimenti tedeschi sono consistenti n Sicilia.

Un bandito, Ugo Cubeddu, era stato dimenticato dalla giustizia in Sardegna, nell’Ogliastra. Uno da ergastolo. Da quasi vent’anni.

Quest’anno è mancata la solita esecrazione dei troppi 100 ai licei di Reggio Calabria. Che pure ci sono stati. Il “Corriere della sera” è stanco? Stella è in vacanza?

“Il Gattopardo”, santuario distruttivo
Il “romanzo della Sicilia” è riduttivo, e anzi deiettivo: satirico, sarcastico. Scritto bene, cervantesiano, ma con cattiveria, senza sorriso: sovrappone alla Sicilia un Sancio Panza, seppure in veste di principe, anzi di Principe, un basso continuo insonoro, accidioso, la rovina dell’opera. Ai termini del “Gattopardo”, la Sicilia dovrebbe irridere anche il cinismo, il cinismo non ha confini né santuari, e invece no, arrivata al romanzo si ferma e lo venera: l’isola è un caso di masochismo, di autoflagellazione. L’autocritica è una forza, e si può pensarla la forza della Sicilia, più della storia o del gusto – Sciascia, se non Brancati, la esercitava sicuramente così. Ma può essere distruttiva, e più in un mondo non benevolente e anzi in competizione.
La Sicilia si riconosce, e se ne gloria, in un romanzo che la vilipendia in tutti i modi, opera di un aristocratico senza qualità - sia o no Lampedusa da riconoscere nel protagonista, l’uomo senza qualità del mediterraneo, il Principone Salina. Come un maiale nel truogolo, la Sicilia dice che sì, quello è il suo modo di essere, che Salina Lampedusa gli codificano con sapienza letteraria. Senza cattiveria, è da presumere: il romanzo è costruito in chiave cervantesiana, dell’esagerazione in vitro. Ma con cattiveria. E anche questo l’isola apprezza, di essere presa a calci in faccia. Da una sua aristocrazia di nessun merito – “Il Gattopardo” è l’unico titolo di merito di tanti casati principeschi che l’isola adora, in tanti secoli d’insignificanza (e molto deve peraltro a Bassani).
Non è una novità. La Sicilia l’epica ha cercato per secoli nei “Reali di Francia”. E ultimamente, in regime democratico, nei “Beati Paoli” - la mafia, il terzo livello, il complotto. Ne avrebbe avuto ampia materia: i tiranni, i filosofi, i normanni, Federico II, i poeti, I Vespri, il Quarantotto, ma non li ha mai elaborati. Un po’ li ha recepiti, non molto. La mitografia, in questo paese sommerso dai miti, è rara e fredda – D’Arrigo, Consolo. La sua sola epica è contemporanea, di Verga, Pirandello, Brancati, Lampedusa, Sciascia, ed è deiettiva, di disintegrazione e rassegnazione.
Ma “Il Gattopardo” fissa questa sudditanza. A opera di un fallito: è un Principe senza qualità che irride al suo mondo. Un forestiero rilegge “Il Gattopardo” inevitabilmente in chiave comica. La cifra del romanzo è l’irrisione, un’ironia a volte perfino pesante. Fin dalla prima pagina. La capacità affabulatoria di Lampedusa ne risulta magnificata, ma il setting è da circolo dei nobili, pettegoli, irrideti. Peggio: Salina si vuole principe di forti principi per via della madre tedesca. Precipitato “nell’habitat molliccio della società palermitana” e “nel lento fiume pragmatistico siciliano”, cioè inerziale, opportunistico. Un impianto provincialissimo.

La mafia delle donne
Si interrogano gli storici – le storiche – sulle donne di mafia: vittime? mafiose? La monografia collettanea della rivista “Meridiana”, n. 27, di storiche che scrivono sulle donne di mafia, curata da Gabriella Gribaudi e Marcella Marmo, insiste sul rito di iniziazione. Che era delle onorate società ma non lo è delle mafie. Le quali sono congregazioni temporanee di interessi. La ricerca ne è rimasta condizionata, finendo per fare delle donne della mafia un mondo a parte rispetto a quello degli uomini, poiché non c'è per esse iniziazione. Ma così non è una buona storia. Non solo perché non c’è ovviamente un registro delle iniziazioni.
Le donne non c’erano nella mafia, se non in ruoli marginali, in quanto la mafia era ritenuta un crimine, dagli stessi mafiosi. Così come non si incaricava una donna di un delitto d’onore, ma un uomo, un consanguineo, sia pure lontano. Ma non c’è un problema di iniziazione. Anzi a Napoli, scrivono le stesse curatrici, nemmeno di genere: “Le differenze di genere nella camorra rimandano, a ben vedere, alle caratteristiche della più ampia società napoletana: una società urbana in cui le donne degli strati popolari hanno giocato ruoli cruciali nella gestione dell’economia illegale”. Ciò è vero soprattutto nella microcriminalità: l’organizzazione dei furti, o dello spaccio. Nelle culture urbane, aggiunge Gribaudi nel suo contributo, c’è “una scarsissima segregazione tra mondi maschili e femminili”.
C’è sicuramente una grande differenza tra maschi e femmine nel mondo criminale, di genere. Rafforzata ultimamente da una componente sociale e intellettuale, per l’ambizione del mafioso a elevarsi nel connubio. Non nell’ambizione alla famiglia (alla genealogia) e alla proliferazione maschile, che tanta inconcludente sociologia incolla loro addosso, ma per l’ambizione di ogni sposo. La moglie di Riina esemplifica questa complessa differenza-identificazione. Una insegnante, sia pure sorella di un capo mafioso, che convive con un latitante per trenta o quarant’anni, col quale ha dei figli di cui cura la formazione, che è una belva umana, letteralmente, e di cui non si può non sapere, essendo lo stesso un capo sempre in attività.
Il resto della ricerca si perde nella questione dei ruoli o della subalternità. Non senza ragione. Marcella Marmo smonta la figura eroicizzata di pupella Maresca, che una cinquantina d’anni fa si fece vendetta per amore (uccise l’assassino del suo giovane marito camorrista), portando in rilievo la soggezione della stessa “eroina” al compagno vendicato, che le aveva ucciso il figlio e la massacrava di botte. Il momento più vero della ricerca è forse nella scoperta (Monica Massari), attraverso i documenti giudiziari, della “particolare combinazione esistente tra caratteristiche, ruoli, funzioni profondamente ancorati alla modernità e modelli di comportamento di tipo arcaico, quasi primitivo, inneggianti alla vendetta, alla faida, alla violenza sanguinaria”. Le donne di mafia sono mafiose. Riconoscibili, riconosciute, nei paesi, nei quartieri: cattive, bieche, fomentatrici di odio, usuraie, ricettatrici, intestatarie e intestatrici false.

leuzzi@antiit.eu

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