venerdì 26 febbraio 2016

Lo Stato è divino

“La naturalezza elementare con cui da ogni cittadino e da ogni partito viene pretesa l’indipendenza del giudice” è una meraviglia, e uno dei segni della sorprendente autonomia dello Stato – di quella che il più tardo Schmitt teorizzerà come “autonomia del politico”, una divinizzazione, la politica assurgendo a teologia. Un miracolo, si direbbe, e per questo raro – in Italia per esempio. Malgrado la moltiplicazione dei sedicenti Stati. E il contrabbando della dissoluzione dello Stato, nell’ideologia del privato e degli interessi, sotto la copertura di un ottimismo hegeliano sulla natura e la forza dell’istituzione – leggere oggi Hegel sulla forza e intangibilità della Funzione Pubblica fa ridere, ma si fa finta che sia sempre come lui ipostatizzava, sull’esempio (reale? immaginario?) dell’integerrimo superiore burocrate prussiano.  
A Hegel Schmitt all’esordio si rifà. Non dichiaratamente. Anche perché ha una riserva importante, che è la chiave dei tre saggi che qui raccoglie: lo Stato è l’idea dello Stato, non un fatto storico (potenza), né contrattuale o utilitaristico – e nemmeno quindi hegelianamente “etico”. Fa il diritto e ne vive: è un’altra realtà. È un principio o idea che si impone a prescindere. Religiosa? Metafsica? Non si dice ma si presume. La diversità (specificità) di Schmitt, che Carlo Galli ribadisce presentando la raccolta, nasce dal suo radicamento nella filosofia del diritto e la prassi cattoliche, per esempio dei concordati – un radicamento-percorso peculiare ma non isolato, neanche in terra infidelium: la tenuta del pensiero politico cattolico sfiorerà anche Hannah Arendt: “Né potere di fatto”, sintetizza Galli, “né frutto di empirica utilità o di parziali interessi, lo Stato è forma, figura concreta dell’Idea: lo Stato rende presente (rappresenta, appunto) l’Idea assente e sempre trascendente”.
Un testo legnoso. Ma non senza gli umori mordaci, e nello scherzo veri, che renderanno quasi simpatico il quasi nazista Schmitt. Dei contrattualisti: “L’accordo universale degli uomini in importanti valutazioni giuridiche sembra avere lo stesso significato dell’uniformità con cui per esempio oggi in Germania molte centinaia di migliaia di persone sentono il bisogno di bere caffè dopopranzo”. O degli utilitaristi: “Potrebbe essere accaduto che singoli uomini intelligenti siano stati in grado di imporre la propria visione delle cose agli altri – più o meno come Federico il Grande convinse i contadini prussiani a coltivare patate”. Con coda velenosa: “E tramite la loro effettiva superiorità” abbiano indotto i più a “sottomettere l’egoismo non illuminato a un egoismo illuminato”. L’empiria, del diritto “distillato” dagli interessi, è quella “del barone di Münchhausen, che si tira fuori da solo dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli”. Secco sul protestantesimo: ”Lo Stato e il diritto si consacrano a scopi di polizia, com’è stato espresso in modo particolarmente chiaro da Lutero e Zwingli”. Una concezione non buona nemmeno per la moralità spicciola: se “il diritto cura le condizioni esterne della moralità interna”, ciò viene a dire che “nell’epoca della sicurezza, nel XX secolo, il valore morale di un uomo veramente morale non è eo ipso superiore a quello dell’epoca dei Condottieri o delle migrazioni dei popoli”.
Agli stessi umori è da ascrivere la p. 85, in difesa dei forti uomini della storia, Cesare, Bismarck. Nei quali s’incarna un processo storico, ma la cui grandezza non si può ridurre, come Hegel fa, alla noia o alla debolezza del vuoto essere, o addirittura alla “fornicazione con se stessi”: “L’identificazione del compito, la dedizione smisurata alla causa, il dedicarsi al compito, l’orgoglio di essere servitori dello Stato e così di un compito, l’oblio di sé con cui furono projectissimi ad rem”, sono di altra natura” – nella stessa vena mordace si potrebbero dire della natura dell’ambizione, ma Schmitt ha un concetto alto della politica e del politico.
Ne ha anche per i neo liberali dello “Stato minimo”, che verranno sessant-settant’anni dopo – ma è un ritorno, ciclico: “Parlare di una libertà dell’individuo, in cui consisterebbe il limite dello Stato, è  ambiguo. Lo Stato non interviene nella sfera dell’individuo dall’esterno, come un deus ex machina“. L’idea del possesso, dell’area riservata, è estranea al diritto: Nel diritto l’autonomia ha un significato diverso da quello che ha nell’etica, dove l’individuo è visto come suo possessore” Nel diritto, e nel suo “mediatore”, lo Stato, “il valore si misura soltanto secondo le norme del diritto. Non in base a elementi endogeni al singolo” – nessun individuo ha autonomia nello Stato”.
Sottigliezze
Il senso fila dritto, tra le sottigliezze: “Il diritto è pensiero astratto, che non può essere dedotto dai fatti né può agire sui fatti”. Se non a mezzo di “una realtà”, orientata “alla «realizzazione»” del diritto.  Questa “realtà” è lo Stato, “soggetto di diritto nel senso eminente del termine”. Ma come, per quale “diritto”?
Non ci si pensa, è parte dell’ordinario, ma lo Stato è la cosa forse più straordinaria, questa forma di autogoverno più estrema di ogni altra e quasi impensabile. Che ha condotto i molti, nel tentativo di penetrarla, a  legarla alla potenza. A un potere quasi astratto, che si impone col monopolio della violenza. Schmitt, in questa che è la sua seconda o terza opera, nel 1914, a 26 anni, è già di diverso avviso. Lo Stato, “concetto estremamente ambiguo,… nel migliore dei casi giunge a un’universalità giustamente definita da Kant misera, secundum principia generalia, non universalia”. Per via indiretta - il territorio, la popolazione, la lingua, la storia - non si ottiene di più. E “uno «Stato futuro»”, idealizzato, ambito, “se si realizza, resta uno Stato?” La tendenza c’è, a diventare “cattolici”, vedi la Rivoluzione Francese, o la Santa Alleanza sul principio di “legittimità”. Ma la Chiesa, nei sui concordati e nel diritto canonico, ristabilisce le proporzioni: la Chiesa si presenta “cattolica”, lo Stato è una serie di Stati. “Lo Stato deriva la propria dignità da una conformità alla legge che non deriva da esso, ma di fronte alla quale la sua autorità rimane invece derivata”. Per una ragione che sembra una tautologia:”Il diritto non va definito a partire dallo Stato, ma lo Stato a partire dal diritto”. Ma non lo è: “Lo Stato non è creatore del diritto, ma il diritto è creatore dello Stato: il diritto precede lo Stato”.  L’idea del giusto, un insieme di valori – “un potere supremo” che è “un’unità ottenuta esclusivamente tramite criteri valutativi”. Un altro “rovesciamento”, fra i tanti della filosofia tedesca: “Non è lo Stato una costruzione che gli uomini si sono fatti ma, al contrario, è lo Stato a fare di ogni uomo una costruzione”.
Perché un testo datato, di un secolo abbondante, e nell’insieme più allusivo che assertivo? Buttato lì peraltro, poco editato, malgrado la cura di Carlo Galli – chi è Sohm? e il trattato di Sohm – che non è un armistizio o una pace ma un libro, “Naturrecht”? e quale Harnack?, etc. Perché non c’è altro Stato, nella dissoluzione che l’ideologia del libero mercato impone. Non nella trattatistica, e sempre meno di fatto. Per esempio in Italia – non in Germania, malgrado i filosofemi, dove corrotti e corruttori vengono sanzionati a migliaia ogni anno, non a diecine, o anche in Russia, o allora dove il mercato si fa Stato, come negli Usa.
Carl Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, Il Mulino, pp. 104 € 12

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