domenica 11 ottobre 2020

Secondi pensieri - 431

zeulig

Anticipo – Il termine sportivo “giocare d’anticipo”, etc.) si può dire la chiave della politica: il contatto con una realtà ancora in formazione, per parare o prevenire un danno, comunque per contrastarlo e governarlo, e per avviare un progetto.
 
Assoluto
– È creazione (presupposizione) del relativo – il relativo presuppone l’assoluto, l’assoluto non è assoluto. È stata questa la sua prima nozione, e non ce n’è altra migliore.
 
Dialetto – Se ne fa una questione italiana fra Gadda e Pasolini, una sorte di espressionismo linguistico, con una seconda lingua – o una terza, nella commistione fra dialetto e italiano. Ma in entrambe le forme è stata di suo anglosassone, si può dire da sempre, di Dickens come poi di Mark Twain, o Faulkner e la letteratura southern – specie delle scrittrici americane del Sud, Margaret Mitchell, Flannery O’Connor, Carson McCullers. È eccezionale nelle lingue continentali, di nazioni non isolane, che si isolano con la lingua nazionale corretta, istituzionalizzata.
 
Dissenso – Si vuole, si voleva negli anni 1970 in Italia, “istituzionalizzato”. Per il recupero delle frange politiche extraparlamentari, delle autoriduzioni, della disobbedienza civile in genere. Su un presupposto semplice: la differenziazione o la lotta non sono contro natura. Ma istituzionalizzato il dissenso non può più essere anti-sistema: la disobbedienza, per quanto civile, non può essere regolata.
 
Feudalità - Dal Trentino e la Savoia a Siracusa, c’è sempre un castello o un’acropoli a presidiare i centri meglio integrati e ordinati, socialmente, anche economicamente dove l’economia è legata al territorio. È sulla feudalità che si innesta l’armonia sociale, in Italia come altrove in Europa, nel mondo tedescofono, nella Francia del Nord e in Provenza, in Inghilterra più che in Scozia. Altrove, regni assoluti e comunità informi, per esempio l’ex Regno di Napoli, la coesione sociale è labile, la capacità organizzativa, e la stessa accumulazione primaria, difficili – l’economia è il “posto”, il re, lo Stato. Bisogna ribaltare la storia economica e sociale? La feudalità ha prodotto (organizzato, consolidato) la stabilità, la socialità, l’applicazione per molti versi immune dal bisogno, e quindi il futuro – un serbatoio di adattabilità invece del rifiuto, la capacità di adattamento e adeguamento invece della “fuga” (rifiuto, emigrazione), la costruzione del futuro. In assenza, comunità “liquide”, senza capacità organizzativa, e anche senza radici se non  sentimentali – la lamentazione del Sud.
 
Guerra – Le cause e le conformazioni odierne sono ben sintetizzate da Riccardo Bacchelli, in una sorta di visione, in una sua “favola esemplare” africana del 1970, “Negro e nera” (in “Africa tra storia e fantasia”, 143): “La guerra universale ne produsse un visibilio di particolari da cui nacquero altre più o meno generali, con alleanze e coalizioni fatte e disfatte; e guerre fredde e paci calde; sconquassi, catastrofi, cataclismi militari, e politici e sociali, speranze che nascevano dalle paure, paure infine che ognuno, a forza di spacciar menzogne agli altri, credette soltanto alle proprie, e per non saper più chi ingannare, ingannò se stesso, in nome della guerra giusta, ognun la propria, contro le guerre ingiuste, tutte degli altri”. I casi delle guerre del Vietnam, allora in corso, e poi di Grenada, del Golfo, dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia, della stessa Siria ne sono esemplificazioni patenti.  E anche la conclusione dello scrittore sembra matura: “Infine fu proclamata, gioco di parole ma della disperazione, «guerra alla guerra»”. Un gioco di parole. Ma, di fatto, la guerra è sempre un attacco, un sopruso, condito di varie ipocrisie, di cui si ha coscienza – la retorica è un’arma attiva, non passiva. La “celebrazione” appena conclusa della Grande Guerra come sacrificio di milioni di giovani che non c’entravano nulla, non difendevano nulla, e per questo nulla morivano ne è esemplificazione.  
 
Legge – È inclusiva o esclude? Redime o recide? Il reo e il nemico non solo, ma con la forma ogni soggetto, sia pure il meglio intenzionato. Le leggi sono nate per regolare la vita associata, per favorirne la fioritura. Ma cristallizzano nel senso dell’esclusione, dello straniero come, dentro la comunità, del reo.
 
Passato - Non è irreversibile, non è definitivo, si sa, è intuitivo. Non nel suo strumento, le parole. Il linguista Devoto, l’autore di “Civiltà di parole”, ha un ripensamento mentre si accinge a configurare un “Civiltà di persone”: “Le parole hanno una loro civiltà, che risulta da secoli di erosioni, sovrapposizioni, sedimentazioni, esplosioni. Sono fonte di curiosità e di sollecitazioni, inesauribili.  Ma esse chiariscono sempre un passato , definitivo, irreversibile, qualcosa che non è più vivo”. Ma non è il contrario?
 
Politico - Per quanto progettuale è un conservatore. Per quanto animoso un nemico della guerra. Non è un paradosso: “Lo scopo del politico, di qualsiasi ideologia, è la lotta contro la guerra, intesa nel suo senso più ampio, guerra esterna e guerra interna. Ogni medico, attraverso infinite gamme, è un conservatore (di vite umane); oni politico, attraverso infinite gamme, è un conservatore (di valori umani)” – Giacomo Devoto, “Civiltà del dopoguerra”, 1955.
 
Problema – Deve recare in sé la soluzione. Quello politico come quello sociale. La causa sociale ha in sé la soluzione, come il problema politico. E una sola, seppure in differenti accezioni e modalità.
 
Storia – “Ovunque, quando ci sono rivoluzioni o drastici cambi di potere, gli archivi vengono distrutti, perché il primo nemico è la storia”, la regista Mina Akbari, “La Lettura”, 4 ottobre. Non solo nelle rivoluzioni o nelle successioni ai tiranni, come molte volte i papi, la storia si vuole cancellata anche dalle avanguardie, del nuovo, in arte, poesia, letteratura, e la stessa storiografia. E non solo nella forma degli archivi, ma anche in quella degli specchi e dei lampioni, e delle fonti di luce e di immagine – nella rivoluzione francese e le successive usava rompere vetri e specchi, statue e quadri, da molto tempo quindi prima della cancel culture. La storia è una forma di immagine, di sé e degli altri - di sé e quindi degli altri.
 
La cancel culture è una forma di negazione di sé, sotto forma di storia – di revisionismo della storia? Probabilmente sì. Una sorta di suicidio collettivo, quella che si pratica nelle sette. C’è molto di settario (fondamentalista, integralista) nella mentalità americana, al di sopra della razza, bianchi, neri e ispanici in uguale misura e modo, e del dislivello sociale, ricchi e poveri in uguale misura, istruiti e ignoranti – o attraverso le “razze” e i dislivelli.
 
Tempo – È appiattito nel sentito contemporaneo, della “rivoluzione permanente” tecnologica, che si traduce in “tutto subito”. Mentre è lento, pure nelle trasformazioni, depurate della pubblicità, dell’autopromozione del business invadente. Si tende a schiacciarlo, comprimerlo anche, anche retrospettivamente, nella storia. Si legge san Paolo e si pensa il cristianesimo in atto – che oggi ci ingombra. Ma passarono due secoli e mezzo di tensioni, persecuzioni, apologie, divisioni, prima che il cristianesimo fosse riconosciuto, quale “curia” e non più “setta” – fino al 316.
Il mondo va più in fretta? È un tempo senza tempo? Il tempo della rivoluzione permanente? Sì, a sentire la pubblicità. Che però è sempre la stessa, intesa a vendere – “non farti mancare l’occasione”.

zeulig@antiit.eu

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