Il primo amore di Calvino
“Conobbi Calvino nel ’55. Un anno
che fu poi fatale per me”, è la dichiarazione d’avvio. E a seguire:
“Cominciava, e forse il mio libro ne era una delle prime espressioni, il
malessere di una generazione che aveva creduto ingenuamente che bastasse
debellare il fascismo ufficiale per ricostruire una società moralmente
vivibile”.
Il “libro” è un romanzo, “I
coetanei”, che si presentava con una
prefazione ammirata di Gaetano Salvemini, ancora inedito. L’anno sarà “fatale”
anche per altri eventi (la sparizione del marito, Alessandro “Sandrino” Contini
Bonacossi), ma anzitutto per questo: nel numero speciale del “Ponte” per il
decennale della Resistenza, Calamandrei, Tumiati e Enriques Agnoletti avevano
incluso un capitolo dei “Coetanei”, col titolo “Un partigiano torna a Firenze”
che ne riassumeva lo spirito, trasfigurando il ruolo di Sandrino. “Il pezzo
piacque a Vittorini, il quale venne a Firenze” per opzionare il romanzo per i
suoi “Gettoni”. Poi ci ripenserà – Elsa era della società bene fiorentina, e lo
passerà a Calvino per le edizioni Einaudi. Da qui l’incontro.
Nello stesso anno, il 31 luglio,
scompare Sandrino, il marito di cui lei fa grande caso in tutto il libro per la
cultura, lo humour e l’uso di mondo. Scompare nel senso che si dilegua, dove
non si sa, né il motivo: riapparirà un anno più tardi, chiederà la separazione,
non concessa dalla moglie, e avvierà complesse procedure ereditarie essendo
morto a ottobre, tre mesi dopo la sua sparizione, lo zio-padre Alessandro, nella
cui casa era stato allevato, orfano di entrambi i genitori, morti pochi giorni dopo la sua
nascita. Lo zio-padre, e soprattutto sua moglie, Vittoria Feroldi, cacciatrice
“naturale” di opere e artisti, avevano creato la più grande e più qualificata
collezione d’arte privata al mondo. Che Alessandro, nominato per questo
senatore da Mussolini, aveva promesso allo Stato. Ma tra i suoi due figli e il
figlio acquisito Sandrino, coerede con pari diritti, l’eredità sarà una storia
lunga alcuni decenni – Sandrino morirà suicida, a New York, nel 1975.
Calvino stesso è uno dei
“coetanei”, dei delusi: “Ripensando a
quel Calvino incontrato nel 1955, ci si rituffa nell’inquieto fervore di
sentimenti che già presentivano la dispersione delle speranze”. E subito dopo,
lamentando l’inconsistenza dell’apparato critico su Calvino in morte e dopo,
solo in Citati trova una meditata verità, “l’aspetto esistenziale, rinunciatario
della realtà, che (ne) aveva connotato gli ultimi anni”. Lei lo testimonia alla
fine della narrazione: “Ho storicamente testimoniato del distacco definitivo di
Calvino dal comunismo. Fu a un suo incontro casuale con Alicata alle Acque Albule a Tivoli”. Con
Alicata, depositario nel Pci dell’ortodossia, Calvino discute a tu per tu “per
oltre mezz’ora, in piedi sotto il sole”, mentre con Elsa stava per uscire dallo
stabilimento. Alicata gli contesta “La bonaccia delle Antille”, “lo splendido
racconto apparso su ‘Città Aperta’ che aveva deliziato mezza Italia”. Calvino “è
teso, quasi aggressivo”. E una volta in macchina “ebbe un commento
sprezzante”.
Ma il disagio lo ha rilevato in
precedenza, a margine della vicenda editoriale dei “Coetanei”: “È l’acme di una
crisi profonda quella che nel ’59-60 spinse Calvino fuori dall’Italia”.
Dapprima in America, poi a Parigi.
A questo punto lei tronca la
relazione. Calvino le scrive, come sempre, lunghe argomentate lettere, lei non
risponde, lui continua a scriverle, e niente: “A me era accaduto un fatto
provvidenziale: quel nuovo Calvino anche confidente, ma guardingo, prudente,
sospettoso, avaro soprattutto di se stesso, non interessava più. Era diventato
un estraneo e non ero più portata a condividerne emozioni e idee”. I biografi diranno se la relazione è
finita come qui si narra: “Decisi un distacco assoluto e severo durato fino
alla sua morte”. Ma è vero il seguito: “Calvino era già in fuga da se stesso,
da Einaudi, dall’Italia, da quanto l’aveva determinato fino allora”.
Dalla biografia, si sa che con “I
coetanei” lei vincerà il premio Viareggio opera prima, sempre nel 1955. E che
dopo la rottura con Calvino sarà a Roma critico teatrale per “Pensiero
Nazionale”, quindicinale dei fascisti di sinistra, e per “Il Lavoro”, il
quotidiano socialista di Genova, nonché per “Opera Aperta”, trimestrale del Pci.
Amica di Cecchi, Bontempelli, Guttuso, Savinio, Trilussa. Ma soprattutto di Carlo
Levi. Nonché di Luchino Visconti, che con lei ricorda il sempre amato fratello
morto, uno dei flirt dell’attrice giovane, e qualche volta ride – “veder ridere
Visconti era raro”. E di più di Pasolini, che la menziona in versi allegri, distesi, la considerava una familiare, in confidenza
con la madre Susanna, di sostegno nelle burrascose trasferte al festival del
cinema di Venezia, e in ritrovamento privatissimo a Casarsa, con la madre e le zie,
le sorelle della madre, e i cugini Graziella e Nico, e la vorrà anche negli
ultimi film “Salò-Sade” e in “Rogopag”, nell’episodio “La ricotta”. Molte memorie lei confiderà a Elio Pecora, suo assiduo per trent’anni.
“La Repubblica” e Edith Singer,
“Chichita”, Calvino, la vedova, tenteranno di mettere in ridere la sua storia.
Lei non se ne adonta, si difende con Moravia: “Le lettere d’amore si difendono da
sé”. Limitandosi a riflettere. “Ridere di un amore, deridere chi potendo testimoniarlo lo fa, è
sintomo nel nostro paese della più sinistra imbecillità”. Di fatto è stata
destinataria di centinaia di lettere di Calvino appassionate – “il più bel
carteggio d’amore del Novecento” a detta di Maria Corti, nel cui fondo manoscritti
a Pavia sono confluite. Un caso eccezionale nel Novecento – l’altro epistolario
celebre, di Celan con Ingeborg Bachmann, non è così appassionato a giudicare da
quel poco che delle lettere di Calvino si sa.
Un libro onesto. Pensato e
scritto, dopo un “riserbo assoluto per venticinque anni, in seguito a un
articolo di Citati, neofita di “Repubblica”, che il 17 luglio 1990 tagliava
Calvino in due, e ne annientava “la prima fase”, dei racconti e le favole,
addebitandola a “False Contesse” che lo avrebbero circuito con l’opulenza. Ma
senza eccessi in senso contrario, nemmeno contro Citati. Il racconto dell’amore è dimesso, e molto contestualizzato.
Nel disincanto, nella ricerca di sé, di entrambi. Si incontrano per mesi negli interstizi, con
sotterfugi, con lunghi viaggi in treno, per poche ore o pochi minuti. Per un periodo,
dopo la sparizione del marito, quasi convivono, lui le sta “molto vicino”. La
storia s’avvita sullo sfondo del dramma Contini Bonacossi, per l’eredità e la
destinazione della grande collezione d’arte: “Ero tormentata dalla pietà cui il
pensiero di Sandrino mi condannava, quello della solitudine in cui si murava,
certo per non coinvolgermi”. Per questo, “per oltre un anno non frequentai nessuno
per paura di nuocere a mio marito”. Non frequentò nessuno da socialite. Frequentò invece Calvino,
quasi ogni giorno.
Convivranno nei week-end in una “villetta” che lei affitta a
Caponero (Ospedaletti, Sanremo), per stare lontano da Firenze e da Roma. Un alloggio
che lui ha individuato per lei – il primo “segno pratico” di Calvino, altrimenti
confuso nella relazione, adolescente attardato. Lui viaggia da Torino nei week-end,
mentre lei frequenta casa Calvino, la madre. Entrambi frequentati da Citati, Carlo Bo,
Betocchi, che vano a trovarli, con le mogli – tutti ricordati con affetto. Con
molte nuotate. E molte lettere, due al giorno – perché a Ospedaletti non c’era
il telefono. E con la scoperta
improvvisa: “Cara, tu sei il mio primo amore”. Lei s’indentifica nella
Viola-Paloma del “Barone rampante”, 1957 – di cui la scrittura fu alacre sulla
spiaggia di una caletta a Praia a Mare, l’estate precedente: “La prima copia di
stampa del Barone rampante Calvino me
la portò di persona a Milano dove, al piccolo teatro con Strehler, recitavo
Madame Roland nei Giacobini. In
stampa il libro era dedicato «A Viola» e a mano «A Paloma, il barone»” - la
prima copia “ci rese molto felici”.
Con molti lampi sul teatro. Sulla
“teatralità filologica” di Gadda. Sul corpo recitante dell’attore, compresi i
silenzi e le pause, i gesti minimi, di Eduardo, di Renzo Ricci. Che Renato
Simoni avrebbe portato dalla Russia nel 1920, da Stanislavsky, ma che de’
Giorgi convincente trova in Eleonora Duse – che insegnò le pause a D’Annunzio,
il non detto, glielo impose (è il D’Annunzio che si salva). “Metodo” passato dalle
sorelle Gramatica, sue allieve, di Duse, ai mattatori degli anni 1930-1940. Già
autrice, prima dei “Coetanei”, di uno “Shakespeare e l’attore”, saggio ammirato
e sostenuto da Giacomo Debenedetti, Gerardo Guerrieri e fino a Oreste Del
Buono.
Con una coscienza acuta dei tempi.
Di Calvino comunista incerto e non solo. Degli anni 1950 del disincanto, dopo le
aspettative della Resistenza – nella quale il marito Sandrino aveva avuto una
parte molto attiva, a fianco di Ferruccio Parri, e ancora con la presidenza
Parri. Le tre pagine finali sull’opinione pubblica di fatto smarrita all’epoca
del (finto) comunismo di facciata, nelle lettere e le arti, restano chiare e
semplici. Personalmente salva il giovane Giorgio Parisi, il fisico teorico che
si adopera a regolare il caos, e Benigni, col tardigrado Fellini: i tipi dell’onestà,
o della realtà-verità, anche in scena, a fronte del tradimento degli
intellettuali. Ma un tradimento, così vasto e radicato, che è un modo di essere
più che un opportunismo. Un’incapacità, un’impossibilità – la “testimonianza”,
che sempre è coraggiosa, è vivida e chiara.
Con più di una verità ancora incognita
su Calvino. Minime. “Calvino usava il perbacco”. Non “capiva” Pasolini, “che
gli scriveva lettere incantevoli”. “Scriveva a mano, e finché è durato il
nostro amore non ha mai guidato la macchina”. E non: “Mancava a Calvino il
senso della colpa e del tragico”. Sulla vita, la vita materiale, pratica: a
trent’anni, già scrittore riconosciuto,
vive in una stanza da affittacamere, con poco o nulla riscaldamento, il bagno
in comune, il telefono nel corridoio. Sui traumi sotto la riservatezza: poca
attenzione, e impazienza, balbuzie, scarsa affettività. Alla Meridiana, la villa
di famiglia a Sanremo, si sente, le scrive, “chiuso come un riccio”: “Ci aveva
vissuto più di vent’anni, tutta l’infanzia e l’adolescenza, ma non riusciva a
sentirla sua – uomo di città, in confidenza con le capitali d’Europa, a casa
sua in tutte, ma non nella sua”.
Analizza Calvino a più riprese,
frammentaria per non appesantire la narrazione, ma sempre al punto, non con superficialità,
né con acredine. L’“aquilotto” della madre”, lo “scoiattolo” di Pavese, tanti
gli vogliono bene, aveva 33 anni all’inizio della relazione, e nessuna
fidanzata, lei 41, sposata, una ventina di film da protagonista, e dieci di
teatro nelle compagnie più importanti, Ricci-Pagnani, Ricci-Magni, con Renato Simoni,
e al Piccolo con Strehler, nonché in un suo Teatro delle due città, uno stabile
Firenze-Bologna. Al primo incontro, una cena in casa dominata dalla conversazione
arcibrillante di Sandrino, ne avverte il “mistero”: “Più tardi seppi la forte
tensione a capirsi che c’era in Calvino. Sospettava di sé. Spiava negli altri
le ragioni delle loro sicurezze e se ne stupiva. Non sempre si stimava ma
sempre si proteggeva. C’era molta infanzia in tutto questo, un’adolescenza
inconsumata”. Poche righe prima, ascoltando la conferenza che Calvino aveva
tenuto, intitolata “Il midollo del leone”, ha annotato: “Un senso del «gioco»,
nel significato francese del verbo «recitare» che non poteva sfuggire al mio
gusto del teatro; fu questo a rendermi curiosamente familiare Calvino”. Anche
se sa, o avverte subito da quel primo contatto, che “Calvino non amava le donne
che scrivevano”.
Una galleria di personaggi fa
memorabili in breve ma a tutto tondo, per aspetti a volte sorprendenti dei più
noti. Bernard Berenson. Paola Olivetti, prima moglie di Adriano, sorella di
Natalia Ginzburg, molto amica di Carlo Levi, che era andata a trovare pure a
Eboli. Carlo Levi. Anna Magnani, amica e confidente, un ritratto d’antologia.
Palazzeschi – Montale e Palazzeschi, un cameo
noto e tutavia interessante. Ornella Vanoni. Renzo Ricci. Ruggero Ruggeri.
Memo Benassi, che a tutti sbatteva in faccia la sua omosessualità, ma era solo.
Savinio. De Chirico. Savinio e De Chirico dietro la loro imponente madre a
Parigi. Eva Mameli Calvino, la madre, tanto più sorprendente in quanto solo qui
rappresentata, benché personaggio notevolissimo. Il suo giardino delle meraviglie,
che mai Italo e il fratello Floriano considereranno casa propria. Pasolini.
Susanna Pasolini, la madre, la vera Susanna.
Elsa Morante - con i rassegnati Moravia e Pasolini che distribuiscono le
fettuccine ai “regazzini”, a Trastevere e fuoriporta.
Una brutta foto in copertina, di
due bocche incattivite (era rispondente invece la copertina della prima
edizione, Leonardo, dove campeggiava lei sola, elegante, quale era di fatto), come
in battibecco, per un libro sorprendente - un minimo di cura editoriale non sarebbe stata male, per la ortografia e soprattutto per i nomi, per es. il Giorgio Parise di p. 282, per Parisi, il giovanissimo, allora, fisico matematico, che fa esemplare, con Benigni, della generazione fattiva, successiva al disincanto. Un libro di curiosità e anche di acume, filologico
e critico. Elsa de’ Giorgi era ben dedicataria delle “Fiabe italiane”, l’opus magnum di Calvino prima delle favole,
sotto l’anagramma “a Raggio di Sole”.
“La sua presenza è palese”, scrive Roberto Deidier nella presentazione, “in
diversi luoghi dei racconti, e qualcosa dei suoi tratti è rimasto anche nella
Viola del Barone rampante”. Ma molti
echi della relazione Deidier rintraccia anche nei racconti “L’avventura di un
viaggiatore”, “Nuvola di smog”, “Avventura di un poeta”
Con una dedica “ancora a Carlo
levi”, l’amico di sempre, già tra le due guerre. Con quale condivide tutto, la
fiducia nella Liberazione e il disincanto. E soprattutto “l’ambiguo rigore del
vero”, sottotitolo della sua precedente scrittura, “L’eredità Contini
Bonacossi”: della scrittura che si vuole vera, cioè duratura e non fuffa. Dopo
“I coetanei” e “L’eredità”, questo “Ho visto partire il tuo treno”, conclude
una trilogia di memorie storicizzate, non arbitrarie (“poetiche”) o personali
ma legate ai fatti, e al contesto, storico e culturale.
Un libro sorprendente, ma non del
tutto, considerando la censura che ancora imperversava nel 1990. Nato, è utile
ripetere, in risposta a un Citati nuovo entrante a “la Repubblica”, la
corazzata del politicamente corretto, che per esaltare un suo privato Calvino
tutto testa e niente cuore lamentava: “Spesso si innamorava… Si trattava di
False Contesse che lo istruivano, gli insegnavano le buone maniere… lo
obbligavano a frequentare ristoranti costosissimi o a bere Veuve Cliquot” – un
articolo non più reperibile, se non evidentemente nell’archivio cartaceo di
“Repubblica”, in biblioteca: non viene fuori nell’archivio digitale, non si
legge nelle raccolte saggistiche di Citati. De’ Giorgi reagì su “Epoca”,
mostrando a Pasquale Chessa la raccolta di lettere che Calvino le aveva scritto
(“esattamente 407, divise per argomenti in 11 cartelline azzurrine”, testimonia
Chessa), disponendo la pubblicazione di alcuni estratti di esse, e difendendosi
con finezza in dialogo col giornalista: “Il personaggio Calvino descritto nell’articolo
di Citati è catastrofico”, sul piano comportamentale e su quello letterario, se
scriveva scemenze. E perché le sue lettere non “s’hanno” da pubblicare? “Certo,
Citati non si rassegna che sia considerato tra i maggiori quel Calvino che,
proprio lui, aveva così ben situato nel limbo fluido dei minori. O dei «falliti maggiori»?”
A Citati, che ricorda al suo desco a San
Leonardo a Firenze giovane insegnante di liceo, dedica in fine alla sua memoria
righe tutto sommato di apprezzamento, dopo averlo citato come critico eminente
- i Giorgi Alberti, si può aggiungere, nome d’origine dell’abbreviato de’Giorgi, nobili di Bevagna
e Camerino, patrizi di Spoleto, erano comunque “più nobili” dei Citati nobili siciliani,
e comunque Elsa era contessa non falsa, sposa di un conte vero, anche di spirito.
Sulla querelle specifica, dopo quella dell’eredità Contini Bonacossi, non
le si può dare torto: l’eredità di Calvino è scandalosa. Non solo per le intemperanze
critiche di Citati, che per impossessarsene lo ha ridotto a poca cosa (un
epigono, poco geniale, degli dei dell’Oulipo, loro sì geniali, Perec e Queneau). Ma,
tra l’altro, per la censura sull’epistolario custodito da de’ Giorgi, confidato
al fondo manoscritti creato da Maria Corti a Pavia , in attesa della pubblicazione
25 anni dopo la morte dello scrittore – ne sono passati 35 e la cosa è sempre
impossibile. Un insulto allo stesso scrittore, prima che a de’ Giorgi.
Elsa de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Feltrinelli,
pp. 295 € 9,50
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