martedì 3 giugno 2025

Calabria terremotata, in attesa di decollo

“Fame e malaria” è la Calabria di Giuseppe Isnardi, il sanremese che pure ne era grande conoscitore, nel 1963. È quello che diceva il meridionale Giustino Fortunato sessant’anni prima al Parlamento, del Meridione come frane, terremoti e malaria – e la Calabria, in particolare, “un vero sfasciume péndolo sul mare”.
Questo è l’inizio. Per finire, i casi che hanno reso la Calabria “protagonista” del dibattito nel 2014 – l’anno in cui Galasso chiudeva e pubblicava questa raccolta, di saggi sparsi negli anni: la “Storia di un cranio conteso”, di Maria Teresa Mlicia, quello del “presunto «brigante» Giuseppe Villela”, una delle vittime di Lombroso, e la storia montata e divulgata dai Carabinieri dell’“inchino” fatto fare alla Madonna in processione a un capomafia ai domiciliari, a Tresilico di Oppido Mamertina, cittadina civile, sede per molti secoli vescovile. La Calabria ha, insomma, un perdurante problema di “proiezione nel mondo contemporaneo” – del cosiddetto decollo, economico ma anche culturale.
Il titolo Galasso ha preso a prestito da Corrado Alvaro, dal saggio-conferenza “La Calabria” al Lyceum di Firenze nel 1931. Non una condanna, o un giudizio amaro. Un riferimento alla natura “terremotata” della regione, alla storia antica e sempre subordinata, alle utopie e ai rifiuti\disdegni della storia recente.
Il saggio centrale, “Al tempo dell’unificazione italiana”, fa finalmente chiarezza sui tentativi non riusciti, pubblici e privati, di riforma agraria - fallimentari per motivi precisi. E sul “feudalesimo”, sul quale si adagia la storia del Meridione, e in particolare della Calabria – che semmai è colpevole per non essersi esercitato. Un contributo eccezionalmente innovativo, veritiero fuori dagli schemi ideologici. In una col primo abbozzo, laico, di una “storia” della manomorta, delle appropriazioni successive dei beni ecclesiastici. Avviate con le “soppressioni” dei Gesuiti, e seguite, in Calabria, dalla Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, e poi, con l’unità, dalla “nuova secolarizzazione dei beni ecclesiastici”.
Una storia che non muta la conclusione: “Socialmente, la Calabria è connotata dal contrasto vistosissimo fra un enorme proletariato di senza terra e senza tutto e una minoranza esigua di beati possidentes”. Resta da riflettere quanto la manomorta, l’appropriazione a prezzo vile e di favore dei beni ecclesiastici, abbia ammorbato la nascente borghesia italiana, e specialmente nel Meridione – la borghesia degli affarucci, facili, cioè della corruzione più che della costruzione.
Lo storico – che con gli studi sulla Calabria, specialmente d’archivio, si è formato – ha riunito qui saggi, articoli, interventi su personaggi e questioni a sfondo calabrese. Anzitutto su altri “scopritori” della Calabria: il geografo Lucio Gambi, il sociologo Isnardi, e gli storici letterati calabresi, Augusto Placanica e,  nell’Ottocento, Vincenzo Padula.
Particolareggiate anche le annotazioni sull’emigrazione – continua, ormai da due secoli, quasi. Sul 1799 – compreso il sanfedismo. Sull’unificazione nel 1860. Col catalogo, curiosamente molto interessante, delle grandi proprietà terriere, nella piana di Gioia Tauro, nella Locride, nel crotonese, sulla Sila, nella piana di Sibari – non delle aziende agricole, delle proprietà terriere.
A specchio, l’industria della liquirizia. Tanto più ardua quanto il mercato è di nicchia. Corigliano ne acquisì il primato in Europa con quattro fabbriche. Tre dei baroni Compagna, già amministratori dei feudatari del luogo, i genovesi Saluzzo, poi subentrati ad essi. E una dei Solazzi, poi conti di Alife. Alle quali una quinta si aggiunse, quella dei Murgia - o Morgia. Che tutte si dotavano nell’Ottocento dei macchinari più innovativi. Nel 1856 il “Morning Chronicle” di Londra apprezzava la liquirizia di Corigliano, “con la marca Cassano, Saluzzo e Solazzi”, “essendo le altre di Calabria miste a terra, un po’ bruciate e di colorito matto”.
Nel saggio probabilmente ultimo in ordine di tempo della raccolta, “Al tempo dell’unificazione italiana”, una lettura storica del brigantaggio molto diversa da quella in uso, politica e sociopolitica. Con rimandi a Michele Fatica, “La Calabria nell’età del Risorgimento” (uno dei saggi della collettanea “Storia della Calabria Moderna e Contemporanea”, 1992, curata da A. Placanica): “ Il brigantaggio è vecchio di secoli in Calabria… Una delle più vecchie manifestazioni di disagio e di devianza, antica di secoli, che si produceva nelle due forme tradizionali della «crassazione di passo» (nei luoghi più favorevoli ad essa: da Campotenese al passo delle Crocelle, alla cupa di Tiriolo, al passo del Mercante, a tanti luoghi dell’Aspromonte, ma in effetti un po’ dovunque) «e del sequestro di persona o del ‘biglietto’ a scopo di estorsione»”. Tutte forme che hanno perdurato, si può testimoniare, fino al secondo Novecento – estorsioni solo dismesse (temporaneamente?) col mercato molto più ricco della droga. I Borbone avevano provato varie volte a contrastare il fenomeno, con interventi mirati, tre o quattro nella prima metà dell’Ottocento.
Giuseppe Galasso, Calabria, paese e gente difficile, Rubbettino, pp. 320 € 15

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