Calabria terremotata, in attesa di decollo
“Fame e malaria” è la Calabria di
Giuseppe Isnardi, il sanremese che pure ne era grande conoscitore, nel 1963. È quello
che diceva il meridionale Giustino Fortunato sessant’anni prima al Parlamento,
del Meridione come frane, terremoti e malaria – e la Calabria, in particolare,
“un vero sfasciume péndolo sul mare”.
Questo è l’inizio. Per finire, i
casi che hanno reso la Calabria “protagonista” del dibattito nel 2014 – l’anno
in cui Galasso chiudeva e pubblicava questa raccolta, di saggi sparsi negli
anni: la “Storia di un cranio conteso”, di Maria Teresa Mlicia, quello del
“presunto «brigante» Giuseppe Villela”, una delle vittime di Lombroso, e la storia
montata e divulgata dai Carabinieri dell’“inchino” fatto fare alla Madonna in processione
a un capomafia ai domiciliari, a Tresilico di Oppido Mamertina, cittadina
civile, sede per molti secoli vescovile. La Calabria ha, insomma, un perdurante
problema di “proiezione nel mondo contemporaneo” – del cosiddetto decollo, economico
ma anche culturale.
Il titolo Galasso ha preso a prestito da
Corrado Alvaro, dal saggio-conferenza “La Calabria” al Lyceum di Firenze nel
1931. Non una condanna, o un giudizio amaro. Un riferimento alla natura “terremotata”
della regione, alla storia antica e sempre subordinata, alle utopie e ai
rifiuti\disdegni della storia recente.
Il saggio centrale, “Al tempo dell’unificazione
italiana”, fa finalmente chiarezza sui tentativi non riusciti, pubblici e
privati, di riforma agraria - fallimentari per motivi precisi. E sul “feudalesimo”,
sul quale si adagia la storia del Meridione, e in particolare della Calabria –
che semmai è colpevole per non essersi esercitato. Un contributo eccezionalmente
innovativo, veritiero fuori dagli schemi ideologici. In una col primo abbozzo,
laico, di una “storia” della manomorta, delle appropriazioni successive dei beni
ecclesiastici. Avviate con le “soppressioni” dei Gesuiti, e seguite, in Calabria,
dalla Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, e poi, con l’unità, dalla “nuova
secolarizzazione dei beni ecclesiastici”.
Una storia che non muta la conclusione:
“Socialmente, la Calabria è connotata dal contrasto vistosissimo fra un enorme
proletariato di senza terra e senza tutto e una minoranza esigua di beati
possidentes”. Resta da riflettere quanto la manomorta, l’appropriazione a
prezzo vile e di favore dei beni ecclesiastici, abbia ammorbato la nascente borghesia
italiana, e specialmente nel Meridione – la borghesia degli affarucci, facili,
cioè della corruzione più che della costruzione.
Lo storico – che con gli studi sulla Calabria,
specialmente d’archivio, si è formato – ha riunito qui saggi, articoli,
interventi su personaggi e questioni a sfondo calabrese. Anzitutto su altri “scopritori”
della Calabria: il geografo Lucio Gambi, il sociologo Isnardi, e gli storici
letterati calabresi, Augusto Placanica e, nell’Ottocento, Vincenzo Padula.
Particolareggiate anche le annotazioni
sull’emigrazione – continua, ormai da due secoli, quasi. Sul 1799 – compreso il
sanfedismo. Sull’unificazione nel 1860. Col catalogo, curiosamente molto interessante,
delle grandi proprietà terriere, nella piana di Gioia Tauro, nella Locride, nel
crotonese, sulla Sila, nella piana di Sibari – non delle aziende agricole,
delle proprietà terriere.
A specchio, l’industria della
liquirizia. Tanto più ardua quanto il mercato è di nicchia. Corigliano ne
acquisì il primato in Europa con quattro fabbriche. Tre dei baroni Compagna,
già amministratori dei feudatari del luogo, i genovesi Saluzzo, poi subentrati ad
essi. E una dei Solazzi, poi conti di Alife. Alle quali una quinta si aggiunse,
quella dei Murgia - o Morgia. Che tutte si dotavano nell’Ottocento dei macchinari
più innovativi. Nel 1856 il “Morning Chronicle” di Londra apprezzava la
liquirizia di Corigliano, “con la marca Cassano, Saluzzo e Solazzi”, “essendo le
altre di Calabria miste a terra, un po’ bruciate e di colorito matto”.
Nel saggio probabilmente ultimo in
ordine di tempo della raccolta, “Al tempo dell’unificazione italiana”, una lettura
storica del brigantaggio molto diversa da quella in uso, politica e sociopolitica.
Con rimandi a Michele Fatica, “La Calabria nell’età del Risorgimento” (uno dei
saggi della collettanea “Storia della Calabria Moderna e Contemporanea”, 1992,
curata da A. Placanica): “ Il brigantaggio è vecchio di secoli in Calabria… Una
delle più vecchie manifestazioni di disagio e di devianza, antica di secoli,
che si produceva nelle due forme tradizionali della «crassazione di passo» (nei
luoghi più favorevoli ad essa: da Campotenese al passo delle Crocelle, alla cupa
di Tiriolo, al passo del Mercante, a tanti luoghi dell’Aspromonte, ma in
effetti un po’ dovunque) «e del sequestro di persona o del ‘biglietto’ a scopo
di estorsione»”. Tutte forme che hanno perdurato, si può testimoniare, fino al secondo
Novecento – estorsioni solo dismesse (temporaneamente?) col mercato molto più
ricco della droga. I Borbone avevano provato varie volte a contrastare il fenomeno,
con interventi mirati, tre o quattro nella prima metà dell’Ottocento.
Giuseppe Galasso, Calabria, paese e gente
difficile, Rubbettino, pp. 320 € 15
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