mercoledì 17 settembre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (606)

Giuseppe Leuzzi


Il tropico di “Temptation Island”, che questa estate ha sbancato l’auditel, tra palme, spiagge, glutei,  e atre asperità, bene abbronzate, innamoramenti e disamoramenti, insomma “una favola”, del paradiso terrestre e del tentatore, si scopre essere stata ambientata a Guardavalle Marina. Una marina senza pretese sullo Jonio. Anzi anonima, per essere in Calabria: senza mafie, senza giudici, magari con la dignità, ma senza reddito apposito. 


Il “Corriere della sera” presenta la sua manifestazione annuale “Il tempo delle donne” con uno speciale. Una cinquantina di articoli, di donne – solo sei di maschi, quattro giornalisti, su temi marginali, uno psicologo, l’allenatore della nazionale femminile di calcio. E una sensazione di soffocamento, mai avendo vissuto, in nessuna situazione, nemmeno nel “profondo Sud”, anzi specialmente non nel Sud profondo, una tale separatezza di genere. È una tendenza, una moda, ma da incubo.
 
Si discute sempre del ruolo di Cavour nella spedizione dei Mille, e poi nell’annessione. Ma la cosa vedeva da un giusto pinto di vista, come nella lettera del 28 luglio 1860  all’amm. Persano, con la quela  “autorizzava” lo sbarco di Garibadi nel continente: “Son lieto della vittoria di Milazzo...Io la prego di porgere le mie sincere e calde congratulazioni al generale Garibaldi. Dopo si splendida vittoria, io non veggo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i napoletani compissero, o almeno iniziassero, l’opera rigeneratrice; ma poiché non vogliono o non possono muoversi, si lasci fare i Garibaldi”.
 
Aggirandosi trent’anni fa tra le “meraviglie” della Sicilia, Arbasino è turbato a Palermo dalla pochezza del tesoro dei re e le regine normanne. E si fa queste due ragioni: “Anche allora saranno stati incapaci di sorridere, in preda alle ansie, guardandosi tetri e truci intorno e alle spalle, in Comune e in Regione)? (E con ragione…). O sarà stata importata su una popolazione pazzerellona e giocosa, da certi Arabi Normanni particolarmente dark, questa angoscia luttuosa mai riscontrata al Cairo o a Deauville?” La “narrazione” di sé che il Sud si è lasciato imporre è la sua seconda pelle ormai – e lo ha reso pure antipatico.  
 
“Quell’asino di Garibaldi”
Engels, ripetutamente sollecitato da Marx, aveva celebrato i Mille sul “New York-Daily Tribune” del 22 giugno 1860 – con un lungo articolo, scritto presuntivamente due settimane prima: ,
Dopo una serie di informazioni, le più contraddittorie, riceviamo infine qualche notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. È, indubbiamente, una delle imprese militari più straordinarie del secolo, e sarebbe quasi inspiegabile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un trionfante generale rivoluzionario. Il successo di Garibaldi dimostra che le truppe regie di Napoli sono ancora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana di fronte ai battaglioni francesi, napoletani, e austriaci, e che la popolazione siciliana non ha perso la fede in lui, o nella causa nazionale.
Il 6 maggio, due battelli lasciano la costa di Genova con circa 1.400 uomini armati, organizzati in sette compagnie, ognuna delle quali, evidentemente, destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi fra gli insorti. L’8 sbarcano a Talamone, sulla costa toscana, e persuadono il comandante del forte là situato, con chissà quali argomenti, a fornire loro carbone, munizioni, e quattro pezzi di artiglieria da campo.
Il 10 entrano nel porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e sbarcano con tutto il loro materiale, nonostante l’arrivo di due navi da guerra napoletane, che non sono in grado al momento giusto di fermarli; la storia dell’interferenza britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa, ed è ora abbandonata anche dagli stessi napoletani. Il 12, la piccola banda aveva avanzato su Salemi, a diciotto miglia di distanza nell’entroterra, sulla strada di Palermo. Sembra che i capi del partito rivoluzionario abbiano incontrato Garibaldi, si siano consultati con lui, e abbiano raccolto rinforzi tra gli insorti, circa 4.000 uomini; mentre questi venivano organizzati, l’insurrezione, repressa ma non domata poche settimane prima, si rinfocolò di nuovo su tutte le montagne della Sicilia occidentale, e come fu dimostrato il 16, non senza effetto.
Il 15, Garibaldi con i suoi 1.400 volontari organizzati e i 4.000 contadini armati, avanza verso nord attraverso le colline, verso Calatafimi, dove la strada di campagna da Marsala si congiunge con la strada maestra che va da Trapani a Marsala. Le gole che conducono a Calatafimi, attraverso un contrafforte dell’alto monte Cerrara, chiamato monte del Pianto dei Romani, erano difese da tre battaglioni di truppe regie, con cavalleria e artiglieria, sotto il comando del gen. Landi. Garibaldi attaccò subito questa posizione, che in un primo tempo fu ostinatamente difesa; ma sebbene in questo attacco non avesse potuto impiegare contro i 3.000 o 3.500 napoletani niente più che i suoi volontari e una parte molto piccola di insorti siciliani, i regi furono successivamente scacciati da cinque forti posizioni, con la perdita di un cannone da montagna e numerosi morti e feriti. Le perdite dei garibaldini sono stimate da loro stessi in 18 morti e 128 feriti.
I napoletani dichiarano di aver conquistato una delle bandiere di Garibaldi in questo scontro, ma, avendo trovato essi una bandiera dimenticata a bordo di uno dei battelli abbandonati a Marsala, è possibile che abbiano esibito questa stessa bandiera a Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li costrinse ad abbandonare quella città la sera stessa. La lasciarono solo il mattino seguente, e dopo sembra che non abbiano opposto ulteriore resistenza a Garibaldi, finché non raggiunsero Palermo. La raggiunsero effettivamente, ma in un terribile stato di disgregazione e disordine.
La certezza di aver dovuto soccombere di fronte a semplici “filibustieri e ad una feccia armata” ricordava loro tutto d’un colpo la terribile immagine di quel Garibaldi, che, mentre difendeva Roma contro i francesi, poteva trovare ancora il tempo di marciare su Velletri e di far fare dietro front all’avanguardia dell’intero esercito napoletano; di colui che in seguito aveva conquistato sulle pendici delle Alpi guerrieri di una tempra di gran lunga superiore a quelli che produce Napoli. La precipitosa ritirata, senza neanche dar mostra di voler resistere ancora, deve aver ulteriormente accresciuto il loro scoraggiamento e la tendenza alla diserzione che già esisteva nei loro ranghi; e quando all’improvviso essi si trovarono circondati e bersagliati da quell’insurrezione che era stata preparata nell’incontro a Salemi, la loro compattezza fu completamente travolta; della brigata di Landi, rientrò a Palermo niente più che una calca disordinata e scoraggiata, in numero grandemente ridotto, in piccole bande successive.
Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno in cui Landi ne uscì – il 16; il 17 marciò su Alcamo (10 miglia); il 18 su Partinico (10 miglia) e oltrepassato questo luogo puntò su Palermo. Il 19, acquazzoni torrenziali impedirono alle truppe di avanzare.
Nel frattempo, Garibaldi aveva appurato che i napoletani stavano scavando trincee intorno a Palermo, e rinforzando i vecchi, cadenti bastioni della città dalla parte che si affaccia su Partinico. Essi potevano contare ancora su 22.000 uomini, e così rimanevano di gran lunga superiori a tutte le forze che egli avrebbe potuto opporre loro. Ma erano scoraggiati; la loro disciplina allentata; molti di loro cominciavano a pensare di passare alle fila degli insorti; mentre era risaputo, sia tra i loro soldati che tra i nemici, che i loro generali erano degli imbecilli.
Le sole truppe degne di affidamento tra loro erano i due battaglioni stranieri. Stando così le cose, Garibaldi non avrebbe potuto rischiare un attacco frontale diretto sulla città, mentre i napoletani non potevano intraprendere niente di decisivo contro di lui, ammesso che le loro truppe ne fossero in grado, dato che essi devono sempre lasciare una forte guarnigione in città e non allontanarsi mai troppo da essa. Con un generale di stampo comune al posto di Garibaldi, questo stato di cose avrebbe condotto a una serie di azioni sconnesse e non risolutive, in cui egli avrebbe potuto addestrare una parte delle sue reclute nell’arte militare, ma in cui anche le truppe regie avrebbero potuto recuperare molto in fretta buona parte della perduta fiducia e disciplina, poiché non avrebbero potuto non riportare qualche successo in alcune di queste azioni.
Ma una guerra di questo tipo non sarebbe convenuta né ad un’insurrezione, né a un Garibaldi. Un’audace offensiva era l’unico sistema di tattica permesso in una rivoluzione; un successo straordinario, come quello della liberazione di Palermo, divenne una necessità non appena gli insorti furono giunti in vista della città.
Ma come attuare tutto ciò? Fu qui che Garibaldi dimostrò brillantemente di essere un generale adatto non solo alla semplice guerra partigiana, ma anche a operazioni più importanti.
Il 20 e i giorni successivi, Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani e le posizioni nelle vicinanze di Monreale e Parco, sulla strada che porta a Palermo da Trapani e Corleone, facendo credere così al nemico che il suo attacco si sarebbe attuato soprattutto contro il lato sud-ovest della città, e che qui fosse concentrata la parte più consistente delle sue forze. Con un’abile combinazione di attacchi e finte ritirate, indusse il generale napoletano a far uscire un numero sempre più grande di truppe dalla città in questa direzione, finché il 24 circa 10.000 napoletani apparvero fuori dalla città, verso Parco.
Era quello che Garibaldi voleva. Egli li impegnò subito con una parte delle sue forze, indietreggiò lentamente davanti a loro in modo da spingerli sempre più lontano fuori dalla città, e quando li ebbe attirati a Piana(1), al di là della principale catena di colline che taglia la Sicilia e qui divide la Conca d’oro (così è chiamata la valle di Palermo) dalla valle di Corleone, egli gettò improvvisamente il grosso delle sue truppe sull’altra parte della stessa catena, nella valle di Misilmeri, che si apre sul mare, vicino a Palermo.
Il 25 egli fissò il quartier generale a Misilmeri, a otto miglia dalla capitale. Non siamo informati su ciò che fece dopo con i suoi 10.000 uomini disseminati lungo la sola strada dissestata che c’è sulle montagne, ma possiamo esser certi che egli li tenne ben occupati con alcune nuove indiscusse vittorie, in modo da impedire che ritornassero troppo presto a Palermo.
Avendo così ridotto i difensori della città quasi della metà, e trasferito la sua linea d’attacco dalla strada di Trapani alla strada di Catania, egli poteva procedere al grande attacco. Se l’insurrezione in città abbia preceduto l’assalto di Garibaldi, o se sia divampata al suo presentarsi alle porte della città, non risulta chiaro dai dispacci contraddittori; ma certo è che la mattina del 27, tutta Palermo insorse armata e Garibaldi si scagliò su Porta Termini, al lato sud-est della città, dove nessun napoletano lo attendeva. Il resto si sa: il graduale abbandono della città da parte delle truppe, ad eccezione delle batterie, della cittadella e del palazzo reale; i bombardamenti che seguirono, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora particolari dettagliati di tutte queste azioni; ma i fatti principali sono sufficientemente definiti.
Nel frattempo, dobbiamo dire che le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco su Palermo lo definiscono subito un generale di prim’ordine. Finora noi lo conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato; anche nell’assedio di Roma il suo modo di difendere la città con continue sortite difficilmente gli poteva dare l’occasione di sollevarsi sopra quel livello. Ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da questa prova da maestro provetto nella sua arte. Il modo di indurre il comandante napoletano nell’errore di mandare metà delle truppe fuori tiro, l’improvvisa marcia laterale e per riapparire davanti a Palermo, dalla parte dove era meno atteso, e l’energico attacco quando la guarnigione era indebolita, sono operazioni che portano il marchio del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento verificatosi durante la guerra italiana del 1859.
L’insurrezione siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che il Garibaldi uomo politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta la gloria del generale”.
 
Garibaldi dunque “un generale di prim’ordine”, che si merita “intatta la gloria”. Ma presto, poche settimane o giorni, Garibaldi perse la stima di Marx e di Engels, per essersi piegato al Piemonte. La corrispondenza è piena di giudizi spregiativi. L'entusiasmo era sbollito presto: dal 5 ottobre al 27 febbraio 1861 nessun accenno agli avvenimenti “napoletani” nella corrispondenza fra i due. Il 27 febbraio 1861 un primo giudizio negativo su Garibaldi. Scrivendo a Engels a proposito di Appiano, lo storico romano di Alessandria, della sua “Storia romana”, Marx scrive a Engels: “Spartaco vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale, non un Garibaldi, carattere nobile, realmente rappresentante dell’antico proletariato”. Il 10 giugno, sempre a Engels, Marx scriveva sprezzante: “Cavour è morto? Che ne pensi? Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo...”. Il 28 settembre si ricredeva anche sulle capacità militari di Garibaldi: “Oswald dice che Garibaldi è essenzialmente un capo di guerriglia, che con un grande esercito e su un vasto territorio non saprebbe cavarsela. I suoi consiglieri strategici sono Cosenz (ex ufficiale borbonico, n.d.r.) e Medici”. 11 19 aprile 1864, sempre a Engels: “L’Associazione operaia voleva, istigata da Weber, che io facessi un indirizzo a Garibaldi e poi mi recassi da lui con la deputazione. Rifiutai decisamente”. E continuava: “Che miserabile questo Garibaldi, intendo dire tipo di somaro...”. Per concludere: “Vorrei essere piuttosto una zecca nel vello di una pecora che una tal valorosa scioccheria...”. Engels rispondeva il 29, a proposito di Garibaldi: “…Sono cose che è inutile spiegare a chi non conosce il carattere totalmente borghese di questo signore”.
Tre settimane prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, il loro giudizio su Garibaldi si era fatto sprezzante: “Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo con la lettera sulla concordia ai Yankees!”. L’allusione è a una lettera con cui Garibaldi rifiutava la proposta del presidente americano Lincoln di assumere un posto di comando nell’esercito nordista, all’inizio della guerra civile negli Stati Uniti.
Garibaldi ne condivideva i timori, che sotto la pressione militare da parte di Cavour avrebbe redatto e anche pubblicato, il 5 ottobre, un manifesto di critica dell’annessione (di sicuro, il 9 ottobre decretava il plebiscito): “Spieghiamoci chiaramente, noi abbiamo bisogno di un’Italia unita, e di vedere tutte le sue parti aggruppate in una sola nazione, senza restar traccia di municipalismo. Noi non possiamo consentire che mediante parziali, e successive, annessioni l’Italia sia a poco a poco inviluppata nel municipalismo legislativo ed amministrativo del Piemonte. Che il Piemonte diventi adunque italiano, come han fatto Sicilia e Napoli, ma che l’Italia non divenga piemontese. Vogliamo noi stessi riunirci alle altre parti d’Italia, che si uniranno parimenti a noi con uguaglianza e dignità. Non debbono adunque imporci le leggi e i codici, che sono ora specialmente propri del Piemonte. Le popolazioni che col sangue han fatto trionfare un’idea non sono simili a’ paesi conquistati, ed hanno il diritto a crearsi i loro codici e le loro leggi…Così pensa, e deve pensare per la salute d’Italia chiunque è italiano».
 
Cronache della differenza: Sicilia
Nel racconto “Il lungo viaggio” (della raccolta “Il mare colore del vino”) Sciascia vede Messina, dalla traghetto, “alla luce del primo mattino…sfolgorante del primo sole…candida, nitida”. Oggi non si vede: la vecchia città attorno al porto naturale, a forma di falce (Zancle, l’antico nome della città), è abbandonata, i messinesi si sono rifatti casa, anche su molti piani (più è alta meglio si vede lo Stretto), incuranti della sismicità, sui costoni verso Ganzirri-Capo Faro.
 
La distinzione di Camilleri, fra i “siciliani di scoglio” e i “siciliani di mare aperto”, è usata da un’attrice che partecipa al documentario “Camilleri 100” come riferita ai catanesi e ai palermitani. Questi sarebbero propensi all’avventura, anche in terraferma, purché lontani da Palermo. Mentre i catanesi, come lei si dice con orgoglio, sono “attaccati allo scoglio”. Comer dire i volubili e i costruttivi. Può darsi. Ma allora con i catanesi “attaccati allo scoglio” pur professando lontano: Bellini, Capuana, Verga, De Roberto, Brancati. Mentre i palermitani, che poi sono il solitario Lampedusa, pur volendosi sradicati, professavano a Palermo.
Ma la verità è che la Sicilia è puntiforme, rigogliosa ovunque. Ad Agrigento Pirandello e Camilleri, a Caltanissetta Sciascia,  a Messina D’Arrigo, Terranova, Gazzola, a Siracusa Vittorini, a Comiso Bufalino.
 
Tanto fiele del pur notorio antipatizzante Stella, il meridionalista del “Corriere della sera” che non viaggia ma scrive (in genere una pagina) di dettagli, “cose viste”, a naso, merita una rivisitazione:
https://www.corriere.it/cronache/25_agosto_03/agrigento-il-grande-spreco-pubblico-della-capitale-della-cultura-12-milioni-e-pochi-turisti-2c4db725-f52f-402d-80a0-9e0186d4cxlk.shtml
Ha stringer locali, collaboratori volenterosi con l’offa di un’assunzione? O è perché Agrigento ha fatto la guida all’anno della cultura, greve di molta pubblicità, con “la Repubblica” invece che con il 
“Corriere della sera”? Bisogna pensarle tutte, tanto disprezzo deve avere un motivo.

 
Stella è da leggere, irraccontabile tanto è squallido. Di protervia leghista - il lessico lo è. Ma alimentata da informatori locali. Il “tragediatore” è figura ben sicula. Accoppiato all’“odio-di-sé”, ma non necessariamente. Oggi “de sinistra”, ma solo felice che uno del Nord lo stia a sentire, e anzi lo trascriva, seppure non citandolo.
 
Il centenario di Camilleri si celebra non a Porto Empedocle, e nemmeno ad Agrigento: si celebra sull’Amiata, dove Camilleri villeggiava, tra Arcidosso e Santa Fiora. Ad Arcidosso Camilleri è andato per qualche estate con alcuni familiari. Ma l’Amiata sé è affrettato a farne un luogo del cuore.
 

“Si facevano mostre di Antonello a Messina, nel 1953”, scopre Arbasino, insieme con tutta l’isola, nel 1995. E giusto per la memoria di Berenson, delle note di viaggio che Berenson ne scrisse nello stesso anno, dopo una sorta di “pellegrinaggio d’argento”, in ricordo della prima visita mezzo secolo prima. “E pensare che Berenson venne qui per una mostra di Antonello”, si meraviglia l’Anonimo Lombardo. Vero, e le mattine dei feriali alla mostra ci andavano le scuole.
 
Si faceva anche collezionismo nell’isola. Arbasino lo ricorda incidentalmente, in mezza riga. Ma Ruffo della Scaletta nel Seicento figurava il maggiore collezionista in Europa, da Messina, dove si era sposato (di famiglia era calabrese) e risiedeva. Committente tra i tanti di Rembrandt e di Artemisia Gentileschi - di cui fu “protettore” (finanziatore) in vecchiaia. Ad Arbasino è sfuggito che il suo idolo Robero Longhi ne aveva già fatto repertorio ed elogio in uno dei suoi primi lavori.
 
Scoprendo la Sicilia nel 1995, ai suoi, di Arbasino, 65 anni, a proposito del paesaggio, se quelli di Antonello sono veri, come potevano essere veri quelli dei coevi toscani, lo scrittore che fu grande viaggiatore fa anche una constatazione: “Oggi infatti il paesaggio siciliano è quasi illeggibile ricoperto da impalcature e cantieri, baracche e bancarelle, macchine e motorini che si affollano in posti stretti, e immondizie che rivestono i panortami e la natura e le coste”. Che probabilmente è, o era, vero. Ma è strano come la Sicilia richiama la vocazione didattica, soprattutto dei diffidenti, o degli antipatizanti.
 
“Come si mangia bene in tutti i ristoranti di Ortigia” è l’unico commento positivo di Arbasino nell’isola. Non è niente ed è molto: Siracusa emergeva da una lunga stagione di inabissamento, muta, polverosa. A svegliarla, partendo da Ortigia, dai restauri pubblici e privati, era bastato l’assessorato, per quanto breve,  di Sandro Musco, intelligente ed efficace, come tutto di questo professore dimenticato – il più costruttivo power broker che l’isola abbia avuto (“nato” con Nicolosi e poi sopravvissuto – all’inevitabile assassinio giudiziario).

leuzzi@antiit.eu

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