A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (606)
Giuseppe Leuzzi
Il tropico di “Temptation
Island”, che questa estate ha sbancato l’auditel, tra palme, spiagge, glutei, e atre asperità, bene abbronzate, innamoramenti
e disamoramenti, insomma “una favola”, del paradiso terrestre e del tentatore,
si scopre essere stata ambientata a Guardavalle Marina. Una marina senza
pretese sullo Jonio. Anzi anonima, per essere in Calabria: senza mafie, senza
giudici, magari con la dignità, ma senza reddito apposito.
Il “Corriere della
sera” presenta la sua manifestazione annuale “Il tempo delle donne” con uno
speciale. Una cinquantina di articoli, di donne – solo sei di maschi, quattro
giornalisti, su temi marginali, uno psicologo, l’allenatore della nazionale
femminile di calcio. E una sensazione di soffocamento, mai avendo vissuto, in
nessuna situazione, nemmeno nel “profondo Sud”, anzi specialmente non nel Sud
profondo, una tale separatezza di genere. È una tendenza, una moda, ma da
incubo.
Si discute sempre del ruolo di Cavour nella spedizione dei Mille, e poi
nell’annessione. Ma la cosa vedeva da un giusto pinto di vista, come nella lettera
del 28 luglio 1860 all’amm. Persano, con
la quela “autorizzava” lo sbarco di
Garibadi nel continente: “Son lieto della vittoria di Milazzo...Io la prego di
porgere le mie sincere e calde congratulazioni al generale Garibaldi. Dopo si
splendida vittoria, io non veggo come gli si potrebbe impedire di passare sul
continente. Sarebbe stato meglio che i napoletani compissero, o almeno
iniziassero, l’opera rigeneratrice; ma poiché non vogliono o non possono
muoversi, si lasci fare i Garibaldi”.
Aggirandosi trent’anni fa tra le “meraviglie” della Sicilia,
Arbasino è turbato a Palermo dalla pochezza del tesoro dei re e le regine
normanne. E si fa queste due ragioni: “Anche allora saranno stati incapaci di
sorridere, in preda alle ansie, guardandosi tetri e truci intorno e alle
spalle, in Comune e in Regione)? (E con ragione…). O sarà stata importata su
una popolazione pazzerellona e giocosa, da certi Arabi Normanni particolarmente
dark, questa angoscia luttuosa mai
riscontrata al Cairo o a Deauville?” La “narrazione” di sé che il Sud si è lasciato
imporre è la sua seconda pelle ormai – e lo ha reso pure antipatico.
“Quell’asino
di Garibaldi”
Engels, ripetutamente
sollecitato da Marx, aveva celebrato i Mille sul “New York-Daily Tribune” del
22 giugno 1860 – con un lungo articolo, scritto presuntivamente due settimane
prima: ,
Dopo
una serie di informazioni, le più contraddittorie, riceviamo infine qualche
notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di Garibaldi da
Marsala a Palermo. È, indubbiamente, una delle imprese militari più
straordinarie del secolo, e sarebbe quasi inspiegabile se non fosse per il
prestigio che precede la marcia di un trionfante generale rivoluzionario. Il
successo di Garibaldi dimostra che le truppe regie di Napoli sono ancora
terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione
italiana di fronte ai battaglioni francesi, napoletani, e austriaci, e che la
popolazione siciliana non ha perso la fede in lui, o nella causa nazionale.
Il
6 maggio, due battelli lasciano la costa di Genova con circa 1.400 uomini
armati, organizzati in sette compagnie, ognuna delle quali, evidentemente,
destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi fra gli
insorti. L’8 sbarcano a Talamone, sulla costa toscana, e persuadono il
comandante del forte là situato, con chissà quali argomenti, a fornire loro
carbone, munizioni, e quattro pezzi di artiglieria da campo.
Il
10 entrano nel porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e
sbarcano con tutto il loro materiale, nonostante l’arrivo di due navi da guerra
napoletane, che non sono in grado al momento giusto di fermarli; la storia
dell’interferenza britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa, ed
è ora abbandonata anche dagli stessi napoletani. Il 12, la piccola banda aveva
avanzato su Salemi, a diciotto miglia di distanza nell’entroterra, sulla strada
di Palermo. Sembra che i capi del partito rivoluzionario abbiano incontrato
Garibaldi, si siano consultati con lui, e abbiano raccolto rinforzi tra gli
insorti, circa 4.000 uomini; mentre questi venivano organizzati,
l’insurrezione, repressa ma non domata poche settimane prima, si rinfocolò di
nuovo su tutte le montagne della Sicilia occidentale, e come fu dimostrato il
16, non senza effetto.
Il
15, Garibaldi con i suoi 1.400 volontari organizzati e i 4.000 contadini
armati, avanza verso nord attraverso le colline, verso Calatafimi, dove la
strada di campagna da Marsala si congiunge con la strada maestra che va da
Trapani a Marsala. Le gole che conducono a Calatafimi, attraverso un
contrafforte dell’alto monte Cerrara, chiamato monte del Pianto dei Romani,
erano difese da tre battaglioni di truppe regie, con cavalleria e artiglieria,
sotto il comando del gen. Landi. Garibaldi attaccò subito questa posizione, che
in un primo tempo fu ostinatamente difesa; ma sebbene in questo attacco non
avesse potuto impiegare contro i 3.000 o 3.500 napoletani niente più che i suoi
volontari e una parte molto piccola di insorti siciliani, i regi furono
successivamente scacciati da cinque forti posizioni, con la perdita di un
cannone da montagna e numerosi morti e feriti. Le perdite dei garibaldini sono
stimate da loro stessi in 18 morti e 128 feriti.
I
napoletani dichiarano di aver conquistato una delle bandiere di Garibaldi in
questo scontro, ma, avendo trovato essi una bandiera dimenticata a bordo di uno
dei battelli abbandonati a Marsala, è possibile che abbiano esibito questa
stessa bandiera a Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro
sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li costrinse ad abbandonare quella città
la sera stessa. La lasciarono solo il mattino seguente, e dopo sembra che non
abbiano opposto ulteriore resistenza a Garibaldi, finché non raggiunsero
Palermo. La raggiunsero effettivamente, ma in un terribile stato di
disgregazione e disordine.
La
certezza di aver dovuto soccombere di fronte a semplici “filibustieri e ad una
feccia armata” ricordava loro tutto d’un colpo la terribile immagine di quel
Garibaldi, che, mentre difendeva Roma contro i francesi, poteva trovare ancora
il tempo di marciare su Velletri e di far fare dietro front all’avanguardia
dell’intero esercito napoletano; di colui che in seguito aveva conquistato
sulle pendici delle Alpi guerrieri di una tempra di gran lunga superiore a
quelli che produce Napoli. La precipitosa ritirata, senza neanche dar mostra di
voler resistere ancora, deve aver ulteriormente accresciuto il loro
scoraggiamento e la tendenza alla diserzione che già esisteva nei loro ranghi;
e quando all’improvviso essi si trovarono circondati e bersagliati da quell’insurrezione
che era stata preparata nell’incontro a Salemi, la loro compattezza fu
completamente travolta; della brigata di Landi, rientrò a Palermo niente più
che una calca disordinata e scoraggiata, in numero grandemente ridotto, in
piccole bande successive.
Garibaldi
entrò a Calatafimi il giorno in cui Landi ne uscì – il 16; il 17 marciò su
Alcamo (10 miglia); il 18 su Partinico (10 miglia) e oltrepassato questo luogo
puntò su Palermo. Il 19, acquazzoni torrenziali impedirono alle truppe di
avanzare.
Nel
frattempo, Garibaldi aveva appurato che i napoletani stavano scavando trincee
intorno a Palermo, e rinforzando i vecchi, cadenti bastioni della città dalla
parte che si affaccia su Partinico. Essi potevano contare ancora su 22.000
uomini, e così rimanevano di gran lunga superiori a tutte le forze che egli
avrebbe potuto opporre loro. Ma erano scoraggiati; la loro disciplina
allentata; molti di loro cominciavano a pensare di passare alle fila degli
insorti; mentre era risaputo, sia tra i loro soldati che tra i nemici, che i
loro generali erano degli imbecilli.
Le
sole truppe degne di affidamento tra loro erano i due battaglioni stranieri.
Stando così le cose, Garibaldi non avrebbe potuto rischiare un attacco frontale
diretto sulla città, mentre i napoletani non potevano intraprendere niente di
decisivo contro di lui, ammesso che le loro truppe ne fossero in grado, dato
che essi devono sempre lasciare una forte guarnigione in città e non
allontanarsi mai troppo da essa. Con un generale di stampo comune al posto di
Garibaldi, questo stato di cose avrebbe condotto a una serie di azioni
sconnesse e non risolutive, in cui egli avrebbe potuto addestrare una parte
delle sue reclute nell’arte militare, ma in cui anche le truppe regie avrebbero
potuto recuperare molto in fretta buona parte della perduta fiducia e disciplina,
poiché non avrebbero potuto non riportare qualche successo in alcune di queste
azioni.
Ma
una guerra di questo tipo non sarebbe convenuta né ad un’insurrezione, né a un
Garibaldi. Un’audace offensiva era l’unico sistema di tattica permesso in una
rivoluzione; un successo straordinario, come quello della liberazione di
Palermo, divenne una necessità non appena gli insorti furono giunti in vista
della città.
Ma
come attuare tutto ciò? Fu qui che Garibaldi dimostrò brillantemente di essere
un generale adatto non solo alla semplice guerra partigiana, ma anche a
operazioni più importanti.
Il
20 e i giorni successivi, Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani e le
posizioni nelle vicinanze di Monreale e Parco, sulla strada che porta a Palermo
da Trapani e Corleone, facendo credere così al nemico che il suo attacco si
sarebbe attuato soprattutto contro il lato sud-ovest della città, e che qui
fosse concentrata la parte più consistente delle sue forze. Con un’abile
combinazione di attacchi e finte ritirate, indusse il generale napoletano a far
uscire un numero sempre più grande di truppe dalla città in questa direzione,
finché il 24 circa 10.000 napoletani apparvero fuori dalla città, verso Parco.
Era
quello che Garibaldi voleva. Egli li impegnò subito con una parte delle sue
forze, indietreggiò lentamente davanti a loro in modo da spingerli sempre più
lontano fuori dalla città, e quando li ebbe attirati a Piana(1), al di là della
principale catena di colline che taglia la Sicilia e qui divide la Conca d’oro
(così è chiamata la valle di Palermo) dalla valle di Corleone, egli gettò
improvvisamente il grosso delle sue truppe sull’altra parte della stessa
catena, nella valle di Misilmeri, che si apre sul mare, vicino a Palermo.
Il
25 egli fissò il quartier generale a Misilmeri, a otto miglia dalla capitale.
Non siamo informati su ciò che fece dopo con i suoi 10.000 uomini disseminati
lungo la sola strada dissestata che c’è sulle montagne, ma possiamo esser certi
che egli li tenne ben occupati con alcune nuove indiscusse vittorie, in modo da
impedire che ritornassero troppo presto a Palermo.
Avendo
così ridotto i difensori della città quasi della metà, e trasferito la sua
linea d’attacco dalla strada di Trapani alla strada di Catania, egli poteva
procedere al grande attacco. Se l’insurrezione in città abbia preceduto
l’assalto di Garibaldi, o se sia divampata al suo presentarsi alle porte della
città, non risulta chiaro dai dispacci contraddittori; ma certo è che la
mattina del 27, tutta Palermo insorse armata e Garibaldi si scagliò su Porta
Termini, al lato sud-est della città, dove nessun napoletano lo attendeva. Il
resto si sa: il graduale abbandono della città da parte delle truppe, ad
eccezione delle batterie, della cittadella e del palazzo reale; i bombardamenti
che seguirono, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora particolari dettagliati
di tutte queste azioni; ma i fatti principali sono sufficientemente definiti.
Nel
frattempo, dobbiamo dire che le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco su
Palermo lo definiscono subito un generale di prim’ordine. Finora noi lo
conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato;
anche nell’assedio di Roma il suo modo di difendere la città con continue
sortite difficilmente gli poteva dare l’occasione di sollevarsi sopra quel
livello. Ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da
questa prova da maestro provetto nella sua arte. Il modo di indurre il
comandante napoletano nell’errore di mandare metà delle truppe fuori tiro,
l’improvvisa marcia laterale e per riapparire davanti a Palermo, dalla parte
dove era meno atteso, e l’energico attacco quando la guarnigione era
indebolita, sono operazioni che portano il marchio del genio militare più di
qualsiasi altro avvenimento verificatosi durante la guerra italiana del 1859.
L’insurrezione
siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che il Garibaldi
uomo politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta
la gloria del generale”.
Garibaldi
dunque “un generale di prim’ordine”, che si merita “intatta la gloria”. Ma
presto, poche settimane o giorni, Garibaldi perse la stima di Marx e di Engels,
per essersi piegato al Piemonte. La corrispondenza è piena di giudizi
spregiativi. L'entusiasmo era sbollito presto: dal 5 ottobre al 27 febbraio 1861
nessun accenno agli avvenimenti “napoletani” nella corrispondenza fra i due. Il
27 febbraio 1861 un primo giudizio negativo su Garibaldi. Scrivendo a Engels a
proposito di Appiano, lo storico romano di Alessandria, della sua “Storia
romana”, Marx scrive a Engels: “Spartaco vi figura come il tipo più in gamba
che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale,
non un Garibaldi, carattere nobile, realmente rappresentante dell’antico
proletariato”. Il 10 giugno, sempre a Engels, Marx scriveva sprezzante: “Cavour
è morto? Che ne pensi? Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo...”. Il 28
settembre si ricredeva anche sulle capacità militari di Garibaldi: “Oswald dice
che Garibaldi è essenzialmente un capo di guerriglia, che con un grande
esercito e su un vasto territorio non saprebbe cavarsela. I suoi consiglieri
strategici sono Cosenz (ex ufficiale borbonico, n.d.r.) e Medici”. 11 19 aprile
1864, sempre a Engels: “L’Associazione operaia voleva, istigata da Weber, che
io facessi un indirizzo a Garibaldi e poi mi recassi da lui con la deputazione.
Rifiutai decisamente”. E continuava: “Che miserabile questo Garibaldi, intendo
dire tipo di somaro...”. Per concludere: “Vorrei essere piuttosto una zecca nel
vello di una pecora che una tal valorosa scioccheria...”. Engels rispondeva il
29, a proposito di Garibaldi: “…Sono cose che è inutile spiegare a chi non
conosce il carattere totalmente borghese di questo signore”.
Tre
settimane prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, il loro giudizio su
Garibaldi si era fatto sprezzante: “Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo
con la lettera sulla concordia ai Yankees!”. L’allusione è a una lettera con
cui Garibaldi rifiutava la proposta del presidente americano Lincoln di
assumere un posto di comando nell’esercito nordista, all’inizio della guerra
civile negli Stati Uniti.
Garibaldi
ne condivideva i timori, che sotto la pressione militare da parte di Cavour avrebbe
redatto e anche pubblicato, il 5 ottobre, un manifesto di critica dell’annessione
(di sicuro, il 9 ottobre decretava il plebiscito): “Spieghiamoci chiaramente, noi abbiamo bisogno di un’Italia unita, e di vedere tutte le sue parti
aggruppate in una sola nazione, senza restar traccia di municipalismo. Noi non
possiamo consentire che mediante parziali, e successive, annessioni l’Italia
sia a poco a poco inviluppata nel municipalismo legislativo ed amministrativo
del Piemonte. Che il Piemonte diventi adunque italiano, come han fatto Sicilia
e Napoli, ma che l’Italia non divenga piemontese. Vogliamo noi stessi riunirci
alle altre parti d’Italia, che si uniranno parimenti a noi con uguaglianza e
dignità. Non debbono adunque imporci le leggi e i codici, che sono ora
specialmente propri del Piemonte. Le popolazioni che col sangue han fatto
trionfare un’idea non sono simili a’ paesi conquistati, ed hanno il
diritto a crearsi i loro codici e le loro leggi…Così pensa, e deve pensare per
la salute d’Italia chiunque è italiano».
Cronache della differenza: Sicilia
Nel racconto “Il lungo viaggio” (della raccolta “Il mare
colore del vino”) Sciascia vede Messina, dalla traghetto, “alla luce del primo mattino…sfolgorante
del primo sole…candida, nitida”. Oggi non si vede: la vecchia città attorno al
porto naturale, a forma di falce (Zancle, l’antico nome della città), è abbandonata,
i messinesi si sono rifatti casa, anche su molti piani (più è alta meglio si
vede lo Stretto), incuranti della sismicità, sui costoni verso Ganzirri-Capo
Faro.
La distinzione di Camilleri, fra i “siciliani di
scoglio” e i “siciliani di mare aperto”, è usata da un’attrice che partecipa al
documentario “Camilleri 100” come riferita ai catanesi e ai palermitani. Questi
sarebbero propensi all’avventura, anche in terraferma, purché lontani da Palermo.
Mentre i catanesi, come lei si dice con orgoglio, sono “attaccati allo scoglio”.
Comer dire i volubili e i costruttivi. Può darsi. Ma allora con i catanesi “attaccati
allo scoglio” pur professando lontano: Bellini, Capuana, Verga, De Roberto,
Brancati. Mentre i palermitani, che poi sono il solitario Lampedusa, pur
volendosi sradicati, professavano a Palermo.
Ma la verità è che la Sicilia è puntiforme, rigogliosa
ovunque. Ad Agrigento Pirandello e Camilleri, a Caltanissetta Sciascia, a Messina D’Arrigo, Terranova, Gazzola, a Siracusa
Vittorini, a Comiso Bufalino.
Tanto fiele del pur notorio antipatizzante Stella, il
meridionalista del “Corriere della sera” che non viaggia ma scrive (in genere
una pagina) di dettagli, “cose viste”, a naso, merita una rivisitazione:
https://www.corriere.it/cronache/25_agosto_03/agrigento-il-grande-spreco-pubblico-della-capitale-della-cultura-12-milioni-e-pochi-turisti-2c4db725-f52f-402d-80a0-9e0186d4cxlk.shtml
Ha stringer
locali, collaboratori volenterosi con l’offa di un’assunzione? O è perché
Agrigento ha fatto la guida all’anno della cultura, greve di molta pubblicità,
con “la Repubblica” invece che con il “Corriere della sera”? Bisogna pensarle tutte, tanto disprezzo deve avere un motivo.
Stella è da leggere, irraccontabile tanto è squallido.
Di protervia leghista - il lessico lo è. Ma alimentata da informatori locali.
Il “tragediatore” è figura ben sicula. Accoppiato all’“odio-di-sé”, ma non
necessariamente. Oggi “de sinistra”, ma solo felice che uno del Nord lo stia a
sentire, e anzi lo trascriva, seppure non citandolo.
Il centenario di Camilleri si
celebra non a Porto Empedocle, e nemmeno ad Agrigento: si celebra sull’Amiata,
dove Camilleri villeggiava, tra Arcidosso e Santa Fiora. Ad Arcidosso Camilleri
è andato per qualche estate con alcuni familiari. Ma l’Amiata sé è affrettato a farne
un luogo del cuore.
“Si facevano mostre di
Antonello a Messina, nel 1953”, scopre Arbasino, insieme con tutta l’isola, nel
1995. E giusto per la memoria di Berenson, delle note di viaggio che Berenson
ne scrisse nello stesso anno, dopo una sorta di “pellegrinaggio d’argento”, in
ricordo della prima visita mezzo secolo prima. “E pensare che Berenson venne qui
per una mostra di Antonello”, si meraviglia l’Anonimo Lombardo. Vero, e le
mattine dei feriali alla mostra ci andavano le scuole.
Si faceva anche collezionismo
nell’isola. Arbasino lo ricorda incidentalmente, in mezza riga. Ma Ruffo della
Scaletta nel Seicento figurava il maggiore collezionista in Europa, da Messina,
dove si era sposato (di famiglia era calabrese) e risiedeva. Committente tra i
tanti di Rembrandt e di Artemisia Gentileschi - di cui fu “protettore”
(finanziatore) in vecchiaia. Ad Arbasino è sfuggito che il suo idolo Robero
Longhi ne aveva già fatto repertorio ed elogio in uno dei suoi primi lavori.
Scoprendo la Sicilia nel 1995,
ai suoi, di Arbasino, 65 anni, a proposito del paesaggio, se quelli di Antonello
sono veri, come potevano essere veri quelli dei coevi toscani, lo scrittore che
fu grande viaggiatore fa anche una constatazione: “Oggi infatti il paesaggio
siciliano è quasi illeggibile ricoperto da impalcature e cantieri, baracche e
bancarelle, macchine e motorini che si affollano in posti stretti, e immondizie
che rivestono i panortami e la natura e le coste”. Che probabilmente è, o era,
vero. Ma è strano come la Sicilia richiama la vocazione didattica, soprattutto
dei diffidenti, o degli antipatizanti.
“Come si mangia bene in tutti i ristoranti di Ortigia”
è l’unico commento positivo di Arbasino nell’isola. Non è niente ed è molto:
Siracusa emergeva da una lunga stagione di inabissamento, muta, polverosa. A svegliarla,
partendo da Ortigia, dai restauri pubblici e privati, era bastato l’assessorato,
per quanto breve, di Sandro Musco,
intelligente ed efficace, come tutto di questo professore dimenticato – il più costruttivo
power broker che l’isola abbia avuto (“nato” con Nicolosi e poi
sopravvissuto – all’inevitabile assassinio giudiziario).
leuzzi@antiit.eu
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