Industrie in fuga dalla Germania
Torna la delocalizzazione industriale in
Germania. Come a inizio millennio, quando il governo socialista dovette liberalizzare
il mercato del lavoro, con la riforma Hartz. Ma non nella stessa direzione. Allora
si delocalizzava all’Est, a costo minore di manodopera. Oggi la manodopera
non sarebbe un problema, per l’immissione massiccia di immigrati – a parità di mansioni,
si stima che un immigrato costi mediamente il 70 per cento di un tedesco. I
problemi sarebbero quello non nuovo della burocrazia, e quello nuovo del costo
dell’energia. L’industria tedesca si era adagiata su un costo dell’energia ridotto,
grazie agli accordi con la Russia – si era giunti per questo anche all’arresto
anticipato delle centrali nucleari – ora bloccati.
La delocalizzazione non è accentuata, le
riduzioni o chiusure sono limitate. Ma produzione e investimenti registrano valori
negativi da due d’anni, e gli investimenti in cantiere non sono previsti in
Germania. La tendenza sarebbe verso altri siti europei, la Cina, e gli Stati Uniti
di Trump.
Pone problemi anche il lavoro immigrato.
Il deficit remunerativo è coperto dallo
Stato, con un’offerta a costi ridotti o a titolo gratuito per alloggio e sanità.
Un trattamento giudicato un privilegio da porzioni vaste dell’elettorato – gli elettori
dell’estrema destra Afd, divenuta rapidamente il partito a maggior seguito.
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