Fenomeno Trump
Trump non è naturalmente il buffone
che finge di essere. Finge, anzi, in una
strategia di comunicazione precisa, si direbbe studiata alle virgole, evidente
nella profluvie di ex tweet che lancia ogni giorno, e nei dialoghi quotidiani
con i giornalisti, a ogni uscita dalla Casa Bianca e al “caminetto”. Per “fare
notizia”, ogni giorno, con linguaggio diretto. Modellato, si dice con disprezzo,
sui Maga, i coatti celoduristi, che invece non lo capiscono – lo seguono ma non
lo capiscono (non capiscono nulla). Noiì, sui social.
Una strategia complessa, frutto evidentemente
di un’organizzazione anch’essa complessa, a partire dalla finta ingenua che gli
fa da portavoce. Che comprende il finto pagliaccio: esagerazioni, minacce, ingenuità,
buffonerie. Evidente nel format: subito
il radicalismo, la botta. E sempre con uscite studiate: frasi fintamente dal
sen fuggite e invece calibrate, negli aggettivi, i toni, le pause, e il
significato dietro il colore.
Non una novità, fu la strategia di Reagan
– altro parvenu, che i media mainstream dovevano
irridere. Reagan non aveva (costose) guerre aperte, ma sull’economia fece
presto e bene quello che Trump prova, chiudendo la sua offensiva in pochi mesi alle
sue condizioni con l’Accordo del Plaza, dazi e contingenti, e svalutazione del
dollaro – allora il “nemico” era il Giappone e non la Cina, con l’Europa sempre
nel mezzo.
Del tutto nuovo è la strategia di
comunicazione. Il berrettino sul vestito sempre perfetto, di sartoria, con una
grande varietà di cravatte tinta unita – serie ma colorate. E la disponibilità
a ogni domanda in ogni occasione. Con risposte sintetiche, se possibile trasgressive.
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