Che farsene dell’Iran, ferito a morte
Un film politico, con sfumature
horror: cosa farsene di un boia e spia di regime a Teheran?
Un gruppo di compagni di lotta
contro la dittatura religiosa, ritrovandosi casualmente l’uno dopo l’altro
insieme a gestire il destino della spia-boia discute a lungo e animatamente che
cosa farsene. Nel mentre aiuta la moglie del nemico a partorire e si prende cura
amorevole della figlioletta rimasta sola.
Ragioni e torto sono ben
delineati, e forse per questo il film è stato premiato a Cannes. Anche, forse,
in considerazione che il carcere, con annesse minacce di torture e impiccagione,
è stato sofferto a lungo da Panahi – ora esule, il film è stato prodotto e girato
in Europa. Ma il dramma non decolla: stiracchiato, lascia freddi.
Un merito il film ha, forse
involontario, ma di senso politico. Rappresenta, senza dirla, la ragione vera
della resistenza del regime degli ayatollah in Iran, inviso dopo 45 e più anni
praticamente a tutti: la parte religiosa del Paese, la più numerosa, è comunque
legata al regime, anche nei suoi aspetti brutti, denunce e prevaricazioni (un
regime di polizia stretto, carcere senza giudizio e migliaia di condanne a
morte ogni anno, assortite da torture – molto diffusa quella psicologica, della
forca in cortile), a tale punto che un cambio di regime spaventa. Molti buoni credenti,
specialmente quelli dei ceti produttivi, conoscendo il Paese, se ne
sbarazzerebbe, gli ayatollah non hanno fatto buona prova, per nessun aspetto,
né sociale né politico – il paese, estremamente civile, è isolato e impoverito.
E, peggio, si sente imbarbarito. Ma, poi. i più si trattengono, hanno paura del
dopo, della deislamizzazione.
Nelle lunghe discussioni su
che farsene, tra i giovani resistenti al regime, del nemico che hanno in trappola
questo è il senso. Ma neanche questo è detto, il film si vuole di denuncia. Arrabbiata. Un altro caso di film molto elogiato ma forse non visto.
Jafar Panahi, Un semplice
incidente
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