venerdì 25 luglio 2025

Il mondo com'è (485)

astolfo


Gertrude Bell - Benché protetta dalla fortuna familiare, di grandi industriali metallurgici, Gertrude fece tutto da sola: laureata a Oxford nel 1888, a vent’anni, viaggiatrice un paio di volte in giro per il mondo, poi in Persia e nel deserto, siriano e arabico, con carovane da lei organizzate e gestite – “Gli scritti della regina del deserto” è il sottotitolo di “A Woman in Arabia”-, scalatrice dei quattromila delle Alpi, compreso il Cervino, o allora di vie non praticate, sette cime vergini in due settimane, con alcune “prime” ancora negli annali, scrittrice, archeologa, fotografa, la migliore arabista della sua epoca, innamorata infelice almeno un paio di volte, specialmente la seconda, poco meno che cinquantenne, femminista anti-femminista, infine letteralmente creatrice dell’Iraq, dalla politica tribale all’archeologia, fondatrice e curatrice del museo di Baghdad (quello dal quale 15 mila pezzi saranno rubati nel 2003), prima di morire nel 1926.
Qualche volta depressa, ma sempre combattiva. Minuta, 1,64, e femminile, occhi verdi, capelli ramati, curata anche nel Quarto Vuoto, ma agile, attenta, studiosa, una forte mente politica in un mondo tutto maschile, non solo quello arabo – dagli arabi anzi per questo ammirata, e sempre onorata. Al culmine dell’età degli esploratori, barbuti e incontestabili, una donna. Intraprendente e informata, più che presuntiva – combattiva ma intelligente.
“L’Oriente guarda se stesso: non sa nulla del mondo esterno di cui sei cittadino, non ti chiede niente di te e della tua civiltà”. Questa sua osservazione, nei “Ritratti peprsiani”, valeva allora, 1894, forse meno di quanto valga ora. Anche perché Oriente e Occidente, anatomizzati, sono concetti storici, poco congruenti e anche poco consistenti. Ma Bell operava nel 1894, a 26 anni, il primo racconto contemporaneo del (Medio, o Vicino) Oriente. Racconto ferace, battistrada di Robert Byron, Vita Sackville-West, Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton naturalmente. Ai capitoli sui nomadi, la civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di infelicità, di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le torri del Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i giardini segreti. In un Oriente “segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui più non si può più dire dopo Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un palestinese, cioè un arabo “occidentale”, anche nella critica dell’etnocentrismo, molto cristianizzato, dal diritto di famiglia alla logica).
Questo primo racconto, della Persia a cavallo, in lunghe giornate, anche in lunghe cavalcate serali “attraverso il secondo cerchio dell’Inferno e la «bufera infernal, che mai non resta», cioè con Dante, è peraltro ancora “attuale”, si legge con profitto . Ci sono già perfino “le bottiglie vuote e le carte oleate” dei “filistei in gita” lasciate a insudiciare “la purezza della brughiera purpurea”. E per finire alcuni tocchi su “Costantinopoli”, su Bursa - “Prusia”, sopra la quale Bell pone l’Olimpo, da cui vede “gli speroni del meraviglioso monte Ida, e nelle giornate più limpide la piana di Troia” - e sul mar Nero, mare greco, che rivede meraviglioso con Strabone, malgrado lo stato di abbandono, e gli infiniti soprusi in navigazione a carico dei turchi, poveri e ricchi, e le loro famiglie.  
Una opera prima duratura della prima donna laureata a Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. La prima funzionaria militare britannica. Per di più nel settore intelligence, ingaggiata dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito addetta all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la resistenza contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali.
Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini. Ma informata e informatrice, tuttora sulla Persia, che invece esisteva, da tempo immemorabile, e lei riesce a capirne le venature profonde. Il suo, il primo libro moderno (contemporaneo) sull’Iran, è rimasto un repertorio di molti successivi anche per la parte politica, specie l’inconsistenza del potere imperiale. Se non nelle forme di accettazione rituali – si è devoti allo scià come si lacrima per Husseyn a metà del mese di Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera. Vero anche nei particolari. 
Teheran è la stessa anche oggi che non è più un villaggio semidesertico e semivuoto di fanghi seccati e giardini segreti, ma una metropoli brulicante – scentrata e informe. E l’Iran un paese di cui il deserto e la distanza – silenzi, isolamento – fanno il carattere: “Immaginate su ogni lato un paesaggio simile a quello del mondo dei morti che, nudo e deserto, turbina nell’interspazio stellare: una pianura grigia e monotona su cui si sollevano e cadono nuvole di polvere, che poi formano possenti colonne e crollano di nuovo tra le pietre all’ordine di venti caldi e forsennati; piante basse e pungenti, l’unica forma di vegetazione,  prive di foglie e ricoperte solo di spine; macchie bianche di sale su cui brillano i raggi del sole; un orlo di sterili montagne all’orizzonte…”. Un mondo muto. Che si rivela “nei suoi giardini”, inattesi, fascinosi – l’“Oriente” è il Medio o Vicino Oriente, Nord Africa compreso, da Suez fino a Nuakshott: “Poca acqua, e il deserto fiorisce”.
La notte più difficile, stesi per terra, in casa di un Hadgi Mohammed sconosciuto, si rivela al ricordo uno dei tanti “piaceri semplici, così familiari in una terra così remota! Non nei grandi palazzi, non nelle grandi città avevamo percepito il legame di umanità che unisce Oriente e Occidente, ma in quel lontano villaggio sul ciglio della strada, sul pavimento del domestico dello Scià, rivendicando la nostra fratellanza con i lavoratori di un suolo straniero. Per una notte anche noi prendemmo parte alle loro vite”.
Già da giovane senza indulgenza per graduatorie di civiltà, di un Occidente superiore. Nel suo primo libro arrivando a interrogarsi: “Dov’è il progresso? Dov’è la marcia della civilizzazione? Dov’è l’evoluzione della razza? Non ci si trova più nel pezzetto di mondo in cui queste leggi prevalgono: esse non sono eterne, e ancora meno universali”. Una vittoriana insofferente alle ipocrisie. Ma ostile alle suffragette, in ogni loro manifestazione.
(continua)
 
Massimo Calabresi – Il capo della redazione politica di “Time” che ha realizzato l’intervista di copertina con Giorgia Meloni, è figlio e nipote di perseguitati dal fascismo. Suo padre, il giurista Guido Calabresi, nato a Milano, era dovuto emigrare a sei anni, nel 1938, con le sorelline Nina e Bianca, al seguito dei genitori, il cardiologo Massimo, cattedratico, e la studiosa di letteratura Bianca Maria Finzi-Contini, a causa delle discriminazioni  minacciate con le leggi razziali. La madre si era da tempo battezzata (Guido si professerà “cattolico praticante”), ma non era servito.
L’intervistatore di Meloni ha quindo il nome del nonno, ma, benché figlio di immigrato, non accenna in nessun modo, contrariamente all’uso fra gli italoamericani, anche di ascendenza remota, alle radici italiane nei riferimenti biografici online. Anche il nonno, tornato a Milano dopo la guerra, per riprendere possesso della cattedra, alla fine, a conclusione della trafila burocratica, benché restaurato infine nel suo diritto dal rettorato della Statale, tagliò le radici con la sua città e se ne tornò in America – dove aveva già un ruolo anche accademico oltre che professionale.
Il padre Guido, oggi 92nne, il più giovane professore alla Yale Law School, ne è stato poi in tarda età il rettore per dieci anni, 1985-1994. Tra i suoi allievi alcuni giudici costituzionali in attività, due conservatori, Samuel Alito e Clarence Thomas, e una progressista, Sonia Sotomayor.  È molto legato a Giurisprudenza a Bologna e vanta due lauree honoris causa in Italia, a Pavia e Brescia.
 
Giustino Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che coltivò una lunga e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria (fondamentalmente mazziniana, repubblicana) e incarichi pubblici, spesso sotto il re Ferdinando II, il “re Bomba”. Dopo essere stato uomo di fiducia di Gioacchino Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola di Pizzo.
 
Gladstone - Il liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.
Delle prigioni napoletane tanto famosamente da lui denunciate confesserà che non ne aveva mai visitato una.
 
George Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) – Violinista mulatto, forse di padre delle Barbados, allievo di Haydn in Germania, esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo violino dell’orchestra del principe di Galles, il futuro re Giorgio IV. In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel 1803 fu a Vienna, do e strinse amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata per violino e pianoforte op. 47 – poi nota come “Sonata a Kreutzer” – con una dedica scherzosa: “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Il rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione della sonata, a maggio del 1803. Il compositore Carl Czerny annotò: “Bridgetower suonava in modo molto stravagante. Durante l’esecuzione della Sonata con Beethoven ridevamo di lui”. La Sonata era stata creata però in fretta, sia l’esecuzione che la composizione. La parte del violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima. Il secondo movimento Bridegtower poté leggerlo sol solo spartito del pianista, non essendoci stato il tempo per farne una copia. In calce alla copia della sonata in suo possesso Bridgetower annota di avere introdotto una cadenza al “Presto” del primo tempo che Beethoven aveva accolto “entusiasticamente”. Ma non ne tenne poi conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a Rodolphe Kreutzer, grande violinista francese, da Beethoven conosciuto a Vienna molto prima, nel 1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona dedica alla persona di cui ho molto goduto la compagnia  durante il suo soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi sono più care di tutto quanto è esteriore o interiore nella maggior parte dei virtuosi”.
Come s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven con Bridgemont?  Secondo il violinista J. R.Thirlwell c’era stata una lite per via di una ragazza. Probabilmente Julie Guicciardi, la contessina semitriestina che fu allieva di piano di Beethoven, futura contessa von Gallenberg.
Kreutzer non gradì l’omaggio e non suonò mai la composizione , scusandosi che era troppo difficile,  e che comunque era già stata eseguita. Secondo Berlioz aveva trovato la sonata “oltraggiosamente inintelligibile”.

astolfo@antiit.eu

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