astolfo
Gertrude Bell - Benché protetta dalla fortuna familiare, di grandi industriali
metallurgici, Gertrude fece tutto da sola: laureata a Oxford nel 1888, a
vent’anni, viaggiatrice un paio di volte in giro per il mondo, poi in Persia e
nel deserto, siriano e arabico, con carovane da lei organizzate e gestite –
“Gli scritti della regina del deserto” è il sottotitolo di “A Woman in Arabia”-,
scalatrice dei quattromila delle Alpi, compreso il Cervino, o allora di vie non
praticate, sette cime vergini in due settimane, con alcune “prime” ancora negli
annali, scrittrice, archeologa, fotografa, la migliore arabista della sua
epoca, innamorata infelice almeno un paio di volte, specialmente la seconda,
poco meno che cinquantenne, femminista anti-femminista, infine letteralmente
creatrice dell’Iraq, dalla politica tribale all’archeologia, fondatrice e
curatrice del museo di Baghdad (quello dal quale 15 mila pezzi saranno rubati
nel 2003), prima di morire nel 1926.
Qualche volta depressa, ma sempre combattiva. Minuta, 1,64, e femminile,
occhi verdi, capelli ramati, curata anche nel Quarto Vuoto, ma agile, attenta,
studiosa, una forte mente politica in un mondo tutto maschile, non solo quello
arabo – dagli arabi anzi per questo ammirata, e sempre onorata. Al culmine
dell’età degli esploratori, barbuti e incontestabili, una donna. Intraprendente
e informata, più che presuntiva – combattiva ma intelligente.
“L’Oriente guarda se stesso: non sa nulla del mondo esterno di cui sei
cittadino, non ti chiede niente di te e della tua civiltà”. Questa sua
osservazione, nei “Ritratti peprsiani”, valeva allora, 1894, forse meno di
quanto valga ora. Anche perché Oriente e Occidente, anatomizzati, sono concetti
storici, poco congruenti e anche poco consistenti. Ma Bell operava nel 1894, a
26 anni, il primo racconto contemporaneo del (Medio, o Vicino) Oriente.
Racconto ferace, battistrada di Robert Byron, Vita Sackville-West, Schwarzenbach,
Chatwin, Peter Levy – dopo Richard Burton naturalmente. Ai capitoli sui nomadi,
la civiltà maschile, l’anderun, luogo femminile della casa, “di
infelicità, di esistenze insulse”. E i deserti, i qanat, le
torri del Silenzio, il fumo al qalyān (narghilé), profumato, i
giardini segreti. In un Oriente “segreto” per modo di dire – l’Oriente di cui
più non si può più dire dopo Edward Said (sottacendo il fatto che Said è un
palestinese, cioè un arabo “occidentale”, anche nella critica dell’etnocentrismo,
molto cristianizzato, dal diritto di famiglia alla logica).
Questo primo racconto, della Persia a cavallo, in
lunghe giornate, anche in lunghe cavalcate serali “attraverso il secondo
cerchio dell’Inferno e la «bufera infernal, che mai non resta», cioè con Dante,
è peraltro ancora “attuale”, si legge con profitto . Ci sono già perfino “le
bottiglie vuote e le carte oleate” dei “filistei in gita” lasciate a
insudiciare “la purezza della brughiera purpurea”. E per finire
alcuni tocchi su “Costantinopoli”, su Bursa - “Prusia”, sopra la quale Bell
pone l’Olimpo, da cui vede “gli speroni del meraviglioso monte Ida, e nelle
giornate più limpide la piana di Troia” - e sul mar Nero, mare greco, che
rivede meraviglioso con Strabone, malgrado lo stato di abbandono, e gli
infiniti soprusi in navigazione a carico dei turchi, poveri e ricchi, e le loro
famiglie.
Una opera prima duratura della prima donna laureata a
Oxford. Che è stata in Persia a venti anni e ne ha scritto a ventisei. La prima
funzionaria militare britannica. Per di più nel settore intelligence,
ingaggiata dal governo nel 1914 per la sua conoscenza del mondo arabo, e subito
addetta all’Arab Bureau al Cairo, insieme con T.E.Lawrence, per fomentare la
resistenza contro l’impero ottomano, alleato in guerra degli imperi centrali.
Creatrice nel primo dopoguerra dell’Iraq, in ogni
senso, impegnata da assicurare un regno ai sunniti dell’Iraq a scapito
degli sciiti, pur avendo fatto la prima conoscenza dell’islam tra gli sciiti
dell’Iran. Alla dinastia filobritannica hascemita di fatto, cacciata dalla
Mecca, dall’Arabia poi Saudita. Una creazione di cui disegnò i confini. Ma
informata e informatrice, tuttora sulla Persia, che invece esisteva, da tempo
immemorabile, e lei riesce a capirne le venature profonde. Il suo, il primo libro moderno (contemporaneo) sull’Iran, è
rimasto un repertorio di molti successivi anche per la parte politica, specie
l’inconsistenza del potere imperiale. Se non nelle forme di accettazione
rituali – si è devoti allo scià come si lacrima per Husseyn a metà del mese di
Moharram, tra un pasticcino e una chiacchiera. Vero anche nei
particolari.
Teheran è la stessa anche oggi che non è più un
villaggio semidesertico e semivuoto di fanghi seccati e giardini segreti, ma
una metropoli brulicante – scentrata e informe. E l’Iran un paese di cui il
deserto e la distanza – silenzi, isolamento – fanno il carattere: “Immaginate
su ogni lato un paesaggio simile a quello del mondo dei morti che, nudo e
deserto, turbina nell’interspazio stellare: una pianura grigia e monotona su
cui si sollevano e cadono nuvole di polvere, che poi formano possenti colonne e
crollano di nuovo tra le pietre all’ordine di venti caldi e forsennati; piante
basse e pungenti, l’unica forma di vegetazione, prive di foglie e
ricoperte solo di spine; macchie bianche di sale su cui brillano i raggi del
sole; un orlo di sterili montagne all’orizzonte…”. Un mondo muto. Che si rivela
“nei suoi giardini”, inattesi, fascinosi – l’“Oriente” è il Medio o Vicino
Oriente, Nord Africa compreso, da Suez fino a Nuakshott: “Poca acqua, e il
deserto fiorisce”.
La notte più difficile, stesi per terra, in casa di un
Hadgi Mohammed sconosciuto, si rivela al ricordo uno dei tanti “piaceri
semplici, così familiari in una terra così remota! Non nei grandi palazzi, non
nelle grandi città avevamo percepito il legame di umanità che unisce Oriente e
Occidente, ma in quel lontano villaggio sul ciglio della strada, sul pavimento
del domestico dello Scià, rivendicando la nostra fratellanza con i lavoratori
di un suolo straniero. Per una notte anche noi prendemmo parte alle loro vite”.
Già
da giovane senza indulgenza per graduatorie di civiltà, di un Occidente
superiore. Nel suo primo libro arrivando a interrogarsi: “Dov’è il progresso? Dov’è la marcia della civilizzazione? Dov’è
l’evoluzione della razza? Non ci si trova più nel pezzetto di mondo in cui
queste leggi prevalgono: esse non sono eterne, e ancora meno universali”. Una
vittoriana insofferente alle ipocrisie. Ma ostile alle suffragette, in ogni loro
manifestazione.
(continua)
Massimo Calabresi – Il capo della
redazione politica di “Time” che ha realizzato l’intervista di copertina con
Giorgia Meloni, è figlio e nipote di perseguitati dal fascismo. Suo padre, il
giurista Guido Calabresi, nato a Milano, era dovuto emigrare a sei anni, nel
1938, con le sorelline Nina e Bianca, al seguito dei genitori, il cardiologo
Massimo, cattedratico, e la studiosa di letteratura Bianca Maria Finzi-Contini,
a causa delle discriminazioni minacciate
con le leggi razziali. La madre si era da tempo battezzata (Guido si professerà
“cattolico praticante”), ma non era servito.
L’intervistatore
di Meloni ha quindo il nome del nonno, ma, benché figlio di immigrato, non
accenna in nessun modo, contrariamente all’uso fra gli italoamericani, anche di
ascendenza remota, alle radici italiane nei riferimenti biografici online.
Anche il nonno, tornato a Milano dopo la guerra, per riprendere possesso della
cattedra, alla fine, a conclusione della trafila burocratica, benché restaurato
infine nel suo diritto dal rettorato della Statale, tagliò le radici con la sua
città e se ne tornò in America – dove aveva già un ruolo anche accademico oltre
che professionale.
Il
padre Guido, oggi 92nne, il più giovane professore alla Yale Law School, ne è stato poi in
tarda età il rettore per dieci anni, 1985-1994. Tra i suoi allievi alcuni
giudici costituzionali in attività, due conservatori, Samuel Alito e Clarence
Thomas, e una progressista, Sonia Sotomayor.
È molto legato a Giurisprudenza a Bologna e vanta due lauree honoris causa in Italia, a Pavia e
Brescia.
Giustino
Fortunato - Furono due. Il meridionalista ebbe uno zio omonimo che coltivò
una lunga e complicata carriera in epoca borbonica, tra carboneria
(fondamentalmente mazziniana, repubblicana) e incarichi pubblici, spesso sotto
il re Ferdinando II, il “re Bomba”. Dopo essere stato uomo di fiducia di
Gioacchino Murat – e forse quello, o uno di quelli, che l’attirò alla trappola
di Pizzo.
Gladstone
- Il
liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza
dell’Irlanda.
Delle
prigioni napoletane tanto famosamente da lui denunciate confesserà che non ne aveva
mai visitato una.
George
Augustus Polgreen Bridgetower – (Galizia, ca 1779 – Peckam 1860) –
Violinista mulatto, forse di padre delle Barbados, allievo di Haydn in Germania,
esordì come enfant prodige, affermandosi a Londra, primo violino dell’orchestra
del principe di Galles, il futuro re Giorgio IV. In tournée in Centro Europa a 25 anni, nel 1803 fu a Vienna, do e strinse
amicizia con Beethoven. Che gli dedicò la Sonata per violino e pianoforte op.
47 – poi nota come “Sonata a Kreutzer” – con una dedica scherzosa: “Sonata mulattica
composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Il
rapporto fu scherzoso anche nell’esecuzione della sonata, a maggio del 1803. Il
compositore Carl Czerny annotò: “Bridgetower suonava in modo molto stravagante.
Durante l’esecuzione della Sonata con Beethoven ridevamo di lui”. La Sonata era
stata creata però in fretta, sia l’esecuzione che la composizione. La parte del
violino del primo movimento fu pronta solo qualche giorno prima. Il secondo
movimento Bridegtower poté leggerlo sol solo spartito del pianista, non
essendoci stato il tempo per farne una copia. In calce alla copia della sonata
in suo possesso Bridgetower annota di avere introdotto una cadenza al “Presto”
del primo tempo che Beethoven aveva accolto “entusiasticamente”. Ma non ne tenne
poi conto nel pubblicare la sonata, nel 1805, quando risulta dedicata a
Rodolphe Kreutzer, grande violinista francese, da Beethoven conosciuto a Vienna
molto prima, nel 1798. Con una dedica molto lusinghiera: “Una buona dedica alla
persona di cui ho molto goduto la compagnia
durante il suo soggiorno a Vienna. La sua modestia e la sua naturalezza mi
sono più care di tutto quanto è esteriore o interiore nella maggior parte dei
virtuosi”.
Come
s’era interrotto il rapporto amichevole di Beethoven con Bridgemont? Secondo il violinista J. R.Thirlwell c’era
stata una lite per via di una ragazza. Probabilmente Julie Guicciardi, la contessina
semitriestina che fu allieva di piano di Beethoven, futura contessa von
Gallenberg.
Kreutzer
non gradì l’omaggio e non suonò mai la composizione , scusandosi che era troppo
difficile, e che comunque era già stata eseguita.
Secondo Berlioz aveva trovato la sonata “oltraggiosamente inintelligibile”.
astolfo@antiit.eu
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