sabato 7 giugno 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (595)

Giuseppe Leuzzi


Si ripubblica su “7” il commento di Adolfo Beria d’Argentine, insigne giudice milanese di prima del diluvio Borrelli, per l’assassinio della piccola Simonetta Lamberti in un agguato della camorra contro suo padre Alfonso, Procuratore della Repubblica, a Sala Consilina (Salerno): “Tanto appare globale il vuoto di questi uomini quando vengono processati, per delitti di terrorismo, di mafia, di camorra. Sembrano maschere senza identità interna, senza vita”. Beria d’Argentine lo rilevava da milanese, la nullità di “questi uomini” nel loro habitat. Ma era quarant’anni fa, prima dell’image building a opera dell’industria editoriale. Ora sono vuoti eguale, ma trovano chi li fa parlare, anche giudici.
 
Gianni Infantino, presidente della Fifa, celebra il suo trionfo col Mondiale di calcio per club, pagato dagli ubiqui principati della penisola arabica e giocato negli Stati Uniti. Fa sempre impressione pensare che è il figlio di un ferroviere di Seminara, nato in Svizzera da genitori emigrati dopo la pensione baby del padre, a Briga, vicino alla frontiera.  
 
Scrive al “Corriere della sera” un lettore milanese, derubato sul treno per Bologna del trolley, con il pc, che a Bologna non riesce a fare la denuncia subito alla Polfer. Se ne stanno rintanati, “in un tripudio di scrolling e sui wahtsapp”, e non lo degnano. “Dopo un paio d’ore esce una poliziotta, mi dice che dentro sono troppo impegnati per assistere me, che forse è meglio che vada da un’altra parte, e che se proprio non me ne voglio andare posso aspettare lì”.
Una sensazione di già visto, vissuto: se si è vittima di grassazioni, di furti, anche con violenza, meglio incassare. Specie nelle zone di mafia: fare la denuncia è mettere sale sulla ferita.
 
Dalle “forze dell’ordine” meglio stare alla larga, come si dice al Sud? Il problema è il portafogli: ci vuole la denuncia per rifare i documenti. Quanto alle mafie, si sa, non c’è rimedio, non per la singola vittima: contrariamente alle vulgate, non gliene frega nulla a nessuno – “se ha i soldi paghi”.
 
Le faide
Sono in disuso solo da una quindicina di anni. L’ultima è quella di San Luca-Duisburg, 1991-2007, con 18 morti – sei, gli ultimi, in un colpo solo a Ferragosto del 2007 nella città renana.
Le penultime si sono avute a Tarianuova, sanguinosissima, negli anni 1980. La stessa Taurianova che nel 2024 è stata Capitale del Libro. In contemporanea con la faida di Seminara, il paese già feudo degli Spinelli, che ancora celebra le feste per l’accoglienza nel 1530 a Carlo V, reduce dalla vittoria sugli arabi a Tunisi, nonché di letterati variamente illustri, a cominciare dal monaco Barlaaam e Ugo Leonzio, maestri di greco di Petrarca e di Boccaccio.
La faida di San Luca-Duisburg parte dal carnevale 1991, quando a San Luca alcuni ragazzi lanciano uova contro la porta di un circolo Arci gestito da un Pelle, sporcando anche l’auto parcheggiata di un Vottari. Sarà la faida dei Pelle-Vottari contro gli Strangio-Nirta, le famiglie cui appartenevano i ragazzi del carnevale. Agguati e duelli al sole – e la strage finale.
La “sfida di Seminara” è nata invece per uno schiaffo. Un Gioffré, guardia di una ditta di lavori stradali, è certo che la bomba a una betoniera la notte del 15 settembre 1971 sia stata messa dai Frisina. La “guardiania” era un impegno preciso a evitare incidenti di questo tipo, come pure minacce e sgarbi. Incontrando due giorni dopo un Frisina all’osteria Gioffré ci litiga, e lo schiaffeggia. Il Frisina spara, e ferisce il figlio di Gioffré, che entrava all’osteria. Da allora per cinque anni fu un susseguirsi di agguati di ogni tipo, specie contro le donne delle due famiglie, anche col mitra al cimitero, al funerale di una delle vittime. Per un totale di 16 morti e 23 feriti.
La faida di Taurianonova è successiva, 1898-1991, e portò a 32 assassinii. Si ebbe tra due gruppi di famiglie, di parenti più che di mafia, Asciutto-Neri-Grimaldi di Radicena, il più importante dei due borghi che erano confluiti a formare il comune postunitario di Taurianova, e gli Zagari-Avignone-Villa-Fazzalari di Jatrínoli, l’altro borgo. Scattò per la morte da overdose di eroina del giovane Felice Zagari, cui l’aveva fornita uno spacciatore per conto dei Neri, che fu ucciso il 9 febbraio 1989. Un altro Neri fu ucciso il 2 lungo. Un terzo, Gaetano, in agosto, in Valle d’Aosta dove si era rifugiato, al limite con il Piemonte. Altri assassinii seguirono in rapida successione, fino al totale di 32. Anche come nei film di Al Capone, dal barbiere, vittima un Zagari, il 2 maggio 1991. Il giorno dopo la vendetta, che fece le cronache mondiali: quattro Grimaldi, incensurati, vengono assassinati, tra essi il salumiere Giuseppe, cui gli assassini tagliano al testa, e la lanciano e rilanciano in aria per colpirla con le pistole al volo.   
La faida è – era? - tipica della Calabria. Retaggio bruzio? Ma non contagia il catanzarese e il cosentino, dove i Bruzi, tra le Sile, ebbero più lungo e più radicato soggiorno. Retaggio illirico – slavo-albanese? Ma anche gli arberëshe sono tutti nel cosentino e nel catanzarese, e sono miti. È tipica di una parte della Calabria, quella reggina, della Piana di Gioia Tauro e della Locride, l’ex Magna Grecia.
 
Se tutto è Calabria
“….Tutte le discipline e l’intera scienza umana fiorirono tra i Calabresi, e quella che ora circola per le scuole da essi ha avuto origine. Platone infatti e il suo discepolo Aristotele furono allievi dei Calabresi, o meglio Aristotele lo fu di Platone, che in Calabria venne addottrinato. Platone invero da Atene si portò in Calabria e apprese ogni cosa da Timeo, Euticrate ed Arione tutti Locresi, secondo quanto afferma Cicerone nel quinto libro De finibus, mentre nel primo delle Tusculane proclama che ogni sua scienza deriva da Timeo. E Filolao da Crotone, ricordato da Platone nel Fedone, ammaestrò Archita di Taranto e Platone stesso, come racconta Cicerone nel terzo libro dell’Oratore; e da costoro a sua volta apprese Aristotele, maestro dei Peripatetici. Filolao infine lasciò tre libri sulla setta Pitagorica, che Platone acquistò dai parenti di lui per diecimila denari, componendo poi sulla loro traccia le sue opere... Molto altresì imparò Platone da Ipparco, astrologo di Reggio, da Ippia e da Teeteto, ch’egli introduce come interlocutori nei suoi dialoghi; e tutto ciò che Aristotele ha di buono l’ha appreso da Platone, e questi a sua volta da quei Calabresi... Anche Pitagora che per universale consenso è chiamato principe dei filosofi nel Della vecchiezza ciceroniano, fu calabrese, e da lui derivarono tutte le scuole filosofiche; quando la sua setta fu potente a Crotone, da tutto il mondo convenivano a lui filosofi e sovrani, come svariati scrittori raccontano, e dopo la sua morte la setta prosperò a Locri ed a Reggio sotto diversi capi, in un’epoca in cui innumerevoli filosofi e donne di rara sapienza, tutti autori di molteplici opere, fiorivano per l’intera regione... Se dunque Aristotele, dopo aver fatto man bassa delle loro dottrine, vuol contrapporsi a tutti i filosofi che dalla Calabria trassero origine ed ivi si nutrirono di sapienza, nessuno se la prenda con me per il fatto che respingo l’oltraggio fatto ai miei maggiori”.
Senza repiro. È Campanella, in apertura della Prefazione alla sua “Philosophia Sensibus Demonstrata”. Si pensa in grande, si fa poco?
 
Sudismi\sadismi - La scomparsa del Sud nella storia del giornalismo
“Il Bruzio”, giornale “politico-letterario” ideato, edito e scritto da Vincenzo Padula nel 1864-65, non figura in “nessuna storia del giornalismo italiano post-unitario”, lamentava Giuseppe Galasso una dozzina d’anni fa nel lungo saggio “Padula: Il Bruzio” (ora in “Calabria, paese e gente difficile”). Trovando nel giornale “titoli più che sufficienti per una congrua valutazione” nel quadro della stampa post-unitaria.
Una constatazione che muove una scoperta. Perché lo storico prosegue, sorpreso: “Una valutazione che, però, manca per l’assenza pressoché totale, nonché del giornale di Padula, dell’intero giornalismo provinciale, e di quello meridionale (se si eccettuano i fogli napoletani)”.
La disattenzione Galasso critica con più asprezza in nota (p. 295): “Alcuni casi sono sconcertanti. Anche in opere considerate di riferimento”. Nell’opera canonica, di Castronovo, Giachetti-Fossati e Tranfaglia, “Storia della stampa italiana”. Come nella “Storia del giornalismo italiano dalle prime gazzette ai telegiornali”, di Paolo Murialdi. “I riferimenti al Mezzogiorno fuori di Napoli sono del tutto trascurabili”. Per finire con: “Né molto di più si raccoglie in opere più specifiche, come P. Sergi, «Stampa e Società in Calabria»”.
 
Cronache della differenza: Sicilia
Il papa ricorda in udienza che il suo nonno o bisnonno era siciliano.  Ma, non lo dice, si chiamava Riggitano. Cioè era di Reggio Calabria - uno dei tanti cognomi classificatori dal luogo di origine o provenienza, alla latina, in -ano, o alla francese, in -ese, in -ino. Anche se partì per l’America da Milazzo. Ma, poi, composito: insegnante determinato e bravo padre, fino a prendere per sé il cognome del figlio nato fuori del matrimonio, ma, appunto, bigamo – fu anche processato, e forse condananto, per bigamia. Calabria e Sicilia, così diverse, per storia e temperamenti, sono unite da molto prima del Ponte – dell’idea del Ponte – e non solo dalla lingua.  
 
Alla fine della guerra, nel 1945, “i siciliani dividevano ancora il mondo in Sicilia e continente”, Gioacchino Lanza Tomasi, “La medusa e la Spagna”: “Così difatti era scritto nelle due fessure delle regie cassette postali di Palermo: Sicilia o Continente, e il Continente era il resto del mondo, Italia compresa”.
 
Palermo Sciascia, che con la sua isola non è tenero, invece apprezzava: “I Palermitani, che sono realisti”, nota  in “La Sicilia come metafora”, 121. Si adattano alle mafie per realismo?
 
Si fa una mostra su Camilleri (giovane) poeta. Italiano, non dialettale. In una con la ripubblicazione delle opere italiane dello stesso. Con molte illustrazioni. Aperta al pubblico, gratuitamente. Ma non in Sicilia, a Milano.
 
Ha tre delle sette città più appestate dal traffico – secondo “Men’s Health”: Palermo, Messina e Catania. La peggiore in tutta Italia è Palermo. E questo dà ragione a Benigni, “Johnny Stecchino”, dove l’ignaro comico viene accolto in città da uno strafatto Bonacelli, che tira su disperatamente con le narici, e gli spiega la situazione in questi termini: “Il problema è il trraffico”.
 
Eschilo “vir utique Siculus” lo dice Macrobio (“Sat. v 19”), senza dubbio siciliano. Che non può essere, avendo anche combattuto i Persiani per una dozzina d’ani, a Maratona, Salamina e Platea. Ma è vero che a un certo punto passò alla corte di Ierone a Siracusa, come già Pindaro e Simonide, impiantandovi il teatro che tuttora funziona. La Sicilia ha memoria di se stessa.
 
Secondo Omero, vi abita(va?) la felicità. È su questo precedente che “White Lotus” ha costruito la serie di successo sull’isola? Non più truffaldina delle altre – ormai le serie tv hanno sempre location da sogno. Per beneficiare delle Film Commissio  locali, dei finanziamenti pubblici a fondo perduto, ma anche per compiacere lo spettatore, che ormai si vede solo come turista, sia pure solo in immagine.  
 
Iside Regina ha “i Siciliani trilingui”, al canto XI delle “Metamorfosi di Apuleio, dove fa l’elenco dei tanti nomi che le vengono dati nel “mondo” – dai Siciliani “Proserpina Stigia”. Trilingui perché greci, latini e punici? O alla indiani di America?
 
Le donne di Catania, che ecciteranno i giovanotti di Brancati, erano per Brian Hill, viaggiatore inglese del 1790 o 1791, “prefiche a un funerale”.
Questo Brian Hill è solo noto per le “Curiosità di un viaggio in Sicilia e Calabria” (“A journey through Sicily and Calabria”, in the Year 1791; with a postscript, containing some account of the ceremonies of the Last Holy Week at Rome). Una guida turistica.
 
A Corleone, un secolo dopo centro della mafia più spietata, con decine di stragi e migliaia di morti, nel 1893 i fasci socialisti siciliani imposero ai possidenti i primi nuovi patti agrari. Anche se i contadini (Croce, “Storia d’Italia, 204), protestavano, con i labari di Umberto (il re) e della Madonna.
 
Cicerone non era tenero con l’isola – anche se difese Verre, il proconsole che governando la Sicilia si arricchì (il primo accusato del tipico malaffare romano, allora e oggi: “de pecuniis repetundis”, cioè di concussione). Si sono detti celermente “latini”, pettegolava scrivendo agli amici, e poi “romani”, per soldi.
 
O Verre, com’è probabile, non fu il primo imputato di concussione, nel governo della Sicilia. L’isola è stata comunque derubata da molto tempo.
 
A Bagheria, città di 50-60 mila abitanti, una quindicina di minuti da Palermo, e una ventina da Termini Imerese, “non c’è un ospedale”, constata delusa Camilla Cederna nei viaggi di “Casa nostra”, quarant’anni fa. E non lo vuole, dicono ora gli amministratori, inaugurando un poliambulatorio in un vecchia clinica, “Le Magnolie”, restaurata coi fondi Pnnr, “data la vicinanza della città con Palermo e con Termini Imerese”. Superiore interesse pubblico, al risparmio? 
 
leuzzi@antiit.eu

Le padrone del primo cinema italiano

Una miniera, da un secolo a cielo aperto, ma scoperta solo ora, con questa mostra.  Solo fotografica – al momento – ma in grado di fa rivivere trenta personaggi del cinema italiano primo Novecento poi dimenticati. Trenta donne, per questo trascurate. Che hanno interpretato non solo, ma anche prodtto, diretto, gestito un vasto numero di film per una vasta gamma di generi. Specialmente nella prima stagione del cinema, del muto – e della possibilità d’intraprendere anche senza grandi capitali.
Se ne ricorda, ma solo repché Bernardo Bertolucci se ne è ricordato in “Novecento” – quando era prossima ai novant’anni - Francesca Bertini. Che fu anche titolare di una importante casa di produzioe. Ancora più dinamica, e più nota in quegli anni, è la dimenticata Elvira Notari, napoletana, produtrice e regista. Che portò la sua casa di produzione anche a New York, con successo. Elvira Coda Notari fonda una sua casa di produzione nel 1912, Dora Film, dirige 60 lungometraggi e molti cortometraggi, che talvolta interpreta. Nel 1925 trasferisce la Dora Film a New York, con successo. Ma non regge al sonoro e al colore, che richiedono capitali ingenti. Chiude allora subito la Dora Film, nel 1930 – e dieci anni dopo torna, a morire, a Cava de’ Tirreni.
Molti altri nomi femminili movimentano la scena cinematogarfica: Adriana Costamagna, Frieda Klug, Gemma Bellincioni, Dais Silvan, Astrea, et al. È stato come può dire nel catalogo Electa Alessandro Giuli, il ministro della Cultura che ha promosso la mostra, con la sottosegretaria Borgonzoni che l’ha curata: “Le dive negli anni Dieci erano le ‘padrone’ del cinema italiano, a tal punto che il loro ruolo esondava da quello di semplici interpreti per allargarsi a quello di coautrici”.
Quello di Bertini, d’altronde, è un romanzone: è un’attrice ma ha il potere di negoziare soggetti, sceneggiature, riprese, montaggi. Ha avuto una carriera lunga quasi settant’anni, protagonita di “circa” centoventi film, in Europa, Sud America, Russia e Stati Uniti. Qui pare che ne abbia anche diretti tre, sotto pseudonimo, Frank Bert – girati nel 1917, non ne resta traccia. Rifiuta la Fox e Hollywood per una sua propria casa di produzione, Bertini Film, nel 1920. In un solo anno riesce a girare dieci film. Ma un po’ tutte le storie sono da raccontare. 
Una mostra organizzata da ministero, con Cinecittà e la Cineteca di Bologna. Per una volta  cioè senza polemiche politiche.
Agnese Sbaffi- Emanuele A. Minerva–Ministero della Cultura, inVisibili. Le Pioniere del Cinema, Istituto Centrale per la Grafica, Roma

venerdì 6 giugno 2025

Problemi di base politici - 863

spock


La politica ha le sue ragioni, che la ragione non conosce?
 
La politica consuma?
 
Ma non i politici?
 
Nulla si crea e nulla si distrugge in politica?
 
Creare, o fare?
 
C’è troppa politica, o non ce n’è?

spock@antiit.eu

La logica del pregiudizio

“Negare fino alla tomba”, negare la verità e anche l’evidenza, ha come sottotitolo “Perché ignoriamo i fatti che ci salveranno”. È un libro-ricerca, sul divario mai colmabile tra quello che ci diciamo, tra i nostri giudizi e pregiudizi - o anche solo tra le nostre abitudini, pratiche e mentali - e quello che le scienze pure ci spiegherebbero convincentemente. Opera di una “specialista in sanità pubblica”, Sara Gorman, e del padre Jack, psichiatria. Un libro del 2016, su ricerche anteriori, quindi molto prima del covid, ma i Gorman si erano già interrogati sulle convinzioni irrevocabili che non solo sono palesemente false ma anche potenzialmente dannose per la salute, e perfino mortali, come la convinzione che i vaccini siano pericolosi.
È uno studio di molti casi specifici. Che si segnala per un’ipotesi nuova: che i pregiudizi o i convincimenti sbagliati che oggi sembrano o possono essere autodistruttivi si sono formati per processi di adattamento. In qualche modo, cioè, si radicano in processi di lungo corso, personali (familiari, comunitari, “tribali”) e storici, epocali: sono abitudini, e ne hanno le comodità. E per il dato curioso delle esperienze dei due autori: che la forza del pregiudizio – i “bias di conferma” – stia in un piacere fisico, una scarica di dopamina, quando si ragiona a supporto della convinzione, per quanto minoritaria o non condivisa, “errata”. Anche per la residua forza della coerenza: è bello restate fedeli alle proprie convinzioni, anche se, forse, sbagliate.
L’uomo ha bisogno di una visione del mondo. Di un’opinione anche se non accurata: ne va della sopravvivenza, della “lotta per la vita”. Un bisogno che si rafforza in desiderio più o meno inconscio, più o meno forte, ma costante, di “identificarsi” per contatto, di “appartenere”. Di fare parte di un gruppo, di una comunità. Per effetto del quale i fatti, la realtà, la verità possono restare o diventare irrilevanti, e anche nemici.
La ricerca dei Gorman, del resto, non fa che esemplificare una verità, un modo di essere e comportarsi, lungamente attestato o certificato. Da Tolstoj p. es.: “Il fatto più semplice non può essere spiegato a chi è fermamente persuaso di sapere già, senza ombra di dubbio, di che si tratta”.  Confrontati da una sfida, dal dubbio, si tende a reagire come scriveva nel 1971, a sostegno del ponderoso trattato di Keynes, al quale, da “economista classico”, si era convertito, indigesto a molti economisti Usa, “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”: “Di fronte a una scelta tra cambiare opinione e provare che non ce n’è bisogno un po’ tutti si daranno da fare con la prova”. In questo caso è l’abitudine, prima ancora che il preconcetto, a fare legge.
Jack and Sara Gorman, Denying to the Grave, Oxford University Press, pp. 328 € 17

giovedì 5 giugno 2025

La Russia è una questione europea - o la fine dell’Europa

Non c’è solo l’Ucraina, con la guerra in corso e la divisione impendente del Donbass. Che vuol  dire da sola una crisi sempre aperta con la Russia. C’è anche la Moldavia, dove i russi e i filorussi sono raccolti in Transnistria. C’è la Serbia, che all’interno della Ue manterrà ha un ponte inscindibile con Mosca. Ci sono l’Ungheria e la Romania, che non vogliono inimicarsi Mosca per il contenzioso reciproco  (solo per comodità nascosto) sulla Transilvania. E sull’altro versante del Mar Nero c’è la Georgia.  
Sono innumeri, e interminati-abili i fronti con la Russia che la Ue ha aperto, dacché ha scelto di farsela nemica, se non addirittura escluderla dalla Europa, fisicamente, geograficamente. Armandosi contro di essa con spese insostenibili – e probabilmente inefficaci, essendo l’Unione in realtà (giuridicamente) una disunione.
Una scelta evitabilissima. Bastava mediare seriamente tra Ucraina e Russia, come si era cominciato a fare dieci anni fa con gli accordi di Minsk. Di cui poi la Ue non si è curata. Salvo scoprirsi in prima fila sul fronte antirusso, al guinzaglio della presidenza Biden, legata a partita doppia con l’Ucraina più antirussa.
Come dire un futuro di instabilità. Anche insolubile. Con esiti politici ed economici in perdita, tutti. 
La Ue dovrà armarsi pesantemente, al limite dell’insostenibile, per “non” fare la guerra, cioè per mantenersi sempre in stato di allarme. È il suo primo imperativo adesso, e anzi unico. 
Questo impegno - insostenibile, non s  ripete mai abbastanza - la terrà ai margini dell’evoluzione mondiale. Commerciale, industriale, perfino tecnologica, oltre che finanziaria – è pur sempre una Ue divisa in vari mercatini.

La nuova guerra dei Trent’anni al centro dell’Europa

Tra Russia e Ucraina è guerra senza fine. La Russia è più grande e più armata, ma, a meno dell’arsenale nucleare, che non può usare, non è più forte: non sa fare la guerra, e storicamente ha saputo solo controbattere, vincere difendendosi solo quando messa alle corde, da Napoleone e poi da Hitler.
L’Ucraina, ben più piccola e meno armata, ha all’attivo molte azioni di guerra che la dicono sempre in grado di creare danno. Gli aeroporti bombardati – da terra - fino in Siberia. I droni volteggianti fin sul Cremlino. Kursk. Il gasdotto Nord Stream. Gli assassini mirati di personaggi in vista, in varie località della Russia. E sul mare: le grandi navi da guerra russe nel Mar Nero bombardate e affondate, il ponte di Kerç continuamente minato - dopo undici ani di occupazione.
Con l’assistenza angloamericana ma probabilmente anche con tecniche proprie. Oltre che per una catena di comando con ogni evidenza funzionante, a differenza di quella russa, nella programmazione, la decisione e l’esecuzione.
Una guerra tra un settantenne e un cinquantenne. Forse non dei Trent’anni, quindi. Ma i rapporti non sono più ricucibili, se non si trova spazio nemmeno per una tregua.

Cronache dell’altro mondo – Democratiche (343)

«Tutti hanno un consiglio per i Democratici. Specialmente i Democratici. Il governatore del Minnesota Tim Walz li vuole “un tantino più cattivi”. Il goveratore del Maryland Wes Moore li vuole “il partito dei ‘sì’ e dei ‘no’”. L’ex sindaco di Chicago Rahm Emanuel li vuole più al centro, e non più “informali e weak e woke”. L’ex minsitro dei Trasporti Buttigieg ammonisce ad avvicinare “la gente che non la pensa come noi”. Lo stratega elettorale James Carville consiglia di non usare parole come “equità” o “oligarchi”. La senatrice del Michigan Elissa Slotkin afferma che i Democratici devono fare provvista di “energia alfa”. Un nuov think-thank Democartico si propone “la rottura delle corsie ideologiche e il rigetto delle agende dei gruppi d’interesse”.
«Una ricerca Nexis ha trovato 3.515 casi di frasi del tipo “I Democratici dovrebbero” e “I Democratici debbono” in articoli di giornale e altri testi nei tre mesi passati, e altri 3.680 casi di moniti del tipo “I Democratici dovrebbero”. Una ricerca sul database Factiva mostra frasi di questo tipo a migliaia.
«Apparentemente, i Democratici sottostanno a queste critiche perché il partito è in bassa fortuna nella considerazione pubblica. Solo il 34,7 per cento degli americani dà un giudizio favorevole del partito, contro il 58,3 per cento degli sfavorevoli, secondo un media-sondaggio RealClear. Il partito Repubblicano non fa molto meglio, con un 42 per cento di favorevoli e un 52,6 di contrari. Ma la critica investe i Democratici, perché essi stesi amano imbarcarsi in angoscianti esami di coscienza».
Non per il vuoto di programmi - su Cina, Russia, atlantismo, immigrazione, dazi, dollaro, Israele, università Ivy League?
(“The Washington Post”)

La tragedia (come sempre) dell’amore

All’uscita “velato” dall’esotismo - dalla napoletanità nella sua interezza, le varie psicologie, i vari accenti, le cerimonialità trasgressive - il racconto che Ozpetek filma è una tragedia. Una vera “tragedia greca”, quella che W. Allen famosamente inseguiva ma non al suo modo. Una notte d’amore è tutta la vita, passata e futura. Una sorpresa e un’ossessione.

Senza un motivo particolare, forse solo per il titolo, ma Napoli velata richiama Alcesti, la sposa amata di Admeto, che si sacrifica per tenere in vita lo sposo. Eroina che Eracle libererà, riportandola in vita dagli inferi come donna velata. La città che vive e sanguina per i suoi estrosi concittadini.     
Özpetek vi fa convergere un mondo rutilante, di affetti e delitti, passioni e debolezze, verità e falsità. Sotto il filtro della vita ordinaria e ordinata, routiniera, “borghese”. Ma il tragico lo attraversa a ogni scena.
Una tragedia “colorata”. Non si canta, ma la ricetta è del melodramma, dramma d’amore. Con facce e suoni che sono un marchio, Anna Bonaiuto, Peppe Barra, la stessa protagonista Mezzogiorno - agonista e vittima come in ogni tragedia classica.
Ferzan Özpetek, Napoli velata, Sky Cinema

mercoledì 4 giugno 2025

Letture - 580

letterautore


Giallo
– Alessandro d’Avenia si spiega con un Dürrenmatt del lontano 1957, “La promessa. Requiem per un romanzo giallo”, il successo del genere da un paio di decenni in Italia, dopo un paio di secoli di disattenzione. Ma poi prosegue: “Il giallo è quel che resta della nostra fame di verità: il detective, martire laico, la scoprirà, permette che si faccia giustizia. Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo, riportano la casualità alla causalità, e amiamo i detective perché, risolvendo «un» caso, eliminano «il» caso”.
Se non che poi ha un dubbio: “Ma siamo sicuri di volere verità\giustizia e non invece uno spettacolo morboso e irrispettoso della dignità dei coinvolti?”. E non un passatempo, come lo spettacolo a quiz? Un’altra forma di lettura veloce, dopo quelle di avventura, d’amore, di guerra – e impegnativa solo brevemente?
 
Internazionalismo –
Tra le due “chiese”, come usava dire in ambiente laico al tempo del Pci a Roma, solo quello “romano”, cioè cattolico, ha resistito e resiste, quello “internazionalista” è sempre naufragato. È l’analisi di “Lotta Comunista”: “Il primato di Roma ha dovuto subire le amputazioni dello scisma anglicano e della Riforma protestante (e prima ancora dell’Ortodossia, n.d.r.), ma ha resistito con arrangiamenti e compromessi alle forze centrifughe animate dall’emergere degli Stati moderni: dal gallicanesimo della monarchia francese, alle prerogative imperiali spagnole, al giuseppinismo degli Asburgo d’Austria, all’americanismo degli Stati Uniti potenza emergente. Sono i precedenti degli accordi odierni con la Cina…”.
La ragione della continuità? Il compromesso. “Il messaggio a Pechino non poteva che essere: la Chiesa multipolare, è vero, aspira all’unità, ma nel suo realismo sa anche farsi attraversare dal confliggere degli interessi di potenza”.
Per “l’internazionalismo proletario”, invece, “solo l’unità di classe è il suo principio vitale”. Evidentemente disatteso. O irrealizzabile? “Per tre volte l’Internazionale comunista è stata sconfitta perché il comparto al cuore del suo insediamento proletario è stato catturato dalla forza particolare della sua borghesia. La Prima Internazionale vide la defezione del tradeunionismo inglese impaurito dalla Comune di Parigi; la seconda l’abdicazione della socialdemocrazia tedesca nel 1914; la Terza fu annientata nella sua piazzaforte bolscevica dalla controrivoluzione staliniana, in cui il capitalismo di Stato si combinò col nazionalismo grande-russo”.
 
Medea
– “Traditrice e tradita”, una borghese ante litteram, “guidata da un pensiero: il Grande Amore”. Sulla traccia di Marina Cicogna, che della Callas era amica, Daria Galateria (“Atlante degli artisti in affari”, 74), lo dice a proposito della grande cantante, “scoperta” da Pasolini per il ruolo quando Onassis la abbandonava per Jacqueline Kennedy: “Il 19 ottobre 1968… la Callas accettò il ruolo d Medea per il film di Pasolini. Dopo anni di relazione con Onassis, quel giorno stesso aveva saputo che l’indomani il magnate avrebbe sposato Jacqueline Bouvier Kennedy. Prima la Callas aveva sempre rifiutato il cinema”.
 
Orfani – Erano tema ricorrente di narrazioni e sono scomparsi – non da ora, bisogna dire. Ne dà l’annuncio Francesca Mignemi nel suggestivo - ben più del settimanale di cui è costola - “speciale” del 25 maggio, “La Lettura delle ragazze e dei ragazzi”. Ricordando Malot, naturalmente, “Senza famiglia”, e Twain o Lindgren: Heidi, Oliver Twist, Mowgli il figlio della giungla (ma a suo modo anche Rudyard Kipling, non vero orfano, ma esiliato da parenti poco affettivi in Inghilterra), Pollyanna…. Con “antenate e antenati illustri: Cenerentola, Raperonzolo, Biancaneve, Hänsel e Gretel e Pollicino”. Che “non hanno padri né madri” e hanno “storie che non consolano, sono scintille di pura immaginazione”. Di che far valere nel dibattito ora sulla famiglia? “Raccontano la perdita e la possibilità. Indicano sentieri alternativi con famiglie scelte, amicizie profonde, giardini segreti, fiumi che scorrono liberi”. Per finire con “Pippi, che vive senza genitori in una casa sorprendente, cavalca cavalli e sfida ogni autorità con il sorriso”, una “a cui nessuno … dice cosa fare: è l’anarchia fatta bambina, è l’infanzia che si autodetermina”.
Ma, certo, col cervello di bambini fatti adulti, e bravi scrittori.
 
Sostituiti ora da adozioni e affidi? Non è la stessa cosa. Il tema è qui l’abbandono, l’orfano era un tema tragico (il destino), sociale, storico, palingenetico. E divertente, un mondo senza genitori.  
 
Opinione – Fa la storia: è l’opinione di Vincenzo Padula, prete, poeta, drammaturgo cosentino del secondo Ottocento, che per un paio d’anni fu anche giornalista, con una propria testata, “Il Bruzio”. Dove al lancio dichiara l’opinione “protagonista dominante della storia del secolo XIX” (Giuseppe Galasso, nello studio sul Padula poi ripreso in “Calabria, paese e gente difficile”): “Un protagonista, per lui, da sempre, fin dall’alba dei tempi, e che sempre è all’origine degli sviluppi storici in atto”. Specie nel secolo XVIII, per  Padula “il secolo delle successioni contrastate, delle riforme amministrative, dell’emancipazione della borghesia, della libertà nel campo della politica, della religione e del pensiero”. E il secolo XIX, “(il secolo) non delle successioni dinastiche, ma delle nazionalità, non dell’emancipazione della borghesia, ma di quella del proletariato, non della libertà nel campo della politica, ma dell’industria, mirando a cercare non l’eguaglianza tra i cittadini del medesimo Stato, ma l’eguaglianza tra i popoli”.
Nella sintesi di Galasso: “L’opinione evolve  nel tempo, e muta e rovescia le idee, le mentalità, le sensibilità, gli atteggiamenti del corpo sociale, rendendo fausto e benvenuto quel che nel precedente periodo storico era deprecato e avversato”, E, nel secolo XIX, “l’opinione è il giornale”.
 
Papa – Perché non eletto dal popolo romano – in quanto vescovo di Roma? È la tesi di Vincenzo Padula, il sacerdote e scrittore cosentino, che sul suo giornale “Il Bruzio” si faceva porre il quesito il 3 aprile 1864 da un anonimo: “Risposta ad una lettera pseudonima. Il popolo romano può nominare il papa?”, e rispondeva che sì: il laicato romano può eleggere il suo vescovo, e la cosa “non è esclusa” neppure dal Concilio di Trento.
 
Teatro - A fine Cinquecento-primo Seicento, gli anni di Shakespeare, era infrequentabile a Londra. Dalle donne, e dalla gente “per bene”. Raccontando “Le sorelle di Shakespeare”, “quattro donne scrittrici nel Rinascimento” inglese, una delle quali, Elizabeth Cary, drammaturga, Ramie Targoff spiega che erano frequentati da gentaglia: “I teatri erano considerati pericolosi per le donne per molti motivi: tra essi borseggi, fumo, contagi, e uomini libidinosi. Nel 1594 il Lord Mayor di Londra condannava i teatri perché attiravano «ladri di cavalli, puttanieri e truffatori». Il poeta Sir John Davies anche lui descriveva il pubblico a teatro nel1593 come fatto di “un migliaio di borghesi, gentiluomini, e puttane”.
Contemporaneamente la regina Anna, la consorte danese del re Giacomo I, che regnò nei primi venti anni del Seicento, organizzava a corte dei quadri teatrali, “The Masque of Queen”, il primo sceneggiato e coreografato da Ben Jonson, in cui nobildonne seminude impersonavano personaggi storici o epici, in maschera e in costume, e in silenzio.  La prima attrice donna, sul palcoscenico, si sarebbe avuta, racconta Targoff, a dicembre del 1660 – come Desdemona nell’“Otello”.
 
Veterani - “Mio zio era in una delle imbarcazioni del D-Day, lo sbarco in Normandia”, nel 1944, ricorda Dan Peterson, il colorito allenatore americano di basket:” Sbarcò due volte, nella seconda stava per rimetterci la vita. Tornò a casa senza un graffio, ma dopo la guerra diventarono tutti alcolizzati”.
 
Woke – “Detestano l’Occidente ma possono esistere solo qui”, Louis Sarkozy – qui in Occidente.

letterautore@antiit.eu

Roma com’era un secolo fa, vista dalle donne

Una mostra su alcune donne, americane, inglesi e qualche italiana, che hanno accompagnato, documentato, e non poco anche orientato la stagione postrisorgimentale di Roma, novella capitale d’Italia. Negli scavi archeologici soprattutto, e anche nell’urbanistica, negli assetti del rinnovamento di Roma capitale. La prima, e unica, mostra di questo genere, che documenta e celebra il rinnovamento di Roma, culturale e scientifico (archeologico), e insieme il cambiamento sociale, per la partecipazione di molte donne. Molte sapevano anche utilizzare la fotografia, e hanno lasciato documentazione copiosa, che la mostra consente di apprezzare.
Di notevole peso anche i personaggi. Esther Boise Van Deman, archeologa americana specialista dell’architettura della Roma antica, è negli annali per le tecniche di datazione delle costruzioni romane nel Mediterraneo. Marion Elizabeth Blake, anch’essa americana, continuò il lavoro di Van Deman, in qualità di storica. Fu a Roma anche l’avventurosa Gertrude Bell, per qualche tempo dal 1910 - prima di diventare “la madre dell’Iraq” nella Grande Guerra, a fianco di Lawrence d’Arabia nella rivolta araba contro l’impero ottomano – lasciando una copiosa documentazione fotografica delle rovine prima della “sistemazione”. Specie del Foro Romano, dove contava sulla protezione di Giacomo Boni, che ne dirigeva gli scavi.
Inglesi anche le sorelle Bulwer, Agnes e Dora, che hanno lasciato anche loro copiosa documentazione fotografica, lavorando in collegamento col direttore della British School at Rome, Thomas Ashby – al suo tempo “leggendario” cultore delle testimonianze di Roma antica.
È rappresentata alla mostra anche, con foto dei monumenti antichi minacciati, a Roma e nella Campagna, la filantropa e protofemminista Maria Ponti Pasolini. Che a Roma fu anche una celebrity, animatrice di un quotato salotto internazionale. Personaggio dimenticato, di cui la mostra fa intravedere il  robusto spessore. Dei Ponti lombardi del cotone, sorella di Ettore, sindaco di Milano e senatore, educata al Poggio Imperiale, sposa del conte Pier Desiderio Pasolini dall’Onda, poi senatore, autrice di una “Monografia di alcuni operai braccianti nel comune di Ravenna”, promotrice di scuole professionali per donne, e poi di cooperative, che raggruppò nelle Industrie Femminili Italiane, nonché creatrice e animatrice di biblioteche popolari e circolanti, impegnata in ogni causa femminista, fra le promotrici nel 1906 della prima petizione a favore del voto alle donne. Ponti Pasolini animò anche un’Associazione artistica fra i cultori dell’architettura a Roma, una delle prime società conservazioniste, creando la collezione ora in mostra di foto di architetture “minori”, di Roma e del Lazio, che sembravano – e furono – destinate alla distruzione.  
Women&Ruins: Archeology, Photography, and Landscape
, American Academy in Rome

martedì 3 giugno 2025

Secondi pensieri - 563

zeulig


Ambiente
– Ha una valenza genericamente positiva, anche se concettualmente indefinita. Dovrebbe voler dire “natura”, ma la natura è sospetta all’ambientalismo - ha cattive abitudini, distruttive, che
si è tentato ma non si possono sradicare, né nascondere.

Borghesia – Come antitesi del proletariato è creazione-invenzione-conio di Marx? Che però sapeva - ne era espressione, anche tipica: la borghesia era il prototipo, il coronamento, del proletariato. La condizione di affrancamento del lavoro dai suoi aspetti sfavorevoli: obbligato, subordinato, remunerato al minimo, fisso – una gabbia e una catena. L’internazionale del proletariato non ha mai funzionato perché è una irrealtà, innaturale – l’internazionale borghese non si organizza perché è.

Coscienza – “Non è un prodotto del cervello, è una realtà fisica preesistente: un campo quantististico”. Che è indeterminato, ma il fisico Faggin, l’inventore del microchip (e dei touchscreen), parte da questo presupposto: “I fisici credono che la realtà sia solo l’insieme degli oggetti che esistono nello spazio-tempo e che sono descrivibili in modo deterministico, che noi siamo macchine biologiche, che la coscienza sia un epifenomeno del cervello senza libero arbitrio. Ma se la coscienza è ciò che ci permette di conoscere, di capire e di fare esperienza, come è possibile che venga da qualcosa di materiale che non ha coscienza né libero arbitrio?”, si chiede. E si risponde: “Occorre ribaltare tutto: coscienza e libero arbitrio – che coincide con la libertà di decidere cosa osservare e di come reagire all’osservazione – vanno presi come postulati, come esistenti in partenza, all’inizio dell’universo, quello che io chiamo Uno”.

Critica militante – Se ne lamenta la scomparsa, dopo un secolo e mezzo - dopo Sainte-Beuve? Che era, forse, un servizio utile al lettore – o forse no. Era sicuramente una condanna per il critico. Esercizio terribile: approfondito, insistito, interminabile. Di ogni opera letta come di un classico, Che poi diventa un habitus mentale, un rosario recitato a pezzi, a frammenti, ripetuto, da memorizzare, in ogni piega della giornata, sul mezzo pubblico, al caffè, nelle inevitabili code, fomento di insonnie. L’impossibilità di gustare un testo, centellinarlo, perdervisi, fantasticare con esso, o rifiutarlo. Perché di ogni capitolo, ogni riga, ogni parola bisogna avere pronta l’esegesi, istante per istante: si legge e si glossa, cercando di memorizzare, oppure peggio, prendendo appunti. Una fatica di Sisifo se mai ce n’è stata una.

Rivoluzione – Maurizio Ferraris ne ha idea accumulativa, non distruttiva\innovativa, e non radicale: “Dietro alla simpatia per la rivoluzione che azzererebbe il passato e ci ricondurrebbe a una condizione felice e finalmente umana c’è un errore di fondo”, riflette nella rubrica giornalistica “Un soffio di senso”, sul settimanale “7”: “L’idea cioè che l’umano sia buono in natura e corrotto dalla tecnica e dalla società, sicché una rivoluzione dello stato di cose presente permetterebbe alla bontà e alla virtù umana di effondersi nella loro pienezza”. Così non è: “Una minima esperienza del mondo e una accettabile conoscenza della storia suggeriscono invece di adottare una antropologia negativa: l’umano è debole, dunque tendenzialmente malvagio, ed è proprio nella tecnica e nella società, veicoli di progresso, che deve cercarsi la via di riscatto. Il negativo può così condurre al positivo, mentre il positivo conduce al negativo”. Per concludere: “La trasformazione non può passare attraverso la barbarie della rivoluzione (giocare con le teste degli avversari, n.d.r.) ma attraverso una capitalizzazione e ridistribuzione alternativa dei beni di cui l’umanità dispone”. Una “rivoluzione” che oggi sarebbe più opportuna, e anche matura?, che mai: “Gli anni in cui viviamo, nei quali l’umanità produce un valore senza precedenti, perché accumula ogni atto, ogni gusto, ogni pensiero  o bisogno, sono i più propizi per quella capitalizzazione alternativa”. All’ombra di quello che il filosofo chiama “comunismo digitale”, o “Webfare”, “che riusa i dati, che sono rinnovabili, per il benessere dell’umanità”.
 
La rivoluzione è sempre liberale, contro un potere dominante, qualsiasi. E quindi al fondo anarchia – singolarità, individualismo, asocialità.
Connotata, come palingenesi, sui valori della sinistra politica, trova applicazione anche con\su quelli della destra, che si vogliono innovativi in quanto anticonformisti, benché\perché tradizionalisti e perfino passatisti. Nei termini politici, in realtà, che però sono quelli che lo caratterizzano, il concetto di rivoluzione è ambiguo\ubiquo: si pretende sempre salvifica, ma in direzioni opposte.


Suicidio – Ritorna forte – il concetto, se non l’etica – con l’ambientalismo. La cui concezione radicale, o ottimizzazione, è la fine della vita, massimo inquinante.
Sotto forma di “buona morte”, morte misericordiosa, etc., la scrittrice Annie Ernaux se la prospettava trent’anni fa (“La vie extérieure”, 55), dopo aver visto il film di una morte provocata in famiglia, tappa per tappa, gesto per gesto, dal medico con la moglie sul marito colpito da miopatia,  come “un mondo in cui, in qualche modo, la scena della morte farebbe parte dei progetti di vita, in cui «sopprimersi» sarebbe un’opzione così pensabile come sposarsi”.

Pelle – Copertura e ricettore, protezione e attrazione, di luce e di sguardi, di impressioni, fantasie, passioni, da Omero a Malaparte, sineddoche di più vasta applicazione. Per la vita, “lasciarci la pelle”, “salvare la pelle”. Segnale massimo di attrattività-significatività del corpo, a lungo anche ordinario quotidiano, quello femminile con la minigonna, il no bra, il bikini, il topless – o con l’ubiquo tatuaggio. Da contenitore del corpo, protetto dal pelame, si è trasformato in ricettacolo di segni significanti, non si sa a che titolo, ma di forte attrattiva (significanza). Uno dei massimi supporti per decorazioni: non solo dei cosmetici in generale, fino al trucco di scena, al cinema, in teatro, al circo, ma un tempo supporto artistico, body paint, poi di tatuaggi, spesso doppiati con i piercing – e naturalmente campo di esercitazione della chirurgia plastica.

Tatto – La mano diventa sempre più l’articolazione più in uso. Per attività intellettuali ora, di ricerca, documentazione e comunicazione, con computer e smartphone, oltre che in quelle tradizionali “manuali”. Che ora invece vanno a svanire: la velocità nell’uso della mano, delle dita, non si concilia con il loro uso paziente, applicato agli oggetti – e probabilmente anche con la prensilità, con la quota di forza che la prensilità necessita. L’articolazione più servizievole moltiplica i propri usi e s’indebolisce.

In “Linguaggio e anatomia”, 1947, Ernst Jünger sembra considerare l’articolazione umana limitativa. Dedica al tatto la prima parte delle considerazioni conclusive “I cinque sensi”, dopo aver dedicato alla mano la trattazione più ampia, in apertura del saggio, come “destra sinistra”, anche in senso politico, e come “mano e pugno”, incluse anche qui le significazioni politiche. Ma parte da una recriminazione: “Come le nostre parole, i nostri concetti e il nostro pensiero prenderebbero tutt’altre forme se il nostro corpo, invece della simmetria bilaterale, si organizzasse secondo le cinque branche di un pentagono irraggiante, come una stella del mare, oppure di un esagono, come il giglio! Muniti di un cervello così strutturato e di organi che gli corrisponderebbero, saremmo capaci di concepire il mondo in maniera ben più complessa e di rifletterlo più sottilmente”.
 
Viaggio – “Viaggiare è il più triste dei piaceri”, Claude Lévi-Strauss

zeulig@antiit.eu

Calabria terremotata, in attesa di decollo

“Fame e malaria” è la Calabria di Giuseppe Isnardi, il sanremese che pure ne era grande conoscitore, nel 1963. È quello che diceva il meridionale Giustino Fortunato sessant’anni prima al Parlamento, del Meridione come frane, terremoti e malaria – e la Calabria, in particolare, “un vero sfasciume péndolo sul mare”.
Questo è l’inizio. Per finire, i casi che hanno reso la Calabria “protagonista” del dibattito nel 2014 – l’anno in cui Galasso chiudeva e pubblicava questa raccolta, di saggi sparsi negli anni: la “Storia di un cranio conteso”, di Maria Teresa Mlicia, quello del “presunto «brigante» Giuseppe Villela”, una delle vittime di Lombroso, e la storia montata e divulgata dai Carabinieri dell’“inchino” fatto fare alla Madonna in processione a un capomafia ai domiciliari, a Tresilico di Oppido Mamertina, cittadina civile, sede per molti secoli vescovile. La Calabria ha, insomma, un perdurante problema di “proiezione nel mondo contemporaneo” – del cosiddetto decollo, economico ma anche culturale.
Il titolo Galasso ha preso a prestito da Corrado Alvaro, dal saggio-conferenza “La Calabria” al Lyceum di Firenze nel 1931. Non una condanna, o un giudizio amaro. Un riferimento alla natura “terremotata” della regione, alla storia antica e sempre subordinata, alle utopie e ai rifiuti\disdegni della storia recente.
Il saggio centrale, “Al tempo dell’unificazione italiana”, fa finalmente chiarezza sui tentativi non riusciti, pubblici e privati, di riforma agraria - fallimentari per motivi precisi. E sul “feudalesimo”, sul quale si adagia la storia del Meridione, e in particolare della Calabria – che semmai è colpevole per non essersi esercitato. Un contributo eccezionalmente innovativo, veritiero fuori dagli schemi ideologici. In una col primo abbozzo, laico, di una “storia” della manomorta, delle appropriazioni successive dei beni ecclesiastici. Avviate con le “soppressioni” dei Gesuiti, e seguite, in Calabria, dalla Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, e poi, con l’unità, dalla “nuova secolarizzazione dei beni ecclesiastici”.
Una storia che non muta la conclusione: “Socialmente, la Calabria è connotata dal contrasto vistosissimo fra un enorme proletariato di senza terra e senza tutto e una minoranza esigua di beati possidentes”. Resta da riflettere quanto la manomorta, l’appropriazione a prezzo vile e di favore dei beni ecclesiastici, abbia ammorbato la nascente borghesia italiana, e specialmente nel Meridione – la borghesia degli affarucci, facili, cioè della corruzione più che della costruzione.
Lo storico – che con gli studi sulla Calabria, specialmente d’archivio, si è formato – ha riunito qui saggi, articoli, interventi su personaggi e questioni a sfondo calabrese. Anzitutto su altri “scopritori” della Calabria: il geografo Lucio Gambi, il sociologo Isnardi, e gli storici letterati calabresi, Augusto Placanica e,  nell’Ottocento, Vincenzo Padula.
Particolareggiate anche le annotazioni sull’emigrazione – continua, ormai da due secoli, quasi. Sul 1799 – compreso il sanfedismo. Sull’unificazione nel 1860. Col catalogo, curiosamente molto interessante, delle grandi proprietà terriere, nella piana di Gioia Tauro, nella Locride, nel crotonese, sulla Sila, nella piana di Sibari – non delle aziende agricole, delle proprietà terriere.
A specchio, l’industria della liquirizia. Tanto più ardua quanto il mercato è di nicchia. Corigliano ne acquisì il primato in Europa con quattro fabbriche. Tre dei baroni Compagna, già amministratori dei feudatari del luogo, i genovesi Saluzzo, poi subentrati ad essi. E una dei Solazzi, poi conti di Alife. Alle quali una quinta si aggiunse, quella dei Murgia - o Morgia. Che tutte si dotavano nell’Ottocento dei macchinari più innovativi. Nel 1856 il “Morning Chronicle” di Londra apprezzava la liquirizia di Corigliano, “con la marca Cassano, Saluzzo e Solazzi”, “essendo le altre di Calabria miste a terra, un po’ bruciate e di colorito matto”.
Nel saggio probabilmente ultimo in ordine di tempo della raccolta, “Al tempo dell’unificazione italiana”, una lettura storica del brigantaggio molto diversa da quella in uso, politica e sociopolitica. Con rimandi a Michele Fatica, “La Calabria nell’età del Risorgimento” (uno dei saggi della collettanea “Storia della Calabria Moderna e Contemporanea”, 1992, curata da A. Placanica): “ Il brigantaggio è vecchio di secoli in Calabria… Una delle più vecchie manifestazioni di disagio e di devianza, antica di secoli, che si produceva nelle due forme tradizionali della «crassazione di passo» (nei luoghi più favorevoli ad essa: da Campotenese al passo delle Crocelle, alla cupa di Tiriolo, al passo del Mercante, a tanti luoghi dell’Aspromonte, ma in effetti un po’ dovunque) «e del sequestro di persona o del ‘biglietto’ a scopo di estorsione»”. Tutte forme che hanno perdurato, si può testimoniare, fino al secondo Novecento – estorsioni solo dismesse (temporaneamente?) col mercato molto più ricco della droga. I Borbone avevano provato varie volte a contrastare il fenomeno, con interventi mirati, tre o quattro nella prima metà dell’Ottocento.
Giuseppe Galasso, Calabria, paese e gente difficile, Rubbettino, pp. 320 € 15

lunedì 2 giugno 2025

Problemi di base scientifici - 862

spock


Il mondo digitale è più grande o più piccolo?
 
Rappresentarsi è farsi?
 
Il mondo è sempre più chimerico, ipotetico?
 
La scienza moltiplica l’incertezza?
 
S’inventa perché si crede - la scienza è una questione di fede (nasce, evolve) con la fede?
 
Quanto la scienza è cultura (memoria, accumulo, imprinting) e quanto è intuizione – ipotesi, immaginazione, caso?
 
spock@antit.eu

Vite divertenti di scrittori

Galateria, francesista emerita della Sapienza, “prima proustiana”, avendo curato l’edizione commentata della “Recherche” e i primi quaderni preparatori, estrae dal suo patrimonio di letture un repertorio inesauribile di curiosità di scrittori di ogni sorta - compreso Hitler. Per aneddoti legati a una località – a un autore o personaggio in una località. La località è privilegiata, è una sorta di atlante di curiosità che Galateria compone e illustra, cui questo o quello scrittore o artista o grand’uomo, per un motivo o in una situazione particore si legano. La bigliografia e l’indice sono di località, non di autori o generi (aneddotica).
Lettrice eclettica, Galateria regala al lettore punti di vista, particolari, tagli “nuovi”, comunque sorprendenti. Compresa qualche miniatura capolavoro. I viaggi in Russia, p.es., in uso con Stalin, che provvedeva ad accoglienze regali, dei letterati “comunisti”, di Gide e di Zweig, dabbenuomini ma non del tutto. Un Raymond Roussel, localizzato a Tahiti, ben più sfaccettato in due paginette di quello di Sciascia.
Molto è di boccaccesco - fino a Colette e il giovanissimo figliatro Bertrand de Jouvenel, il suo personale “Chéri”. Anche di spionaggio inglese, passione intellettuale: Maugham, Philby (che si preferisce espatriato a Mosca, per non doverlo processare), la baronessa Budberg, forse H.G.Wells, Ian Fleming. Di “artisti in affari” di fatto ce n’è solo una, Schiap a Mosca – Elsa Schiaparelli, “la stilista amica delle avanguardie”, incaricata nel 1936 “di disegnare un abito per la donna media sovietica”.
Sono letture di “viaggi” per lo più. Con personaggi, spesso donne, in qualche modo fuori dell’ordinario: Jenny Falcon, Léonie d’Aunet, Umm el-Banine Assadoulaeff (“la scrittrice azera” di Parigi, invasata di E. Jünger, dall’Occupazione a fine vita, cui dedica libri su libri). Con molta Italia – e Goethe in Italia, ma anche senza: Roma (Mozart, Zola, Goethe naturalmente, Sartre – ma Sartre a Roma sarebbe inseauribile), Napoli, Palermo, Padova, Pozzuoli, Pompei, Portofino, Riva del Garda.
L’effetto è un pot pourri di aneddoti tutti gustosi. Le vite degli scrittori sono o s’immaginano tristi, legate ala sedia. Galateria estrae il non detto, il poco noto, o l’eccentrico, fino all’inverosimile. Di casi, detti, personaggi eccessivi o buffoneschi, anche se alla fine sempre realistici, in tono con la personalità dei protagonisti. Con il retrogusto di essere solo sfumature, sfioramenti, particolari di vicende e personaggi degni di maggior e attenzione, di proporzioni e sfaccettature più particolareggiate, numerose, o comunque diverse dall’opinione corrente che come lettori ce ne eravamo fatte. Sempre per qualche verso curiose, inattese, sorprendenti, anche non a letto. Hitler è salonfähig, salottiero. Martha Gellhorn, “profilo alla Rita Hayworth”, inviata di guerra, divorzia da Hemingway per motivi di concorrenza – ricorre di spigolo in più episodi del libretto, arrivista compulsiva. Perfino di Mme de Staël riesce a sorprendere, oltre il vezzo noto di esporre il seno – scusandosi che “ognuno mostra il viso dove ce l’ha”.
Il volume raccoglie i testi della rubrica quindicinale “Ora d’aria” che Galateria ha tenuto sul rotocalco “il Venerdì di Repubblica” per un paio d’anni. La trentina di pagine che antepone alla raccolta, sotto il titolo “Viaggi di lavoro”, la valgono tutta, un fuoco d’artificio densissimo, da centellinare. La pagina conclusiva della presentazione, col supersnob Proust che nel 1907 va a Cabourg in Normandia per situarvi il romanzo e ci trova un’accozzaglia di volgarità, vale un saggio. 
Qualche cura editoriale non avrebbe guastato. A p. 13 “in terribus infidelium”- forse per assonanza con partibus infidelium. Elsa Schiaparelli che si reca da Parigi a Mosca “in Transiberiana” – per via di Vladivostock?  Ma anche il 1936 con l’alta moda a Mosca, senza il peggior Stalin, senza le “purghe”. O il padre di Ida Baker che “gli consiglia di mandare la sua ragazza alle Canarie”, p. 50,  consiglia alla madre di Katherine Mansfield.
Daria Galateria, Atlante degli artisti in affari, Sellerio, pp. 251 € 15

domenica 1 giugno 2025

L’invasione di Roma – per favore, mi faccia un Giro

Tutto fermo a Roma sabato 31 maggio. Anche domenica 1 giugno. La città è stata chiusa perché il pomeriggio della domenica serva da pista per l’ultima tappa del Giro d’Italia – tappa si sa, da tempo ornamentale, il Giro è già finito: i ciclisti girano e rigirano, tra San Pietro, il Colosseo, la Colombo fino a Ostia, tornano indietro, e riprendono il giro, chiacchierando per la noia, finché non hanno fatto i 140-150 km. regolamentari.  
Dice il sindaco che è uno spettacolo per i romani. Ma non ce ne sono molti ad aspettare la “carovana”. Forse perché non ci sono grandi nomi. Quest’anno fa anche molto caldo, e il percorso è al sole.
Dice il sindaco anche che il Giro porta a Roma in una sola giornata 170 milioni. Si basa su uno studio della banca Ifis, milanese, commissionato da Urbano Cairo, patron del Giro, per giustificare gli incomodi che la corsa porta a città e paesi. Dice lo studio Ifis che il Giro vale 2,1 miliardi di benefici per i 580 Comuni coinvolti – compresa Tirana, la capitale albanese. Di cui 175 milioni per Roma, la  beneficiaria maggiore.
Per Roma lo studio prevede: l’arrivo di 700 mila “girofili”, “dal Piemonte o dalla Sicil1ia”, con una spesa media di 290 euro. Di cui il 31 per cento per lo shopping, il 28 per l’alloggio, il 19 per cento per il food, l’11 per cento per i trasporti, taxi inclusi, un altro 11 per cento per gli svaghi (Colosseo e altri monumenti). Ma forse è stato un giro al risparmio. I girofili dalla Sicilia non sono venuti, troppa fatica, e nemmeno dal Piemonte - e anche i romani, si sa, sono snob, e poi sabato e domenica hanno il mare vicino. Né c’è stato da circolare, essendo stati bloccati i mezzi pubblici e i taxi, oltre quelli privati, e chiusi i monumenti. Per due giorni. Alberghi, ristoranti, negozi sono rimasti vuoti,  perché irraggiungibili.
Settecentomila non si sono visti. Neanche sotto forma di turisti, hanno preferito altri giri. C’era in compenso molta Polizia, con moltissimi vigili. Questi sì, devono avere gonfiato la spesa, ma a carico del sindaco
. I vigili a Roma sono 6.600. Il sindaco assicura che 1.600 di loro hanno vegliato sul buon esito del Giro. E questo significa un sacco di straordinario notturno, che a Roma scatta alle sedici, e di straordinario festivo (c’è anche il festivo notturno?), che i vigili possono avere condiviso in turni da 1.600. Ci sono poi le transenne, mercato fiorentissino per cortei e manifestazioni: migliaia di transenne da noleggiare, nonché da mettere e togliere.

Il sindaco di Roma ci sta abituando alle feste. Una ne ha pagata per un raduno del suo partito a piazza del Popolo. Ora questa in onore del patron del Giro, Urbano Cairo, che è anche padrone del “Corriere della sera” e dell’emittente tv “La 7”. Con qualche sacrificio, e anche con beneficio?

   

Gesù impaziente

“Credere rimane un rimbalzo, la fede un salto”. Perché, alla fine, di questo si tratta: “Lo sforzo per separare l’ispirazione dall’intolleranza, il buon Gesù dal cattivo Gesù”.
Curiosa rassegna di alcuni testi sulla figura di Gesù – alcuni dei tanti: “libro dopo libro, quest’anno dieci in un solo mese”. Libri “storici”, alla rierca del “vero” Gesù.
La rassegna naturalmente non è esautiva – anche se lo è dal punto di vista: il Gesù storico “non esiste”, non sta scritto da nessuna parte, solo nei Vangeli, che sono tardi, e greci. La curiosità è che la figura del Cristo interessi tanto scrittori ebrei, anche se non professi - in Italia Augias (oppure professi, come il rabbino di Roma Di Segni, studioso delle toledoth Jesu, i sarcasmi ebraici contro Gesù, che sarebbero di ordinaria amministrazione in famiglia). Come un’attrazione all’interno di una repulsione.
Il saggio di Gopnik è curioso anche per alcune curiosità. Paul Verhoeven, il regista di “Basic Instincts”, è – era - membro attivo di un Jesus Seminar, un gruppo di studio della figura storica del Cristo, autore di un fresco “Jesus of Nazareth”. Bart Ehrmann è – era - uno studioso e famoso autore di blockbuster, libri di consumo, come Ludlum, come Dawking, sulla figura di Gesù, in serie.
Molti i riferimenti dotti. A W.H.Auden. A Frank Kermode, “The Genesis of Secrecy”. A L.Michael White, “Scripting Jesus: th Gospels in Rewrite”. La novità di tanti sudi? “Quello che sembra nuovo di Gesù non è la pietà o il distacco divino ma l’umanità della sua irritabilità e impazienza”.
Un vecchio saggio, pubblicato dalla rivista nel numero del 17 maggio 2010, riproposto tra “gli scritti di Adam Gopnik.
Adam Gopnik, What did  Jesus do?, “The New Yorker”, free online