sabato 7 giugno 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (595)
Le padrone del primo cinema italiano
Una miniera, da un
secolo a cielo aperto, ma scoperta solo ora, con questa mostra. Solo fotografica – al momento – ma in grado
di fa rivivere trenta personaggi del cinema italiano primo Novecento poi dimenticati.
Trenta donne, per questo trascurate. Che hanno interpretato non solo, ma anche prodtto,
diretto, gestito un vasto numero di film per una vasta gamma di generi. Specialmente
nella prima stagione del cinema, del muto – e della possibilità d’intraprendere
anche senza grandi capitali.
Se ne ricorda, ma
solo repché Bernardo Bertolucci se ne è ricordato in “Novecento” – quando era
prossima ai novant’anni - Francesca Bertini. Che fu anche titolare di una
importante casa di produzioe. Ancora più dinamica, e più nota in quegli anni, è
la dimenticata Elvira Notari, napoletana, produtrice e regista. Che portò la
sua casa di produzione anche a New York, con successo. Elvira Coda Notari fonda
una sua casa di produzione nel 1912, Dora Film, dirige 60 lungometraggi e molti
cortometraggi, che talvolta interpreta. Nel 1925 trasferisce la Dora Film a New
York, con successo. Ma non regge al sonoro e al colore, che richiedono capitali
ingenti. Chiude allora subito la Dora Film, nel 1930 – e dieci anni dopo torna,
a morire, a Cava de’ Tirreni.
Molti altri nomi
femminili movimentano la scena cinematogarfica: Adriana Costamagna, Frieda
Klug, Gemma Bellincioni, Dais Silvan, Astrea, et al. È stato come può
dire nel catalogo Electa Alessandro Giuli, il ministro della Cultura che ha
promosso la mostra, con la sottosegretaria Borgonzoni che l’ha curata: “Le dive
negli anni Dieci erano le ‘padrone’ del cinema italiano, a tal punto che il
loro ruolo esondava da quello di semplici interpreti per allargarsi a quello di
coautrici”.
Quello di Bertini,
d’altronde, è un romanzone: è un’attrice ma ha il potere di negoziare soggetti,
sceneggiature, riprese, montaggi. Ha avuto una carriera lunga quasi settant’anni,
protagonita di “circa” centoventi film, in Europa, Sud America, Russia e Stati
Uniti. Qui pare che ne abbia anche diretti tre, sotto pseudonimo, Frank Bert –
girati nel 1917, non ne resta traccia. Rifiuta la Fox e Hollywood per una sua propria
casa di produzione, Bertini Film, nel 1920. In un solo anno riesce a girare
dieci film. Ma un po’ tutte le storie sono da raccontare.
Una mostra organizzata da ministero, con Cinecittà e la Cineteca di Bologna. Per una volta cioè senza polemiche politiche.
Agnese Sbaffi-
Emanuele A. Minerva–Ministero della Cultura, inVisibili. Le Pioniere del
Cinema, Istituto Centrale per la Grafica, Roma
venerdì 6 giugno 2025
Problemi di base politici - 863
spock
La politica ha
le sue ragioni, che la ragione non conosce?
La politica
consuma?
Ma non i
politici?
Nulla si crea
e nulla si distrugge in politica?
Creare, o
fare?
C’è troppa
politica, o non ce n’è?
spock@antiit.eu
La logica del pregiudizio
“Negare fino alla
tomba”, negare la verità e anche l’evidenza, ha come sottotitolo “Perché
ignoriamo i fatti che ci salveranno”. È un libro-ricerca, sul divario mai colmabile
tra quello che ci diciamo, tra i nostri giudizi e pregiudizi - o anche solo tra
le nostre abitudini, pratiche e mentali - e quello che le scienze pure ci spiegherebbero
convincentemente. Opera di una “specialista in sanità pubblica”, Sara Gorman, e
del padre Jack, psichiatria. Un libro del 2016, su ricerche anteriori, quindi
molto prima del covid, ma i Gorman si erano già interrogati sulle convinzioni irrevocabili
che non solo sono palesemente false ma anche potenzialmente dannose per la
salute, e perfino mortali, come la convinzione che i vaccini siano pericolosi.
È uno studio di molti
casi specifici. Che si segnala per un’ipotesi nuova: che i pregiudizi o i convincimenti
sbagliati che oggi sembrano o possono essere autodistruttivi si sono formati
per processi di adattamento. In qualche modo, cioè, si radicano in processi di lungo
corso, personali (familiari, comunitari, “tribali”) e storici, epocali: sono
abitudini, e ne hanno le comodità. E per il dato curioso delle esperienze dei due
autori: che la forza del pregiudizio – i “bias di conferma” – stia in un
piacere fisico, una scarica di dopamina, quando si ragiona a supporto della
convinzione, per quanto minoritaria o non condivisa, “errata”. Anche per la residua
forza della coerenza: è bello restate fedeli alle proprie convinzioni, anche se,
forse, sbagliate.
L’uomo ha bisogno
di una visione del mondo. Di un’opinione anche se non accurata: ne va della
sopravvivenza, della “lotta per la vita”. Un bisogno che si rafforza in desiderio
più o meno inconscio, più o meno forte, ma costante, di “identificarsi” per
contatto, di “appartenere”. Di fare parte di un gruppo, di una comunità. Per
effetto del quale i fatti, la realtà, la verità possono restare o diventare irrilevanti,
e anche nemici.
La ricerca dei
Gorman, del resto, non fa che esemplificare una verità, un modo di essere e
comportarsi, lungamente attestato o certificato. Da Tolstoj p. es.: “Il fatto
più semplice non può essere spiegato a chi è fermamente persuaso di sapere già,
senza ombra di dubbio, di che si tratta”.
Confrontati da una sfida, dal dubbio, si tende a reagire come scriveva
nel 1971, a sostegno del ponderoso trattato di Keynes, al quale, da “economista
classico”, si era convertito, indigesto a molti economisti Usa, “La teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”: “Di fronte a una scelta
tra cambiare opinione e provare che non ce n’è bisogno un po’ tutti si daranno
da fare con la prova”. In questo caso è l’abitudine, prima ancora che il preconcetto,
a fare legge.
Jack and Sara Gorman,
Denying to the Grave, Oxford University Press, pp. 328 € 17
giovedì 5 giugno 2025
La Russia è una questione europea - o la fine dell’Europa
Non c’è solo l’Ucraina, con la guerra in corso e la divisione impendente
del Donbass. Che vuol dire da sola una
crisi sempre aperta con la Russia. C’è anche la Moldavia, dove i russi e i
filorussi sono raccolti in Transnistria. C’è la Serbia, che all’interno della Ue
manterrà ha un ponte inscindibile con Mosca. Ci sono l’Ungheria e la Romania,
che non vogliono inimicarsi Mosca per il contenzioso reciproco (solo per comodità nascosto)
sulla Transilvania. E sull’altro versante del Mar Nero c’è la Georgia.
Sono innumeri, e interminati-abili i fronti con la Russia che la Ue ha aperto,
dacché ha scelto di farsela nemica, se non addirittura escluderla dalla
Europa, fisicamente, geograficamente. Armandosi contro di essa con spese insostenibili – e probabilmente
inefficaci, essendo l’Unione in realtà (giuridicamente) una disunione.
Una scelta evitabilissima. Bastava mediare seriamente tra Ucraina e
Russia, come si era cominciato a fare dieci anni fa con gli accordi di Minsk.
Di cui poi la Ue non si è curata. Salvo scoprirsi in prima fila sul fronte
antirusso, al guinzaglio della presidenza Biden, legata a partita doppia con l’Ucraina
più antirussa.
Come dire un futuro di instabilità. Anche insolubile. Con esiti politici
ed economici in perdita, tutti.
La Ue dovrà armarsi pesantemente,
al limite dell’insostenibile, per “non” fare la guerra, cioè per mantenersi sempre
in stato di allarme. È il suo primo imperativo adesso, e anzi unico.
Questo impegno - insostenibile, non s ripete mai abbastanza - la terrà ai margini dell’evoluzione mondiale. Commerciale, industriale,
perfino tecnologica, oltre che finanziaria – è pur sempre una Ue divisa in vari
mercatini.
La nuova guerra dei Trent’anni al centro dell’Europa
Tra Russia e Ucraina è guerra senza fine. La Russia è più grande e più
armata, ma, a meno dell’arsenale nucleare, che non può usare, non è più forte:
non sa fare la guerra, e storicamente ha saputo solo controbattere, vincere
difendendosi solo quando messa alle corde, da Napoleone e poi da Hitler.
L’Ucraina, ben più piccola e meno armata, ha all’attivo molte azioni di guerra
che la dicono sempre in grado di creare danno. Gli aeroporti bombardati – da
terra - fino in Siberia. I droni volteggianti fin sul Cremlino. Kursk. Il gasdotto
Nord Stream. Gli assassini mirati di personaggi in vista, in varie località della
Russia. E sul mare: le grandi navi da guerra russe nel Mar Nero bombardate e
affondate, il ponte di Kerç continuamente minato - dopo undici ani di
occupazione.
Con l’assistenza angloamericana ma probabilmente anche con tecniche proprie.
Oltre che per una catena di comando con ogni evidenza funzionante, a differenza
di quella russa, nella programmazione, la decisione e l’esecuzione.
Una guerra tra un settantenne e un cinquantenne. Forse non dei Trent’anni,
quindi. Ma i rapporti non sono più ricucibili, se non si trova spazio nemmeno per
una tregua.
Cronache dell’altro mondo – Democratiche (343)
«Tutti hanno un consiglio per i Democratici. Specialmente i Democratici. Il governatore del Minnesota Tim Walz li vuole “un tantino più
cattivi”. Il goveratore del Maryland Wes Moore li vuole “il partito dei ‘sì’ e
dei ‘no’”. L’ex sindaco di Chicago Rahm Emanuel li vuole più al centro, e non
più “informali e weak e woke”. L’ex minsitro dei Trasporti Buttigieg
ammonisce ad avvicinare “la gente che non la pensa come noi”. Lo stratega
elettorale James Carville consiglia di non usare parole come “equità” o “oligarchi”.
La senatrice del Michigan Elissa Slotkin afferma che i Democratici devono fare
provvista di “energia alfa”. Un nuov think-thank Democartico si propone “la
rottura delle corsie ideologiche e il rigetto delle agende dei gruppi d’interesse”.
«Una ricerca Nexis ha trovato 3.515 casi di frasi del tipo “I Democratici
dovrebbero” e “I Democratici debbono” in articoli di giornale e altri testi nei
tre mesi passati, e altri 3.680 casi di moniti del tipo “I Democratici dovrebbero”.
Una ricerca sul database Factiva mostra frasi di questo tipo a migliaia.
«Apparentemente, i Democratici sottostanno a queste critiche perché il partito
è in bassa fortuna nella considerazione pubblica. Solo il 34,7 per cento degli
americani dà un giudizio favorevole del partito, contro il 58,3 per cento degli
sfavorevoli, secondo un media-sondaggio RealClear. Il partito Repubblicano non fa
molto meglio, con un 42 per cento di favorevoli e un 52,6 di contrari. Ma la
critica investe i Democratici, perché essi stesi amano imbarcarsi in angoscianti
esami di coscienza».
Non per il vuoto di programmi - su Cina, Russia, atlantismo, immigrazione, dazi, dollaro, Israele, università Ivy League?
(“The Washington Post”)
La tragedia (come sempre) dell’amore
All’uscita “velato” dall’esotismo - dalla napoletanità nella sua interezza, le varie psicologie, i vari accenti, le cerimonialità trasgressive - il racconto che Ozpetek filma è una tragedia. Una vera “tragedia greca”, quella che W. Allen famosamente inseguiva ma non al suo modo. Una notte d’amore è tutta la vita, passata e futura. Una sorpresa e un’ossessione.
Senza un motivo particolare, forse solo per il titolo, ma Napoli velata richiama Alcesti, la sposa amata di Admeto, che si sacrifica per tenere in vita lo sposo. Eroina che Eracle libererà, riportandola in vita dagli inferi come donna velata. La città che vive e sanguina per i suoi estrosi concittadini.
Özpetek vi fa convergere
un mondo rutilante, di affetti e delitti, passioni e debolezze, verità e
falsità. Sotto il filtro della vita ordinaria e ordinata, routiniera, “borghese”.
Ma il tragico lo attraversa a ogni scena.
Una tragedia “colorata”.
Non si canta, ma la ricetta è del melodramma, dramma d’amore. Con facce e suoni
che sono un marchio, Anna Bonaiuto, Peppe Barra, la stessa protagonista
Mezzogiorno - agonista e vittima come in ogni tragedia classica.
Ferzan Özpetek, Napoli
velata, Sky Cinema
mercoledì 4 giugno 2025
Letture - 580
letterautore
Giallo – Alessandro
d’Avenia si spiega con un Dürrenmatt del lontano 1957, “La promessa. Requiem
per un romanzo giallo”, il successo del genere da un paio di decenni in Italia,
dopo un paio di secoli di disattenzione. Ma poi prosegue: “Il giallo è quel che
resta della nostra fame di verità: il detective, martire laico, la scoprirà, permette
che si faccia giustizia. Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo,
riportano la casualità alla causalità, e amiamo i detective perché, risolvendo
«un» caso, eliminano «il» caso”.
Se non che poi ha un dubbio: “Ma siamo sicuri di volere verità\giustizia
e non invece uno spettacolo morboso e irrispettoso della dignità dei
coinvolti?”. E non un passatempo, come lo spettacolo a quiz? Un’altra forma di
lettura veloce, dopo quelle di avventura, d’amore, di guerra – e impegnativa solo
brevemente?
Internazionalismo – Tra le
due “chiese”, come usava dire in ambiente laico al tempo del Pci a Roma, solo
quello “romano”, cioè cattolico, ha resistito e resiste, quello
“internazionalista” è sempre naufragato. È l’analisi di “Lotta Comunista”: “Il primato
di Roma ha dovuto subire le amputazioni dello scisma anglicano e della Riforma
protestante (e prima ancora dell’Ortodossia, n.d.r.), ma ha resistito con
arrangiamenti e compromessi alle forze centrifughe animate dall’emergere degli
Stati moderni: dal gallicanesimo della monarchia francese, alle
prerogative imperiali spagnole, al giuseppinismo degli Asburgo
d’Austria, all’americanismo degli Stati Uniti potenza emergente. Sono i
precedenti degli accordi odierni con la Cina…”.
La ragione della continuità? Il compromesso. “Il messaggio a Pechino non
poteva che essere: la Chiesa multipolare, è vero, aspira all’unità, ma
nel suo realismo sa anche farsi attraversare dal confliggere degli interessi di
potenza”.
Per “l’internazionalismo proletario”, invece, “solo l’unità di classe è
il suo principio vitale”. Evidentemente disatteso. O irrealizzabile? “Per tre volte
l’Internazionale comunista è stata sconfitta perché il comparto al cuore del suo
insediamento proletario è stato catturato dalla forza particolare della sua
borghesia. La Prima Internazionale vide la defezione del tradeunionismo inglese
impaurito dalla Comune di Parigi; la seconda l’abdicazione della
socialdemocrazia tedesca nel 1914; la Terza fu annientata nella sua piazzaforte
bolscevica dalla controrivoluzione staliniana, in cui il capitalismo di Stato
si combinò col nazionalismo grande-russo”.
Medea – “Traditrice e
tradita”, una borghese ante litteram, “guidata da un pensiero: il Grande
Amore”. Sulla traccia di Marina Cicogna, che della Callas era amica, Daria
Galateria (“Atlante degli artisti in affari”, 74), lo dice a proposito della
grande cantante, “scoperta” da Pasolini per il ruolo quando Onassis la abbandonava
per Jacqueline Kennedy: “Il 19 ottobre 1968… la Callas accettò il ruolo d Medea
per il film di Pasolini. Dopo anni di relazione con Onassis, quel giorno stesso
aveva saputo che l’indomani il magnate avrebbe sposato Jacqueline Bouvier Kennedy.
Prima la Callas aveva sempre rifiutato il cinema”.
Orfani – Erano tema
ricorrente di narrazioni e sono scomparsi – non da ora, bisogna dire. Ne dà
l’annuncio Francesca Mignemi nel suggestivo - ben più del settimanale di cui è
costola - “speciale” del 25 maggio, “La Lettura delle ragazze e dei ragazzi”. Ricordando
Malot, naturalmente, “Senza famiglia”, e Twain o Lindgren: Heidi, Oliver Twist,
Mowgli il figlio della giungla (ma a suo modo anche Rudyard Kipling, non vero orfano,
ma esiliato da parenti poco affettivi in Inghilterra), Pollyanna…. Con
“antenate e antenati illustri: Cenerentola, Raperonzolo, Biancaneve, Hänsel e
Gretel e Pollicino”. Che “non hanno padri né madri” e hanno “storie che non consolano,
sono scintille di pura immaginazione”. Di che far valere nel dibattito ora sulla
famiglia? “Raccontano la perdita e la possibilità. Indicano sentieri alternativi
con famiglie scelte, amicizie profonde, giardini segreti, fiumi che scorrono
liberi”. Per finire con “Pippi, che vive senza genitori in una casa sorprendente,
cavalca cavalli e sfida ogni autorità con il sorriso”, una “a cui nessuno … dice
cosa fare: è l’anarchia fatta bambina, è l’infanzia che si autodetermina”.
Ma, certo, col cervello di bambini fatti adulti, e bravi scrittori.
Sostituiti ora da adozioni e affidi? Non è la stessa cosa. Il tema è qui l’abbandono,
l’orfano era un tema tragico (il destino), sociale, storico, palingenetico. E
divertente, un mondo senza genitori.
Opinione – Fa la storia:
è l’opinione di Vincenzo Padula, prete, poeta, drammaturgo cosentino del
secondo Ottocento, che per un paio d’anni fu anche giornalista, con una propria
testata, “Il Bruzio”. Dove al lancio dichiara l’opinione “protagonista
dominante della storia del secolo XIX” (Giuseppe Galasso, nello studio sul
Padula poi ripreso in “Calabria, paese e gente difficile”): “Un protagonista,
per lui, da sempre, fin dall’alba dei tempi, e che sempre è all’origine degli
sviluppi storici in atto”. Specie nel secolo XVIII, per Padula “il secolo delle successioni
contrastate, delle riforme amministrative, dell’emancipazione della borghesia,
della libertà nel campo della politica, della religione e del pensiero”. E il
secolo XIX, “(il secolo) non delle successioni dinastiche, ma delle nazionalità,
non dell’emancipazione della borghesia, ma di quella del proletariato, non della
libertà nel campo della politica, ma dell’industria, mirando a cercare non
l’eguaglianza tra i cittadini del medesimo Stato, ma l’eguaglianza tra i
popoli”.
Nella sintesi di Galasso: “L’opinione evolve nel tempo, e muta e rovescia le idee, le
mentalità, le sensibilità, gli atteggiamenti del corpo sociale, rendendo fausto
e benvenuto quel che nel precedente periodo storico era deprecato e avversato”,
E, nel secolo XIX, “l’opinione è il giornale”.
Papa – Perché non
eletto dal popolo romano – in quanto vescovo di Roma? È la tesi di Vincenzo
Padula, il sacerdote e scrittore cosentino, che sul suo giornale “Il Bruzio” si
faceva porre il quesito il 3 aprile 1864 da un anonimo: “Risposta ad una
lettera pseudonima. Il popolo romano può nominare il papa?”, e rispondeva che
sì: il laicato romano può eleggere il suo vescovo, e la cosa “non è esclusa”
neppure dal Concilio di Trento.
Teatro - A fine
Cinquecento-primo Seicento, gli anni di Shakespeare, era infrequentabile a
Londra. Dalle donne, e dalla gente “per bene”. Raccontando “Le sorelle di Shakespeare”,
“quattro donne scrittrici nel Rinascimento” inglese, una delle quali, Elizabeth
Cary, drammaturga, Ramie Targoff spiega che erano frequentati da gentaglia: “I teatri
erano considerati pericolosi per le donne per molti motivi: tra essi borseggi,
fumo, contagi, e uomini libidinosi. Nel 1594 il Lord Mayor di Londra condannava
i teatri perché attiravano «ladri di cavalli, puttanieri e truffatori». Il poeta
Sir John Davies anche lui descriveva il pubblico a teatro nel1593 come fatto di
“un migliaio di borghesi, gentiluomini, e puttane”.
Contemporaneamente la regina Anna, la consorte danese del re Giacomo I, che
regnò nei primi venti anni del Seicento, organizzava a corte dei quadri teatrali,
“The Masque of Queen”, il primo sceneggiato e coreografato da Ben Jonson, in cui
nobildonne seminude impersonavano personaggi storici o epici, in maschera e in
costume, e in silenzio. La prima attrice
donna, sul palcoscenico, si sarebbe avuta, racconta Targoff, a dicembre del
1660 – come Desdemona nell’“Otello”.
Veterani - “Mio zio era
in una delle imbarcazioni del D-Day, lo sbarco in Normandia”, nel 1944, ricorda
Dan Peterson, il colorito allenatore americano di basket:” Sbarcò due volte,
nella seconda stava per rimetterci la vita. Tornò a casa senza un graffio, ma
dopo la guerra diventarono tutti alcolizzati”.
Woke – “Detestano l’Occidente
ma possono esistere solo qui”, Louis Sarkozy – qui in Occidente.
letterautore@antiit.eu
Roma com’era un secolo fa, vista dalle donne
Una mostra su
alcune donne, americane, inglesi e qualche italiana, che hanno accompagnato,
documentato, e non poco anche orientato la stagione postrisorgimentale di Roma,
novella capitale d’Italia. Negli scavi archeologici soprattutto, e anche nell’urbanistica,
negli assetti del rinnovamento di Roma capitale. La prima, e unica, mostra di
questo genere, che documenta e celebra il rinnovamento di Roma, culturale e scientifico
(archeologico), e insieme il cambiamento sociale, per la partecipazione di molte
donne. Molte sapevano anche utilizzare la fotografia, e hanno lasciato
documentazione copiosa, che la mostra consente di apprezzare.
Di notevole peso
anche i personaggi. Esther Boise Van Deman, archeologa americana specialista dell’architettura
della Roma antica, è negli annali per le tecniche di datazione delle costruzioni
romane nel Mediterraneo. Marion Elizabeth Blake, anch’essa americana, continuò
il lavoro di Van Deman, in qualità di storica. Fu a Roma anche l’avventurosa
Gertrude Bell, per qualche tempo dal 1910 - prima di diventare “la madre dell’Iraq”
nella Grande Guerra, a fianco di Lawrence d’Arabia nella rivolta araba contro l’impero
ottomano – lasciando una copiosa documentazione fotografica delle rovine prima
della “sistemazione”. Specie del Foro Romano, dove contava sulla protezione di
Giacomo Boni, che ne dirigeva gli scavi.
Inglesi anche le sorelle
Bulwer, Agnes e Dora, che hanno lasciato anche loro copiosa documentazione fotografica,
lavorando in collegamento col direttore della British School at Rome, Thomas
Ashby – al suo tempo “leggendario” cultore delle testimonianze di Roma antica.
È rappresentata alla
mostra anche, con foto dei monumenti antichi minacciati, a Roma e nella Campagna,
la filantropa e protofemminista Maria Ponti Pasolini. Che a Roma fu anche una celebrity,
animatrice di un quotato salotto internazionale. Personaggio dimenticato, di cui
la mostra fa intravedere il robusto spessore.
Dei Ponti lombardi del cotone, sorella di Ettore, sindaco di Milano e senatore,
educata al Poggio Imperiale, sposa del conte Pier Desiderio Pasolini dall’Onda,
poi senatore, autrice di una “Monografia di alcuni operai braccianti nel comune
di Ravenna”, promotrice di scuole professionali per donne, e poi di cooperative,
che raggruppò nelle Industrie Femminili Italiane, nonché creatrice e animatrice
di biblioteche popolari e circolanti, impegnata in ogni causa femminista, fra
le promotrici nel 1906 della prima petizione a favore del voto alle donne. Ponti
Pasolini animò anche un’Associazione artistica fra i cultori dell’architettura a
Roma, una delle prime società conservazioniste, creando la collezione ora in
mostra di foto di architetture “minori”, di Roma e del Lazio, che sembravano –
e furono – destinate alla distruzione.
Women&Ruins: Archeology,
Photography, and Landscape, American Academy in Rome
martedì 3 giugno 2025
Secondi pensieri - 563
zeulig
Ambiente
– Ha una valenza genericamente positiva, anche se concettualmente indefinita.
Dovrebbe voler
dire “natura”, ma la natura è sospetta all’ambientalismo - ha
cattive abitudini, distruttive, che
si è tentato
ma non si possono sradicare, né nascondere.
Borghesia
– Come antitesi del proletariato è creazione-invenzione-conio
di Marx? Che però sapeva - ne era espressione, anche tipica: la borghesia era il
prototipo, il coronamento, del proletariato. La condizione di affrancamento del
lavoro dai suoi aspetti sfavorevoli: obbligato, subordinato, remunerato al minimo,
fisso – una gabbia e una catena. L’internazionale del proletariato non ha mai funzionato
perché è una irrealtà, innaturale – l’internazionale borghese non si organizza perché
è.
Coscienza
– “Non è un prodotto del cervello, è una realtà fisica
preesistente: un campo quantististico”. Che è indeterminato, ma il fisico
Faggin, l’inventore del microchip (e dei touchscreen), parte da questo
presupposto: “I fisici credono che la realtà sia solo l’insieme degli oggetti
che esistono nello spazio-tempo e che sono descrivibili in modo deterministico,
che noi siamo macchine biologiche, che la coscienza sia un epifenomeno del cervello
senza libero arbitrio. Ma se la coscienza è ciò che ci permette di conoscere,
di capire e di fare esperienza, come è possibile che venga da qualcosa di materiale
che non ha coscienza né libero arbitrio?”, si chiede. E si risponde: “Occorre
ribaltare tutto: coscienza e libero arbitrio – che coincide con la libertà di
decidere cosa osservare e di come reagire all’osservazione – vanno presi come
postulati, come esistenti in partenza, all’inizio dell’universo, quello che io
chiamo Uno”.
Critica militante – Se ne
lamenta la scomparsa, dopo un secolo e mezzo - dopo Sainte-Beuve? Che era,
forse, un servizio utile al lettore – o forse no. Era sicuramente una condanna
per il critico. Esercizio terribile: approfondito,
insistito, interminabile. Di ogni opera letta come di un classico, Che poi
diventa un habitus mentale, un rosario recitato a pezzi, a frammenti, ripetuto,
da memorizzare, in ogni piega della giornata, sul mezzo pubblico, al caffè, nelle
inevitabili code, fomento di insonnie. L’impossibilità
di gustare un testo, centellinarlo, perdervisi, fantasticare con esso, o
rifiutarlo. Perché di ogni capitolo, ogni riga, ogni parola bisogna avere pronta
l’esegesi, istante per istante: si legge e si glossa, cercando di memorizzare,
oppure peggio, prendendo appunti. Una
fatica di Sisifo se mai ce n’è stata una.
Rivoluzione – Maurizio Ferraris
ne ha idea accumulativa, non distruttiva\innovativa, e non radicale: “Dietro alla
simpatia per la rivoluzione che azzererebbe il passato e ci ricondurrebbe a una
condizione felice e finalmente umana c’è un errore di fondo”, riflette nella rubrica
giornalistica “Un soffio di senso”, sul settimanale “7”: “L’idea cioè che
l’umano sia buono in natura e corrotto dalla tecnica e dalla società, sicché
una rivoluzione dello stato di cose presente permetterebbe alla bontà e alla
virtù umana di effondersi nella loro pienezza”. Così non è: “Una minima
esperienza del mondo e una accettabile conoscenza della storia suggeriscono
invece di adottare una antropologia negativa: l’umano è debole, dunque tendenzialmente
malvagio, ed è proprio nella tecnica e nella società, veicoli di progresso, che
deve cercarsi la via di riscatto. Il negativo può così condurre al positivo,
mentre il positivo conduce al negativo”. Per concludere: “La trasformazione non
può passare attraverso la barbarie della rivoluzione (giocare con le teste
degli avversari, n.d.r.) ma attraverso una capitalizzazione e ridistribuzione
alternativa dei beni di cui l’umanità dispone”. Una “rivoluzione” che oggi sarebbe
più opportuna, e anche matura?, che mai: “Gli anni in cui viviamo, nei quali
l’umanità produce un valore senza precedenti, perché accumula ogni atto, ogni
gusto, ogni pensiero o bisogno, sono i più
propizi per quella capitalizzazione alternativa”. All’ombra di quello che il filosofo
chiama “comunismo digitale”, o “Webfare”, “che riusa i dati, che sono
rinnovabili, per il benessere dell’umanità”.
La rivoluzione è sempre liberale, contro un potere dominante, qualsiasi. E
quindi al fondo anarchia – singolarità, individualismo, asocialità.
Connotata, come
palingenesi, sui valori della sinistra politica, trova applicazione anche con\su
quelli della destra, che si vogliono innovativi in quanto anticonformisti, benché\perché
tradizionalisti e perfino passatisti. Nei termini politici, in realtà, che però
sono quelli che lo caratterizzano, il concetto di rivoluzione è ambiguo\ubiquo:
si pretende sempre salvifica, ma in direzioni opposte.
Suicidio – Ritorna forte – il concetto, se non l’etica
– con l’ambientalismo. La cui concezione radicale, o ottimizzazione, è la fine
della vita, massimo inquinante.
Sotto forma di
“buona morte”, morte misericordiosa, etc., la scrittrice Annie Ernaux se la
prospettava trent’anni fa (“La vie extérieure”, 55), dopo aver visto il film di
una morte provocata in famiglia, tappa per tappa, gesto per gesto, dal medico
con la moglie sul marito colpito da miopatia,
come “un mondo in cui, in qualche modo, la scena della morte farebbe
parte dei progetti di vita, in cui «sopprimersi» sarebbe un’opzione così
pensabile come sposarsi”.
Pelle – Copertura e ricettore, protezione e attrazione,
di luce e di sguardi, di impressioni, fantasie, passioni, da Omero a Malaparte,
sineddoche di più vasta applicazione. Per la vita, “lasciarci la pelle”, “salvare
la pelle”. Segnale massimo di attrattività-significatività del corpo, a lungo
anche ordinario quotidiano, quello femminile con la minigonna, il no bra,
il bikini, il topless – o con l’ubiquo tatuaggio. Da contenitore del corpo,
protetto dal pelame, si è trasformato in ricettacolo di segni significanti, non
si sa a che titolo, ma di forte attrattiva (significanza). Uno dei massimi supporti
per decorazioni: non solo dei cosmetici in generale, fino al trucco di scena,
al cinema, in teatro, al circo, ma un tempo supporto artistico, body paint,
poi di tatuaggi, spesso doppiati con i piercing – e naturalmente campo di
esercitazione della chirurgia plastica.
Tatto – La mano diventa sempre più l’articolazione più in uso. Per attività intellettuali ora, di ricerca, documentazione e comunicazione, con computer e smartphone, oltre che in quelle tradizionali “manuali”. Che ora invece vanno a svanire: la velocità nell’uso della mano, delle dita, non si concilia con il loro uso paziente, applicato agli oggetti – e probabilmente anche con la prensilità, con la quota di forza che la prensilità necessita. L’articolazione più servizievole moltiplica i propri usi e s’indebolisce.
In “Linguaggio e anatomia”, 1947, Ernst Jünger sembra considerare l’articolazione
umana limitativa. Dedica al tatto la prima parte delle considerazioni conclusive
“I cinque sensi”, dopo aver dedicato alla mano la trattazione più ampia, in
apertura del saggio, come “destra sinistra”, anche in senso politico, e come “mano
e pugno”, incluse anche qui le significazioni politiche. Ma parte da una recriminazione:
“Come le nostre parole, i nostri concetti e il nostro pensiero prenderebbero tutt’altre
forme se il nostro corpo, invece della simmetria bilaterale, si organizzasse
secondo le cinque branche di un pentagono irraggiante, come una stella del
mare, oppure di un esagono, come il giglio! Muniti di un cervello così
strutturato e di organi che gli corrisponderebbero, saremmo capaci di concepire
il mondo in maniera ben più complessa e di rifletterlo più sottilmente”.
Viaggio – “Viaggiare è il più triste dei piaceri”, Claude
Lévi-Strauss
zeulig@antiit.eu
Calabria terremotata, in attesa di decollo
“Fame e malaria” è la Calabria di
Giuseppe Isnardi, il sanremese che pure ne era grande conoscitore, nel 1963. È quello
che diceva il meridionale Giustino Fortunato sessant’anni prima al Parlamento,
del Meridione come frane, terremoti e malaria – e la Calabria, in particolare,
“un vero sfasciume péndolo sul mare”.
Questo è l’inizio. Per finire, i
casi che hanno reso la Calabria “protagonista” del dibattito nel 2014 – l’anno
in cui Galasso chiudeva e pubblicava questa raccolta, di saggi sparsi negli
anni: la “Storia di un cranio conteso”, di Maria Teresa Mlicia, quello del
“presunto «brigante» Giuseppe Villela”, una delle vittime di Lombroso, e la storia
montata e divulgata dai Carabinieri dell’“inchino” fatto fare alla Madonna in processione
a un capomafia ai domiciliari, a Tresilico di Oppido Mamertina, cittadina
civile, sede per molti secoli vescovile. La Calabria ha, insomma, un perdurante
problema di “proiezione nel mondo contemporaneo” – del cosiddetto decollo, economico
ma anche culturale.
Il titolo Galasso ha preso a prestito da
Corrado Alvaro, dal saggio-conferenza “La Calabria” al Lyceum di Firenze nel
1931. Non una condanna, o un giudizio amaro. Un riferimento alla natura “terremotata”
della regione, alla storia antica e sempre subordinata, alle utopie e ai
rifiuti\disdegni della storia recente.
Il saggio centrale, “Al tempo dell’unificazione
italiana”, fa finalmente chiarezza sui tentativi non riusciti, pubblici e
privati, di riforma agraria - fallimentari per motivi precisi. E sul “feudalesimo”,
sul quale si adagia la storia del Meridione, e in particolare della Calabria –
che semmai è colpevole per non essersi esercitato. Un contributo eccezionalmente
innovativo, veritiero fuori dagli schemi ideologici. In una col primo abbozzo,
laico, di una “storia” della manomorta, delle appropriazioni successive dei beni
ecclesiastici. Avviate con le “soppressioni” dei Gesuiti, e seguite, in Calabria,
dalla Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, e poi, con l’unità, dalla “nuova
secolarizzazione dei beni ecclesiastici”.
Una storia che non muta la conclusione:
“Socialmente, la Calabria è connotata dal contrasto vistosissimo fra un enorme
proletariato di senza terra e senza tutto e una minoranza esigua di beati
possidentes”. Resta da riflettere quanto la manomorta, l’appropriazione a
prezzo vile e di favore dei beni ecclesiastici, abbia ammorbato la nascente borghesia
italiana, e specialmente nel Meridione – la borghesia degli affarucci, facili,
cioè della corruzione più che della costruzione.
Lo storico – che con gli studi sulla Calabria,
specialmente d’archivio, si è formato – ha riunito qui saggi, articoli,
interventi su personaggi e questioni a sfondo calabrese. Anzitutto su altri “scopritori”
della Calabria: il geografo Lucio Gambi, il sociologo Isnardi, e gli storici
letterati calabresi, Augusto Placanica e, nell’Ottocento, Vincenzo Padula.
Particolareggiate anche le annotazioni
sull’emigrazione – continua, ormai da due secoli, quasi. Sul 1799 – compreso il
sanfedismo. Sull’unificazione nel 1860. Col catalogo, curiosamente molto interessante,
delle grandi proprietà terriere, nella piana di Gioia Tauro, nella Locride, nel
crotonese, sulla Sila, nella piana di Sibari – non delle aziende agricole,
delle proprietà terriere.
A specchio, l’industria della
liquirizia. Tanto più ardua quanto il mercato è di nicchia. Corigliano ne
acquisì il primato in Europa con quattro fabbriche. Tre dei baroni Compagna,
già amministratori dei feudatari del luogo, i genovesi Saluzzo, poi subentrati ad
essi. E una dei Solazzi, poi conti di Alife. Alle quali una quinta si aggiunse,
quella dei Murgia - o Morgia. Che tutte si dotavano nell’Ottocento dei macchinari
più innovativi. Nel 1856 il “Morning Chronicle” di Londra apprezzava la
liquirizia di Corigliano, “con la marca Cassano, Saluzzo e Solazzi”, “essendo le
altre di Calabria miste a terra, un po’ bruciate e di colorito matto”.
Nel saggio probabilmente ultimo in
ordine di tempo della raccolta, “Al tempo dell’unificazione italiana”, una lettura
storica del brigantaggio molto diversa da quella in uso, politica e sociopolitica.
Con rimandi a Michele Fatica, “La Calabria nell’età del Risorgimento” (uno dei
saggi della collettanea “Storia della Calabria Moderna e Contemporanea”, 1992,
curata da A. Placanica): “ Il brigantaggio è vecchio di secoli in Calabria… Una
delle più vecchie manifestazioni di disagio e di devianza, antica di secoli,
che si produceva nelle due forme tradizionali della «crassazione di passo» (nei
luoghi più favorevoli ad essa: da Campotenese al passo delle Crocelle, alla cupa
di Tiriolo, al passo del Mercante, a tanti luoghi dell’Aspromonte, ma in
effetti un po’ dovunque) «e del sequestro di persona o del ‘biglietto’ a scopo
di estorsione»”. Tutte forme che hanno perdurato, si può testimoniare, fino al secondo
Novecento – estorsioni solo dismesse (temporaneamente?) col mercato molto più
ricco della droga. I Borbone avevano provato varie volte a contrastare il fenomeno,
con interventi mirati, tre o quattro nella prima metà dell’Ottocento.
Giuseppe Galasso, Calabria, paese e gente
difficile, Rubbettino, pp. 320 € 15
lunedì 2 giugno 2025
Problemi di base scientifici - 862
spock
Il mondo
digitale è più grande o più piccolo?
Rappresentarsi
è farsi?
Il mondo è sempre
più chimerico, ipotetico?
La scienza moltiplica
l’incertezza?
S’inventa
perché si crede - la scienza è una questione di fede (nasce, evolve) con la
fede?
Quanto la
scienza è cultura (memoria, accumulo, imprinting) e quanto è intuizione –
ipotesi, immaginazione, caso?
spock@antit.eu
Vite divertenti di scrittori
Galateria,
francesista emerita della Sapienza, “prima proustiana”, avendo curato
l’edizione commentata della “Recherche” e i primi quaderni preparatori, estrae
dal suo patrimonio di letture un repertorio inesauribile di curiosità di
scrittori di ogni sorta - compreso Hitler. Per aneddoti legati a una località –
a un autore o personaggio in una località. La località è privilegiata, è una
sorta di atlante di curiosità che Galateria compone e illustra, cui questo o
quello scrittore o artista o grand’uomo, per un motivo o in una situazione
particore si legano. La bigliografia e l’indice sono di località, non di autori
o generi (aneddotica).
Lettrice
eclettica, Galateria regala al lettore punti di vista, particolari, tagli
“nuovi”, comunque sorprendenti. Compresa qualche miniatura capolavoro. I viaggi
in Russia, p.es., in uso con Stalin, che provvedeva ad accoglienze regali, dei
letterati “comunisti”, di Gide e di Zweig, dabbenuomini ma non del tutto. Un
Raymond Roussel, localizzato a Tahiti, ben più sfaccettato in due paginette di
quello di Sciascia.
Molto è di
boccaccesco - fino a Colette e il giovanissimo figliatro Bertrand de Jouvenel,
il suo personale “Chéri”. Anche di spionaggio inglese, passione intellettuale:
Maugham, Philby (che si preferisce espatriato a Mosca, per non doverlo
processare), la baronessa Budberg, forse H.G.Wells, Ian Fleming. Di “artisti in
affari” di fatto ce n’è solo una, Schiap a Mosca – Elsa Schiaparelli, “la
stilista amica delle avanguardie”, incaricata nel 1936 “di disegnare un abito
per la donna media sovietica”.
Sono letture di
“viaggi” per lo più. Con personaggi, spesso donne, in qualche modo fuori
dell’ordinario: Jenny Falcon, Léonie d’Aunet, Umm el-Banine Assadoulaeff (“la
scrittrice azera” di Parigi, invasata di E. Jünger, dall’Occupazione a fine
vita, cui dedica libri su libri). Con molta Italia – e Goethe in Italia, ma
anche senza: Roma (Mozart, Zola, Goethe naturalmente, Sartre – ma Sartre a Roma
sarebbe inseauribile), Napoli, Palermo, Padova, Pozzuoli, Pompei, Portofino,
Riva del Garda.
L’effetto è un pot
pourri di aneddoti tutti gustosi. Le vite degli scrittori sono o
s’immaginano tristi, legate ala sedia. Galateria estrae il non detto, il poco
noto, o l’eccentrico, fino all’inverosimile. Di casi, detti, personaggi
eccessivi o buffoneschi, anche se alla fine sempre realistici, in tono con la
personalità dei protagonisti. Con il retrogusto di essere solo sfumature,
sfioramenti, particolari di vicende e personaggi degni di maggior e attenzione,
di proporzioni e sfaccettature più particolareggiate, numerose, o comunque
diverse dall’opinione corrente che come lettori ce ne eravamo fatte. Sempre per
qualche verso curiose, inattese, sorprendenti, anche non a letto. Hitler è salonfähig,
salottiero. Martha Gellhorn, “profilo alla Rita Hayworth”, inviata di guerra,
divorzia da Hemingway per motivi di concorrenza – ricorre di spigolo in più
episodi del libretto, arrivista compulsiva. Perfino di Mme de Staël riesce a
sorprendere, oltre il vezzo noto di esporre il seno – scusandosi che “ognuno
mostra il viso dove ce l’ha”.
Il volume
raccoglie i testi della rubrica quindicinale “Ora d’aria” che Galateria ha
tenuto sul rotocalco “il Venerdì di Repubblica” per un paio d’anni. La trentina
di pagine che antepone alla raccolta, sotto il titolo “Viaggi di lavoro”, la
valgono tutta, un fuoco d’artificio densissimo, da centellinare. La pagina
conclusiva della presentazione, col supersnob Proust che nel 1907 va a Cabourg
in Normandia per situarvi il romanzo e ci trova un’accozzaglia di volgarità,
vale un saggio.
Qualche cura
editoriale non avrebbe guastato. A p. 13 “in terribus infidelium”- forse
per assonanza con partibus infidelium. Elsa Schiaparelli che si reca da
Parigi a Mosca “in Transiberiana” – per via di Vladivostock? Ma anche il 1936 con l’alta moda a Mosca,
senza il peggior Stalin, senza le “purghe”. O il padre di Ida Baker che “gli
consiglia di mandare la sua ragazza alle Canarie”, p. 50, consiglia alla madre di Katherine Mansfield.
Daria Galateria, Atlante
degli artisti in affari, Sellerio, pp. 251 € 15
domenica 1 giugno 2025
L’invasione di Roma – per favore, mi faccia un Giro
Tutto fermo a Roma sabato 31 maggio. Anche domenica 1 giugno. La città è
stata chiusa perché il pomeriggio della domenica serva da pista per l’ultima tappa
del Giro d’Italia – tappa si sa, da tempo ornamentale, il Giro è già finito: i
ciclisti girano e rigirano, tra San Pietro, il Colosseo, la Colombo fino a Ostia,
tornano indietro, e riprendono il giro, chiacchierando per la noia, finché non hanno
fatto i 140-150 km. regolamentari.
Dice il sindaco che è uno spettacolo per i romani. Ma non ce ne sono
molti ad aspettare la “carovana”. Forse perché non ci sono grandi nomi. Quest’anno fa anche
molto caldo, e il percorso è al sole.
Dice il sindaco anche che il Giro porta a Roma
in una sola giornata 170 milioni. Si basa su uno studio della banca Ifis, milanese, commissionato
da Urbano Cairo, patron del Giro, per
giustificare gli incomodi che la corsa porta a città e paesi. Dice lo studio
Ifis che il Giro vale 2,1 miliardi di benefici per i 580 Comuni coinvolti – compresa
Tirana, la capitale albanese. Di cui 175 milioni per Roma, la beneficiaria maggiore.
Per Roma lo studio prevede: l’arrivo di 700
mila “girofili”, “dal Piemonte o dalla Sicil1ia”, con una spesa media di 290
euro. Di cui il 31 per cento per lo shopping, il 28 per l’alloggio, il 19 per
cento per il food, l’11 per cento per i trasporti,
taxi inclusi, un altro 11 per cento per gli svaghi (Colosseo e altri monumenti).
Ma forse è stato un giro al risparmio. I girofili dalla Sicilia non sono venuti,
troppa fatica, e nemmeno dal Piemonte - e anche i romani, si sa, sono snob, e
poi sabato e domenica hanno il mare vicino. Né c’è stato da circolare, essendo
stati bloccati i mezzi pubblici e i taxi, oltre quelli privati, e chiusi i monumenti.
Per due giorni. Alberghi, ristoranti, negozi sono rimasti vuoti, perché irraggiungibili.
Settecentomila non si sono visti. Neanche sotto
forma di turisti, hanno preferito altri giri. C’era in compenso molta Polizia, con
moltissimi vigili. Questi sì, devono avere gonfiato la spesa, ma a carico del sindaco. I vigili a Roma sono
6.600. Il sindaco assicura che 1.600 di loro hanno vegliato sul buon esito del Giro.
E questo significa un sacco di straordinario notturno, che a Roma scatta alle
sedici, e di straordinario festivo (c’è anche il festivo notturno?), che i vigili
possono avere condiviso in turni da 1.600. Ci sono poi le transenne, mercato fiorentissino per cortei e manifestazioni: migliaia di transenne da noleggiare, nonché da mettere e togliere.
Il sindaco di Roma ci sta abituando alle feste.
Una ne ha pagata per un raduno del suo partito a piazza del Popolo. Ora questa
in onore del patron del Giro,
Urbano Cairo, che è anche padrone del “Corriere della sera” e dell’emittente tv
“La 7”. Con qualche sacrificio, e anche con beneficio?