sabato 13 settembre 2025
Le sanzioni o il gioco degli inganni
“Siamo pronti a far salire la pressione economica sulla Russia, ma abbiamo bisogno che i nostri partner in Europa facciano lo stesso”, Scott Bessent, ministro americano del Tesoro. E come no. È da tre o quattro anni che gli Stati Uniti aspettano, mentre l’Europa e alla 19ma o 20ma ondata di sanzioni. Che dovrebbero essere un terremoto di scala n, e azionare uno tsunami biblico, il ritorno a Noè, ma nessuno se le fila. Il loro solo effetto è stato di sostituire il gnl americano, più caro, al gas russo, molto più economico (e sicuro).
Probiemi di base bellicosi - 880
spock
Chi di spada ferisce, di spada perisce?
Lo disse Gesù Cristo, ma non è un buon motivo per non crederci?
Armageddon - quanto finale è il giudizio finale?
E la vittima, non ha sempre ragione?
Se con Israele non si tratta, l’alternativa è sottomettersi o abbatterlo?
Per duemila anni?
spock@antiit.eu
Klimt d’oro e l’Austria senza C olpa
“Woman
in gold” è il dipinto forse più famoso di Gustav Klimt. Comunque quello che l’Austria
avrebbe voluto al Belvedere come “la Mona Lisa di Vienna”. È in realtà uno dei
due “Ritratto di Adele Bloch-Bauer” che Klimt aveva realizzato tra il 1903 e il
1907, poi rubati nel 1938 agli eredi di Adele, importanti famiglie ebraiche di
Vienna. Tardi nel dopoguerra, nel 1998, la nipotina preferita di Adele, Maria Altmann,
rifugiata con la sorella nel 1938 negli Stati Uniti, scopre tra le carte della
sorella morta la storia del dipinto, che lo Stato austriaco ha recuperato dopo
la guerra, e non ha voluto restituire alla famiglia – l’Austria aveva creato un
comitato per la restituzione delle opere d’arte rubate negli anni nazisti. Scopre
che si può fare, in America, una causa contro l’Austria. La fa, e la vince – il
dipinto è ora in America, di proprietà privata ma in fruizione libera al
pubblico.
Di
scuola inglese, il regista Simon Curtis sa come drammatizzare, dare spessore, a
queste vicende socio-giudiziarie. Una Helen Mirren in forma dà carattere, e verve,
alla non più giovanissima erede, e il racconto scorre sui toni brillanti. Le violenze
sugli ebrei negli anni del nazismo sono ridotte a uno o due casi, l’avvocato di
Maria è giovanissimo, e imbranato – non sa neanche della persecuzione degli ebrei,
benché nipote di Schönberg, il compositore, anche lui rifugiato in America. Di più
pesa l’ipocrisia dell’Austria odierna.
Maria
Altmann vince infine la causa contro l’Austria a Vienna, su un arbitrato di esperti
austriaci. Ma il film scorre sul contrappunto di una uneasiness che si
respira fra le alte cariche dell’Austria.Lo spettatore è rimandato al disagio, più
spesso proclamato, polemico, dei maggiori scrittori austriaci del dopoguerra,
Bachmann, Bernhard, Jelinek, lo stesso Handke, sul “passato che non passa”. Che si
capisce al confronto con la Germania: la Germania di è presa la Colpa, senza se
e senza ma (ancora oggi ha difficoltà a criticare l’Israele di Netanyahu), l’Austria
ha ignorato la questione (Schuldfrage).
Simon
Curtis, Woman in Gold, Tv Duemila, PlayDuemila
venerdì 12 settembre 2025
Il mondo com'è (487)
astolfo
Houston Stewart
Chamberlain –
Inglese,1855 (la Treccani riporta erroneamente il 1856)-1927, volle farsi e
divenne il più noto, influente e radicale razzista tedesco di fine Ottocento e
del primo Novecento – Hitler incluso, di cui fu il maestro. Nessuna parentela
con Neville Chamberlain, il primo ministro (1937-1940) suo coetaneo - nonché in
qualche modo (conferenza di Monaco, 1938, politica di arrendevolezza, appeasement,
verso Hitler) anche lui tedeschizzante, ma mai nei modi e nella misura in cui
lo fu Houston Stewart, più “tedesco” dei tedeschi.
Figlio di un
contrammiraglio, nato a Southsea, il sobborgo di Portsmouth, base navale, ebbe
un’infanzia solitaria, per la cattiva salute – gli inverni trascorreva in
Francia, Italia o Spagna, accudito dalla nonna o altri familiari. Rifiutò la
carriera miliare e in prossimità della maggiore età ottenne di viaggiare in
Europa. Viaggiò con un tutore di origini prussiane, Otto Kuntze, dal quale apprese
la lingua e la “cultura” tedesche, il modo di essere e di pensare. Ma amava
anche l’italiano e la cultura del Rinascimento, e per un periodo pensò di
stabilirsi a Firenze. Invece si trasferì a Ginevra, per seguire i corsi di Carl
Vogt, teorico di un “razzismo scientifico”. Vogt era in cattedra come naturalista,
ma era stato accusato da Marx di essere un agente di Napoleone III (l’opuscolo
“Herr Vogt”, a fine 1860, sintetizzava un’astiosa polemica durata due anni).
Nei suoi anni
venti si professava liberale, ammiratore di Gladstone. Furiosamente ostile al conservatore
Disraeli, che era stato primo ministro nel 1868 e lo era ora dal 1874 (lo sarà
fino al 1880). Disraeli era ebreo, ma a lui H.S.Chamberlain rimproverava non
l’ebraismo bensì, da liberale, il jingosimo, e il classismo – l’avere iniettato
nella vita pubblica il senso sociale di classe e il nazionalismo acuto, oggi si
direbbe identitario, sciovinista, e imperialista. Si cimenterà in varie
discipline scientifiche, la botanica, l’astrofisica (la teoria del “ghiaccio mondiale”:
la maggior parte dei corpi nel sistema solare sono coperti dal ghiaccio). Antidarwinista
(contro l’evoluzione e contro il darwinismo sociale) e per la Gestalt -
che derivava da Goethe: la materia come un insieme di elementi fisici, biologici,
psicologici o simbolici che creano un “unico, unitario concetto” o sistema, schema,
assetto che è altro che le sue parti o la somma delle sue parti, per le interrelazioni
che si stabiliscono fra le parti, per carattere, personalità, entità, essenza.
Intanto, richiamato
a casa, si è scontrato con la famiglia, si è proclamato “non inglese”, e si è
stabilito in un primo momento in Germania. Affascinato ora, oltre che da Vogt,
dalla musica di Wagner: si proclama tedesco e comincia a farsi un nome come
antisemita. Benché francofobo, prova a stabilirsi a Parigi, fondandovi una
società wagneriana – a Parigi Wagner era stato sdoganato trent’anni prima
da Baudelaire. Ma non gli basta per sopravvivere.
Presto è di nuovo
in Germania, a Dresda, dove è parte attiva nel movimento völkisch,
nazionalista pangermanista. Nel 1888 si illustra per inneggiare alla morte
dell’imperatore Federico III, “un liberalebreo”, e alla successione dell’antisemita
Guglielmo II. L’antisemitismo radicalizza frequentando a Bayreuth Cosima Liszt
vedova Wagner – di cui sposerà nel 1908 la figlia Eva von Bülow, la figlia che
Cosima aveva fatto con Wagner quando ancora risultava sposata a Hans von Bülow.
Si sposta poi a Vienna, dove studia Gobineau, “Sulla diseguaglianza delle razze
umane”, elabora teorie sulla razza, proclama la supremazia teutonica, e nel
1896 riceve e realizza la commissione per un trattato “I fondamenti del
diciannovesimo secolo”, i fondamenti razzisti – la commessa è dell’editore Hugo
Bruckmann, lo stesso che pubblicherà Hitler, il “Mein Kampf”. Il volume si vuole
una “storia razziale dell’umanità”, volta al primato della “razza ariana” - e alla
dittatura come forma naturale e migliore di governo (la democrazia viene in subordine,
come invenzione ebraica per la distruzione degli ariani.
Le teorie di H.S
.Chamberlain fulmineranno il kaiser Guglielmo II qualche anno dopo, e una stretta
amicizia tra i due si formerà – che la corrispondenza testimonia. Rafforzandosi
nella Grande Guerra, quando H. S. Chamberlain sarà premiato con la Croce di Guerra e
naturalizzato cittadino tedesco (1916). Era stato in prossimità della guerra il
più convinto sostenitore del diritto della Germania alla potenza marittima. Con
l’avocazione della dottrina del maggior teorico all’epoca della marineria militare,
l’ammiraglio americano Alfred Thayer
Mahan (“L’influenza del potere marittimo nella storia, 1660-1805”): il potere marittimo
è essenziale alla prosperità nazionale.
Aveva provato ad
arruolarsi volontario come soldato tedesco, rifiutato per l’età (58 anni) e per
la cattiva salute. La Gande Guerra era arrivata per lui con la paralisi
progressiva, a partire dalla bocca. La paralisi non gli impedì di continuare scrivere
molto. Celebrò il kaiser Guglielmo II come il “re soldato ariano”, prospettando
un Reich “per i prossimi cent’anni e più”, per rafforzare il germanesimo e realizzare
“lo sterminio decisivo di tutto ciò che non è germanico”. Scrisse molto anche
contro la democrazia, “strumento dei plutocrati ebrei”, in Gran Bretagna, in Francia e in America. Particolarmente feroce fu la sua polemica in guerra contro
tutto ciò che è inglese, oltre che ebraico.
Sempre molto citato.
Non si scoraggiò
alla sconfitta tedesca. E all’esilio del suo grande amico il kaiser. Essendo intanto
divenuto l’ispiratore di Hitler – di cui verrà detto “il Battista”, “il
Precursore” – del “Mein Kampf”.
Madame
Deshoulières –
C’è chi l’ha voluta, in Francia, l’ispiratrice di Puškin, del tocco leggero, di
poesie e narrazioni. Forse esagerando. “Antoinette Des Houlières, ovvero
Antoinette de Lafon de Boisguérin des Houlières”, recita wikipedia, “nata
Antoinette du Ligier de la Garde, detta anche Madame Deshoulières” fu poetessa
nel suo secolo, il Seicento, di “idilli”. Ed è vero che fu più popolare per
questo in Russia, dove gli idilli ebbero successo, a fine Settecento, che in
Francia. A lei, lamenta Dostoevskij nel saggio “Russia”, del 1860, e ad André Chénier
(oggi ricordato solo per l’opera di Cilea, n.d.r.), i francesi fanno risalire
l’opera di Puškin. Che forse, ma non si sa, l’ha pure letta.
Istruita in casa,
era versata in latino, italiano e castigliano. Il padre era stato maestro di
palazzo di Maria dei Medici e di Anna d’Asburgo, le due regine. Fu amica di Pierre
Corneille, e del di lui fratello minore Thomas, anche lui autore di teatro, di
Mme de Sévigné e di Mlle Scudéry. Molto apprezzata in vita anche in Francia, la
“Calliope francese”, la “decima Musa”. La prima donna onorata con incarichi
accademici – eletta nel 1684 per chiara fama all’Accademia dei Ricovrati a
Padova (l’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti fondata nel
1599 dal nobile veneziano Federico Corner).
Alberto
Guglielmotti – Frate
domenicano, di Civitavecchia, per un periodo provinciale dell’ordine nel Lazio,
fu storico appassionato e rispettato della Marina Militare. Dapprima di quella pontificia,
poiché Civitavecchia era il porto della flottiglia papale anti-saraceni. Poi di
quella italiana - che lo ha onorato con varie intitolazioni, tra esse quella di
sommergibile. Benché inizialmente sostenitore del “non possumus”, dell’aventino
politico deciso dai cattolici dopo Porta Pia – un aneddoto lo vuole rifiutare l’incontro
che il 17 settembre 1870 Nino Bixio, occupando\liberando
Civitavecchia, gli
aveva chiesto da vecchio marinaio, che conosceva le pubblicazioni e le gesta
del frate.
Aveva esordito nel
1862 con “Marc’Antonio Colonna alla battaglia di Lepanto”. Antonio Baldini gli
dedica una pagina entusiastica in “Italia di Bonincontro”, nel cap.
“Civitavecchia”, una prosa di un secolo fa, al “Comandante e teologo
Gugliemotti”: “Frate, fratissimo; italiano, italianissimo…. Antibarbaresco a ragion
saputa…. Pieno insieme di candore e d’ironia. Gran camminatore, andava come niente
a piedi da Roma a Civitavecchia”. Avventuroso, era stato in pellegrinaggio in
Terrasanta, via mare. Ma “grande sedentario: durò trent’anni a scrivere la storia
di Roma apale contro saraceni, turchi e corsari….. e qarant’anni a metter
insieme, con spirito sempre desto di turista e d’italiano, il «Vocabolario
marino e militare»”. Di cui D’Annunzio s’è ampiamente servito: “Ha pescato a
quattro mani nel «Vocabolario marino» gemme da incastonare nelle sue
paganissime laudi”).
La Marina gli ha
intitolato due sommergibili. Il primo, “Alberto Guglielmotti”, un sommergibile
della Regia Marina, fu speronato e affondato per errore da una
cannoniera/dragamine britannica alla sua prima uscita, nel 1916. Il secondo,
varato nel 1938, operò nel mar Rosso nella prima fase della guerra, per poi spostarsi,
cadendo l’Africa orientale in mano inglese, verso il Mediterraneo. Dove il 15
marzo 1942 fu colpito da un siluro del sommergibile inglese Unbeaten e
affondato con tutto l’equipaggio, a una quindicina di miglia a sud di Capo
Spartivento, in Calabria.
Sensazionalismo – La stampa
scandalistica, o “giornalismo giallo”, ha storia recente, di poco più di un secolo.
L’origine si fa risalire alla guerra degli Stati Uniti contro la Spagna, per le
Filippine e Cuba, a fine Ottocento. I giornali d’opinione americani dell’epoca,
che poi erano giornali di New York, il “New York Journal” di William Randolph Hearst
e il “New York World” di Joseph Pulitzer, fecero a gara a fomentare l’opinione americana,
anche politica, contro il “colonialismo” spagnolo. Senza curarsi della verità
delle cose esposte, solo puntando all’effetto sull’opinione pubblica. Nasceva così,
si può dire, prima della Grande Guerra, il giornalismo delle “notizie di guerra”
– oggi “embedded” - che poi sarà studiato famosamente da Marc Bloch.
Questa si può anche
dire la caratterizzazione più stabile del giornalismo americano – il “tormentone”,
la “cordata”, la “crociata”, il “filotto”. Un’informazione a un fine, politico
o di altra natura, dichiarato ma anche no. L’obiettività che – in Italia – si presume
della stampa anglosassone è in realtà una pretesa – ma unicamente del giornalismo
inglese, “i fatti separati dalle opinioni” - non molto praticata.
Le storie del giornalismo
vogliono che il termine “giornalismo giallo” sia stato coniato, a New York, come
Yellow Kid Journalism, nel 1897, derivandolo da un fumetto per bambini.
Dalla serie “At the Circus in Hogan's Alley”, una serie di strisce scritta
e disegnata da Richard Felton Outcault: il protagonista della serie, il
bambino Mickey Dugan, era noto come “the yellow Kid” perché si avventurava con un
camicione giallo – la striscia, che aveva debuttato in bianco e nero nel giugno
1894 sulla rivista “Truth”, era stata ripresa un anno dopo, il 5 maggio 1895, da
Pulitzer per il supplemento domenicale del “New York Wold”.
astolfo@antiit.eu
La scoperta della musica in America, a opera di Da Ponte
Due secoli
fa, nel 1826, la prima esecuzione di musica classica, d’opera specialmete, in America.
La prima manifestazione culturale di New York, spiega Martin Scorsese, che
commenta la ricostruzione fungendo da filo conduttore, che apre alla città un’assoluta
novità, e quella che prelude al suofuturo sviluppo come centro interculturale e
in continuo fermento, la capitale del’immaginario e delle arti del mondo intero.
Un
film breve, poco più di un’ora, in forma di documentario, che ricrea un mondo:
New York nel 1826, avviata alla ricchezza ma senza ombra di cultura. La vita nei
quartieri segnata dalle comunità d’immigrazione. Gli irlandesi che si
costruiscono al loro chiesa di Saint Patrick a Mulberry Street, limitrofa poi
di Little Italy e di Chinatown, una cattedrale monumentale che ancora resiste,
uno degli edifici più antichi degli Stati Uniti, allora in un terreno disabitato
un po’ remoto. Grazie ala munificenza di Pierre Toussaint, uno schiavo haitiano
liberato e ricco, che finanziò largamente la costruzione, che la chiesa ha poi proclamato
Venerabile – onorato con la tomba nel cimiterino parrocchiale. Accetto per questo,
per le generosità, agli irlandesi, che invece a lungo non soffriranno i “siciliani”,
gli italiani quando cominciarono anche loro a scoprire l’America.
E in
parallelo la storia di Lorenzo Da Ponte, che a New York finisce la vita
tribolata, di debiti e di fughe, pizzicagnolo anche lì fallimentare, poi astuto
e abile promotore di cultura, di musica, del belcanto, localmente ignoto, e
quindi in contatto cn le autorità e i maggiorenti. Sua l’idea nel 1826 di un
oratorio-concerto nella cattedrale, con molte arie d’opera. A cui affluiscono grandi
folle. E la scoperta è fatta, della forza della cultura. E di Maria Malibran
giovanissima, poi regina del belcanto, non solo in America.
Una
narrazione semplice e appassionante. Legata dai ricordi di Scorsese, che sa
unire il vecchio evento, dimenticato, alla sua propria vita a Little Italy, e
attorno alla cattedrale. Supportato dall’ingegnere del suono Jared Lamenzo,
accordatore e organista del venerando Henry Heron, il gigantesco organo a canne,
che in qualche modo riesce ancora a far risuonare alla messa – cattedrale è
sempre in attività, St.Patrick Old. È lui che ha scoperto per caso, sfogliando da
musicologo curioso vecchie pubblicazioni, il programma del concerto-oratorio
tenuto nel 1826. Di cui non c’era più memoria. Con qualche “pezzo” di cui, malgrado
le estese ricerche sue proprie e del musicologo Zimei, non è riuscito a
riscovare la partitura. Il teatro Lirico di Cagliari e il maestro Renzetti arrangiano
i brani ancora noti.
Presentato
senza pretese – il film era pronto per il 2019, fu bloccato dal covid, e
successivamente dimenticato - è una forte narrazione. Ricostituisce la vita d’immigrazione,
la fedeltà alle origini, le radici, e le divisioni etniche, un’America senza cultura alta dapprima e poi in rapidissima crescita, il forte legame unitario della religione,
la figura romanzesca del dimenticato Da Ponte, e la musica, operistica e non,
che anima New York, le sue periferie.
Originariamente
questo “Oratorio” era seguito da un “Da Ponte’s Oratorio: a concerto for New
York”, con l’esecuzione di tutte le musiche del programma 1826 recuperate,
Cimarosa, Zingarelli, Haydn, Haendel, Arne, etc., con l’orchestra e il coro del
Lirico di Cagliari, concertata e condotta da Renzetti, e i cantanti Francesca
Dotto e Salome Jicia, soprano, il tenore Patrick Kabongo, i baritoni Pier Luigi
Dilengite e Daniele Terenzi. Il secondo “Oratorio” è qui ridotto a una
coda di due minuti, per “dare l’idea”.
Alex
Bayer, The Oratorio, History Channel, Now
giovedì 11 settembre 2025
Cronache dell’altro mondo - concorrenziali (359)
“Lamentarsi della concorrenza straniera è una grande tradizione
americana. Le tariffe di Trump riflettono una robusta corrente tradizionale di ostilità
americana alla concorrenza straniera”. Viaggiando per le aree deindustralizzate,
del cotone o della meccanica, l’osservazione è costante che padroni e gestori hanno
dovuto soccombere alla concorrenza straniera, a “pressioni soverchianti”.
È un’opinione di George F. Will, columnist conservatore dei più
importanti quotidiani, che immagina un viaggio per gli Stati Uniti lungo le autostrade:
il panorama è più spesso di fabbriche e anche villaggi abbandonati. E il commento
è sempre lo stesso.
Il dibattito fra i lettori ha concordato. Ne è venuto fuori un quadro di
misure ritornanti di contrasto alla concorrenza, dell’Inghilterra nel XIX secolo, della Germania
e del Giappone nel XXmo.
Cronache dell’altro mondo – figurative (358)
È “guerra”, un attacco a fondo del gruppo Fanatics, semimonopolista del
mercato dell’abbigliamento sportivo che si è allargato a quello delle figurine,
contro il monopolista delle figurine Panini. Panini prova ora a fermare l’offensiva
in tribunale, citando Fanatis per pratiche scorrette.
Il mercato delle figurine sportive è esploso mondialmente durante la
pandemia. E la guerra è aperta, con Fanatics all’offensiva e Panini alla
controffensiva. Il gruppo di Modena, tornato italiano nel 2017, dopo un
turbinio trentennale di cambi di proprietà, ha imbroccato alcune annate
molto favorevoli, a partite dal Mondiale 2018, con la pandemia, l’Olimpiade
nippo-coreana, e l’esplosione dei tornei internazionali di calcio – compreso il calcio
femminile.
Anche Fanatics ha una storia azionaria aggrovigliata, ma il gruppo data
dal 2011, e in poco tempo ha acquisito una posizione leader nell’abbigliamento
sportivo, nelle scommesse online, nel collezionismo.
Il primo round è stato vinto da Panini. A luglio la giudice federale Valerie
Figueiredo ha stabilito che i contratti di licenza per le figurine di Fanatics
con le leghe Mba (beach volley e beach tennis), Nba (basket) e Nfl (football),
conclusi a trattativa segreta, devono essere resi pubblici, potendo contenere
clausole monopolistiche. Ma è il terzo giudizio consecutivo, in pochi mesi, che
Panini ottiene, a cui Fanatics non obbedisce, sempre proponendo opposizione.
(“The Washington Post”)
Nullafacenti i tedeschi, i maestrini dell’etica del lavoroi
“Il paese più sfaticato d’Europa? La Germania”, scopre il “Washington
Post”.
“In Germania adesso si lavora meno che in Grecia e in Portogallo”, scopre
anche. Questo è invece un po’ sbagliato: il Paese dove si lavora meno è sempre
l’Italia, secondo le statistiche Ocse, dei 38 paesi più industrializzati: 1.709
ore l’anno, facendo una media ponderata tra dipendenti pubblici e dipendenti privati
(in Portogallo 1.716 ore, in Grecia 1.898).
Ma in Germania si lavora molto meno, appena 1.331 ore. Nel Paese, può
commentare il quotidiano, “che solo dieci anni fa imponeva severe misure di
austerità ai paesi dell’Europa del Sud, i cui abitanti erano normalmente bollati
nei media come sfaticati, da trattare col bastone”.
La Germania è anche il paese dove si registra il numero più alto di assenze
dal lavoro per malattia, continua il quotidiano: 19 giornate lavorative l’anno
in media. Contro una media Ocse di 4-6 giornate. Anche qui con un’imperfezione: il
paese col più alto numero di assenze per malattia è la Bulgaria, 22 giorni –
questa la graduatoria Ocse (non tutti i paesi membri sono registrati, la statistica
qui è reticente): Bulgaria 22 giorni, Germania 18.3, Czechia 15.4, Norvegia 14.6,
Polonia 14.2.
In Italia questo conteggio specialmente latita – l’Inps
ne elabora parecchi, ma non il numero medio di assenze per malattia. Nel 2012
sono state calcolate dalla Cgia Mestre attorno ai 18 giorni\anno, dipendenti
pubblici e dipendenti privati messi assieme - ma con grandi differenze regionali:
in Calabria 40, in Sicilia 20, in Puglia 19, in Emilia 16, nel Triveneto 15.
Le nuove monete e il ritorno al signoraggio
“La tecnologia è destinata a rivoluzionare il sistema
monetario e finanziario internazionale. Sono in gioco anche la
regolamentazione, la cooperazione internazionale e la resilienza delle nuove
tecnologie al rischio informatico. Il modo in cui ciò accadrà dipenderà dal
fatto che le tecnologie siano plasmate dal settore pubblico oppure che sia il
settore privato a stabilire per primo gli standard”. Un primo tentativo di approccio
sistemico alle nuove forme di pagamento….
“Gli effetti sui flussi di capitale sono difficili da
valutare, ma potrebbero avere un impatto sorprendentemente significativo sui
conti pubblici, sulla frammentazione geoeconomica, sulla volatilità dei tassi
di cambio e sulla internazionalizzazione delle principali valute. Queste nuove
tecnologie potrebbero liberare nuove funzionalità, come la programmabilità, e
ampliare l’insieme delle politiche attuabili, oltre a unificare profondamente
il modo in cui i capitali fluiscono attraverso i confini e le classi di
attività, se molti attori privati e ufficiali utilizzano la stessa
piattaforma. Ma potrebbero anche minacciare le entrate pubbliche e riportarci a
un mondo ottocentesco, in cui gli emittenti di moneta privati si contendevano
il signoraggio, il che frammenterebbe e destabilizzerebbe il sistema
finanziario internazionale….
“Le stablecoin sono una delle innovazioni più
rilevanti, sempre più adottate in concomitanza con l’introduzione da parte
degli Stati Uniti di un quadro giuridico volto a promuovere l’adozione e
consolidare il ruolo del dollaro come principale
valuta internazionale. Anche la tokenizzazione gioca un ruolo importante. Si
tratta del processo di registrazione di crediti su asset esistenti su un
registro tradizionale – o asset nativi (ovvero, emessi solo
digitalmente) – su una piattaforma programmabile, dove possono essere trasferiti…”
Il potenziale è promettente – il saggio ne spiega le
possibili evoluzioni positive. Ma tutto dipende dalla regolamentazione che se
ne farà, di token e stablecoin. “In un mondo in cui le stablecoin,
in particolare quelle ancorate al dollaro, diventano un importante strumento di
pagamento globale, dobbiamo prepararci a conseguenze sostanziali. Tra gli
aspetti negativi ci sono la dollarizzazione e i suoi effetti collaterali, i
rischi per la stabilità finanziaria, il potenziale svuotamento del sistema
bancario, la concorrenza e l’instabilità valutaria, il riciclaggio di denaro, l’erosione
della base imponibile, la privatizzazione del signoraggio e un’intensa attività
di lobbying”. La fine del mondo, più o meno.
Tra i possibili effetti positivi, i pagamenti
transfrontalieri potrebbero essere più rapidi ed economici, il che è importante
soprattutto per le rimesse. E i cittadini di paesi con una governance
scadente avrebbero accesso a mezzi di pagamento e a riserve di valore più
stabili e convenienti rispetto alla loro valuta nazionale. Anche l’accesso ai
dati di pagamento e il predominio degli Stati Uniti nell’imposizione di
sanzioni ne risentiranno”. Insomma, ci vuole un’approfondita disamina.
Basti, a esemplificare il sovvertimento, il caso delle
banche. “Se l’uso delle stablecoin in dollari Usa aumentasse
massicciamente in tutto il mondo, potrebbe svuotare il settore bancario con una
concorrenza imbattibile per i depositi. Se le banche stesse emettessero stablecoin,
ciò potrebbe frenare i prestiti e aumentare le partecipazioni in titoli del
Tesoro USA – supponendo che siano le principali attività a garanzia delle stablecoin.
Mentre sul lato attivo del bilancio resterebbe uno sviluppo simile al narrow
banking…. E va tenuto presente il classico costo della dollarizzazione
in tutto il mondo: può alterare i canali di trasmissione della politica
monetaria e ostacolare la stabilizzazione macroeconomica”.
Insomma, “gli effetti sul rischio sistemico, così
come la potenziale discutibilità del supporto di stablecoin da parte di alcuni
attori e i conseguenti
rischi di mercato, meritano di essere analizzati attentamente”.
Hélène Rey, presidente dell’Associazione
Economica Europea, insegna Economia alla London Business School.
Hélène Rey, Stablecoins, Tokens and Global Dominance,
IMF “F&D, Finance and Development”, settembre 2025, free online (leggibile
anche in italiano, La tecnologia sta rimodellando i flussi di capitale e il
dominio della valuta)
mercoledì 10 settembre 2025
Liberi tutti bellico
Il tutto pace di Trump si è trasformato – ammesso che sia mai esistito -
in un liberi tutti bellicoso: si fa guerra a piacimento, con ogni mezzo, a
prescindere dal diritto. Per la sola forza della forza. In Medio Oriente come
in Est Europa.
Non si fa più il conto delle guerre di Netanyahu in questi pochi mesi di
Trump. Contro Hamas non solo, e contro Hezbollah, ma contro i palestinesi di
ogni sorta, a Gaza e in Cisgiordania, e contro il Libano, l’Iran, lo Yemen, la
Siria, e ora il Qatar. Mentre all’Est le fobie polacche, baltiche e scandinave
si esercitano contro droni russi, ma non si sa se mandati dalla Russia. E l’Ucraina
di Zelensky, inevitabilmente soccombente contro l’arsenale russo, sempre più
ricorre alla guerra di guerriglia.
Del Qatar va ricordato che si vuole nella condizione di “major non
Nato ally”, ed è specialmente legato a Trump, cui ha regalato ultimamente un
grosso Boeing, e per il quale ha ospitato la pace con i talebani dell’Afghanistan
il 29 febbraio 2020. Ma anche che, come tutti gli altri principati della penisola
arabica, ha finanziato il radicalismo arabo-islamico, anche di Hamas, per
evitare che si eserciti al loro interno – come sarebbe logico, trattandosi di Stati
“patrimoniali”, di proprietà private, familiari, monocratiche, autocratiche. Netanyahu
potrebbe avere qui agito non per allargare il conflitto ma anche per fare un favore all’emiro Al Thani.
La produzione italiana è per un quarto straniera
Il made in Italy è sempre più straniero? La proprietà non si sa,
non si può misurare (probabilmente è più del 25 per cento in larghi settori:
moda, agroindustria, e soprattutto meccanica, l’automotive, mezzi
pesanti, due e quattro ruote) ma la produzione materiale, in fabbrica, è per un
quarto in Italia straniera.
Nell’ultimo rapporto Inps sono stranieri qualcosa più del 16 per cento
degli occupati. Che diventano il 25 per cento
tra gli operai e gli apprendisti.
È straniera al 24 per cento la forza lavoro nel comparto propriamente
industriale, manifatturiero. Al 26 per
cento nell’accoglienza e la ristorazione. Al 27 per cento nell’edilizia - al 40
per cento nell’agricoltura (al 73 nei servizi alla famiglia, collaboratori
domestici e badanti).
Alla ricerca di un rapporto madre-figlia
Una
bella donna, che si chiama Judith ma si fa chiamare Charlotte, ha due famiglie.
Quella legale in Francia, sposata a un direttore d’orchestra, con due figli adolescenti.
E una adulterina in Svizzera, dove si rifugia ogni pochi giorni, adducendo impegni
di lavoro, come interprete traduttrice in simultanea, a convegni internazionali
qui è là, in Polonia, in Italia, in Spagna. Adulterina in senso proprio,
giacché si è legata a un uomo, e anche improprio, perché si è legata a quell’uomo
in quanto padre della bambina che la sorella, morendo, ha lasciato in fasce. In
realtà si vuole madre della bambina, che così la chiama, a lei affezionatissima.
Perché figlia della sorella con la quale si identifica – al punto di assumerne
il nome, Charlotte invece di Judith.
Il
dispositivo salta quando i nonni, i genitori di Judith e Charlotte, vanno a trovare
la nipotina: chiamati dal genero, che intanto si è trovato un’altra compagna e
vuole liberarsi della cognata invadente, scoprono e denunciano l’inganno. Anche
la bambina finisce per ripudiarla, e questo è la fine di tutto: da due famiglie
affezionate alla solitudine. Con un nome nuovo, Madeleine, che inventa per lei
il falsario di documenti – un filosofo del vero-falso. Una resurrezione dopo la
doppia passione-cancellazione autoinferta?
Nella serie
Rai 3 sul nuovo cinema francese una scelta di rispetto – un film acclamato in
Francia, col titolo “Madeleine Collins”. Un rifacimento, se si vuole, del
solito Hitchcock, “La donna che visse due volte”, ma giusto come idea, lo sdoppiamento
di personalità. Qui si tratta del rapporto
madre-figlia, vissuto male da ragazza e proposto male come madre – un problema
diffuso e grave, da cui la psicoanalisi si tiene stranamente alla larga, forse per
pregiudizio femminista. Ed è giocato drammaturgicamente
sulla verosimiglianza (naturalezza) e non sull’effetto teatrale, cerebrale.
Difficile quindi da gestire per gli interpreti. Che sono una, Virginie Efira, dall’inizio
alla fine in ogni inquadratura, che sa abbandonare la bellezza immobile per l’espressione
– per il dramma, prima intimo, segreto, poi allarmato, infine confusamente distruttivo.
I suoi due coniugi-compagni, le amiche che qui e là incontra, la stessa sua famiglia
d’origine che fa irruzione alla fine e la condanna sono di ruolo. A parte una
incredibile Jacqueline Bisset, la madre, che in poche battute dà il senso vero
del film, di due sorelle rifiutate dalla criticissima madre, spietata.
Antoine
Barraud, La doppia vita di Madeleine Collins, Rai 3, Raiplay
martedì 9 settembre 2025
Letture - 590
letterautore
Marie de Gournay – Il pettegolo Tallement des Réaux narra nelle “Historiettes” che a Marie
de Gournay, “figlia acquisita” di Michel de Montaigne, si presentarono tre
Racan, di cui uno solo era quello vero - Racan Honorat de Bueil, “il cavaliere
de Bueil”, poeta pastorale, 1589-1679 (gli altri due, nell’aneddoto alla “Amici
miei”, erano il conte di Moret e un Yvrande, “letterato”, altrimenti ignoto).
Tallement non è tenero neanche con Marie Le Jars de Gournay - se non in morte,
quando ne testimonia la generosità: “Mlle de Gournay era una vecchia ragazza di
Piccardia molto signorina.
Non so come e dove era andata a cercare Montaigne, ma si vantava di essere
la sua figlioccia (fille d’alliance, n.d.r., intraducibile, forse “spirituale”,
“d’elezione”). Conosceva e faceva versi, ma cattivi”. E una serie di scherzi elenca
che i tre, Racan, Moret e Yvrande, le fecero. “Per burlarsi di versi in cui
avrebbe usato Tit per Tito, le mandarono questi: «Tit, fig. di Vesp, re del Rom…»
… Le fecero credere che aveva scritto la parola «stronzata» (foutaison).
«Merdieu», disse borbottando come era sua abitudine, «questa parola non si usa,
ma la lascerò: è vero che è un po’ volgare…. Le inventarono una lettera del re
d’Inghilterra, con la quale le chiedeva una biografia e il ritratto. Passò sei
settimane a scrivere la sua vita. Poi la mandò in Inghilterra, dove non sapevano
che farsene. Vollero farle credere che
aveva detto che fornicare non è peccato. E un giorno che le chiesero se la
pederastia non era un crimine: «Dio non voglia!», rispose, «che io condanni ciò
che Socrate ha praticato»”. Per poi concludere. “A suo avviso la pederastia è
degna di lode. Ma questo è un po’ salace per una verginella”.
Corrado
Alvaro – “Un pugno chiuso visto di profilo”, il ritratto che fa
testo dello scrittore calabrese, è di Pietro Pancrazi, l’illustre italianista,
nella recensione-commento di una conferenza che Alvaro aveva tenuto al Lyceum
di Firenze, il 14 febbraio 1931 (nel quadro di un ciclo di conferenze promosso
da Jolanda De Blasi sull’Italia e le sue bellezze, “Visioni spirituali d’Italia”
– un ciclo che riscosse tanto successo da doversi replicare, per oltre 50 conferenze).
Camilleri – “Ha trasmesso la luce dell’isola, dopo gli
anni del lutto”, è la notazione forse più vera di Emanuele Lauria nel ritratto
dello scrittore su “la Repubblica-Palermo”, per il volume che la redazione
palermitana del quotidiano ha confezionato giovedì 4 di curiosità, keyword, ottimismi (“lo sguardo rivolto
sempre al futuro”) camilleriani. Basta poco, se uno confronta la Sicilia come
la si viveva ancora negli anni 1990, silenziosa e sola, con quella di oggi –
anche prima della celebrazione che ne ha fatto “The White Lotus”: il linguaggio
– l’immagine – ha forza dirompente.
Ha imparato a
scrivere Montalbano da Simenon, dalla serie di Maigret impersonato da Gino
Cervi che lui ha realizzato come produttore Rai – lo spiega in un’intervista sul “Corriere della sera” il
12 luglio 2013: “Da produttore del Maigret televisivo… imparai l’arte dello
scrivere romanzi gialli seguendo lo sceneggiatore, Diego Fabbri, il quale
destrutturava proprio il romanzo, e lo ristrutturava” – “proprio”, cioè per
intero: “Da questo smontaggio e rimontaggio imparai a scrivere un giallo…..
Anni dopo, quando mi venne in mente di scrivere il primo poliziesco, mi tornò
in mente questo lavoro fatto accanto a Diego Fabbri”.
Diego Fabbri –
Lo scrittore da cui Camilleri diceva di avere imparato l’arte di scrivere un
giallo (v. sopra), da tempo dimenticato totalmente – nessuno ne chiese notizia a
Camilleri, non durante l’intervista e neppure dopo la sua spiegazione – è stato
un commediografo molto presente sulle scene negli anni 1950 e 1960. Molto romagnolo
e molto cattolico - il suo “Processo a Gesù”, regia di Orazio Costa, il maestro
di Camilleri all’Accademia “Silvio d’Amico”, fu il successo del Piccolo di
Milano nel 1955. Autore di “quasi cinquanta drammi” – già nel 1950 aveva rubato
la scena a Milano con “Inquiszione”, un dramma che fu portato anche a Parigi. Sceneggiatore
di una quarantina di film, nonché di molti teleromanzi Rai, fondatore del sindacato
autori teatrali con Bontempelli et al., direttore della “Fiera Letteraria”,
insomma una presenza autorevole e ubiqua.
Follia – È (anche) un
espediente politico – lo è pure letterario, famosamente (“Sarà pure follia, ma
c’è del metodo in essa”, il cortigiano Polonio famosamente dice a proposito delle
bizzarrie di Amleto). Machiavelli la teorizza al capitolo 2 del libro terzo del
“Discorso sopra la prima deca di Titolo Livio”, titolo: “Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia”. Più di recente teorizzata dal famoso Comma 21 di
“Comma 22”, la satira del militarismo di Joseph Heller, del regolamento
dell’aviazione americana: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle
missioni di volo”. Cui segue inevitabile il comma del titolo: “Chi chiede di
essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.
A proposito di Shakespeare: “Sono molti i re pazzi in Shakespeare. Ma non
lo è il più cattivo di tutti, Riccardo III” – Siegmund Ginzberg, “Il Foglio”
sabato 6.
Inglese – Non c’è più l’inglese, constatava
Patricia Highsmith in conversazione con Josyane Sauvigneau, ripresa da “Le
Monde” in morte della scrittrie, il 7 febbraio 1995: “Muore di divenire una
lingua di comunicazione”.
Italia – È litigiosa,
per costituzione: “Come intuì Machiavelli…la conflittualità endemica è
probabilmente l’origine del nostro dinamismo e del nostro spirito creativo”,
Alessandro Campi, “Robinson”, 7 settembre: “Il conflitto fratricida è il mito
fondante di Roma. Le congiure rinascimentali erano bagni di sangue in famiglia.
Il Risorgimento ha avuto una componente di guerra civile. Due guerre civili
sono all’origine e alla fine del fascismo. Poi gli anni di piombo. Berlusconia contro
antiberlsuconiani… è la nostra storia. Il massimo del particolarismo (e settarismo) politico in una cornice di
cosmopolitismo culturale iniettato nella storia italiana del mito romano imperiale
e del cattolicesimo”.
Selfie – “C’erano una
volta i romanzi, ora qui è tutta autofiction. Un tempo, tra la metà e la fine
del XX secolo, la narrativa letteraria attraeva un pubblico enorme. Oggi gli
scrittori sono passati alla dittatura dell’io” - Beppe Cottafavi, editor Mondadori.
Gli scrittori o gli editori?
Ma delle memorie si pretende che siano “vere”. Non più o meno vere,
proprio vere. Su “7” Camilla Baresani può ripercorrere una mezza dozzina di
casi in cui l’autore – poi spesso l’autrice – ha dovuto confessare di essersi addossata
la storia, in tutto o in parte, per andare in stampa, per farsi notare, per
vendere. Anche a costo di affrontare scandali, anche in tribunale, anche di penali e
risarcimenti milionari: J.T.Leroy, “Ingannevole
è il cuore più di ogni cosa”, Misha Defonseca, “Sopravvivere coi lupi”, James Frey, “In un
milione di piccoli pezzi”, Benjamin Nilomirski, “Frantumi. Un’infanzia
1839-1948”, Raynor Winn, “Il sentiero del sale”. Due dei cinque best-seller sfruttavano
i cliché della Shoah, lo
sterminio degli ebrei a opera di Hitler.
L’autobio non è una novità, ogni scrittore poco o molto ne ha fatto
materia. Ma con incidenza e senso diversi. “Alvaro è sempre autobiografico,
cioè lirico”, poteva notare dello scrittore calabrese Umberto Bosco (“Pagine calabresi”, 1975, “ma
trascende sempre il suo io, lo dissolve negli altri; negli altri capisce se
stesso”…. Un autobiografismo “contrario dell’egocentrismo, la negazione del
narcisismo”.
Lo stesso C.Alvaro, nelle Note autobiografiche premesse a “Ultimo Diario”
(1959), si pone un limite: Il fatto dell’autobiografia nei libri è da indagare
con molta cautela. Quanto a me, mi seccherebbe molto riscrivere quello che ho
veduto”.
Tragedie – “Ci sono due
modi per risolvere una tragedia. Uno è quello di Shakespeare e l’altro quello
di Cechov. In Shakespeare alla fine tutti sono morti. La scena è coperta di
sangue, e la Giustizia svolazza su tutto. In Cechov sono tutti frustrati e
arrabbiati, col cuore a pezzi ma vivi” - Amos Oz, “In terra d’Israele”.
letterautore@antiit.eu
Brutale è il film, per lo spettatore
Nel
confuso dopoguerra l’architetto Läsló Tóth, ungherese, ebreo, sopravvissuto a
Buchenwald, riesce a raggiungere gli Stati Uniti, rientrando in un programma
trumaniano di 300mila visti, mentre sua moglie Erzsébet, altrettanto titolata,
laureata a Oxford, giornalista famosa, anch’essa ungherese ed ebrea,
sopravvissuta a Dachau, no. Anche perché deve vigilare su una nipote che ha
qualche problema comportamentale. Gli scriverà con costanza, finché a metà film
non lo raggiungerà. Lui intanto è diventato celebre anche negli Stati Uniti come
architetto. Sponsorizato da un ricco americano appassionato di architettura. Ma
parla sempre un pessimo inglese, e sempre resta un po’ estraneo. Erzsébet, la
moglie, sorprende tutti quando lo raggiunge, per la spigliatezza, la padronanza
dell’inglese, l’uso di mondo, etc. Ma ha sviluppato una precoce osteoporosi, per
malnutrizione.
Un
film premiatissimo, trionfatore a tutti i premi in America, ma una tortura per
lo spettatore – cui non lascia nulla di trionfale, memorabile semmai per lo squallore, di scenografie, di dialoghi, di recitazione.
Il
titolo viene dal “brutalismo”, una corrente architettonica tra le due guerre di
tipo ingegneristico, che privilegiava l’uso del cemento, a vista – un po’ come
i palazzetti di Nervi, che era appunto un ingegnere, e la sua stazione Termini
a Roma (oggi nei cubi e parallelogrammi di Zaha Hadid, anche a Roma). Tóth ne è
un virtuoso. Anche il Centro Comunitario, la cui progettazione e costruzione è
al centro del film, lo è, attraente. Ma resta inanimato, come il film – anche perché
recita, deve recitare, come un manichino. Il deus ex machina, un miliardario
americano che promuove e risolve tutto, e i suoi familiari sono del tutto
improbabili, inanimati, anche come personaggi antipatici – si limitano a
parlare di seguito, come a “buttare la battuta” davanti all’obiettivo, ininterrottamente.
La moglie appena reduce dal viaggio transatlantico pretende di far godere il marito
ritrovato anche se non può reggere l’amplesso. Un cugino Attila, di grande aiuto i primi tempi in America, poi scompare, reo di essersi battezzato. Un quadro, una serie di quadri,
della vita come viene, tal quale, senza pause, senza nulla di non detto. Senza
nulla, alla fine, di significante. Italia compresa. A Carrara - il bianco Italia ci vuole in architettura - Läsló viene violentato, niente di meno, da uno dei suoi benefattori americani. A Venezia viene celebrato alla Biennale Architettura.
Quattro ore di minuzie e nessuno slancio. Con un Adrien Brody, che troneggia in ogni scena, anche lui superpremiato, non si sa se in quanto “reduce della Shoah” o in quanto attore, ma con una sola espressione: inespressivo – del tipo “fate la faccia triste”.
Brady Corbet, The Brutalist, Sky Cinema
lunedì 8 settembre 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (605)
Giuseppe Leuzzi
Negli ultimi cinquant’anni, calcolava Libera nel 2015,
ci sono state 291 vittime della ‘ndrangheta. Di queste, almeno 200 negli ultimi
25 anni. Il crimine si è moltiplicato con la moltiplicazione dell’antimafia.
Nel 90 per cento dei casi,
continua l’indagine di Libera, gli assassini non hanno avuto un nome. Mafia in
franchigia.
Sullo speciale “Le parole di Camilleri” che
la redazione palermitana di “la Repubblica” ha confezionato giovedì 4 settembre
in omaggio allo scrittore per i cento anni dalla nascita, Emanuele Lauria nota
che Camilleri “ha ridato luce all’isola, dopo gli anni del lutto”. La Sicilia
di Sciascia è monocroma e triste, quella di Camilleri, senza mancare d’impegno
civico, è colorata e piena di sé – guarda al futuro.
Il Sud tutto, non soltanto la Sicilia, è attanagliato
in una (auto)narrazione distruttiva.
“Dal portone uscirono il
prete, un chierico che reggeva il Crocfisso, due chierichetti”, così Giovanni
Russo racconta il funerale di Corrado Avaro in “Nella terra estrema, p. 123. La
bara viene caricata “su un semlice carro”, che si avvia lento, “dietro al quale
si allineano, vestiti di nero, i parenti venuti da San Luca…. Il corteo si avviò verso la chiesa di Sant’Andrea
delle Fratte. Il tratto è lungo quanto il corso di un piccolo paese calabrese.
Passava per piazza di Spagna un funerale meridionale”.
“L’invidia è il peccato mortale
delle regioni povere”, annotava Corrado Alvaro nel 1942 ne “Il mare”, la raccolta
di scritti vari in cui riflette anche sul rapporto col padre, il ruolo del padre nella
famiglia, l’astio che la sua volontà ferrea di fare crescere socialmente i figli
gli procurò: “Di questa lotta continua non dirò molto; basti che quando un mio fratello,
il secondo di noi, morì, i nostri nemici fecero festa perché uno era caduto”.
“Nei migliori” l’invidia
“diventa emulazione, ambizione, sprone alla conquista”, al Sud no.
Meridionale, anche se Alvaro
non lo dice, la figura del padre, tirate le somme: “Compiuta l’opera (i figli
agli studi, n.d.r.), mio padre fu come disoccupato, non avendo altro scopo per
sacrificarsi, e avendo preso, del sacrificio, i modi più commoventi, la sua
dignità”. Il padre che “esiste” solo per i figli.
Dopo tanti clamori sull’assegnazione
dei fondi europei Pnrr (“ce li danno, non ce li danno”), “Il Sole 24 Ore” scopre che cinque ministeri non hanno
speso quasi niente - fra il 10 e il 20 per cento dei fondi assegnati. La
burocrazia è in Italia del tutto inefficiente, si sa, e improduttiva, o
anti-produttiva. Ma l’inerzia è più rilevante in capitoli di spesa che presumono
il Sud come destinatario principale. Le politiche sociali (specialmente “i
progetti centrali sul lavoro come il programma Gol, Garanzia occupabilità lavoratori”,
ancora “al decollo”) al primo posto, impegnato il 10 per cento, poco più. Ma
anche la salute, l’agricoltura, il turismo, la cultura. Questa volta non
mancano i capitali, manca la volontà – o l’intelligenza.
Si profilano alle Regionali,
come a ogni elezione, liti aspre fra concorrenti della stessa area dello stesso
partito per le candidature. È
fisologico. Ma al Sud – in questo caso in Puglia e in Campania – le liti si
segnalano per lo squallore. In Puglia litigano i tre leader della sinistra, e a destra “i fedelissimi di
Gemmato e quelli di Fitto” - che saranno chi? In Campania non c’è offesa che si
risparmi tra il candidato di sinistra Fico e il competitor De Luca jr.. La politica non è il forte del Sud. Che di politica, bassa, vive.
Si litiga anche in Toscana, a
destra, nella Lega, tra l’ex generale Vannacci e i vecchi del partito. Ma il
linguaggio, se non altro, è colorito - si
litiga all’aperto.
L’anima di Milano
Istintivamente,
si è portati a considerare Milano, il centro degli affari, come una città imprenditoriale,
attenta al suo, contraria a ingerenze e intromissioni, soprattutto, in epoca
contemporanea, statali, politiche, di bottega, e schierata per la libertà, per
il mercato quale migliore regolatore degli affari – più produttivo e anche più
giusto. Invece no, è la città di san Carlo Borromeo (il “lavorerio”) e di Manzoni
(la Provvidenza). Curiosamente passiva più che attiva: nella coscienza di sé, nella
difesa di sé, e nel progetto del mondo, anche se ogni mattina si alza presto e
non manca al lavoro.
Se
ne trovano esempi a ogni giro di storia. In quella recente:
la deindustrializzazione, la finanziarizzazione,
l’indusria leggera – fashion,
design, marketing, e ogni forma di promozione, dalla tradizione fieristica all’informazione e ai social (influencer
etc.), e perfino la Nuova Urbanistica. Una città che fa, ma come spettatrice. È
fatta più che fare, bizzarro modo di essere una capitale di impresa.
È così
che ora accetta passiva, senza nemeno una domanda, l’intrusione dello Stato
nel suo risparmio – che è poi, si può dire, la “ricchezza della nazione”:
Generali e Mediobanca. Che Roma si è presa senza generare un solo mugugno.
Anche se a opera di un ministro leghista.
È il
leghismo a Milano più forte dei soldi? Non può essere - troppo stupido. Ma qualche pensierino va fatto. Perché non c’è
solo Roma alla conquista di Milano. Un presidio di milanesità come Bpm, l’ex
Popolare Milano, è destinato con la stessa operazione a essere fagocitato da
Roma – se non, altro esito bizzarro, regalato ai francesi del Crédit Agricole.
In questo caso, Milano aveva l’opportunità di creare, tra Bpm e Unicredit, un’altra
superbanca ambrosiana, in grado di competere con le major europee e anche americane (per risparmio, gestione, investimenti,
profitti etc., e anche, perché no, potere economico), e non ha reagito al niet di Roma.
Oppure
c’è Roma e non c’è Milano – in fondo, di ambrosiano è rimasto solo il rito, che
per di più non si esercita.
Ma le radici fanno bene o male
Il leghismo
l’ha diffuso al Nord, specie nel Veneto e in Lombardia. Ma il culto delle radici
nasce al Sud, come sicilitudine e napoletanità – con l’aggiunta ora, per mimetismo\parassitismo,
della calabresità (ancora più vaga). Non necessariamente. I pugliesi, p.es. ne
fanno a meno – anche nel Salento, che pure ha una sua diversità.
Il
culto nasce per la verità col bestseller americano “Radici” cinquant’anni
fa – come “moda”, anche se non senza radici…. Se non che non si capisce se è un
bene oppure un male. Anche perché, alla fine, è sempre una invenzione delle
radici – quando la storia non si è fatta via via, si inventa.
In
qualche caso sono un fatto storico. La Sardegna,
p.es., si può giustificare, ha una storia a sé, lunga anche e complicata. Ma gli
altri, che ne hano viste tante, di dominazioni e invasioni, a quali radici si
aggrappano, che siano più vere o sincere di altre?
Capita di leggere, su “La
Lettura”, a proposito della scrittrice cingalese Nedeesha Uyngoda, che “le
radici perdute non si ritrovano ma si reinventano” (Marzia Fontana). O “le radici
si salvano se si ferma la strada che sale fra i monti”, a proposito del secondo
libro di Alice Zanotti, su “una comunità isolata del Friuli (che) teme l’irrompere
della modernità” – una comunità vera, che è Montefosca, una frazione al confine tra Friuli
e Slovenia.
Più spesso il culto delle radici
è connesso al nostos, al ritorno o alla nostalgia del ritorno. Non quindi
alla stanzialità che si vuole immutabile, ma a un incrocio o a una comparazione
di esperienze. Un ritorno che non può che essere una delusione, a meno di non chiudere
gli occhi sulla realtà. Che dopo una generazione o due non può essere la stessa
di prima - nemmeno nel linguaggio, che pure è la componente più resistente o
duratura.
Cronache della differenza: Milano
Il risparmio gestito, la fonte
ormai della ricchezza della città, che va per accumulo più che per inziativa, viene
nazionalizzato, benché dalla lombardisssima Lega, e la città non solo non protesta,
ma nemmeno se ne accorge. È ricca ormai contro ogni merito – giusto perché il
denaro genera denaro?
Non prendere partito fra Bpm e Unicredit ci può stare,
sono gruppi milanesi, anche di mondi è parti diverse - e anche se insieme
avrebbero potuto fare un Campione Nazionale, alla pari con le grandi banche
europee e americane. Ma abbandonare Mediobanca (con Generali), con cui avevano
cominciato a fare congrui investimenti, per uno scassato Mps, questo è curioso.
Per un’operazione, poi, politica, dichiaramente. Il mercato made in Milano ha altre filosofie?
Un bambino di sei anni vaga
per i marciapiedi. Sale su un autobus o tram, scende, vaga ancora per i marciapiedi,
entra in una stazione, sale su un treno, scende a Desio, la prima fermata?, è
investito da un’auto, e allora è soccorso. Perché era peruviano? Il Grande Cuore
di Milano è distratto.
Un
metropolita “vescovo di strada” di papa Francesco, che impone biglietti d’ingresso
alle chiese, anche al Duomo, che dirne? Forse è solo un incapace, inadatto al
ruolo. Ma chi decide è la Curia, che resta ben milanese.
.
Gianni Mura elenca così, il
23 maggio 2013, l’Inter del “triplete”: “Moratti, Mourinho e Milito, le tre M
come Milano”. Una città che si ama – faceva quattro M con Mussolini.
Berlusconi “se n’è andato due anni fa in una città di
cui non è mai stato veramente cittadino, essendo in essenza più brianzolo, più romano,
perfino più napoletano” – Michele Masneri, “Uomini, miti e cose. Il decennio che sconvolse
Milano” (“il Foglio”).
Federico
Monzino, piccolo ricattatore di Bova, è sempre rispettosamente definito “un
imprenditore”. E dopo una settimana si dice anche il perché: è “noto negli
ambienti vip, è l’utimo erede di una delle famiglie più influenti di Miano, fondatrice
del colosso Standa”, etc. etc. Altrove sarebbe stata un’aggravante – sai che
risate - a Milano una (forte) attenuante.
Nel
capoluogo lombardo e lombardista “il 40 per cento delle case sopra il milione”.
Come dire: case inaccessibili ai oomuni mortali. Basta questo, questa
“urbanistica” schiacciata sull’immobiliare, a giustificare il processo aperto
dalla Procura. I prezzi massimi a mq erano elevatissimi già nel 2020, a 18 mila euro, ma ora sono a 27 mila – non quelli del “Quadrilatero”, quelli ora sono a
40 mila. Roba da Dubai, da sceiccato.
Dettaglio
non irrilevante nella nuova “urbanistica” ambrosiana, dell’intemerato Sala –
che voleva fare il suo personale partito a sinistra, per il popolo ovviamente. Lo incenerisce
Fubini sul “Corriere della sera”: “Tasse ai minimi per i milionari e case a prezzi record: il 40 per cento
delle vendite sopra il milione”.
“Milano sott’odio”, può prontamene
titolare “Il Foglio”, a cappello di un’inchiesta condotta da Masneri sulla
nuova “urbanistica”: “Le fasi dell’odio contro Milano sono molteplici e cambiano
velocemente": dell’io percepito, della corazza che il milanese si costituisce a
riparo. Questa è proprio milanese: passare per assediato (vittima, martire),
mente assedia (colpisce, distrugge).
Troppi miliardari domiciliati,
lamenta Milano dopo l’inchiesta giudiziaria sull’urbanistica. Ma sono solo 182,
il numero più piccolo fra le 15 città dell’“Occidente” che si sono elette
paradiso fiscale dei ricchi – solo Osaka ne ha meno, 128. Milano è penultima anche
per i “superricchi”, con soli 17 sopra il bilione di dollari – Osaka ne ha 12.
Ma è vero che ne ha approfittato per alzare i prezzi delle case a livelli stratosferici.
“Nella globalizzazione vincono
i poli urbani che attraggono” conoscenze e capitali, spiega Fubini, per l’“effetto
agglomerazione” studiato dal Nobel Krugman: “Succede quando una città assorbe
cervelli e risorse dal resto del Paese o del mondo: San Francisco per il
digitale, Londra per la finanza o il biotech, Milano per l’Italia”. Ecco dov’è
il problema: un polo che attrae senza una cosa da fare.
Il lombardo Arbasino trent’anni fa, pur
vivendo a Roma, sconsolato ne parlava – “trasecolato per l’ammirazione” nei
giardini in Iran, “curatissimi e affollatissimi”: “Non sa cosa dice, chi parla
di ‘Terzo Mondo’ a proposito di giardini pubblici pieni di spacciatori e di
vandali, fenomeno soprattutto italiano e spiccatamente lombardo” (“Passeggiando
tre i draghi addormentati”, p. 122).
“Striscia la notizia” si fa un
dovere da tempo di documentare questa e quella piazza di spaccio, nei parchi,
nei sottoscala, e nei giardinetti all’incrocio. A Milano e dintorni.
Si
estrada
dagli Emirati un albanese, Fatjon Gjonai, che l’Italia accusa di traffico di
stupefacenti, legato alla curva del Milan, ed è questo è tutto quello che il
“Corriere della sera” scrive: “Ritenuto socio di Luca Lucci, capo ultra della curva
sud del Milan”, sospettato di tentato omicidio nel 2019. Niente di più, la
città si protegge: soprattutto niente scandalo, come nelle migliori famiglie, quando usavano.
leuzzi@antiit.eu
Il dramma accanto
Un’amicizia
ritrovata, tra donne di successo, che si sono anche scambiato qualche uomo,
quando una delle due è colpita da un tumore. Contro il quale combatte, e non
combatte. Ricordi e flashback infiorettano il ritrovamento.
Un
film sulla buona morte. Una sorta di film da camera, tra due attrici che si
danno il cambio sullo schermo. Con nomi importanti, Tilda Swinton e Julianne
Moore, e di mestiere. Ma niente spontaneità: il modo di recitazione, freddo, e
le inquadrature tipiche di Almodovar, quasi fisse, da fumetto (o fotoromanzo),
non fanno entrare lo spettatore nel dramma.
Sempre
caratteristicamente, il dramma s’inframezza di epidermiche saggezze. Nevica, “fiocchi
di neve rosa: qualcosa di buono nel cambiamento climatico c’è”. La moribonda ha
(anche) avuto una figlia, che però “non c’è”. La tesi: il cancro basta
confrontarlo, non è invincibile – basta morire prima che ci pensi il cancro.
Pedro
Almodovar, La stanza accanto, Sky Cinema
Un film sulla buona morte. Una sorta di film da camera, tra due attrici che si danno il cambio sullo schermo. Con nomi importanti, Tilda Swinton e Julianne Moore, e di mestiere. Ma niente spontaneità: il modo di recitazione, freddo, e le inquadrature tipiche di Almodovar, quasi fisse, da fumetto (o fotoromanzo), non fanno entrare lo spettatore nel dramma.
Sempre caratteristicamente, il dramma s’inframezza di epidermiche saggezze. Nevica, “fiocchi di neve rosa: qualcosa di buono nel cambiamento climatico c’è”. La moribonda ha (anche) avuto una figlia, che però “non c’è”. La tesi: il cancro basta confrontarlo, non è invincibile – basta morire prima che ci pensi il cancro.
Pedro Almodovar, La stanza accanto, Sky Cinema