venerdì 28 novembre 2025
L’inchiesta Mps-Mediobanca è contro il governo
Caltagirone a Milano, addirittura “padrone di Milano”, non poteva che suscitare un’inchiesta, era prevedibile. C’era anche un esposto di Unicredit, non invitato alla festa, anzi escluso, che rendeva l’inchiesta obbligatoria.
L’arte senza l’artista
La Quadriennale romana è organizzata quest’anno per
forme espressive. Non più per tendenze o “manifesti”, e naturalmente nemmeno per
autore – gli autori esemplificano una delle forme espressive prescelte. L’autoritratto
(a soggettività). L’autorappresentazione (della realtà: una lettura che è una forma
di socialità – dove l’io non prevarica ma sintetizza “generi, etnie, nazionalità
e classi sociali”, spiega Bonami, il curatore, collegandolo al bantù ubuntu,
“io sono perché tu sei”.
“Il tempo delle immagini” visita l’arte “nella “inondazione
di foto, selfie, meme, scheenshot, gif, reel, stories che sommergono la nostra
vista”. La sezione più evocativa – più godibile anche. L’ultima sezione, “Senza
titolo”, è libera, atematica.
La Quadriennale è una officina più che una celebrazione
dell’arte contemporanea da qualche anno, dal rilancio dieci anni con la
gestione di Franco Bernabé. E tuttavia la personalità di artista è, dove c’è, ancora
il suo forte – come lo è del mercato dell’arte. La parallela evocazione della Quadriennale
1935 può esibire una trentina di nomi già “classici”: Luigi Bartolini, Mario
Broglio, Cagli, Capogrossi, de Chirico, de Pisis, Leonor Fini, Carlo Levi,
Longanesi, Mafai, Marini, Martini, Morandi, Prampolini, Scipione, Severini, Sironi….
L.M.Barbero -
F.Bonami - E.Mazzonis di Pralafera - F.Stocchi - A.Troncone, Fantastica.
18ma Quadriennale d’arte, Roma, Palazzo delle Esposizioni
giovedì 27 novembre 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (615)
Giuseppe Leuzzi
“Le Alpi sono una delle due prove dell’esistenza di
Dio”, afferma il maestro Muti risoluto a Cazzullo che lo intervista per il
“Corriere della sera”. “Perché?” “Perché hanno preservato una mediterraneità
che ci appartiene”.
Non se ne può più degli Odini.
Michelangelo Mammoliti, supercuoco italiano dello
stellario Michelin, che esercita nelle Langhe, si dice “di origine piemontese”.
Mentre sarebbe “piemontese, di origine calabrese”. Ma fa piacere, che una persona
di seconda o terza generazione si identifichi col luogo e la cultura dove ha avuto
e dato il suo contributo di saperi e capacità, e per questo prospea – è
premiato. L’“origine meridionale” connota un lamento, una ricerca di buona volontà, di
carità, per di più corredato da rivalsa.
La guerra dei trent’anni
a Milano
Gianni Santucci fa sul settimanale
“La Lettura” del “Corriere della sera” una recensione-sintesi che lascia senza
respiro del volume di Laura Antonelli Cali e Nicola Erba “Atlante storico della
mala milanese” – un atlante che consta di ben 521 pagine, e non comprende i “bravi”,
anzi riguarda solo trent’anni, dal 1963 al 1993.
Leggere per inorridire:
“S’ammazzavano come cani.
Sparavano come invasati. Pippavano come ossessi (la terza è ancora
attualissima). E ofrivano servizi ai regolari: donne, bamba,
bische. L’amarcord è una lente che li distorce. Il tempo li deforma.
Ingiustificatamente li imbelletta. No, erano cattivi, spietati, a volte sadici,
spesso sociopatci. Erano tantissimi. Banditi d’ogni risma e d’ogni provenienza.
In brutale competizione. Erano famelici e feroci, aspiranti principi d’una città
che in un anno contava centocinquanta morti d’eroina e più di cento morti
ammazzati. Non un secolo fa: negli anni Ottanta e Novanta. Roba che le Gomorre
di oggi (sulle quali il pelosissio stomaco della politica contemporanea
prospera spremendo voti e consenso) sono quiete province coi giardinetti
all’inglese. Così era Milano: generazioni di innocenti falciate dalle spade
in vena; la rapinetta con la siringa asfissiante abitudine; quotidiane rapine
in banca con mitra e pistole; sequestri di persona a nastro; evasioni di
gruppo dal carcere; rivolte a San Vittore; clan stranieri animatori di
sparatorie in strada”.
E ancora: di che parliamo? “Di
quella Milano che è stata una portaerei per tutte le droghe. Una piattaforma
per tutte le mafie. Una savana per tutte le masnade del banditismo predatrio:
dai clan sardi agli uruguayani. A questi, sovrapponete i decenni della violenza
politica”.
Non senza il richiamo di
prammatica: “Aggiungete il progressivo piantar radici di Cosa Nostra,
‘ndrangheta e camorra”. Però, “una città putrida, corrotta, indecorosa. Sporca
nell’anima e sporcacciona nel costume”.
“Offrivano servizi” apre un
altro abisso: la mala come parte di un “sistema”, per usare la lingua delle
antimafie.
Mi-To, o come Milano
di bevve Torino
L’Olimpiade invernale è
l’ultimo scippo. Di Milano a Torino. Della piatta Milano a vocazione alpina –
come già della provinciale Milano, di fiere e commercianti, a vocazione transalpina.
A un certo punto era sembrato
che Mi-To diventasse una conurbazione, tanto massicio era il trasloco dalla
capitale sabauda, capitale di un regno bene o male, al centro della politica
europea, a quella degli affari. Mi-To come un sifonamento, con autostrada a tre
o quattro corsie, affiancata da complessi direzionali e produttivi, e treni a
frequenza e articolazione metro. Poi l’ideologia green, contro il consumo
del territorio, altrettanto improvvisa ha cancellato l’ipotesi. Ma i fatti restano.
La banca, i telefoni, i libri in fiera ultimamente, tutto quello che Torino ha inventato e prodotto Milano se l’è già
preso. Non le automobili, troppa fatica l’industria, me se ne è prese le
finanze, riducendo il tutto in poltiglia. Come già aveva fatto con Olivetti, un
campione mondiale subito ridotto a niente.
Rileggendo Cattaneo e
Salvemini si scopre anche che Milano ha minato il Risorgimento, pur di sottrarlo a
Torino. Con le Cinque Giornate per il verso giusto, democratico. Ma subito poi
alleandosi pronta, nobili e notabili, con la Torino sabauda, Carlo Alberto e il
conte di Cavour – che da giornalista e deputato nel ’48 voleva piazza pulita
dei democratici: “Ciò che soprattutto è indispensbile è di reprimere
energicamente il minimo movimento repubblicano in Lombardia. Fatemi fucilare il
primo lombardo che mandi un grido sedizioso”. Già fatto, senza forche. E nel
1859 la Lombardia si farà sabauda senza nemmeno il solito plebiscito di
facciata, caso unico fra gli ex staterelli italiani, nobili e
notabili erano già in linea.
Dalla brigata Catanzaro
con orrore
Bisogna salire presto alla
piazza del Municipio, alla Posta il bancomat rischia altrimenti di esaurire la
provvista. Ma è andata bene, è anche fresco e la piazza è vuota. Se non per un suono
di tromba. Incerto, ma è il “silenzio”. Di mattina? Sarà qualche ubriaco, il
suono viene anche ovattato, remoto. La grande piazza è vuota. O no, sotto il
Milite Ignoto ci sono dei ragazzini. A quest’ora, già in villa – la piazza fa da
“villa comunale”, uno spazio chiuso alle macchine? Prima della scuola? Ma no,
oggi è festa. E uno ha la tromba. È più
alto degli altri, e ora la imbraccia di nuovo: è lui che prova il “silenzio”, al Milite Ignoto. Al
cenno di un barbuto, che lo riprende, sarà il maestro. Ma sì, oggi è il 4
novembre, il governo raccomanda che si celebri la vittoria, con i morti, e la scuola
di musica per cui siamo celebri avrà preparato quache piccola cerimonia, con
gli allievi più piccoli, per la solita corona d’alloro del sindaco.
Ma è una festa triste quest’anno,
avendo letto ieri, riletto, la storia della brigata Catanzaro, come fu decimata
dai carabinieri, su ordine dello Stato maggiore, italiano. Non se ne parla, e
non è un bene, anzi fa male.
Si fanno ancora film di
richiamo ed evocazioni appassionate di questo o quell’episodio eroico o cruento
della Grande Guerra e niente, neanche un richiamo, al più terribile di tutti,
l’esecuzione sommaria della brigata Catanzaro. Lo ha ricordato ieri,
incidentalmente, e nemmeno tanto simpateticamente, “l’altravoce, il Quotidiano
– Reggio Calabria”, come per collegare i Morti con la Vittoria. Un fatto terribile,
che non ha trovato nessuna documentazione storica (giusto un tentativo di
ricostruzione di due giovani appassionati di storia locale una ventina d’anni
fa, Irene Guerrini e Marco Pluviano) e una sola narrativa, incidentale, nei racconti
di guerra di Corrado Tumiati, allora medico militare, scrittore a tempo perso.
Un caso non unico, la memoria
in Italia fa difetto. In Francia si era scritto della guerra qual era in corso
d’opera, Barbusse, “Il Fuoco”, Genevoix, vari racconti (“Sous Verdun”, “Nuits
de guerre”, “Au seuil des guitounes”), Dorgelès, “Les croix de bois”. E poi
naturalmente Céline, volontario mutilato di guerra. In Italia niente durante e
poco dopo. Giusto un libello di Malaparte, “Viva Caporetto! La rivolta dei
santi maledetti”, 1921 – che accuratamente non tiene conto della brigata
Catanzaro, un fatto trucido e non un’esclamazione retorica.
Nonché della Catanzaro, nemmeno
un cenno nelle storie e nelle evocazioni delle esecuzioni sommarie per scarso
rendimento, una barbarie. Di reclute peraltro quasi sempre male addestrate e
spesso male equipaggiate. Che sono anche la parte più viva, e raggelante, di
“Addio alle armi” di Hemingway: le decimazioni, che tanto orrore susciteranno nell’occupazione
tedesca dell’Italia, furono sperimentate nella Grande Guerra variamente dai
carabinieri. Nel 1917, prima di Caporetto, contro la brigata Catanzaro che sul
Carso s’era rivoltata dopo dieci campagne di fila in prima linea: presero una
trentina di fanti a caso e li fucilarono. Ne accenna commosso, per inciso,
D’Annunzio nei “Taccuini” - giusto lui contro il quale, nell’adiacente suo
“campo di aviazione”, i rivoltosi avevano tentato di dirigersi.
Poco si sa – si è detto - sui
motivi della rivolta, e sul suo svolgimento. Solo l’esito è chiaro, non
potendosi sottacere la relazione di Cadorna: “La rivolta è stata
sanguinosamente repressa con la fucilazione di 28 militari e con la denunzia di
altri 123 al Tribunale di guerra”. La brigata Catanzaro, benché fosse ovunque
nel Carso, è praticamente cancellata dalle storie militari. La ricostruzione di
Davide Scaglione su “l’altravoce” ne dà un quadro prima dell’eccidio voluto dai
vertici militari.
La brigata era inquadrata nella Terza armata, comandata
dal duca Emanuele Filiberto d’Aosta. Composta dal 141° e dal 142° reggimento di
fanteria. Con effettivi in maggioranza calabresi, più siciliani e pugliesi. Fu
impiegata come brigata d’assalto sul Carso, dal luglio 1915 al settembre 1917. Con
turni logoranti, praticamente ininterrotti, in prima linea, nei settori più
contesi. Il 141° reggimento aveva meritato la medaglia d’oro al valore militare
(per l’audacia dimostrata tra luglio 1915 e agosto 1916), il 142° la medaglia
d’argento.
Una ricostruzione dei fatti per la verità c’è, su “Calabria Sconosciuta” n. 131
di fine 2011. Dove si spiegano anche i fatti. La brigata Catanzaro aveva
protestato a fine maggio 1917, dopo la decima grande offensiva. Era una
protesta vocale e la cosa venne taciuta dai comandanti. La notte del 15 luglio,
all’ordine di partenza in prima linea per l’ennesima campagna dell’Isonzo, i due
reggimenti si ribellarono, con urla e tiri di mitragliatrice. Tre militari
morirono, tra essi un ufficiale e un sottufficiale, e una ventina furono
feriti. Dopo circa sei ora la rivolta si spense, verso le quattro del mattino.
Si preparava l’XIma battaglia carsica dell’Isonzo, detta di Bainsizza (la XIIma
sarà detta di Caporetto). La Brigata aveva ininterrottamente, per due anni,
partecipato alle dieci precedenti. A Castelnuovo, Bosco Cappuccio, Oslavia, sul
monte Mosciagh, durissimo, sul Cengio, sul San Michele, a Nad Logen, a Nova
Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Non per punizione, anzi con grandi elogi e
medaglie al merito. Ogni campagna implicava tre-quattro settimane di prima
linea. Dopo Caporetto la brigata Catanzaro combatterà sul Pria Forà, in Val d’Astico
e in Val Posina. Sempre con impegno, e anche con successo: un mese dopo la
rivolta la brigata Catanzaro veniva nuovamente elogiata.
Nell’offensiva di ottobre-novembre 1915, in soli quindici giorni la brigata
aveva perso 2.037 uomini – di cui 55 ufficiali. Nella terza battaglia, dal 18
settembre al 4 novembre 1915, aveva perso più della metà degli effettivi,
4.348 uomini - feriti 2.579, gli altri morti. Nel 1916 aveva subito perdite in
varie battaglie, e in due era stata di nuovo annientata. In quella per Gorizia,
nella seconda parte dell’attacco, nel mese d’agosto, aveva perso 3.496 uomini
(2.484 feriti). Nelle tre battaglie successive era restata in linea dal 16
settembre al 7 novembre, perdendo i due terzi degli effettivi: 3.434 uomini
(2.749 feriti). Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio storico
dello stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol. 6, p.
63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le
perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti
gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti. Ma questo è il rovescio della
medaglia, dei cafoni immolati.
Tumiati, che si trovò nel pieno della sedizione e della decimazione, ne fa nel
racconto “Errori” una rappresentazione amareggiata. I fucilandi vengono scelti
a caso, senza colpe specifiche. A lui, che ardisce difendere i portaferiti,
avendoli visti al lavoro tutta la notte, viene opposto uno scaricabarile. Fino
al generale, che lo tratta da intruso: “La notizia disturba, evidentemente, i
giudici si guardano l’un l’altro seccati”. Il “giudizio” è veloce. Questo lo ha
già scritto Hemingway in “Addio alle armi”, il romanzo della guerra, anche lui
in difesa dei portaferiti. Lo ha scritto anche in dettaglio, ma senza averlo
vissuto. Tumiati è testimone oculare: del “giudizio” sommario si conferma
subito mentre si allontana, sentendo urlare dall’interno della baracca: “I
trenta condannati avevano compreso d’un tratto la loro sorte e, dopo un attimo
di stupore incredulo, avevano gridato. Che altro potevano fare?”.
Forse per la fretta non ci sono agli atti i nomi
di chi ha preso le decisioni e su quali criteri: “In un’ora il campo fu
levato”, continua il racconto, “e i battaglioni, incolonnati, musica in testa,
ritornavano in linea. Tararilla, tararà. Tararilla, tararà”. Il racconto
angosciato degli eventi Tumiati fa precedere da uno ilare su un caporale
calabrese in forza alla Brigata, giovane muratore biondo con “l’estro vivo del
cantastorie”, che scriveva e gli portava da leggere per svagarsi poemi che
ancora lo commuovono. Esca alla testimonianza: “La Brigata Catanzaro fu
certamente una delle più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il
suo proverbiale eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica.
Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie
nuove”.
leuzzi@antiit.eu
L’Europa corre alla fine dello Stato sociale
Troppi impegni eccezionali, troppo debito, poca o nulla
intelligenza dei fatti correnti, l’Europa corre alla fine dello Stato sociale
(sanità, pensioni), per eccesso di indebitamento. Detto così, sembra un’analisi
affrettata, o un giudizio allarmistico. Invece è l’esito di una delle solite
analisi spassionate del Fondo Monteario.
Un giudizio allarmato, sì, ma dopo una analisi
accurata dello stato dell’Europa oggi, economico e politico. Allarmato per l’inerzia
che caratterizza l’Europa in questa contingenza per molti aspetti delicata, di
fenomeni incidentali e altri di lungo periodo: la concorenza americana, oltre
che asiatica, le guerre in Ucraina e in Palestina, il crollo demografico, il
debito crescente. Nella sintesi degli autori dell’indagine:
“L'Europa ha gestito shock importanti, ma la crescita
sta rallentando, i guadagni delle esportazioni stanno invertendo la rotta a
causa dei dazi e i mercati obbligazionari riflettono rischi crescenti. I tagli
dei tassi di interesse e l’aumento della spesa pubblica, inclusa la difesa, non
hanno stimolato la domanda privata. Il divario di produttività con gli Stati
Uniti rimane ampio e le riforme strutturali sono in ritardo. Le priorità
nazionali e la lentezza del processo decisionale della UE ostacolano una più
profonda integrazione dei mercati dei capitali, del lavoro e dei prodotti.
Senza una crescita più forte e un consolidamento fiscale, il debito medio
europeo potrebbe raggiungere il 130 per cento del pil entro il 2040,
richiedendo un significativo aggiustamento fiscale (un aumento della fiscalità,
n.d.r.)….
La ripresa “dipende da urgenti riforme strutturali”. Le
più importanti: 1) smantellare la frammentazione del mercato e semplificare la
regolamentazione per stimolare gli investimenti; 2) adottare “un processo
decisionale più agile”.
Allarmi noti da un paio d’anni, dal “piano Draghi”. Ma
giustificati in dettaglio.
Fra le note aggiuntive, settoriali, una su “come può
l’Europa pagare per cose che non può permettersi?” – la “crisi fiscale” potrebbe
allargarsi a tutto lo “Stato sociale”, sanità e pensioni:
“L’Europa si trova ad affrontare pressioni fiscali
scoraggianti derivanti sia dalle nuove priorità politiche (ad esempio, difesa,
sicurezza energetica), sia dai crescenti costi dell'invecchiamento della
popolazione (pensioni, assistenza sanitaria) e dall’aumento degli interessi su
un debito già elevato. Senza un’azione politica tempestiva, i livelli del
debito pubblico potrebbero più che raddoppiare per la media dei paesi europei
nei prossimi 15 anni. Ciò potrebbe far salire i tassi di interesse, rallentare
una crescita economica già lenta e minare la fiducia dei mercati.
“Sia riforme strutturali che il consolidamento
fiscale saranno necessari per realizzare il difficile aggiustamento politico”.
Che si può ipotizzare per un terzo realizzato attraverso una serie di riforme
moderate e per due terzi mediante il consolidamento del debito. Per i paesi ad
alto debito, tuttavia, questo pacchetto di politiche sarebbe probabilmente
insufficiente per affrontare la sfida fiscale, non lasciando altra scelta se
non una riconsiderazione più approfondita della portata dei servizi pubblici e
del contratto sociale per colmare il divario”.
International Monetary Fund, Overcoming Europe’s
Policy Drift - How Can Europe Pay for Things That It Can’t Afford?, free online
(leggibile anche in italiano, Superare la deriva politica dell’Europa - Come
può l’Europa pagare per cose che non può permettersi?)
mercoledì 26 novembre 2025
Tokyo dice Cina per non dire riarmo
Il militantismo anticinese di Sanae Taichi,
primo gesto della premier giapponese appena eletta, si riallaccia al riarmo variamente
decretato nel dodicennio di premierato di Shinzo Abe. Un riarmo anche nucleare,
con la possibilità di operare anche fuori ai confini nazionali, dichiaratamente
anti-cinese – decretato per contrastare la bellicosità della Corea del Nord e
il riarmo cinese. La Cina è dunque il fronte più impegnativo della politica militare
giapponese.
Il militantismo non ha però scalfito i
legami economici. Non per ora. La Cina resta il principale partner commerciale
del Giappone – il secondo mercato per le esportazioni e il primo per le importazioni.
E il Giappone è il secondo o terzo maggior mercato di esportazioni della Cina,
dietro agli Stati Uniti e, qualche anno, alla Corea del Sud. Nel 2024 gli scambi
sono ammontati in totale a 308 miliardi di dollari.
Contro le iniziative pro-Taiwan della premier
Taichi, Pechino ha messo ora il Giappone al primo posto tra i paesi sconsigliati
ai suoi turisti. Il turismo cinese è al primo posto in Giappone, per numero e
per spesa.
I mercati non credono a una riduzione
sensibile dei rapporti. Il militantismo anti-cinese di Abe e Taichi sarebbe a
copertura del riarmo giapponese. Deciso e perseguito come disegno autonomo –
parte della rinnovata assertivenes nipponica nel Pacifico. La disputa sulle
isole Senkaku, nel mar Cinese Orientale, è di minore importanza di quella sulle
isole Kurili, che vede il Giappone in lite con la Russia senza particolare
animosità.
L’Italia invisibile in mostra
Una passeggiata tra le sorprese. Non il capolavoro perduto-e-ritrovato,
una serie di oggetti e opere, di vario genere, uso, materiale, dal camiciotto di
fili colorati alla statua neoclassica, di valore semplicemente storico e\o
artistico, di ogni angolo d’Italia, restaurati, e portati a Roma per la visibilità,
per farli vedere. Un’occasione per vedere opere altrimenti poco fruibili,
disperse come sono per siti archeoigici, chiese, musei diocesani, parrocchie, conventi,
musei municipali. Con qualche “macchina”
anche: una bicicletta in legno, di metà Ottocento, o il sistema planetario tascabile,
in boccia, di fine Ottocento. Molti gli oggetti, sparsi tra le pitture, di
varia dimensione, e qualità.
Molti reperti sono definiti salvataggi. Lasciando
presumere che siano stati restaurati sui fondi della banca per politiche di
scambio – sindaci, assessori, notabili possono essere noiosi\utili. Lasciano
cioè supporre che ci sarebbe stato di meglio da restaurare. E tuttavia, messe
assieme, danno un’impressione durevole di qualità, oltre che di sorpresa -
117 opere in mostra sono un numero considerevole. Tanto più da apprezzare in un
sito e per un tempo che le sottrae all’invisibilità, non sapendosene l’esistenza,
in luoghi poco frequentati.
Una conferma, anche, che la persistenza, che caratterizza
l’Italia, anche quella contemporanea, più dell’innovazione, è ancora un buon
metodo e modo di essere.
Grande lavoro anche burocratico suppone la mostra, di
superamento delle burocrazie. Da parte di Banca Intesa, che i restauri ha dovuto
negoziare con 51 “enti di tutela”. E da parte degli organizzatori, per rincorrere
le opere in mostra tra 67 enti proprietari– i “ringraziamenti” vanno a un
migliaio di persone.
Intesa Sanpaolo-Ministero della Cultura, Restituzioni
2025, Palazzo delle Esposizioni, Roma
martedì 25 novembre 2025
Letture - 597
letterautore
Berlusconi – “Mamma era
sempre dalla parte degli ultimi”, ricorda l’attrice Laura Morante sul “Corriere
della sera”: “Diceva che Berlusconi le faceva pena perché voleva tanto piacere”.
Danubio – È forse il
fiume più celebrato in letteratura – più del Reno? “Il Danubio è il fiume di
Vienna, di Bratislava, di Budapest, di Belgrado, il nastro che attraversa e
cinge, come l'Oceano cingeva il mondo greco, l'Austria asburgica, della quale
il mito e l'ideologia hanno fatto il simbolo di una koinè plurima
e sovranazionale... Il Danubio è la Mitteleuropa”: questo è il Danubio di
Magris. Quello celebre di Hölderlin, “Alla sorgente del Danubio”, è il fiume
degli dei e del mito. Per Céline a Sigmaringen, in fuga dalla Francia alla fine
della guerra, è il mostro assente, che assiste imperturbabile, muto, alla
distruzione, alla sparizione dell’Europa.
Molto presente in molte letterature – attraversa dieci Paesi, con otto o
nove lingue diverse. In ambito tedescofono è celebrato anche in musica, in forma
di walzer – ce ne sono altri, oltre il celebre “Danubio blu” di Johann Strauss.
varie forme nella letteratura tedesca, e anche nella musica. Jean Paul, nel racconto più
noto, “Vita di Maria Wuz”, lo fa il “fiume del tempo” –
Adalbert Stifter, “La tarda estate”, inverte i termini facendolo metronomo, quello
che dà il “tempo del fiume”.
Frase breve - Se ne fa molto l’elogio,
da parte di Eugenio Baroncelli, scrittore “appartato”, sulle orme di Renard,
Borges, etc.. Salvo poi concludere con Proust, il re degli incisi e le subordinate:
“La ‘Recherche’ è un libro così amato che non riesco a ricordare chi ero prima
di averlo letto”.
Non è il solo, lo scrittore odierno si vuole in-intellettuale, inconseguente
– la pointe innanzitutto.
Italia – Muti mette
Mozart in cima ai musicisti preferiti – intervistato da Cazzullo sul “Corriere
della sera”. Ma aggiunge: “Ma io adpro anche Scarlatti”. Per concludere: “I
musicisti italiani hanno dominato l’Europa: Cherubini a Parigi, S ontini a
Berlino, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo, Mercadante a Madrid. I
musicisti italiani furono i primi a dare un’idea di Europa unita nel nome della
musica”.
Una lunga lista di letterati eminenti degli anni 1950-1960 può rimemorare
Goffredo Fofi in “Arcipelago S ud”, la raccolta di ritratti che si pubblica
postuma, a proposito di Sciascia: “I Fortini i Pasolini i Calvino le Morante le
Ortese i Cassola i Bianciardi i Moravia i Sereni gli Zanzotto i Montale i Bilenchi
i Pratolini i La Capria i Luzi i Mastronardi i Caproni i Bertolucci gli Antonioni
i Rosi eccetera”. E trascura i Saba i Fellini i Quasimodo i Fo, i Flaiano, gli
Arbasino i Gadda i Parise i Bassani i Debenedetti….
Roberto Longhi e Anna Banti - “Non sacrificano un soldo spirituale per nessuno”, Leonetta Cechi Pieraccini,
che ne era abituale anfitrione le domeniche pomeriggio, annotava nel diario, or pubblicato come “Corso d’Italia
11 - Agendine 1930-1945”.
Elsa Morante – Paolo Di
Stefano ne esalta su “La Lettura la “gravità” (Garboli), la camaraderie
(N. Ginzburg), la socievolezza (la lista è lunga). In par allelo, sul “Corriere
della sera” la nipote Laura la ricorda con Valerio Cappelli “difficile, da
bambina mi spaventava”: “Esprimeva il proprio disprezzo in modo categorico, apodittico,
sulle persone. Non capì minimamente mia madre. Si era messa in testa che fosse
una piccola borghese, perché era totalmente priva di ambizione, mamma era
sempre dalla parte degli ultimi…. “.
Mitteleuropa – Per
l’Intelligenza Artificiale “il concetto di ‘Mitteleuropa’ è strettamente legato
all’Impero Austro-Ungarico, un’area multiculturale dove le culture tedesca ed
ebraica hanno interagito profondamente”.
16 ottobre 1943 -Leonetta
Cecchi Pieraccini dice sconvolti, lei e i familiari, nelle “Agendine”
quotidiane che ora si pubblicano, a proposito del rastrellamento del ghetto di
Roma il 16 ottobre 1943, un sabato, festa di Sukkott, 8° “delle capanne” o “dei
tabernacoli”, un “pellegrinaggio” di sette giorni) “dalla bestiale curiosità
del nostro popolino che si affollava a guardare”.
I Cecchi abitavano lontano, ma è anche vero che il rastrellamento ha
preso qualche tempo, non è stata l’affare di un momento, né riguardava solo le
poche case dietro la sinagoga.
Passato – “Il passato
non è scritto sia perché ovviamente non lo conosciamo tutto, sia perché
cambiano costantemente le chiavi con cui lo leggiamo e gli elementi che abbiamo
a disposizione per scandagliarlo…. Il passato è il modo di interpretare il
presente: l’unico che abbiamo” -Maurizio de Giovanni su “Effe” #3 2025.
Scarlatti – Non una virgola
per i trecento anni della morte di Alessandro Scarlatti – giusto a Roma, per i
concerti di Santa Cecilia, una serata del coro, in onore di Scarlatti e di
santa Cecilia. “Oggi noi conosciamo Bach e non conosciamo Scarlatti”, può dire
Muti a Cazzullo sul “Corriere della sera”, “che ebbe grande influenza su Bach”.
Simenon – Maigret fascista?
Domanda e risposta sono di una vecchia intervista di Ulderico Munzi col biografo
di Simenon, Pierre Assouline sul supplemento “domenicale “Cultura” del “Corriere
della sera”, 20 settembre 1992. Simenon
aveva esordito con una serie di articoli, 17, una sorta di rubrica, “Pericolo ebraico”, tenuta tra
giugno e ottobre del 1921 sulla “Gazette de Liège”, firmandosi “Sim”. Aveva 18
anni, e ricopiava gli articoli che il “Times” andava traendo dai “Protocolli di
Sion”, il “complotto ebraico per dominare il mondo”.
A guerra finita negherà di essere o di essere mai stato un mangiaebrei. Negli
anni 1920 e 1930, a Parigi, lavorò per personaggi e giornali di estrema destra,
sempre firmando Sim. Ma non era nemmeno un fascista, può argomentare il biografo:
“Temeva la lotta. Era un individualista ripiegato su se stesso…. Era un vigliacco”.
Una condizione a cui lo aveva ridotto la madre, Henriette.
La madre, spiega Assouline, odiava il figlio maggiore Georges. Amava,
invece, il figli cadetto Christian, biondo e bello, che sarà volontario SS. Nel
1945, all’armistizio, Georges sia adoperò per mettere in salvo il fratello, rintanandolo
nella Legione Straniera. Quando poi, nel 1950, Georges morirà in Indocina, nella
rima guerra di decolonizzazione, la madre famosamente avrebbe detto a Georges: “Avrei
preferito che fossi morto tu”. Oppure: “Sei tu che l’hai ucciso”. Ma Simenon
era da tempo in America.
Patti Smith – Mistica? “Lei
appartiene a quella stirpe di mistiche senza convento che attraversa la
letteratura americana da Emily Dickinson – la wayward nun – a Flannery
O’Connor – la hillbilly thomist” – padre Antonio Spadaro, “Il Vangelo
rock secondo Patti Smith” (“La Lettura” 16 novembre).
letterautore@antiit.eu
Pasolini sbarca a Roma, crepuscolare
Due dei primi racconti romani di Pasolini, di
ambientazione e, tentativamente, di lingua. Due “pischelli” scoprono il mare e la
pesca, tra Terracina e il Circeo, dopo aver raggiunto Terracina in bici,
rubata. Un “maschietto” sfugge ai controlli familiari e si avventura in mare su
un moscone, sempre più lontano.
Più che racconti impressioni, linguistiche
(acustiche) e coloristiche, e sensazioni. Più spesso adagiate sul discorso
indiretto libero. Per un esito qui accentuato del crepuscolarismo che resterà
la cifra della narrativa di Pasolini - e anche della poesia: non al modo cantabile
di Gozzano, ma sì di Govoni e, le prose, di Marino Moretti. Con il “solicello”,
la “finestrella”, la “fiumarella”, la “spiaggetta”, le “paranzelle”, i
“mammocci”, la “cordicella”, il “monticello”, tutto diminutivo.
Prose disadorne. Di ambienti e di umori, semplici,
abituali. Di esistenze umbratili, evasive, ripetitive, silenziose, e modi
minimi, casuali. In ambienti spogli.
Con qualche residuo toscanismo di maniera – “si va”… E
il vocabolario libresco della pesca, preciso e freddo. Con le prime prove del
romanesco, specie nella sintassi – Ungaretti trovò nel racconto del titolo “la
voce del Belli”.
Du testi pubblicati con lo pseudonimo Paol Mari. Un
elzeviro di terza pagina, “Santino nel mare di Ostia”, su “Il Quotidnano”, l’11
settembre 1951, e il racconto lungo del titolo, col quale Pasolini concorse nel
1950 al premio Taranto – non premiato benché lodato da Ungaretti - pubblicato
in parte sullo stesso quotidiano, il 19 aprile e il 7 giugno del 1951. Due
racconti di mare, di ragazzi al mare, “pischelli”, “maschietti”, tra Terracina
e Circeo, e a Ostia.
Pier Paolo Pasolini, Terracina, Garzanti, pp.
63 € 5,90
lunedì 24 novembre 2025
Secondi pensieri - 573
zeulig
Corpo – È il “carcere dell’anima” per Platone. Provvisorio – in attesa che l’anima
torni ad abitare “sopra il cielo” (iperuranio), dove abitava prima della
“caduta”. Prima di essere imprigionata nel corpo. Che ostacola il raggiungimento
della verità.
Da qui la conclusione di Nietzsche, che il cristianesimo,
ponendosi sulla stessa lunghezza linea di pensiero, altro non che “Platone spiegato al popolo – professato
come fede”.
Freud – “Senza mai confessarlo, attingerà molto da Nietzsche”, Umberto
Galimberti, “La filosofia a colpi di martello” – saggio-recensione di Nietzsche
classicista, “Basilea e scritti filologici” (“La Lettura”,16 novembre).
“In nome suo”, dice Auden, “viviamo ormai
vite diverse”.
Immortalità – “Per chi vi aspiri la morte è la sola garanzia di ottenerla”, è agudeza
di Eugenio Baroncelli, lo scrittore delle vite minime.
Nulla –
È in nuce - o a specchio - il tutto, essendo un’origine.
Già come parola, non
essendo priva di senso, significa, e quindi è qualcosa che è – seppure
antitetica al suo concetto.
Occidente
– È Platone – più che Aristotele? Poiché pensa per categorie, il vero e il falso,
il bene e il male, l’anima e il corpo.
Storia - - La
storia è il reale.
La storia di se stessi è certo il proprio reale, a
Roma e a Timbuctù.
Tragedia – In questo Nietzsche ha ragione, che è l’irruzione del
dionisiaco – la tragedia greca deriva dalla lirica, dionisiaca (da qui l’idea
del “tragico”, in forma dionisiaca: l’uomo, scosso nelle sue certezze, o abitudini,
dal piacere e dal terrore, dai prodigi degli dei) viene buttato in un mondo
trasfigurato, di colpa, destino, pena.….
È curioso però che la tragedia si sia sviluppata, con non largo sfasamento,
la grande tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide, 480-406, mentre Platone si formava,
e poi insegnava, nella stessa Atene, il rigore della ragione, l’anti-mitizzazione
del reale.
Verità - “Se
la filosofia occidentale ha sempre sostenuto che la realtà è verità, adequatio rei et intellectus, il
totalitarismo ne ha tratto la conseguenza che noi possiamo fabbricare la verità
nella misura in cui fabbrichiamo la realtà” – Hannah Arendt lo spiega in un
appunto. Il dittatore
totalitario non è Attila né Napoleone, non rapina, neanche per le sorelle. È un
demiurgo, fabbrica realtà-verità, indifferente al rosso e al nero. E non per
farci più saggi ma per coinvolgerci “nel deserto delle proprie conclusioni e
deduzioni logiche astratte”.
Il difetto è antico, stando a Bacone, che
però è uno che crede, pure lui, alla
verità: è di Aristotele, il quale la fisica fece dialettica, e la
metafisica volle realista. Gli scolastici fecero peggio, abbandonando
l’esperienza.
zeulig@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – sanzionatorie (369)
Il presidente Trump ha deciso sanzioni
economiche contro la Russia, bloccando le vendite delle compagnie petrolifere
Lukoil e Rosneft, le vendite di gas liquefatto – di cui gli Stati Uniti sono diventati
il maggiore fornitore europeo nei tre anni e mezzo di guerra in Ucraina. Ha temporaneamente
sospeso le sanzioni in attesa di una risposta russa, entro metà dicembre, alla
propsta americana di accordo in Ucraina.
A differenza della Unione Europea, che
ha disposto nei tre anni e mezzo della guerra una ventina di sanzioni contro la
Russia, finanziarie e commerciali, gli Stati Uniti si erano finora astenuti.
Gi Stati Uniti starebbero valutando
anche forme sanzionatorie sugli asset finanziari e monetari detenuti
in America dalla banca centrale russa – stimati variamente, ma sui 400 miliardi
di dollari (su un totale di riserve valutarie per 630 miliardi di dollari).
Erinni in un interno, anglo-afro
Climaterio tempestoso. Contro figlio, marito, l’incolpevole
amorevole sorella. Novanta minuti di escandescenze.
Una storia ordinaria di depressione “cattiva”. Con sé
e col mondo. Tra vite ordinate, case perfette, mobili sempre nuovi, e Audi per lo
shopping. spostarsi. Filmata senza sorprese, con la moglie-madre arrabbiata
sempre in primo piano.
Una storia d’interesse forse perché succede in famiglia
anglo-africana – siamo in Inghilterra? Per dire che le dinamiche personali e
familiari sono uguali per tutti?
Mike Leigh, che ha un talento per le storie “normali”,
senza storia, qui filma le urla e basta. La “scomodità” è che non c’è scampo,
le erinni sono in agguato per tutti?
Un solo motivo d’interesse: un accenno a origini
nigeriane. Su questo sì, si apre (si sarebbe
aperto) un mondo. è la Nigeria un mondo, eccetto il terzo islamico, in cui la
donna fa e disfa, la famiglia, il commercio, gli affari, il governo, e la
corruzione.
Mike Leigh, Scomode verità, Sky Cinema, Now
domenica 23 novembre 2025
Sull’Ucraina la pace Usa-Russia, con un occhio alla Cina
Si vuole il piano di Trump per la “pace”
in Ucraina sbagliato, arrendevole, abborracciato. Mentre è il contrario. E non dovuto
al suo personale mediatore, l’affarista Witkoff, che è solo un uomo di fiducia
del presidente, ma al dipartimento di Stato. Si vede ampiamente da come è redatto,
nella formulazione, e anche nei (tanti) punti controvertibili, cioè materia di trattativa.
Perchè l’obiettivo americano – americano, non trumpiano - di ora è avviare una
trattativa, se non addirittura un “cessate il fuoco” (il primo passo per fare
finire le guerre: cessate-il-fuoco, tregua, armistizia, trattato).
Sotto il protagonismo di Trump ci sono
interessi e ragionamenti politici. Che alla fine si riducono a uno: isolare la
Cina. È nozione comune che l’obiettivo principale di politica estera americana,
già dalla presidenza Biden, è di isolare la Cina.
Le guerre in atto, in Palestina e in
Ucraina, stuzzicheranno pure l’ego di Trump “imperatore della pace”, ma, seppure
così è, c’è senno nella sua egomania. L’isolamento della Cina l’amministrazione
Trump lo ha imposto alla Ue di Bruxelles e ai paesi europei, Italia inclusa (e
Germania), e lo coltiva con l’accordo militare Arabia Saudita-Pakistan (antico proxy
di Pechino), un’alleanza che sarà forte del migliore armamento americano. Come
già Biden e il primo Trump con le alleanze militari, il Quad (Australia, Giappone,
India, Stati Uniti) e l’Aukus (Australia, Uk, Usa). E con i vari approcci per
portare la sicurezza Nato nell’Indo-Pacifico, per ora il Canale di Suez (Huthi)
e il mar Rosso.
Un “piano di pace” in 28 punti è ampia
materia per trattare. Si vuole che sia un piano di pace di Putin che Trump sponsorizza
(lo vuole solo la stampa italiana però: vecchio riflesso sovietico? applicato alla
Russia…). No, chi lo ha letto ne è certo. È una offa a Putin. Dopo un preavviso
di sanzioni. Di sanzioni efficaci, su petrolio e capitali – in grado cioè di fare
male alla Russia, al contrario delle venti o ventuno ondate di sanzioni decise dalla Ue.
La Grande Strategia di Putin
Una rappresentazione della politica estera russa dal
1993 in poi. Opera di uno specialista russo di Storia diplomatica. Un’esposizione
più che una valutazione. Utile a fare chiarezza sui presupposti anche del
momento attuale di Mosca, della posizione russa prima della guerra con l’Ucraina.
Una politica definita la Grande Strategia, senza meno.
Si parte da Eltsin, che nel 1993 stabilisce questi
due fondamenti della politica estera della nuova Russia: sicurezza e integrazione
con l’Occidente. Con riforme economiche significative, anche onerose. Ma con la partecipazione al G 7 già
nel 1994, e l’aperura nel 1995 dell’adesione alla Wto, l’organizzazione che
regola(va) il commercio mondiale – alla quale Mosca sarà ammessa nel 2012 col “supporto
degli Stati Uniti”. In contemporanea, ma in subordine, Mosca ha pure “cercato
di normalizzare i legami con gli ex alleati del blocco sovietico”, e ha risolto
dispute territoriali, con gli ex alleati e con la Cina – mentre “le relazioni
con il Giappone sono rimaste tese a causa delle isole Kurili contese”.
Per tre capitoli, e per quindici anni, Mosca si sarebbe
impegnata ad appianare la sua entrata nel mondo occidentale. Opera per un
ordine mondiale multipolare, partecipando attivamente a forum come il G 20 e i Brics.
Firma nel 2010 il New START, riducendo le testate nucleari a 1.550. Propone nel
2010 un’area di libero scambio da Lisbona a Vladivostok. Avvia nello stesso anno
con la Ue una “partnership for Modernisation”. E si accorda con la Germania, al
castello di Meseberg, “per coordinare le politiche estere e di sicurezza”. Dal
2006 partecipa all’operazione Nato “Active Endeavour” di pattugliamento del Mediterraneo
contro il terrorismo, e dal 2008 all’operazione anti-pirateria nel Golfo di
Aden.
Poi la crisi. Nessun progresso nei negoziati con la
Ue. Insistenza americana per una Ballistic Missile Defense (Bmd) stazionata in Europa.
E un po’ di crisi politica interna, per le divergenze tra Medvedev e Putin sulle
politiche per il Mediterraneo, in particolare in Libia e in Africa.
Dopo l’annessione della Crimea nel 2014 arrivano
anche le sanzioni economiche occidentali.
Indirettamente autocritici i capitoli finali. La
Russia mantiene forte la presenza negli affari internazionali, grazie al ruolo
di membro permanente del consiglio di sicurezza Onu. Che però non può impedire
risoluzioni quali quella che impegna l’Onu all’integrità territoriale dell’Ucraina.
E ha praticamente cancellato la partecipazione alle missioni di pace – solo 85
militari vi erano impegnati nel 2024. È attiva tra i Brics, che “rappresentano
il 42 per cento della popolazione mondiale e si impegnano a promuovere gli
interessi dei paesi in via di sviluppo”. E nel G 20, che “indirizza vari problemi
globali”.
L’ultimo capitolo è un appello al disarmo e alla “non
proliferazione” dell’armamento nucleare.
Il MIGMO, istituto statale di Mosca per le relazioni
internazionali, è l’università del ministero degli Esteri russo. Bobrov vi insegna
con la qualifica di professore associato al dipartimento di Diplomazia, e lo status,
quando scriveva questo repertorio storico, di preside facente funzioni della facoltà
di Governo e Affari Internazionali.
Alexander Kirillovich Bobrov, The Grand Strategy
of Russia, Moscow State Institute of International Relations (University),
School of Government and International Affairs, MGIMO University, pp. 267, gratuito
online
sabato 22 novembre 2025
Mosca guarda solo a Occidente
Va oltre le smanie augustee di Trump
l’orecchio teso di Putin a Washington. Perché non ha alternativa: l’Eurasia è da
tempo una alternativa defunta. Ben da prima dell’attentato ucraino tre anni fa
al suo teorico Dugin. Con l’India non c’è mai stato dialogo, neanche al tempo
di Nehru e di Indira Gandhi, e non sembra possibile. Col Giappone l’ostilità
resta, secolare, per le Curili e non solo. Con la Cina di Xi non si è mai aperto
un dialogo vero, nemmeno sui reciproci interessi. È svelta ma sicura l’analisi
che la Farnesina si fa dell’attuale momento politico russo.
Pechino è “neutrale” sulla guerra all’Ucraina.
I rapporti economici sono rimasti limitati. Anche da parte russa, per la temuta
prevalenza cinese in campo tecnologico e produttivo – fermi restando gli antichi,
reciproci, sospetti. Il gasdotto Power of Siberia 2, concordato nel 2022 per
fornire alla Cina 50 miliardi di mc di gas l’anno, si è bloccato ai primi
approcci su prezzi e calorie. E Pechino si fa pagare molto più care le esportazioni in Russia rispetto agli altri mercati.
Il dibattito – pubblico – a Mosca sulla
politica di sicurezza (diplomatica e militare) tra gli specialisti del
Consiglio di politica estera e di difesa di Putin verte solo sui rapporti con
l’Est Europa, Polonia, Romania e anche Germania: se attaccarlo militarmente per
la parte che sostiene nella guerra in Ucraina. Fin dalle prime fasi della
guerra, le prime intese non belliche furono cercate non attraverso gli allora
neutrali scandinavi ma tramite la Turchia, avamposto della Nato.
Canfora, Laterza e il new sovietism
“Il «Patto Atlantico» è il Santo Graal dell’Occidente: qualche dizionario rappresenta i due concetti come sinonimi. I soci fondatori avevano un tratto in comune: usurpavano, o avevano appena perso, un dominio coloniale. Più eleganti degli altri, gli Stati Uniti sin da inizio Ottocento avevano proclamato l’America meridionale proprio «giardino di casa». Sfidando il ridicolo, l’Italia, pur sconfitta nella seconda guerra mondiale, aveva elemosinato di conservare le colonie «pre-fasciste»”. Cosa non vera, quest’ultima, non per l’Etiopia naturalmente, Eritrea compresa, di cui l’Inghilterra aveva fatto dono a Hailé Selassié, né per la Libia, mentre per la Somalia l’Italia si sobbarcava un piano ventennale di riparazioni, a beneficio dei capitribù più riottosi.
Così, con questa
sicumera allungata per troppe pagine, malgrado i bianchi della impaginazione, l’editore Laterza, antesignano e baluardo
dell’occidentalismo, s’imbarca nella storia e la politica internazionali. Non
ci si crederebbe – la “decolonizzazione” si è fatta “nell’Occidente”. Una filippica estenuante,
tanto quanto strampalata. Che una appendice chiude di Lenin sulla rivoluzione comunista in ogni spigolo del mondo conosciuto - prima della repressione, certo. Tardo rigurgito di sovietismo di uno che non ha mai
voluto “fare” il comunista – non fino al 1989. Senza più la misura e l’arguzia del
grande narratore di filologia, quale Canfora è stato.
Questo non è il solo moto di rabbia - il filologo ha perso il metro e le misure? La caduta del Muro sarà stata una disfatta
per il miglior spirito “occidentale” – aveva un muro su cui rimpallare il
ragionamento e l’ha perduto? Con danni per la cultura politica: non per l’Occidente,
o per la democrazia, ma per l’analisi e la comprensione del mondo. Come sono asfittici certi parametri, quelli cosiddetti
marxisti – che avrebbero fatto inorridire Marx.
Luciano Canfora, Il porcospino d’acciaio.
Occidente ultimo atto, Laterza, pp. 90 € 13
venerdì 21 novembre 2025
Ombre - 800
La Russia nel G8. Fra i tanti punti del piano di pace
di Trump in Ucraina è quello focale: la Russia non deve marciare con la Cina.
Si può anche dire con le destre al governo si riprendono
i contatti con Mosca, come fu dell’accoppiata Bush jr.-Berlusconi vent’anni fa.
La guerra in Ucraina non è popolare in America. Non
si dice ma è così: Trump, solitamente contestato dai media su tutto, non
lo è su questa voglia di “finirla”. Per la strategia Usa di fondo, del deep
State, che al primo punto ha il containment della Cina. E perché –
anche questo non si dice ma si sa – è stata una guerra di Biden, da vice e poi
da presidente, della “famiglia Biden”.
“Il maggior numero di «no»”, rileva Filippo Di
Giacomo, il sacerdote vaticanista, del documento varato un mese fa dalla Cei,
la conferenza dei vescovi, “da discutere alla terza assemblea sinodale di novembre”,
in Vaticano, “non è sulle relazioni omoaffettive, ma sulla maggiore presenza
delle donne nei ruoli apicali della Chiesa italiana”.
Ma non solo italiana: “La stessa cosa era accaduta
per il documento del Sinodo dei vescovi celebrato in Vaticano nell’ottobre 2024”.
Coro unanime di benpensanti, “la Repubblica”, “Corriere
della sera”, “Sky Tg 24”, “La 7”, perfino “Canale 5”, contro la divulgazione
delle strategie elettorali di Francesco Saverio Garofani, il solito giornalista-politico
democristiano destinato agli altari, consigliere di Mattarella, per battere
Meloni. Non una considerazione, nemmeno di Mattarella purtroppo, sulla saggezza
o competenza politica di un tale personaggio, che muove la guerra a una tavolata
di “romanisti”, tifosi della Roma. Che non conosce – solo invitati dal figlio di
un calciatore-icona della Roma, Di Bartolomei.
E cosa proponeva Garofani alla cena dei romanisti? “Una
grande lista nazionale di civici, “un nuovo Ulivo”. In sintonia con quanto Prodi
aveva appena borbottato. Garofani consigliere di Mattarella. Di che preoccupare
Schlein e non Meloni, che del partito di Garofani è la leader. Per tutto quello
che ha fatto e rappresenta, da ultimo con lo spaccatutto Landini.
Grandi titoli, quest’anno come ogni anno, per la
Commissione Europea che approva la legge finanziaria del governo – o non la approva,
o la approva con riserva, oppure apre una procedura (una procedura?). Ma cosa
fa la Commissione, p.es., con la Francia, che scassa sempre tutti i parametri?
Anche la Germania lo fa spesso. E la Spagna, che da tre anni o quattro non fa
nemmeno un bilancio, né di previsione né consuntivo, perché ha un governo senza
maggioranza, e quindi
non può andare
in parlamento? È decisamente una Unione, questa Europea, un po’ scombinata.
Come fa la sinistra in Italia a farsi forte della Spagna?
Dove il governa a guida Sanchez, teoricamente socialista, governa senza sostegno
parlamentare. Non può fare alcuna legge, nemmeno quella del bilancio. E ha un presidente
del governo che, benché bello e aitante, ha la moglie e il fratello sotto
processo per corruzione – processi non mediatici. E ha fatto pagare un piccolo
esercito di collaboratori personali, all’immagine di bello e aitante, alla
propaganda, e ai sondaggi dall’erario, come membri del gabinetto?
Si (ri)pubblicano – si ripubblicheranno – negli Stati
Uniti enormi quantità di “carte” Epstein, il finanziere e magnaccia pedofilo.
Che si presentano come se incriminassero Trump, cosa non possibile (l’avremmo
già saputo). Ma questo non importa. Importa rimestare, confermare il pubblico
che i suoi rappresentanti politici puzzano. L’antipolitica sembra il sigillo di
America ed Europa. A Occidente di quale Oriente? Democrazia? Verità? Libertà?
Il “Corriere della sera” fa la sua campagna contro
Trump intervistando un giornalista americano, Tom Nichols, che figura essere stato
anche politologo in qualche università remota. Il quale non sa che dire, ma lo
dice. Presentato come editorialista di “The Atlantic”, dove in effetti per un
anno, almeno un anno, ha scritto ogni giorno online 10.000 parole contro Trump.
Poi la rivista, mesi fa, lo ha sostituito.
In alternativa, il “Corriere della sera” dà la parola
a Michael Wolf, altro giornalista Usa, una sorta di “specialista Trump”, con
una “biografia non autorizzata” nel 2018, piena di tutti i pettegolezzi, e podcast
con un’altra mangiatrump, Joanna Coles del “The Daily Beast”, il quale si era fatto
confidente e informatore di Epstein, quando già era condannato. Come mai? “Si
fa per ingraziarsi qualcuno che poi vi aiuterà nel vostro lavoro”. E questo fa
l’autorità dei media in America.
La democrazia in America deve molto a
Tocqueville.
“Ci si sposa sempre meno, ma divorziare è un’odissea”.
A Roma ci vogliono tre anni, calcola il “Corriere della sera-Roma”, ma lo stesso
probabilmente anche altrove: la legge Cartabia stabilisce in tre mesi il
periodo massimo per comparire in Tribunale, a Roma si va a sei mesi, e anche a
nove. Roma ha solo la colpa di
raddoppiare il “tempo prevedibile” di definizione dei procedimenti, a 800 giorni.
Contro una media nazionale di 460 giorni, un anno e mezzo.
L’Ami, Associazione Matrimonialisti Italiani calcola
che il 60 per cento dei femminicidi sono di donne “in fase di separazione”. Ma
poi il presidente dell’Ami, avvocato Gassani, spiega che “solo a Roma oggi ci
sono 90 mila padri che vivono in povertà quasi assoluta. E dormono in auto o
sono tornati dai genitori, mangiano alle mense dei poveri, perdono il rapporto
con i figli”.
Si discute dei “ricchi” in Italia - con 1.500 euro al
mese, irride Meloni. Di fatto lo stipendio netto medio in Italia è di poco superiore,
1.600 euro. E di poco superiore alla “nuova” Europa: Malta, Polonia, Lituania,
Croazia, Grecia, Romania. Ma meno che in Spagna, e molto meno che in Francia,
Belgio, Inghilterra e Germania – la metà dell’Olanda, un quarto della Svizzera.
E però le seconde case e i consumi durevoli, auto, elettrodomestici, dispositivi
elettronici, ristorazione e turismo dicono l’Italia un Paese ricco – per questo
periodicamente invidiato-biasimato dai tedeschi, che guadagnano in media 2.800
euro al mese, ma nulla al confronto nei consumi.
Tutto economia in nero non è. Le statistiche del
reddito non conteggiano il risparmio, il patrimonio – la “famiglia”, il grande
negletto di questa “economia di mercato”.
Questo paese” invece che “l’Italia” accomuna Schlein
a D’Alema - anche Occhetto lo diceva. Non si può dire che il Pd manchi d’identità.
Giubileo Berlinguer
Un anno fa un film su Berlinguer, uno di sette o otto,
non dello stesso regista ma più o meno in contemporanea. Ora un film su come è
stato recepito il film di un anno fa dello stesso regista, “Berlinguer – La grande ambizione”.
In particolare sulle “reazioni del pubblico più giovane”.
Non una curiosità, un manufatto da cinegiornale, uno che
si vuole un vero film. Programmato anche in sala - a Roma almeno da quattro
sale, compreso il Quattro Fontane, del Circuito Cinema, film di qualità. Recensito.
Un culto della personalità, nel 2025. Poi si dice che
il cinema italiano non è in buona salute, che lo Stato non se ne cura, che il pubblico
non lo segue. A volte viene il dubbio che questo sovietismo di riporto mascheri
un doppio gioco. Come per dare ragione al governo Meloni sui sussidi al cinema
come di una partita fra nostalgici, fra i “compagnucci della parrocchietta”.
Matteo Segre, Noi e la grande ambizione
giovedì 20 novembre 2025
L’Italia fuori dai giganti bancari europei
Bloccata l’offensiva Unicredit su Bpm, l’Italia resta fuori dal club europeo delle “banche 1.000 miliardi” – gli attivi Unicredit si fermano a 780 miliardi (Intesa dovrebbe essere ancora poco sotto i 1.000). Del club fanno parte cinque banche francesi (Crédit Agricole, Société Générale, BPCE, Bnp Paribas, Caisse des Dépôts et Consignations); due tedesche (Deutsche Bank e KfW),una olandese (Ing), e una spagnola (Santander).
BPCE è la capogruppo delle Popolari e delle Casse di risparmio.
In Spagna il mercato del credito è concentrato: la quota dei primi cinque gruppi sfiora il 70 per cento. In Italia è del 50 per cento. In Francia, malgrado i tanti gruppi 1.000 miliardi, la quota di mercato dei primi cinque è del 42 per cento. In Germania del 36.
Il Santander, curiosamente, è entrato
nel club con l’acquisto questa estate dell’inglese Tsd dal Sabadell, una banca
catalana sotto opa da parte del secondo gruppo bancario spagnolo, il Bbva. Santander
ha pagato 2,5 miliardi cash al Sabadell, rafforzandolo nell’arrocco
contro il Bbva. Una vicenda molto simile a quella Unicredit-Bpm, col governo schierato
contro: il governo di Madrid, minoritario, si regge sull’appoggio dei gruppi
autonomisti catalani, mentre il Bbva è ”nordico”, è basco, Banco de Bilbao y Vizcaia y Argentaria.
In Germania il KfW, Kredit Anstalt für
Wiederaufbau, è una sorta di Cdp, una cassa per la ricostruzione – una Spa figurativa,
per tenere fuori contabilmente dal debito pubblico masse considerevoli di capitali.
Le banche in Germania non hanno buona salute, si sa: anche Deutsche Bank, come
Commerzbank, le due maggiori, ha scarsa redditività e crescenti sofferenze.
Cronache dell’altro mondo - cinesi (368)
La Cina finanzia gli Stati Uniti. Secondo
uno studio AiData (un laboratorio di ricerca dell’università William&Mary
di Wiliamsburg) la Cina ha finanziato per 200 miliardi di dollari progetti
tecnologici e infrastrutturali statunitensi. Nel quadro di un piano di
espansione del credito di più ampia portata, che ha interessato 2.500
progetti, tra il 2000 e il 2023, disseminati in quasi tutti gli stati della
federazione americana. Anche su attività sensibili per la sicurezza, data
center, gasdotti, terminal aeroportuali. Mentre Washington
metteva in guardia l’Africa e altre aree, compresa l’Europa, dalle trappole del credito
cinese.
La ricerca individua un disegno politico
dietro i finanziamenti, per “assumere il controllo delle aziende occidentali
che lavorano su tecnologie sensibili”.
Gli investimenti finanziari così
calcolati sono al netto dei 730 miliardi di dollari detenuti da soggetti cinesi
in titoli del Tesoro statunitensi.
Il credito cinese in ritirata
Come vanno le banche cinesi? Vanno. Ma
essendo fuori dalla concorrenza internazionale sono oggette in ultima istanza
al potere politico – come tutto il sistema produttivo in Cina.
La crisi dell’immobiliare e ora la più
generale crisi del debito, per il rallentamento forte dell’economia (anche a causa
dell’immobiliare) e ora dei consumi, le ha messe in difficoltà. Questo si sa. Ma
quali specificamente e di che misura siano i problemi questo non si sa: anche
le banche stanno sul mercato, ma il mercato cinese è particolare, soggetto alla
politica, indirettamente come in ogni altro mercato, e direttamente. Un ex
presidente della Bank of China International negli Stati Uniti, Andrew Collier,
ha potuto spingersi a dire: “I presidenti delle quattro maggiori banche statali
sono tutti giocatori al tavolo da poker al più alto livello del governo
cinese”.
Secondo uno studio americano, di AiData,
nel millennio le banche cinesi hanno investito all’estero 2 mila miliardi di
dollari, con progressione costante nel primo dodicennio. Poi c’è stato un rallentamento,
a cui è seguita in questi anni 2020 una brusca cessazione: pesano le insolvenze
di molto credito profuso in Africa, mentre in Europa quasi tuti gli accordi
della “nazione più favorita”, in aderenza alla Belt and Road Initiative della
presidenza Xi, sono stati denunciati o abbandonati – su pressione americana,
cioè sempre politica.
Montalbano innamorato – i miracoli di Sironi
Il capolavoro di Sironi, una storia dell’amore quale
è, improvviso e violento, irragionevole e pure necessario, solo naturale. Dell’amore
sfrontato, raccontato con prepotenza e delicatezza – una trattazione classica,
che resterà tra i monumenti del genere, “Casablanca”, “Madison County”. Dopo un
prologo comico a ritmo da cabaret – ora standup comedy: il funerale di
Montalbano, solenne.
Il “rifacimento” più denso e pregno del personaggio di
carta di Camilleri. Di cui ancora non si evidenzia l’evidenza: quanto il suo
personaggio e le sue storie di carta si sono ingrossate con Sironi al cinema. Tra
l’altro disegnando nel personaggio della giovane tenente di Marina che s’innamora
di Montalbano, ricambiata, un ruolo ineguagliato per Isabella Ragonese – avrà pianto
rivedendosi, per lo charme e la delicatezza che imprime al personaggio, la
freschezza, la profondità: violenza e tatto (pudore?), la mistura che è dei sentimenti
forti.
Un capolavoro del regista. Il vero artefice del
successo esplosivo, ventennale, di Montalbano – bisogna ripeterlo, da lettori
di tutto Camilleri, cento e più volumi.
Alberto Sironi, L’età del dubbio, Rai 1,
Raiplay
mercoledì 19 novembre 2025
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (614)
Giuseppe Leuzzi
Francesco Seminario, sindaco di Casabona, un paese
dell’ex Marchesato (Crotone), cone dire un posto per decenni – per secoli? - abbandonato,
arrestato un anno fa per mafia, è scagionato ora del tutto. Era sindaco per la terza
volta – dopo un congruo intervallo dopo le prime due. Una persona cioè di fiducia.
È anche avvocato. Ma è – era – socialista, e questo non va bene alla Procura di
Crotone. Che è Dem. Ma “bianca”. Al Sud la politica non è “liquida”, non si è
liquefatta: è sempre, radicalmente, incistata.
Il rapporto
Nord-Sud, dice Marta Petrusewicz, che ha visto molto mondo, nella nativa Polonia
comunista e poi negli Stati Uniti dove ha insegnato, prima della Unical di
Cosenza, è “un rapporto che è stato sempre definito in termini di superiorità e
inferiorità, e che oggi vede una forte ripresa della criminalizzazione del S ud.
Perché esistono le mafie, certo, ma anche per rappresentare i meridionali come incapaci
di provvedere a loro stessi. Questa criminalizzazione ha finito per creare una
fiacca morale del Sud, dove è stato interiorizzato il senso della sconfitta”.
Questo
è tutto? Sembra poco e invece è un fronte inattaccabile. Un fronte nel mezzo
dell’Italia.
I santi
dell’antimafia
La chiesa interviene contro la
ferocia mafiosa canonizzandone le vittime, il giudice Livatino, don Pino Puglisi,
e altri. Vittime intese come martiri, giacchè opponevano alla violenza il
rifiuto totale – non politico, non opportunista, non farisaico. Fuori della chiesa,
invece, l’antimafia sempre più deriva verso il falso: l’opportunismo, l’interesse
personale, per quanto politico, la “faccia lavata” (formalismo, farisaismo).
Si prendano Falcone e
Borsellino, che pure dovrebbero essere santi senza dubbio seppure laici – anche
martiri, ma la parola si riservi pure alla chiesa. Sono espedienti invece, niente
altro. L’errore-non errore del giudice Gratteri che fa schierare Falcone nei
ranghi del no alla separazione delle carriere (“non errore” perché il giuidice ha
avuto la falsa intervista di Falcone da peersona a lui nota come “rispettabilissima
e informatissima”). In parallelo con l’altro falso che si attribuisce a Borsellino:
“La mafia non si vendica”. Che è una “intervista impossibile” a Borsellino morto
di Enzo Mignosi: “Intuivo che mi avebbero ucciso, ma che non sarebbe stata una
vendetta di mafia, perché la mafia non si vendica”. Roba da antimafia che si
vuole anti-Stato – che è uno Stato che dubita di se stesso (“servizi deviati”, “apparati”,
“grandi vecchi” etc.).
O, sull’altro versante, della
critica al tutto mafia, lo Sciascia di “lo Sato non può processare se stesso”. Che
Guido Vitiello non ha trovato negli scritti di Sciascia e nemmeno nelle interviste:
“Negli
scritti di Sciascia, almeno in quelli in cui era ragionevole attendersela”, ha
scritto il 16 marzo 2014 sul “Foglio”, “L’apocrifo di Sciascia”, “la frase non
c’è (la si trova invece nella commedia “Oplà, maresciallo” di Giovanni Arpino,
che fu il mentore del giovane Travaglio presso Montanelli)”. E il primo a farne
uso è il giudice Ingroia, il Procuratore palermitano che avrebbe tentato la politica
con un proprio partito, nel 2001 sulla rivista “Micromega”.
Una considerazioe inventata, concludeva Vitiello, e di
senso ambiguo: “I tanti che la
citano tra virgolette, un clan endogamico che avrebbe fatto la gioia di
Lévi-Strauss – Marco Travaglio, Saverio Lodato, Maurizio Torrealta, Salvatore
Borsellino, Sandra Rizza, Beppe Grillo – se la passano di bocca in bocca senza
mai menzionarne la fonte”.
Il ritorno è un falso
“Se il nostos, il ritorno
omerico alle radici, è un fake” è più di un ghiotto giochetto
di parole da instagram, perché è vero – poco o molto, ma nell’intimo.
Tutta la narrativa - la narrativa
occidentale, ora è opportuno precisare - è di un “viaggio di ritorno”. Dall’“Odissea”
a Proust, o Céline, e a Thomas Mann – o a un Philip Roth, volendo. Narrare è viaggiare,
si suole dire. Ma non nell’incognito - neanche nella fantascienza. Né si potrebbe
– qualsisi narrazine si radica nel suo autore. Con più verità, è una lotta di se
con se stessi. Ma nella pratica è sempre deludente: o l’habitat è mutato, o noi
siamo mutati. Il passato si può ricostituire ma è un’altra cosa, senza l’aura,
o la patina, della memoria al contrasto con la realtà, con quello che si vede e
si sente.
Il “viaggio” sì, è lusinghiero:
pregnante, promettente, profumato. Lo sbarco no. C’è forse un po’ di curiosità,
ma senza regressione – e perché poi? non si è come si era, è un fatto fisico
(il tempo esiste, e passa). Non solo la “memoria” è cambiata, ambienti, persone,
modi, linguaggi, di pensare, di dire, di giudicare, anche solo di porsi, di
essere visti. Ma già a partire da se stessi: non si è più quelli, anche nella
memoria delle “radici”.
La restanza” si Vito Teti ha
un sentso, il nostos è fine a se stesso. Possibile, libero, ma deludente.
Una riappropriazione, ma di un reale comunque sfuggente. Impossibile nella pratica,
fino alla politica – non si ricordano ritorni produttivi. Deludente nell’aspettativa.
Nella psicologia, comunque datata. Anche senza cattiva volontà, anzi con tutta la
buona volontà, di chi torna e di chi c’era, è restato – che più spesso è, anche
lui, uno di ritorno.
Diverso è il nostos per
la forza del richiamo. Delle cose e dell’ambiente – anche soltanto di un linguggio,
compartecipato. E in questo sta – starebbe – ancora la forza residua del Sud,
il richiamo imperscrutabilmente ancora attivo, “contro venti e maree”.
Sudismi\sadismi
Cervelli in fuga – da se stessi
“Sud,
con la fuga dei giovani si perdono oltre 4 miliardi l’anno”, è la conclusione del
“focus” Censis-Confcooperative, “Sud, la grande fuga” – Confcooperative “bianche”,
quelle di Leone XIII. 134 mila giovani che studiano in università del Centro-Nord
sono “157 milioni di euro evaporati (ogni anno, n.d.r.) dalle casse degli
atenei meridionali”. I soldi sembrano
pochi, ma il tema è serio: il Sud post-unitario è rimasto con le poche università
che aveva prima, solo da qualche decennio l’offerta si è allargata.
Poi ci sono i “36.000
laureati al Sud che hanno scelto le regioni centro-settentrionali o l’estero
come approdo lavorativo” – una cifra incomprensibile: il totale annuale (le
università del Sud laureano così tante persone?)? il totale dei laureati
espatriati? E da che anno a che anno? Ma con questi la perdita sarebbe di 4,1
miliardi di euro, cifra rispettabile: “Soldi investiti dal Sud per formare una
classe dirigente che poi sceglie di restituire altrove il proprio know how”.
E allora, che fare? “Produrre” meno laureati – giusto
i pochi che il Sud riesce ad assorbire?
Il dilemma solitamente è cornuto. Ma qui no. Vogliamo
più formazione universitaria, qualificata va da sé? O non più occasioni
di lavoro, e meno lamentele: cioè un “ambiente” attraente, per costi, servizi, opporutnità,
e senza complessi? Di cervelli non in confusione.
Cronache della differenza: Napoli
Improvvisamente
è gelo fra Conte, l’allenatore, e la città: bastano un paio di sconfitte,
sonore per la verità, ma che con evidenza non sono colpa dell’allenatore. Dopo
averlo dichiarato napoletano a vita, dopo che, quasi da solo, ha vinto uno
scudetto. La città si affeziona, calorosamente, e si disaffeziona in fretta. Caso
unico fra le tante tifoserie accese, della Roma p.es., dove la pazienza è
uguale alla passione (stadio sempre pieno), o del Torino, o del Milan.
Soprattutto,
a Napoli, ci si disaffeziona dalla squadra – caso unico fra le tante in Europa
e nel mondo. Prima che con Conte, l’ammutinamento ha colpito Spalletti,
Ancelotti, Gattuso, Mazzarri, Donadoni, lo stesso presidente De Laurentiis. La
città si può dire contagiosa.
Curisoamente,
si sa anche perché il Napoli ha cominciato all’improvviso a perdere le partite,
pur essendo in testa alla classsifica. Ha vinto l’anno scorso grazie alla difesa.
Quest’anno la difesa è stata indebolita e i gol al passivo fioccano. Questo si
sa, ma non interessa.
Fare
mercato del covid? E perché no, presto fatto: “Nasce gettonopoli”. Riunioni su
runioni da remoto, anche di commissioni più o meno decisorie, e nessun
disturbo. È l’ultimo ritrovato dell’arte di arrangiarsi. Ma da qualche tempo
comodamente – da “colletti bianchi”: a virus virus e mezzo, di fantasia.
Maradona?
L’antropologo Niola non esclude che il culto popolare possa produrre “veri e
propri miracoli”. Francesco Palmieri, l’autore di “Napoli misteriosa, magica,
feroce”, ne documenta in un lungo saggio sul “Foglio”, “Non solo Maradona”, una
lunga serie “miracoli” sempre attivi in città. Maradona, per ora, ha solo provveduto
al “tavolo sospeso” per i bisognosi il 30 ottobre, giorno della sua dipartita. Si
rivitalizza il culto di Totò. E quello di don Dolindo Ruotolo, il “Padre Pio”
napoletano – profetizzò nel 1950 l’avvento di Woytiła, il papa polacco. E si
moltiplicano i santi malacarne, con
murales e altarini – troppi per docunentarli: i “santi di Gomorra”, Genny
Verrano, il quindicenne Ugo Russo, Luigi Caiafa, Emanuele Sibilo, “il capo
della «paranza dei bambini».
Nella
chiesa di San Ferdinando di Palazzo san Charbel Makhluf, il monaco libanese
canonizzato da Paolo VI nel 1977, riempie in continuazione la polla dell’“olio
di san Charbel”. La chiesa di santa Caterina a Formiello (porta Capuana)
raccoglie le teste dei 240 santi martiri decapitati dai turchi a Otranto nel
1480. Oggetto di grande devozione. Insieme con le spoglie di Franceschiello,
l’ultimo re Borbone, “servo di Dio” per la chiesa, e della madre Maria Cristina,
“beata”.
Nella
stessa chiesa dei martiri di Otranto e dei beati Borbone “gli storici collocano
la nascita ufficiale della camorra: fu all’interno della maestosa chiesa che
venne recitato per la prima volta, in un giorno del 1842, lo statuto in ventisei
articoli con cui si stabilivano le regole della «Bella Società Riformata»”.
“Fuitevenne”
avrebbe consigliato ai concittadini Eduardo. Che però a Napoli rimase, anche se
viaggiando da Roma, e prosperò. È difficile pensare che esiste anche l’ironia -
a Napoli come altrove. O il sarcasmo.
Se
tutti i napoletani se ne scappassero, quanti problemi per il leghismo!
Dino
De Laurentiis, che come presidente del Napoli ha mostrato in tante occasioni nervi
forti, usa anche querelarsi. Contro giornalisti, e ora anche contro Mauro Corona,
l’allegrone che alleggerisce la tv di Bianca Berlinguer, “Cartabianca”. Per una
notazione di Corona cinque o sei anni fa, al tempo del covid, quando De Laurentiis
si recò a una riunione dei presidenti del calcio benché avesse la febbre.
Notazione nella quale non si vede un motivo di querela. Sarà questa la napoletanità
del freddo produttore-presidnete, il virus dell’avvocatura”. Curioso, questa figura
tradizionale del “teatro” napoletano, che si trascuri.
Anche
la politica è “sospesa”, scopre Alessio Gemma sul “Venerdì di Repubblica” nella
campagna elettorale per le Regionali del 23 novembre. Grandi manifesti di
facce, affiancate da slogan magniloquenti, e nessun partito. Candidati in
attesa di un partito. Ma la politica è anche teatro. Certo, questi candidati sembrano mercenari,
al migliore offerente - attori.
All’instabile, sospettso, vendiacrtivo Vito Genovese, mafioso napoleano
a New York, si affianca nel film “The Alto Knights - I due volti del crimine”, il racconto di
come Frank Costello in vecchiaia vede gli anni di attività, una moglie superba, Anna,
imprenditrice capace, che si fa anche moglie di Genovese ma se ne difende (Genovese ruba alla cassa del suo
locale) con rabbia e con intelligenza.
Una “donna del Sud” molt veritiera, che si vede solo in un film molto
americano.
leuzzi@antiit.eu
Altro che dazi, la Cina resta maestra del commercio globale
I dazi orientano la politica commerciale ma non la
esauriscono, e anzi sono la parte minore, per quanto molto visibile, di
essa. Sono “descritti come lo strumento principale, o addirittura l’unico,
con cui i governi intervengono nel commercio globale perché “sono facili da
manovrare, più facili da politicizzare (ora con Trump, n.d.r.) e prontamente
utilizzabili nei negoziati bilaterali. Ma questa attenzione ai dazi è fuoviante….
I dazi sono solo uno dei tanti strumenti che un governo uò utilizzare per
modificare lo squilibrio interno di un Paese”. Di più incidino sulle politiche
commerciali “scelte politiche che non sembrano affatto correlate al commercio”.
Un elenco lungo se ne potrebbe fare, e non esaustivo: “Decisioni fiscali e
monetarie, strutture normative, politiche del lavoro, norme istituzionali possono
influenzare la distribuzione del reddito e l’equilibrio tra consumi e
produzione nelle economie, con implicazioni di vasta portata per il commercio globale”.
I dazi sono forse quelli che incidono di meno.
Gli effetti dei dazi sono peraltro più complessi di
quanto appare: sono “un trasferimento di reddito” all’interno, oltre che una
misura commerciale – incidono sul commercio in quanto spostano quote di reddito
dal consumo alla produzione. Se favoriscono la produzione nazionale e il’occupazione
è ad uncosto: “I consumatori pagano di più per beni e servizi”. Al dettaglio –
per le famiglie – e nell’insieme. “Questo spostamento del redditodai
comsumatori aiproduttori” è l’essenza di una politica commerciale aggressiva: “Che
si trtatti di una ariffa, di un sussidio fiscale o di una legge sul lavoro che
comprime i salari, il risultato è un cambiament nella distribuzione interna del
reddito che ha anche implicazioni esterne. Se i consumi sono tassati e la
produzione è sussidiata, è probabile che le esportazioni nette aumentino. Al
contrario, se le politiche spostano il reddito dai produttori ai consumatori, è
probabile che le esportazioni nette diminusicano”. Inoltre, spostando l’equilibrio
tra consumi e produzione si sposta l’equilibrio tra risparmio interno e investimenti
interni”.
Lo stesso effetto si può ottenere con la politica
valutaria, del cambio. Con la politica
dei tassi. Entrambe maneggiabili fino a rappresentare “di fatto una tassa sul reddito
dei rispamiatori netti (il settore delle famiglie) e un sussidio al credito per
debitori netti (il sistema produttivo)”.
In conclsione, “come sostenne John Maynard Keynes a
Bretton Woods nel 1944, il fatto che un’economia diversificata registri
persistenti surplus commerciali è solitamente una prova dell’esistenza di
interventi distorsivi del commercio”. E con Keynes arriviamo alla Cina, su cui
l’argomentazione di Pettis – socio senior del Carnegie Endowment for International
Peace e professore di Economia all’università di Pechino – converge.
Ci sono governi che forniscono sussidi, diretti e indiretti,
anche solo privilegiando le infrastrutture, a settori che ritengono strategici.
Oppure raggiungono lo stesso obiettivo “rendendo più economico o più attraente
produrre che consumare – un cambiamento interno che produce un effetto esterno”.
O gestendo il mercato del lavoro. “In Cina, ad esempio, il sistema houkou
– un sistema di registrazione delle famiglie che limita i diritti dei migranti
rurali nelle aree urbane – ha a lungo contribuito a deprimere i salari e a ridurre
i consumi delle famiglie”. Anche solo limitando la possibilità di organizzazione
sindacale. “Più in generale, limitando in vario modo i consumi mentre la
produttività cresce, queste politiche creano gli stessi tipi di squilibrio dei dazi,
ma lo fanno in modo più discreto”. Si spiega così che si possono registrare “persistenti
surplus commerciali pur mantenendo dazi relativamente bassi”.
Michael Pettis, Behind the Veil of Tariff Fixation,
Imf “F&D”, Finance&Development, settembre 2025 (leggibile anche in
italiano, Dietro il velo dell’ossessione tariffaria)
martedì 18 novembre 2025
L’Europa ha riarmato – senza strategia
Il riarmo di cui si discute è già un
fatto. La “Defense Readiness Roadmap” della Commissione europea calcola la spesa
militare aumentata da 218 miliardi nel 2021, prima della guerra in Ucraina, a
343 miliardi nel 2024 – l’1,9 per cento del pil Ue – e quest’anno dovrebbe
aumentare a 392 miliardi.
L’obiettivo al 1935, spendere per la
difesa il 3,5 per cento del pil, implicherebbe un esborso di 680-800 miliardi, che si presenta
raggiungibile, malgrado i limiti crescenti di bilancio di molti paesi membri, Francia
ora compresa.
La Francia ha quasi raddoppiato la spesa,
da 39 miliart1di nel 2021 a 62 miliardi quest’anno – e punta a 80 miiliardi nel 2030.
La Germania ha dato l’avvio al riarmo con la Zeitenwende del governo Scholz
a fine 2022, passando dai 47 miliardi di spesa militare del 2021 a 86 quest’anno
– e pianifica “almeno” 150 miliardi nel 2029. Segue la Polonia, con una spesa
quest’anno programmata in 44 miliardi - ben il 4,7 per cento del pil. L’Italia
viene quarta con 31 miliardi, l’1,5 per cent del pil.
I programmi di riarmo sono nazionali. Sostenuti,
ma non coordinati, da due programmi europei: l’Elsa, European Long-Range Strike
Approach, la difesa missilistica, e la Safe, Security Action for Europe, un programma
di finanziamento della spesa militare da 150 miliardi, a tassi agevolati, per acquisti
militari. Ma più incisivo dovrebbe risultare lo scorporo della spesa per la difesa
dai vincoli di bilancio.
Nulla invece è stato deciso, e nemmeno
discusso, come piani militari, per una difesa europea. Qui, anzi, con qualche passo indietro: il progetto franco-tedesco di un caccia europeo (Fcas, Future Air Combat System), lanciato nel 2017, è a un punto morto.