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venerdì 8 gennaio 2016

Re Salman va alla guerra

Col nuovo re Salman, che tra tutti i principi reali era il più “aperto” politicamente, sui diritti civili e anche politici, l’Arabia Saudita ha preso il viso dell’arme. In senso proprio, militarmente, dapprima nello Yemen, contro le ingerenze presunte dell’Iran, e ora contro l’Iran direttamente. Succede in Arabia Saudita un po’ come negli Usa, che i presidenti democratici spesso sono bellicosi, più dei repubblicani.
Finora il governo saudita, pur essendo protagonista assoluto sulla scena araba e islamica, ha evitato per programma di esporsi.  “La politica estera saudita ha elevato l’azione indiretta a specifica forma d’arte”, scriveva Kissinger nel 1982, “Years of upheaval”, e il metodo è rimasto valido fino a Salman.
Il nuovo re ha sconvolto la pacifica navigazione del reame anche in altri modi. Ha impresso al vertice un’impronta personale, finora sconosciuta. I figli di Ibn Saud che si sono succeduti in questi sessant’anni hanno governato collegialmente. Salman, ultimo fratello del clan Sudeiri, l’ottava moglie di Ibn Saud, il clan più importante, si è messo accanto invece il proprio figlio Mohammed, come ministro della Difesa – il portafoglio di spesa più rilevante del reame. Pur lasciando il titolo di principe ereditario al fratellastro Muqrin, uno degli ultimi ancora in vita, del clan degli Yamaniyya. E ha impresso un forte stimolo attivo alla politica estera, finora dormiente.
L’Arabia Saudita è stata la grande ispiratrice e finanziatrice del movimento sunnita wahabita-salafita, comprese all’origine le formazioni terroristiche di Al Qaeda e dell’Is. Secondo stime saudite, ha finanziato con 75 miliardi di dollari negli ultimi quarant’anni, dopo il primo boom del petrolio a fine 1973, il proselitismo wahabita, in Medio Oriente, Nord Africa e Africa sub sahariana – in Mali, Nigeria, Senegal, Suda, Somalia, Kenya, e altrove. Ma mantenendo nello stesso tempo una politica estera cauta, dimessa, come inesistente.
Il principe Saud el Feisal, morto sei mesi fa, all’accesso al trono di Salman, figlio del re illuminato Feisal, assassinato nel 1975 da un nipote, che per molti anni aveva gestito la politica estera del regno, poteva confidare a John Kerry un anno e mezzo fa: “Daesh è la nostra risposta al vostro sostegno al Da’wa”, l’Is è la risposta sunnita-saudita al sostegno americano al partito sciita in Iraq. Senza suscitare scandalo, come se fosse una partita politica.
Ora forse la situazione è cambiata. Sicuramente i termini sono cambiati. Salman vuole trattare i nemici come nemici. Mantiene l’affondo sul petrolio anche se deve tagliare i suoi bilanci – l’Iran deve tagliarli di più. Non concede grazie né altri sconti ai terroristi all’interno del paese, nessun invito alla pacificazione. Fa per la prima volta una guerra guerreggiata nello Yemen. E non vuole perdere la partita in Siria: per quarant’anni l’Arabia Saudita ha combattuto il regime siriano, in Siria e in Libano. Quando la guerra persa da Damasco è sembrata rovesciarsi, dopo l’intervento della Russia, ha annunciato una forza di pronto intervento alternativa, arabo-islamica. Che nessuno ha preso sul serio, e probabilmente è inattuabile. Ma è anche certo che, se non verrà coinvolto nel futuro assetto della Siria e del libano, Salman potrà fare altri danni.

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