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giovedì 27 novembre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (615)

Giuseppe Leuzzi


“Le Alpi sono una delle due prove dell’esistenza di Dio”, afferma il maestro Muti risoluto a Cazzullo che lo intervista per il “Corriere della sera”. “Perché?” “Perché hanno preservato una mediterraneità che ci appartiene”.
Non se ne può più degli Odini.
 
Michelangelo Mammoliti, supercuoco italiano dello stellario Michelin, che esercita nelle Langhe, si dice “di origine piemontese”. Mentre sarebbe “piemontese, di origine calabrese”. Ma fa piacere, che una persona di seconda o terza generazione si identifichi col luogo e la cultura dove ha avuto e dato il suo contributo di saperi e capacità, e per questo prospea – è premiato. L’“origine meridionale” connota un lamento, una ricerca di buona volontà, di carità, per di più corredato da rivalsa.
 
La guerra dei trent’anni a Milano
Gianni Santucci fa sul settimanale “La Lettura” del “Corriere della sera” una recensione-sintesi che lascia senza respiro del volume di Laura Antonelli Cali e Nicola Erba “Atlante storico della mala milanese” – un atlante che consta di ben 521 pagine, e non comprende i “bravi”, anzi riguarda solo trent’anni, dal 1963 al 1993.
Leggere per inorridire:
“S’ammazzavano come cani. Sparavano come invasati. Pippavano come ossessi (la terza è ancora attualissima). E ofrivano servizi ai regolari: donne, bamba, bische. L’amarcord è una lente che li distorce. Il tempo li deforma. Ingiustificatamente li imbelletta. No, erano cattivi, spietati, a volte sadici, spesso sociopatci. Erano tantissimi. Banditi d’ogni risma e d’ogni provenienza. In brutale competizione. Erano famelici e feroci, aspiranti principi d’una città che in un anno contava centocinquanta morti d’eroina e più di cento morti ammazzati. Non un secolo fa: negli anni Ottanta e Novanta. Roba che le Gomorre di oggi (sulle quali il pelosissio stomaco della politica contemporanea prospera spremendo voti e consenso) sono quiete province coi giardinetti all’inglese. Così era Milano: generazioni di innocenti falciate dalle spade in vena; la rapinetta con la siringa asfissiante abitudine; quotidiane rapine in banca con mitra e pistole; sequestri di persona a nastro; evasioni di gruppo dal carcere; rivolte a San Vittore; clan stranieri animatori di sparatorie in strada”.
E ancora: di che parliamo? “Di quella Milano che è stata una portaerei per tutte le droghe. Una piattaforma per tutte le mafie. Una savana per tutte le masnade del banditismo predatrio: dai clan sardi agli uruguayani. A questi, sovrapponete i decenni della violenza politica”.
Non senza il richiamo di prammatica: “Aggiungete il progressivo piantar radici di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra”. Però, “una città putrida, corrotta, indecorosa. Sporca nell’anima e sporcacciona nel costume”.
“Offrivano servizi” apre un altro abisso: la mala come parte di un “sistema”, per usare la lingua delle antimafie.
 
Mi-To, o come Milano di bevve Torino
L’Olimpiade invernale è l’ultimo scippo. Di Milano a Torino. Della piatta Milano a vocazione alpina – come già della provinciale Milano, di fiere e commercianti, a vocazione transalpina.
A un certo punto era sembrato che Mi-To diventasse una conurbazione, tanto massicio era il trasloco dalla capitale sabauda, capitale di un regno bene o male, al centro della politica europea, a quella degli affari. Mi-To come un sifonamento, con autostrada a tre o quattro corsie, affiancata da complessi direzionali e produttivi, e treni a frequenza e articolazione metro. Poi l’ideologia green, contro il consumo del territorio, altrettanto improvvisa ha cancellato l’ipotesi. Ma i fatti restano.
La banca, i telefoni, i libri in fiera  ultimamente, tutto quello che Torino ha inventato e prodotto Milano se l’è già preso. Non le automobili, troppa fatica l’industria, me se ne è prese le finanze, riducendo il tutto in poltiglia. Come già aveva fatto con Olivetti, un campione mondiale subito ridotto a niente.
Rileggendo Cattaneo e Salvemini si scopre anche che Milano ha minato il Risorgimento, pur di sottrarlo a Torino. Con le Cinque Giornate per il verso giusto, democratico. Ma subito poi alleandosi pronta, nobili e notabili, con la Torino sabauda, Carlo Alberto e il conte di Cavour – che da giornalista e deputato nel ’48 voleva piazza pulita dei democratici: “Ciò che soprattutto è indispensbile è di reprimere energicamente il minimo movimento repubblicano in Lombardia. Fatemi fucilare il primo lombardo che mandi un grido sedizioso”. Già fatto, senza forche. E nel 1859 la Lombardia si farà sabauda senza nemmeno il solito plebiscito di facciata, caso unico fra gli ex staterelli italiani, nobili e notabili erano già in linea.
 
Dalla brigata Catanzaro con orrore
Bisogna salire presto alla piazza del Municipio, alla Posta il bancomat rischia altrimenti di esaurire la provvista. Ma è andata bene, è anche fresco e la piazza è vuota. Se non per un suono di tromba. Incerto, ma è il “silenzio”. Di mattina?
 Sarà qualche ubriaco, il suono viene anche ovattato, remoto. La grande piazza è vuota. O no, sotto il Milite Ignoto ci sono dei ragazzini. A quest’ora, già in villa – la piazza fa da “villa comunale”, uno spazio chiuso alle macchine? Prima della scuola? Ma no, oggi è festa. E uno ha la tromba. È più alto degli altri, e ora la imbraccia di nuovo: è lui che prova il “silenzio”, al Milite Ignoto. Al cenno di un barbuto, che lo riprende, sarà il maestro. Ma sì, oggi è il 4 novembre, il governo raccomanda che si celebri la vittoria, con i morti, e la scuola di musica per cui siamo celebri avrà preparato quache piccola cerimonia, con gli allievi più piccoli, per la solita corona d’alloro del sindaco.

Ma è una festa triste quest’anno, avendo letto ieri, riletto, la storia della brigata Catanzaro, come fu decimata dai carabinieri, su ordine dello Stato maggiore, italiano. Non se ne parla, e non è un bene, anzi fa male.  
Si fanno ancora film di richiamo ed evocazioni appassionate di questo o quell’episodio eroico o cruento della Grande Guerra e niente, neanche un richiamo, al più terribile di tutti, l’esecuzione sommaria della brigata Catanzaro. Lo ha ricordato ieri, incidentalmente, e nemmeno tanto simpateticamente, “l’altravoce, il Quotidiano – Reggio Calabria”, come per collegare i Morti con la Vittoria. Un fatto terribile, che non ha trovato nessuna documentazione storica (giusto un tentativo di ricostruzione di due giovani appassionati di storia locale una ventina d’anni fa, Irene Guerrini e Marco Pluviano) e una sola narrativa, incidentale, nei racconti di guerra di Corrado Tumiati, allora medico militare, scrittore a tempo perso.
Un caso non unico, la memoria in Italia fa difetto. In Francia si era scritto della guerra qual era in corso d’opera, Barbusse, “Il Fuoco”, Genevoix, vari racconti (“Sous Verdun”, “Nuits de guerre”, “Au seuil des guitounes”), Dorgelès, “Les croix de bois”. E poi naturalmente Céline, volontario mutilato di guerra. In Italia niente durante e poco dopo. Giusto un libello di Malaparte, “Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti”, 1921 – che accuratamente non tiene conto della brigata Catanzaro, un fatto trucido e non un’esclamazione retorica.
Nonché della Catanzaro, nemmeno un cenno nelle storie e nelle evocazioni delle esecuzioni sommarie per scarso rendimento, una barbarie. Di reclute peraltro quasi sempre male addestrate e spesso male equipaggiate. Che sono anche la parte più viva, e raggelante, di “Addio alle armi” di Hemingway: le decimazioni, che tanto orrore susciteranno nell’occupazione tedesca dell’Italia, furono sperimentate nella Grande Guerra variamente dai carabinieri. Nel 1917, prima di Caporetto, contro la brigata Catanzaro che sul Carso s’era rivoltata dopo dieci campagne di fila in prima linea: presero una trentina di fanti a caso e li fucilarono. Ne accenna commosso, per inciso, D’Annunzio nei “Taccuini” - giusto lui contro il quale, nell’adiacente suo “campo di aviazione”, i rivoltosi avevano tentato di dirigersi.
Poco si sa – si è detto - sui motivi della rivolta, e sul suo svolgimento. Solo l’esito è chiaro, non potendosi sottacere la relazione di Cadorna: “La rivolta è stata sanguinosamente repressa con la fucilazione di 28 militari e con la denunzia di altri 123 al Tribunale di guerra”. La brigata Catanzaro, benché fosse ovunque nel Carso, è praticamente cancellata dalle storie militari. La ricostruzione di Davide Scaglione su “l’altravoce” ne dà un quadro prima dell’eccidio voluto dai vertici militari.
La brigata era inquadrata nella Terza armata, comandata dal duca Emanuele Filiberto d’Aosta. Composta dal 141° e dal 142° reggimento di fanteria. Con effettivi in maggioranza calabresi, più siciliani e pugliesi. Fu impiegata come brigata d’assalto sul Carso, dal luglio 1915 al settembre 1917. Con turni logoranti, praticamente ininterrotti, in prima linea, nei settori più contesi. Il 141° reggimento aveva meritato la medaglia d’oro al valore militare (per l’audacia dimostrata tra luglio 1915 e agosto 1916), il 142° la medaglia d’argento.
Una ricostruzione dei fatti per la verità c’è, su “Calabria Sconosciuta” n. 131 di fine 2011. Dove si spiegano anche i fatti. La brigata Catanzaro aveva protestato a fine maggio 1917, dopo la decima grande offensiva. Era una protesta vocale e la cosa venne taciuta dai comandanti. La notte del 15 luglio, all’ordine di partenza in prima linea per l’ennesima campagna dell’Isonzo, i due reggimenti si ribellarono, con urla e tiri di mitragliatrice. Tre militari morirono, tra essi un ufficiale e un sottufficiale, e una ventina furono feriti. Dopo circa sei ora la rivolta si spense, verso le quattro del mattino. Si preparava l’XIma battaglia carsica dell’Isonzo, detta di Bainsizza (la XIIma sarà detta di Caporetto). La Brigata aveva ininterrottamente, per due anni, partecipato alle dieci precedenti. A Castelnuovo, Bosco Cappuccio, Oslavia, sul monte Mosciagh, durissimo, sul Cengio, sul San Michele, a Nad Logen, a Nova Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Non per punizione, anzi con grandi elogi e medaglie al merito. Ogni campagna implicava tre-quattro settimane di prima linea. Dopo Caporetto la brigata Catanzaro combatterà sul Pria Forà, in Val d’Astico e in Val Posina. Sempre con impegno, e anche con successo: un mese dopo la rivolta la brigata Catanzaro veniva nuovamente elogiata.
Nell’offensiva di ottobre-novembre 1915, in soli quindici giorni la brigata aveva perso 2.037 uomini – di cui 55 ufficiali. Nella terza battaglia, dal 18 settembre al 4 novembre 1915, aveva perso più della metà degli effettivi, 4.348 uomini - feriti 2.579, gli altri morti. Nel 1916 aveva subito perdite in varie battaglie, e in due era stata di nuovo annientata. In quella per Gorizia, nella seconda parte dell’attacco, nel mese d’agosto, aveva perso 3.496 uomini (2.484 feriti). Nelle tre battaglie successive era restata in linea dal 16 settembre al 7 novembre, perdendo i due terzi degli effettivi: 3.434 uomini (2.749 feriti). Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol. 6, p. 63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti. Ma questo è il rovescio della medaglia, dei cafoni immolati.
Tumiati, che si trovò nel pieno della sedizione e della decimazione, ne fa nel racconto “Errori” una rappresentazione amareggiata. I fucilandi vengono scelti a caso, senza colpe specifiche. A lui, che ardisce difendere i portaferiti, avendoli visti al lavoro tutta la notte, viene opposto uno scaricabarile. Fino al generale, che lo tratta da intruso: “La notizia disturba, evidentemente, i giudici si guardano l’un l’altro seccati”. Il “giudizio” è veloce. Questo lo ha già scritto Hemingway in “Addio alle armi”, il romanzo della guerra, anche lui in difesa dei portaferiti. Lo ha scritto anche in dettaglio, ma senza averlo vissuto. Tumiati è testimone oculare: del “giudizio” sommario si conferma subito mentre si allontana, sentendo urlare dall’interno della baracca: “I trenta condannati avevano compreso d’un tratto la loro sorte e, dopo un attimo di stupore incredulo, avevano gridato. Che altro potevano fare?”.
Forse per la fretta non ci sono agli atti i nomi di chi ha preso le decisioni e su quali criteri: “In un’ora il campo fu levato”, continua il racconto, “e i battaglioni, incolonnati, musica in testa, ritornavano in linea. Tararilla, tararà. Tararilla, tararà”. Il racconto angosciato degli eventi Tumiati fa precedere da uno ilare su un caporale calabrese in forza alla Brigata, giovane muratore biondo con “l’estro vivo del cantastorie”, che scriveva e gli portava da leggere per svagarsi poemi che ancora lo commuovono. Esca alla testimonianza: “La Brigata Catanzaro fu certamente una delle più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il suo proverbiale eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica. Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie nuove”.


leuzzi@antiit.eu


L’Europa corre alla fine dello Stato sociale

Troppi impegni eccezionali, troppo debito, poca o nulla intelligenza dei fatti correnti, l’Europa corre alla fine dello Stato sociale (sanità, pensioni), per eccesso di indebitamento. Detto così, sembra un’analisi affrettata, o un giudizio allarmistico. Invece è l’esito di una delle solite analisi spassionate del Fondo Monteario.
Un giudizio allarmato, sì, ma dopo una analisi accurata dello stato dell’Europa oggi, economico e politico. Allarmato per l’inerzia che caratterizza l’Europa in questa contingenza per molti aspetti delicata, di fenomeni incidentali e altri di lungo periodo: la concorenza americana, oltre che asiatica, le guerre in Ucraina e in Palestina, il crollo demografico, il debito crescente. Nella sintesi degli autori dell’indagine:
“L'Europa ha gestito shock importanti, ma la crescita sta rallentando, i guadagni delle esportazioni stanno invertendo la rotta a causa dei dazi e i mercati obbligazionari riflettono rischi crescenti. I tagli dei tassi di interesse e l’aumento della spesa pubblica, inclusa la difesa, non hanno stimolato la domanda privata. Il divario di produttività con gli Stati Uniti rimane ampio e le riforme strutturali sono in ritardo. Le priorità nazionali e la lentezza del processo decisionale della UE ostacolano una più profonda integrazione dei mercati dei capitali, del lavoro e dei prodotti. Senza una crescita più forte e un consolidamento fiscale, il debito medio europeo potrebbe raggiungere il 130 per cento del pil entro il 2040, richiedendo un significativo aggiustamento fiscale (un aumento della fiscalità, n.d.r.)….
La ripresa “dipende da urgenti riforme strutturali”. Le più importanti: 1) smantellare la frammentazione del mercato e semplificare la regolamentazione per stimolare gli investimenti; 2) adottare “un processo decisionale più agile”.
Allarmi noti da un paio d’anni, dal “piano Draghi”. Ma giustificati in dettaglio.
Fra le note aggiuntive, settoriali, una su “come può l’Europa pagare per cose che non può permettersi?” – la “crisi fiscale” potrebbe allargarsi a tutto lo “Stato sociale”, sanità e pensioni:
“L’Europa si trova ad affrontare pressioni fiscali scoraggianti derivanti sia dalle nuove priorità politiche (ad esempio, difesa, sicurezza energetica), sia dai crescenti costi dell'invecchiamento della popolazione (pensioni, assistenza sanitaria) e dall’aumento degli interessi su un debito già elevato. Senza un’azione politica tempestiva, i livelli del debito pubblico potrebbero più che raddoppiare per la media dei paesi europei nei prossimi 15 anni. Ciò potrebbe far salire i tassi di interesse, rallentare una crescita economica già lenta e minare la fiducia dei mercati.
“Sia riforme strutturali che il consolidamento fiscale saranno necessari per realizzare il difficile aggiustamento politico”. Che si può ipotizzare per un terzo realizzato attraverso una serie di riforme moderate e per due terzi mediante il consolidamento del debito. Per i paesi ad alto debito, tuttavia, questo pacchetto di politiche sarebbe probabilmente insufficiente per affrontare la sfida fiscale, non lasciando altra scelta se non una riconsiderazione più approfondita della portata dei servizi pubblici e del contratto sociale per colmare il divario”. 
International Monetary Fund, Overcoming Europe’s Policy Drift - How Can Europe Pay for Things That It Can’t Afford?, free online (leggibile anche in italiano, Superare la deriva politica dell’Europa - Come può l’Europa pagare per cose che non può permettersi?)

mercoledì 26 novembre 2025

Tokyo dice Cina per non dire riarmo

Il militantismo anticinese di Sanae Taichi, primo gesto della premier giapponese appena eletta, si riallaccia al riarmo variamente decretato nel dodicennio di premierato di Shinzo Abe. Un riarmo anche nucleare, con la possibilità di operare anche fuori ai confini nazionali, dichiaratamente anti-cinese – decretato per contrastare la bellicosità della Corea del Nord e il riarmo cinese. La Cina è dunque il fronte più impegnativo della politica militare giapponese.
Il militantismo non ha però scalfito i legami economici. Non per ora. La Cina resta il principale partner commerciale del Giappone – il secondo mercato per le esportazioni e il primo per le importazioni. E il Giappone è il secondo o terzo maggior mercato di esportazioni della Cina, dietro agli Stati Uniti e, qualche anno, alla Corea del Sud. Nel 2024 gli scambi sono ammontati in totale a 308 miliardi di dollari.
Contro le iniziative pro-Taiwan della premier Taichi, Pechino ha messo ora il Giappone al primo posto tra i paesi sconsigliati ai suoi turisti. Il turismo cinese è al primo posto in Giappone, per numero e per spesa.
I mercati non credono a una riduzione sensibile dei rapporti. Il militantismo anti-cinese di Abe e Taichi sarebbe a copertura del riarmo giapponese. Deciso e perseguito come disegno autonomo – parte della rinnovata assertivenes nipponica nel Pacifico. La disputa sulle isole Senkaku, nel mar Cinese Orientale, è di minore importanza di quella sulle isole Kurili, che vede il Giappone in lite con la Russia senza particolare animosità.

L’Italia invisibile in mostra

Una passeggiata tra le sorprese. Non il capolavoro perduto-e-ritrovato, una serie di oggetti e opere, di vario genere, uso, materiale, dal camiciotto di fili colorati alla statua neoclassica, di valore semplicemente storico e\o artistico, di ogni angolo d’Italia, restaurati, e portati a Roma per la visibilità, per farli vedere. Un’occasione per vedere opere altrimenti poco fruibili, disperse come sono per siti archeoigici, chiese, musei diocesani, parrocchie, conventi, musei municipali.  Con qualche “macchina” anche: una bicicletta in legno, di metà Ottocento, o il sistema planetario tascabile, in boccia, di fine Ottocento. Molti gli oggetti, sparsi tra le pitture, di varia dimensione, e qualità.
Molti reperti sono definiti salvataggi. Lasciando presumere che siano stati restaurati sui fondi della banca per politiche di scambio – sindaci, assessori, notabili possono essere noiosi\utili. Lasciano cioè supporre che ci sarebbe stato di meglio da restaurare. E tuttavia, messe assieme, danno un’impressione durevole di qualità, oltre che di sorpresa - 117 opere in mostra sono un numero considerevole. Tanto più da apprezzare in un sito e per un tempo che le sottrae all’invisibilità, non sapendosene l’esistenza, in luoghi poco frequentati.
Una conferma, anche, che la persistenza, che caratterizza l’Italia, anche quella contemporanea, più dell’innovazione, è ancora un buon metodo e modo di essere.
Grande lavoro anche burocratico suppone la mostra, di superamento delle burocrazie. Da parte di Banca Intesa, che i restauri ha dovuto negoziare con 51 “enti di tutela”. E da parte degli organizzatori, per rincorrere le opere in mostra tra 67 enti proprietari– i “ringraziamenti” vanno a un migliaio di persone.
Intesa Sanpaolo-Ministero della Cultura, Restituzioni 2025, Palazzo delle Esposizioni, Roma

martedì 25 novembre 2025

Letture - 597

letterautore


Berlusconi – “Mamma era sempre dalla parte degli ultimi”, ricorda l’attrice Laura Morante sul “Corriere della sera”: “Diceva che Berlusconi le faceva pena perché voleva tanto piacere”.
 
Danubio – È forse il fiume più celebrato in letteratura – più del Reno? “Il Danubio è il fiume di Vienna, di Bratislava, di Budapest, di Belgrado, il nastro che attraversa e cinge, come l'Oceano cingeva il mondo greco, l'Austria asburgica, della quale il mito e l'ideologia hanno fatto il simbolo di una koinè plurima e sovranazionale... Il Danubio è la Mitteleuropa”: questo è il Danubio di Magris. Quello celebre di Hölderlin, “Alla sorgente del Danubio”, è il fiume degli dei e del mito. Per Céline a Sigmaringen, in fuga dalla Francia alla fine della guerra, è il mostro assente, che assiste imperturbabile, muto, alla distruzione, alla sparizione dell’Europa.
Molto presente in molte letterature – attraversa dieci Paesi, con otto o nove lingue diverse. In ambito tedescofono è celebrato anche in musica, in forma di walzer – ce ne sono altri, oltre il celebre “Danubio blu” di Johann Strauss. varie forme nella letteratura tedesca, e anche nella musica. Jean Paul, nel racconto più noto, “Vita di Maria Wuz”, lo fa il “fiume del tempo” – Adalbert Stifter, “La tarda estate”, inverte i termini facendolo metronomo, quello che dà il “tempo del fiume”.

Frase breve - Se ne fa molto l’elogio, da parte di Eugenio Baroncelli, scrittore “appartato”, sulle orme di Renard, Borges, etc.. Salvo poi concludere con Proust, il re degli incisi e le subordinate: “La ‘Recherche’ è un libro così amato che non riesco a ricordare chi ero prima di averlo letto”.
Non è il solo, lo scrittore odierno si vuole in-intellettuale, inconseguente – la pointe innanzitutto.
 
Italia – Muti mette Mozart in cima ai musicisti preferiti – intervistato da Cazzullo sul “Corriere della sera”. Ma aggiunge: “Ma io adpro anche Scarlatti”. Per concludere: “I musicisti italiani hanno dominato l’Europa: Cherubini a Parigi, S ontini a Berlino, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo, Mercadante a Madrid. I musicisti italiani furono i primi a dare un’idea di Europa unita nel nome della musica”.
 
Una lunga lista di letterati eminenti degli anni 1950-1960 può rimemorare Goffredo Fofi in “Arcipelago S ud”, la raccolta di ritratti che si pubblica postuma, a proposito di Sciascia: “I Fortini i Pasolini i Calvino le Morante le Ortese i Cassola i Bianciardi i Moravia i Sereni gli Zanzotto i Montale i Bilenchi i Pratolini i La Capria i Luzi i Mastronardi i Caproni i Bertolucci gli Antonioni i Rosi eccetera”. E trascura i Saba i Fellini i Quasimodo i Fo, i Flaiano, gli Arbasino i Gadda i Parise i Bassani i Debenedetti….
 
Roberto Longhi e Anna Banti - “Non sacrificano un soldo spirituale per nessuno”, Leonetta Cechi Pieraccini, che ne era abituale anfitrione le domeniche pomeriggio, annotava  nel diario, or pubblicato come “Corso d’Italia 11 - Agendine 1930-1945”.
 
Elsa Morante – Paolo Di Stefano ne esalta su “La Lettura la “gravità” (Garboli), la camaraderie (N. Ginzburg), la socievolezza (la lista è lunga). In par allelo, sul “Corriere della sera” la nipote Laura la ricorda con Valerio Cappelli “difficile, da bambina mi spaventava”: “Esprimeva il proprio disprezzo in modo categorico, apodittico, sulle persone. Non capì minimamente mia madre. Si era messa in testa che fosse una piccola borghese, perché era totalmente priva di ambizione, mamma era sempre dalla parte degli ultimi…. “.
 
Mitteleuropa – Per l’Intelligenza Artificiale “il concetto di ‘Mitteleuropa’ è strettamente legato all’Impero Austro-Ungarico, un’area multiculturale dove le culture tedesca ed ebraica hanno interagito profondamente”.  
 
16 ottobre 1943 -Leonetta Cecchi Pieraccini dice sconvolti, lei e i familiari, nelle “Agendine” quotidiane che ora si pubblicano, a proposito del rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, un sabato, festa di Sukkott, 8° “delle capanne” o “dei tabernacoli”, un “pellegrinaggio” di sette giorni) “dalla bestiale curiosità del nostro popolino che si affollava a guardare”.
I Cecchi abitavano lontano, ma è anche vero che il rastrellamento ha preso qualche tempo, non è stata l’affare di un momento, né riguardava solo le poche case dietro la sinagoga.
 
Passato
– “Il passato non è scritto sia perché ovviamente non lo conosciamo tutto, sia perché cambiano costantemente le chiavi con cui lo leggiamo e gli elementi che abbiamo a disposizione per scandagliarlo…. Il passato è il modo di interpretare il presente: l’unico che abbiamo” -Maurizio de Giovanni su “Effe” #3 2025.

 
Scarlatti – Non una virgola per i trecento anni della morte di Alessandro Scarlatti – giusto a Roma, per i concerti di Santa Cecilia, una serata del coro, in onore di Scarlatti e di santa Cecilia. “Oggi noi conosciamo Bach e non conosciamo Scarlatti”, può dire Muti a Cazzullo sul “Corriere della sera”, “che ebbe grande influenza su Bach”.
 
Simenon – Maigret fascista? Domanda e risposta sono di una vecchia intervista di Ulderico Munzi col biografo di Simenon, Pierre Assouline sul supplemento “domenicale “Cultura” del “Corriere della sera”, 20 settembre 1992.  Simenon aveva esordito con una serie di articoli, 17, una  sorta di rubrica, “Pericolo ebraico”, tenuta tra giugno e ottobre del 1921 sulla “Gazette de Liège”, firmandosi “Sim”. Aveva 18 anni, e ricopiava gli articoli che il “Times” andava traendo dai “Protocolli di Sion”, il “complotto ebraico per dominare il mondo”.
A guerra finita negherà di essere o di essere mai stato un mangiaebrei. Negli anni 1920 e 1930, a Parigi, lavorò per personaggi e giornali di estrema destra, sempre firmando Sim. Ma non era nemmeno un fascista, può argomentare il biografo: “Temeva la lotta. Era un individualista ripiegato su se stesso…. Era un vigliacco”. Una condizione a cui lo aveva ridotto la madre, Henriette.
La madre, spiega Assouline, odiava il figlio maggiore Georges. Amava, invece, il figli cadetto Christian, biondo e bello, che sarà volontario SS. Nel 1945, all’armistizio, Georges sia adoperò per mettere in salvo il fratello, rintanandolo nella Legione Straniera. Quando poi, nel 1950, Georges morirà in Indocina, nella rima guerra di decolonizzazione, la madre famosamente avrebbe detto a Georges: “Avrei preferito che fossi morto tu”. Oppure: “Sei tu che l’hai ucciso”. Ma Simenon era da tempo in  America.
 
Patti Smith
– Mistica? “Lei appartiene a quella stirpe di mistiche senza convento che attraversa la letteratura americana da Emily Dickinson – la wayward nun – a Flannery O’Connor – la hillbilly thomist” – padre Antonio Spadaro, “Il Vangelo rock secondo Patti Smith” (“La Lettura” 16 novembre).

letterautore@antiit.eu

Pasolini sbarca a Roma, crepuscolare

Due dei primi racconti romani di Pasolini, di ambientazione e, tentativamente, di lingua. Due “pischelli” scoprono il mare e la pesca, tra Terracina e il Circeo, dopo aver raggiunto Terracina in bici, rubata. Un “maschietto” sfugge ai controlli familiari e si avventura in mare su un moscone, sempre più lontano.
Più che racconti impressioni, linguistiche (acustiche) e coloristiche, e sensazioni. Più spesso adagiate sul discorso indiretto libero. Per un esito qui accentuato del crepuscolarismo che resterà la cifra della narrativa di Pasolini - e anche della poesia: non al modo cantabile di Gozzano, ma sì di Govoni e, le prose, di Marino Moretti. Con il “solicello”, la “finestrella”, la “fiumarella”, la “spiaggetta”, le “paranzelle”, i “mammocci”, la “cordicella”, il “monticello”, tutto diminutivo.
Prose disadorne. Di ambienti e di umori, semplici, abituali. Di esistenze umbratili, evasive, ripetitive, silenziose, e modi minimi, casuali. In ambienti spogli.
Con qualche residuo toscanismo di maniera – “si va”… E il vocabolario libresco della pesca, preciso e freddo. Con le prime prove del romanesco, specie nella sintassi – Ungaretti trovò nel racconto del titolo “la voce del Belli”.
Du testi pubblicati con lo pseudonimo Paol Mari. Un elzeviro di terza pagina, “Santino nel mare di Ostia”, su “Il Quotidnano”, l’11 settembre 1951, e il racconto lungo del titolo, col quale Pasolini concorse nel 1950 al premio Taranto – non premiato benché lodato da Ungaretti - pubblicato in parte sullo stesso quotidiano, il 19 aprile e il 7 giugno del 1951. Due racconti di mare, di ragazzi al mare, “pischelli”, “maschietti”, tra Terracina e Circeo, e a Ostia.
Pier Paolo Pasolini, Terracina, Garzanti, pp. 63 € 5,90

lunedì 24 novembre 2025

Secondi pensieri - 573

zeulig


Corpo – È il “carcere dell’anima” per Platone. Provvisorio – in attesa che l’anima torni ad abitare “sopra il cielo” (iperuranio), dove abitava prima della “caduta”. Prima di essere imprigionata nel corpo. Che ostacola il raggiungimento della verità.
Da qui la conclusione di Nietzsche, che il cristianesimo, ponendosi sulla stessa lunghezza linea di pensiero, altro non  che “Platone spiegato al popolo – professato come fede”.
 
Freud – “Senza mai confessarlo, attingerà molto da Nietzsche”, Umberto Galimberti, “La filosofia a colpi di martello” – saggio-recensione di Nietzsche classicista, “Basilea e scritti filologici” (“La Lettura”,16 novembre).
 
“In nome suo”, dice Auden, “viviamo ormai vite diverse”.
 
Immortalità
– “Per chi vi aspiri la morte è la sola garanzia di ottenerla”, è agudeza di Eugenio Baroncelli, lo scrittore delle vite minime.


Nulla – È in nuce - o a specchio - il tutto, essendo un’origine.
Già come parola, non essendo priva di senso, significa, e quindi è qualcosa che è – seppure antitetica al suo concetto.

Occidente – È Platone – più che Aristotele? Poiché pensa per categorie, il vero e il falso, il bene e il male, l’anima e il corpo.
Storia - - La storia è il reale.
La storia di se stessi è certo il proprio reale, a Roma e a Timbuctù.
 
Tragedia – In questo Nietzsche ha ragione, che è l’irruzione del dionisiaco – la tragedia greca deriva dalla lirica, dionisiaca (da qui l’idea del “tragico”, in forma dionisiaca: l’uomo, scosso nelle sue certezze, o abitudini, dal piacere e dal terrore, dai prodigi degli dei) viene buttato in un mondo trasfigurato, di colpa, destino, pena.….
È curioso però che la tragedia si sia sviluppata, con non largo sfasamento, la grande tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide, 480-406, mentre Platone si formava, e poi insegnava, nella stessa Atene, il rigore della ragione, l’anti-mitizzazione del reale.
 
Verità - “Se la filosofia occidentale ha sempre sostenuto che la realtà è verità, adequatio rei et intellectus, il totalitarismo ne ha tratto la conseguenza che noi possiamo fabbricare la verità nella misura in cui fabbrichiamo la realtà” – Hannah Arendt lo spiega in un appunto. Il dittatore totalitario non è Attila né Napoleone, non rapina, neanche per le sorelle. È un demiurgo, fabbrica realtà-verità, indifferente al rosso e al nero. E non per farci più saggi ma per coinvolgerci “nel deserto delle proprie conclusioni e deduzioni logiche astratte”.
Il difetto è antico, stando a Bacone, che però è uno che crede, pure lui, alla  verità: è di Aristotele, il quale la fisica fece dialettica, e la metafisica volle realista. Gli scolastici fecero peggio, abbandonando l’esperienza.                                                                                    


zeulig@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – sanzionatorie (369)

Il presidente Trump ha deciso sanzioni economiche contro la Russia, bloccando le vendite delle compagnie petrolifere Lukoil e Rosneft, le vendite di gas liquefatto – di cui gli Stati Uniti sono diventati il maggiore fornitore europeo nei tre anni e mezzo di guerra in Ucraina. Ha temporaneamente sospeso le sanzioni in attesa di una risposta russa, entro metà dicembre, alla propsta americana di accordo in Ucraina.
A differenza della Unione Europea, che ha disposto nei tre anni e mezzo della guerra una ventina di sanzioni contro la Russia, finanziarie e commerciali, gli Stati Uniti si erano finora astenuti.
Gi Stati Uniti starebbero valutando anche forme sanzionatorie sugli asset finanziari e monetari detenuti in America dalla banca centrale russa – stimati variamente, ma sui 400 miliardi di dollari (su un totale di riserve valutarie per 630 miliardi di dollari).
 

Erinni in un interno, anglo-afro

Climaterio tempestoso. Contro figlio, marito, l’incolpevole amorevole sorella. Novanta minuti di escandescenze.
Una storia ordinaria di depressione “cattiva”. Con sé e col mondo. Tra vite ordinate, case perfette, mobili sempre nuovi, e Audi per lo shopping. spostarsi. Filmata senza sorprese, con la moglie-madre arrabbiata sempre in primo piano.
Una storia d’interesse forse perché succede in famiglia anglo-africana – siamo in Inghilterra? Per dire che le dinamiche personali e familiari sono uguali per tutti?
Mike Leigh, che ha un talento per le storie “normali”, senza storia, qui filma le urla e basta. La “scomodità” è che non c’è scampo, le erinni sono in agguato per tutti?
Un solo motivo d’interesse: un accenno a origini nigeriane. Su questo sì, si apre (si  sarebbe aperto) un mondo. è la Nigeria un mondo, eccetto il terzo islamico, in cui la donna fa e disfa, la famiglia, il commercio, gli affari, il governo, e la corruzione.
Mike Leigh, Scomode verità, Sky Cinema, Now

domenica 23 novembre 2025

Sull’Ucraina la pace Usa-Russia, con un occhio alla Cina

Si vuole il piano di Trump per la “pace” in Ucraina sbagliato, arrendevole, abborracciato. Mentre è il contrario. E non dovuto al suo personale mediatore, l’affarista Witkoff, che è solo un uomo di fiducia del presidente, ma al dipartimento di Stato. Si vede ampiamente da come è redatto, nella formulazione, e anche nei (tanti) punti controvertibili, cioè materia di trattativa. Perchè l’obiettivo americano – americano, non trumpiano - di ora è avviare una trattativa, se non addirittura un “cessate il fuoco” (il primo passo per fare finire le guerre: cessate-il-fuoco, tregua, armistizia, trattato).
Sotto il protagonismo di Trump ci sono interessi e ragionamenti politici. Che alla fine si riducono a uno: isolare la Cina. È nozione comune che l’obiettivo principale di politica estera americana, già dalla presidenza Biden, è di isolare la Cina.
Le guerre in atto, in Palestina e in Ucraina, stuzzicheranno pure l’ego di Trump “imperatore della pace”, ma, seppure così è, c’è senno nella sua egomania. L’isolamento della Cina l’amministrazione Trump lo ha imposto alla Ue di Bruxelles e ai paesi europei, Italia inclusa (e Germania), e lo coltiva con l’accordo militare Arabia Saudita-Pakistan (antico proxy di Pechino), un’alleanza che sarà forte del migliore armamento americano. Come già Biden e il primo Trump con le alleanze militari, il Quad (Australia, Giappone, India, Stati Uniti) e l’Aukus (Australia, Uk, Usa). E con i vari approcci per portare la sicurezza Nato nell’Indo-Pacifico, per ora il Canale di Suez (Huthi) e il mar Rosso.
Un “piano di pace” in 28 punti è ampia materia per trattare. Si vuole che sia un piano di pace di Putin che Trump sponsorizza (lo vuole solo la stampa italiana però: vecchio riflesso sovietico? applicato alla Russia…). No, chi lo ha letto ne è certo. È una offa a Putin. Dopo un preavviso di sanzioni. Di sanzioni efficaci, su petrolio e capitali – in grado cioè di fare male alla Russia, al contrario delle venti o ventuno ondate di sanzioni decise dalla Ue.

La Grande Strategia di Putin

Una rappresentazione della politica estera russa dal 1993 in poi. Opera di uno specialista russo di Storia diplomatica. Un’esposizione più che una valutazione. Utile a fare chiarezza sui presupposti anche del momento attuale di Mosca, della posizione russa prima della guerra con l’Ucraina. Una politica definita la Grande Strategia, senza meno.
Si parte da Eltsin, che nel 1993 stabilisce questi due fondamenti della politica estera della nuova Russia: sicurezza e integrazione con l’Occidente. Con riforme economiche significative, anche  onerose. Ma con la partecipazione al G 7 già nel 1994, e l’aperura nel 1995 dell’adesione alla Wto, l’organizzazione che regola(va) il commercio mondiale – alla quale Mosca sarà ammessa nel 2012 col “supporto degli Stati Uniti”. In contemporanea, ma in subordine, Mosca ha pure “cercato di normalizzare i legami con gli ex alleati del blocco sovietico”, e ha risolto dispute territoriali, con gli ex alleati e con la Cina – mentre “le relazioni con il Giappone sono rimaste tese a causa delle isole Kurili contese”.
Per tre capitoli, e per quindici anni, Mosca si sarebbe impegnata ad appianare la sua entrata nel mondo occidentale. Opera per un ordine mondiale multipolare, partecipando attivamente a forum come il G 20 e i Brics. Firma nel 2010 il New START, riducendo le testate nucleari a 1.550. Propone nel 2010 un’area di libero scambio da Lisbona a Vladivostok. Avvia nello stesso anno con la Ue una “partnership for Modernisation”. E si accorda con la Germania, al castello di Meseberg, “per coordinare le politiche estere e di sicurezza”. Dal 2006 partecipa all’operazione Nato “Active Endeavour” di pattugliamento del Mediterraneo contro il terrorismo, e dal 2008 all’operazione anti-pirateria nel Golfo di Aden.
Poi la crisi. Nessun progresso nei negoziati con la Ue. Insistenza americana per una Ballistic Missile Defense (Bmd) stazionata in Europa. E un po’ di crisi politica interna, per le divergenze tra Medvedev e Putin sulle politiche per il Mediterraneo, in particolare in Libia e in Africa.
Dopo l’annessione della Crimea nel 2014 arrivano anche le sanzioni economiche occidentali.
Indirettamente autocritici i capitoli finali. La Russia mantiene forte la presenza negli affari internazionali, grazie al ruolo di membro permanente del consiglio di sicurezza Onu. Che però non può impedire risoluzioni quali quella che impegna l’Onu all’integrità territoriale dell’Ucraina. E ha praticamente cancellato la partecipazione alle missioni di pace – solo 85 militari vi erano impegnati nel 2024. È attiva tra i Brics, che “rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale e si impegnano a promuovere gli interessi dei paesi in via di sviluppo”. E nel G 20, che “indirizza vari problemi globali”.
L’ultimo capitolo è un appello al disarmo e alla “non proliferazione” dell’armamento nucleare. 
Il MIGMO, istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali, è l’università del ministero degli Esteri russo. Bobrov vi insegna con la qualifica di professore associato al dipartimento di Diplomazia, e lo status, quando scriveva questo repertorio storico, di preside facente funzioni della facoltà di Governo e Affari Internazionali.
Alexander Kirillovich Bobrov, The Grand Strategy of Russia, Moscow State Institute of International Relations (University), School of Government and International Affairs, MGIMO University, pp. 267, gratuito online

sabato 22 novembre 2025

Mosca guarda solo a Occidente

Va oltre le smanie augustee di Trump l’orecchio teso di Putin a Washington. Perché non ha alternativa: l’Eurasia è da tempo una alternativa defunta. Ben da prima dell’attentato ucraino tre anni fa al suo teorico Dugin. Con l’India non c’è mai stato dialogo, neanche al tempo di Nehru e di Indira Gandhi, e non sembra possibile. Col Giappone l’ostilità resta, secolare, per le Curili e non solo. Con la Cina di Xi non si è mai aperto un dialogo vero, nemmeno sui reciproci interessi. È svelta ma sicura l’analisi che la Farnesina si fa dell’attuale momento politico russo.
Pechino è “neutrale” sulla guerra all’Ucraina. I rapporti economici sono rimasti limitati. Anche da parte russa, per la temuta prevalenza cinese in campo tecnologico e produttivo – fermi restando gli antichi, reciproci, sospetti. Il gasdotto Power of Siberia 2, concordato nel 2022 per fornire alla Cina 50 miliardi di mc di gas l’anno, si è bloccato ai primi approcci su prezzi e calorie. E Pechino si fa pagare molto più care le esportazioni in Russia rispetto agli altri mercati.
Il dibattito – pubblico – a Mosca sulla politica di sicurezza (diplomatica e militare) tra gli specialisti del Consiglio di politica estera e di difesa di Putin verte solo sui rapporti con l’Est Europa, Polonia, Romania e anche Germania: se attaccarlo militarmente per la parte che sostiene nella guerra in Ucraina. Fin dalle prime fasi della guerra, le prime intese non belliche furono cercate non attraverso gli allora neutrali scandinavi ma tramite la Turchia, avamposto della Nato.

Canfora, Laterza e il new sovietism

“Il «Patto Atlantico» è il Santo Graal dell’Occidente: qualche dizionario rappresenta i due concetti come sinonimi. I soci fondatori avevano un tratto in comune: usurpavano, o avevano appena perso, un dominio coloniale. Più eleganti degli altri, gli Stati Uniti sin da inizio Ottocento avevano proclamato l’America meridionale proprio «giardino di casa». Sfidando il ridicolo, l’Italia, pur sconfitta nella seconda guerra mondiale, aveva elemosinato di conservare le colonie «pre-fasciste»”. Cosa non vera, quest’ultima, non per l’Etiopia naturalmente, Eritrea compresa, di cui l’Inghilterra aveva fatto dono a Hailé Selassié, né per la Libia, mentre per la Somalia l’Italia si sobbarcava un piano ventennale di riparazioni, a beneficio dei capitribù più riottosi.  

Così, con questa sicumera allungata per troppe pagine, malgrado i bianchi della impaginazione, l’editore Laterza, antesignano e baluardo dell’occidentalismo, s’imbarca nella storia e la politica internazionali. Non ci si crederebbe – la “decolonizzazione” si è fatta “nell’Occidente”. Una filippica estenuante, tanto quanto strampalata. Che una appendice chiude di Lenin sulla rivoluzione comunista in ogni spigolo del mondo conosciuto - prima della repressione, certo.  Tardo rigurgito di sovietismo di uno che non ha mai voluto “fare” il comunista – non fino al 1989. Senza più la misura e l’arguzia del grande narratore di filologia, quale Canfora è stato.
Questo non è il solo moto di rabbia - il filologo ha perso il metro e le misure? La caduta del Muro sarà stata una disfatta per il miglior spirito “occidentale” – aveva un muro su cui rimpallare il ragionamento e l’ha perduto? Con danni per la cultura politica: non per l’Occidente, o per la democrazia, ma per l’analisi e la comprensione del mondo. Come sono asfittici certi parametri, quelli cosiddetti marxisti – che avrebbero fatto inorridire Marx.
Luciano Canfora, Il porcospino d’acciaio. Occidente ultimo atto, Laterza, pp. 90 € 13

venerdì 21 novembre 2025

Ombre - 800

La Russia nel G8. Fra i tanti punti del piano di pace di Trump in Ucraina è quello focale: la Russia non deve marciare con la Cina.
Si può anche dire con le destre al governo si riprendono i contatti con Mosca, come fu dell’accoppiata Bush jr.-Berlusconi vent’anni fa.
 
La guerra in Ucraina non è popolare in America. Non si dice ma è così: Trump, solitamente contestato dai media su tutto, non lo è su questa voglia di “finirla”. Per la strategia Usa di fondo, del deep State, che al primo punto ha il containment della Cina. E perché – anche questo non si dice ma si sa – è stata una guerra di Biden, da vice e poi da presidente, della “famiglia Biden”.
  
“Il maggior numero di «no»”, rileva Filippo Di Giacomo, il sacerdote vaticanista, del documento varato un mese fa dalla Cei, la conferenza dei vescovi, “da discutere alla terza assemblea sinodale di novembre”, in Vaticano, “non è sulle relazioni omoaffettive, ma sulla maggiore presenza delle donne nei ruoli apicali della Chiesa italiana”.
Ma non solo italiana: “La stessa cosa era accaduta per il documento del Sinodo dei vescovi celebrato in Vaticano nell’ottobre 2024”.
 
Coro unanime di benpensanti, “la Repubblica”, “Corriere della sera”, “Sky Tg 24”, “La 7”, perfino “Canale 5”, contro la divulgazione delle strategie elettorali di Francesco Saverio Garofani, il solito giornalista-politico democristiano destinato agli altari, consigliere di Mattarella, per battere Meloni. Non una considerazione, nemmeno di Mattarella purtroppo, sulla saggezza o competenza politica di un tale personaggio, che muove la guerra a una tavolata di “romanisti”, tifosi della Roma. Che non conosce – solo invitati dal figlio di un calciatore-icona della Roma, Di Bartolomei.
 
E cosa proponeva Garofani alla cena dei romanisti? “Una grande lista nazionale di civici, “un nuovo Ulivo”. In sintonia con quanto Prodi aveva appena borbottato. Garofani consigliere di Mattarella. Di che preoccupare Schlein e non Meloni, che del partito di Garofani è la leader. Per tutto quello che ha fatto e rappresenta, da ultimo con lo spaccatutto Landini.
  
Grandi titoli, quest’anno come ogni anno, per la Commissione Europea che approva la legge finanziaria del governo – o non la approva, o la approva con riserva, oppure apre una procedura (una procedura?). Ma cosa fa la Commissione, p.es., con la Francia, che scassa sempre tutti i parametri? Anche la Germania lo fa spesso. E la Spagna, che da tre anni o quattro non fa nemmeno un bilancio, né di previsione né consuntivo, perché ha un governo senza maggioranza, e quindi
 non può andare in parlamento? È decisamente una Unione, questa Europea, un po’ scombinata.
 
Come fa la sinistra in Italia a farsi forte della Spagna? Dove il governa a guida Sanchez, teoricamente socialista, governa senza sostegno parlamentare. Non può fare alcuna legge, nemmeno quella del bilancio. E ha un presidente del governo che, benché bello e aitante, ha la moglie e il fratello sotto processo per corruzione – processi non mediatici. E ha fatto pagare un piccolo esercito di collaboratori personali, all’immagine di bello e aitante, alla propaganda, e ai sondaggi dall’erario, come membri del gabinetto?
 
Si (ri)pubblicano – si ripubblicheranno – negli Stati Uniti enormi quantità di “carte” Epstein, il finanziere e magnaccia pedofilo. Che si presentano come se incriminassero Trump, cosa non possibile (l’avremmo già saputo). Ma questo non importa. Importa rimestare, confermare il pubblico che i suoi rappresentanti politici puzzano. L’antipolitica sembra il sigillo di America ed Europa. A Occidente di quale Oriente? Democrazia? Verità? Libertà?
 
Il “Corriere della sera” fa la sua campagna contro Trump intervistando un giornalista americano, Tom Nichols, che figura essere stato anche politologo in qualche università remota. Il quale non sa che dire, ma lo dice. Presentato come editorialista di “The Atlantic”, dove in effetti per un anno, almeno un anno, ha scritto ogni giorno online 10.000 parole contro Trump. Poi la rivista, mesi fa, lo ha sostituito.
 
In alternativa, il “Corriere della sera” dà la parola a Michael Wolf, altro giornalista Usa, una sorta di “specialista Trump”, con una “biografia non autorizzata” nel 2018, piena di tutti i pettegolezzi, e podcast con un’altra mangiatrump, Joanna Coles del “The Daily Beast”, il quale si era fatto confidente e informatore di Epstein, quando già era condannato. Come mai? “Si fa per ingraziarsi qualcuno che poi vi aiuterà nel vostro lavoro”. E questo fa l’autorità dei media in America.
La democrazia in America deve molto a Tocqueville. 
 
“Ci si sposa sempre meno, ma divorziare è un’odissea”. A Roma ci vogliono tre anni, calcola il “Corriere della sera-Roma”, ma lo stesso probabilmente anche altrove: la legge Cartabia stabilisce in tre mesi il periodo massimo per comparire in Tribunale, a Roma si va a sei mesi, e anche a nove.  Roma ha solo la colpa di raddoppiare il “tempo prevedibile” di definizione dei procedimenti, a 800 giorni. Contro una media nazionale di 460 giorni, un anno e mezzo.
 
L’Ami, Associazione Matrimonialisti Italiani calcola che il 60 per cento dei femminicidi sono di donne “in fase di separazione”. Ma poi il presidente dell’Ami, avvocato Gassani, spiega che “solo a Roma oggi ci sono 90 mila padri che vivono in povertà quasi assoluta. E dormono in auto o sono tornati dai genitori, mangiano alle mense dei poveri, perdono il rapporto con i figli”.
 
Si discute dei “ricchi” in Italia - con 1.500 euro al mese, irride Meloni. Di fatto lo stipendio netto medio in Italia è di poco superiore, 1.600 euro. E di poco superiore alla “nuova” Europa: Malta, Polonia, Lituania, Croazia, Grecia, Romania. Ma meno che in Spagna, e molto meno che in Francia, Belgio, Inghilterra e Germania – la metà dell’Olanda, un quarto della Svizzera. E però le seconde case e i consumi durevoli, auto, elettrodomestici, dispositivi elettronici, ristorazione e turismo dicono l’Italia un Paese ricco – per questo periodicamente invidiato-biasimato dai tedeschi, che guadagnano in media 2.800 euro al mese, ma nulla al confronto nei consumi.
Tutto economia in nero non è. Le statistiche del reddito non conteggiano il risparmio, il patrimonio – la “famiglia”, il grande negletto di questa “economia di mercato”.
 
Questo paese” invece che “l’Italia” accomuna Schlein a D’Alema - anche Occhetto lo diceva. Non si può dire che il Pd manchi d’identità.

Giubileo Berlinguer

Un anno fa un film su Berlinguer, uno di sette o otto, non dello stesso regista ma più o meno in contemporanea. Ora un film su come è stato recepito il film di un anno fa dello stesso regista, “Berlinguer – La grande ambizione”. In particolare sulle “reazioni del pubblico più giovane”.
Non una curiosità, un manufatto da cinegiornale, uno che si vuole un vero film. Programmato anche in sala - a Roma almeno da quattro sale, compreso il Quattro Fontane, del Circuito Cinema, film di qualità. Recensito.
Un culto della personalità, nel 2025. Poi si dice che il cinema italiano non è in buona salute, che lo Stato non se ne cura, che il pubblico non lo segue. A volte viene il dubbio che questo sovietismo di riporto mascheri un doppio gioco. Come per dare ragione al governo Meloni sui sussidi al cinema come di una partita fra nostalgici, fra i “compagnucci della parrocchietta”.
Matteo Segre, Noi e la grande ambizione