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sabato 8 marzo 2025

La storia non si addice alla Calabria, le controstorie sì

Un invito alla storia. Che in Calabria latita. Si strologa, sì, e anche molto, da Noè all’ultima impresa “italiana” nel 1944 - i parà della Folgore contro i canadesi. Il “resto” è repertorio. Ed  ecco l’opportunità di una controstoria, giacché la storia della Calabria, il poco che se ne fa, è afflitta da preconcetti, essenzialmente laico-unitari, e poi, per il breve-lungo dopogerra, da quelli presunti marxisti – la storia dele formule vuote. Di una, cento, mille controstorie.
Le controstorie, si sa, sono contestabili. Non sono documentabili, o difficilmenrte e parzialmente.  Questa non è diversa. Anzi, di prposito umorale, per quanto documentata, come è nel carattere dell’autore, sanguigno polemista di Soverato, classicista (grecista) tourné filologo, anche se di grande capacità applicativa. Ma l’impressione è di una scoperta corroborata da situazioni di fatto, quando riscontrabili all’esperienza personale o a conoscenze specifiche. Di una Calabria infine liberata dal “pittoresco” dei viaggiatori. Oltre che, va ripetuto, dalla κοινή disperante del dopoguerra, presuntamente sociologica - specie da quella inesauribile delle mafie.
Il modo di procedere delle tante “controstorie” di Nisticò, o “controspigolature” – “controanagrafe”, “controantropologia,”, “controaoristo”, ce ne sono una trentina - è questo: non è vero che “nell’Italia settetrionale ci fu e c’è una tradizione comunale e da noi no…. c’era il feudalesimo”. Per esempio Catanzaro, “città industriale e perciò a prevalenza popolare”, nel 1473 si è data e poi ha conservato degli statuti democratici di prim’ordine. Che Nisticò documenta punto per punto, per una decina di pagine. Ma il resto delle Calabrie? E così via.
Un saggio di spunti, di umori, per lo più controcorrente. Molto polemico, coi toni a volte del libello. A volte fulminante – tutta la contemporaneità, dal Settecento al Novecento, in una pagina.
Però, bisogna dire rivoltando il giudizio d’insieme, con una documentazione nuova notevolissima. Bastino le nomenclature, topo e onomastiche, greche, arabe, gli elenchi (i santi greci, i cenobi bizantini…), le personalità tratteggiate (Cassiodoro, qui per una volta in dettaglio, o i maestri di greco del Trecento, del papato e di Petrarca e Boccaccio), il ruolo e i luoghi dei Longobardi, l’elenco delle “ville” e dei presidi romani.
E il lungo, dettagliato elenco delle incursioni e distruzioni “barbaresche” (islamiche), delle coste tirreniche fino a Lavinio, cioè quasi a Roma, tra Secondo Cinquecento e primo Seicento, e sulla costa jonica in Calabria. Per lo più a opera di rinnegati, i più famosi (crudeli) calabresi. Le varie immigrazioni degli Albanesi in Calabria, chiamati dai re di Napoli contro i baroni. In dettaglio l’altrimenti trascurata spedizione francese nel 1528 contro il Regno di Napoli, ordinata da Francesco I, per sfruttare l’assenza di Carlo V, impegnato in Nord Africa – agitando i soliti diritti dinastici, quale erede degli Angiò.  
Soprattutto importante un primo accenno, partendo dal terremoto del 1783, alla “manomorta” – su cui si costruirà la borghesia dell’Italia unita, così debole, così fasulla. Alla nazionalizzazione, si direbbe oggi. All’appropriazione demaniale, senza risarcimento, senza destinazione propria, se non a generici fini di ricostruzione, sotto forma di Cassa Sacra prima che di manomorta, dei “benefici” ecclesiastici, terreni, edifici, rendite, e dei preziosi – che poi, ceduti a titolo di favore a baroni e borghesi, crearono le borghesie piene di nulla tipiche del Meridione (ultimamente - ma già un secolo fa – i “notabili” di Salvemini). Con i difetti noti: rendite, parentele, amicizie, manovre, intrighi, e poca o nulla assunzione di responsabilità e iniziativa.
Un capitolo a parte, notevolissimo sebbene risolto in poche righe, è la vicenda dei “massisti” calabre contro i “giacobini” di Napoli, contro la Repubblica partenopea, un fatto “epocale per il futuro della politica dei secoli XIX e XX”. Con la “Masse della Santa Fede….primo esercito popolare della storia moderna”. Col contrappunto in nota che i giacobini erano di idee solo “verbalmente rivoluzionarie”, erano isolati, sprezzanti, odiati “dal popolo, allora quasi plebiscitariamente borbonico: …. nessuno di questi dotti era un sanculotto, quasi tutti dei moderati… e conservatori in proprio, oltre che desiderosi di nuovi acquisti”. Assolta la Santa Fede anche all’epilogo: “Ruffo offrì la resa e l’esilio in Francia, ma con l’inganno l’inglese Nelson li catturò. Secondo i più per volontà della regina Maria Carolina; ma si pensa anche a una faida tra la Massoneria inglese e quella francese!” – “processati che furono, un centinaio di loro subì la pena di morte”.
Con una ripresa qualche anno dopo, nella guerra anglo-francese combattuta in Calabria nel 1806-1807 che ha visto i “massisti” sostenere gli inglesi - e almeno un paio di reparti, si può aggiungere, inquadrati nell’esercito inglese, con divise, mostrine, e soldo. Con molte curiosità anche qui, come altrove: la battaglia che negli anali è di Maida, così celebrata anche a Londra, Maida Vale, è dai francesi è detta di Sant’Eufemia. Il comandante inglese, John Stuart (poi Sir J.S.) “era americano ma loyalist, cioè nel 1776 rimasto fedele al re di Gran Bretagna”.
C’è anche il superbo “un tal Gladstone” – quello che condannò i Borbone e tutto il Regno. E tantissimi patrioti calabresi: Florestano e Guglielmo Pepe, Michele Morelli, Alessandro Poerio… Le svariate applicazioni del nome Italia, in Calabria e poi altrove. Gli “aggiustamenti” della toponomastica dopo l’unificazione – dettagliatissimi, paese per paese. Ma “non era una novità assoluta, che in Calabria mutassero i toponimi”. Ma, da ultimo, due pagine sulla Calabria  senza presente, e senza futuro.
Geniali le due pagine finali sul “controprogressismo” – assortite da un poemetto di analoga lunghezza, molto più polemico dell’intero libro. E dovrebbero entrare nelle teorie dello sviluppo economico e sociale: perché la Calabria (con la Sicilia, si può aggiungere) viene in coda fra le regioni europee secondo tutti i criteri statistici socio-economici.
Un iperanticonformismo incontinente. Con l’insultante auspicio finale, seppure con Virgilio: “Una salus victis, nullam sperare salutem”, l’unica salvezza per gli sconfitti è che non c’è salvezza”, non potere sperare salvezza.
Singolare all’apparenza, ma molto veritiero, l’assunto che in Calabria non si fece cultura, popolare, diffusa, perché non ci fu il feudalesimo, né poi la signoria: “Alcuni baroni furono degni di nota per azioni di guerra o buona amministrazione; i più, non lasciarono alcuna memoria”, e “tanto meno stimolarono o pagarono poeti e pittori”. E si arriva al punto che delle gesta della “Chanson d’Aspremont” e del romanzo “Aspramonte”, Due-Trecento, “leggiamo sì, ma nei versi del Boiardo e dell’Ariosto di Ferrara”.
La Calabria è ed è stata molte cose diverse, e senza continuità, nei quattro millenni della storia che conosciamo. Anche perché “mole volte è successo che si interrompesse ogni continuità”. E, si può aggiungere, non ha avuto e non ha un centro, una capitale, un governo, un indirizzo, che dia un indirizzo e con cui confrontarsi. Nisticò, vagando, ne riempie parecchi vuoti, con piglio sempre, di lettura.
Ulderico Nisticò, Controstoria delle Calabrie, Rubbettino, pp. 213 € 14

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