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La storia non si addice alla Calabria, le controstorie sì
Un invito alla storia. Che in Calabria
latita. Si strologa, sì, e anche molto, da Noè all’ultima impresa “italiana”
nel 1944 - i parà della Folgore contro i canadesi. Il “resto” è repertorio.
Ed ecco l’opportunità di una
controstoria, giacché la storia della Calabria, il poco che se ne fa, è
afflitta da preconcetti, essenzialmente laico-unitari, e poi, per il breve-lungo
dopogerra, da quelli presunti marxisti – la storia dele formule vuote. Di una,
cento, mille controstorie.
Le controstorie, si sa, sono contestabili. Non
sono documentabili, o difficilmenrte e parzialmente. Questa non è diversa. Anzi, di prposito umorale,
per quanto documentata, come è nel carattere dell’autore, sanguigno polemista
di Soverato, classicista (grecista) tourné filologo, anche se di grande
capacità applicativa. Ma l’impressione è di una scoperta corroborata da
situazioni di fatto, quando riscontrabili all’esperienza personale o a
conoscenze specifiche. Di una Calabria infine liberata dal “pittoresco” dei
viaggiatori. Oltre che, va ripetuto, dalla κοινή disperante del dopoguerra,
presuntamente sociologica - specie da quella inesauribile delle mafie.
Il modo di procedere delle tante “controstorie”
di Nisticò, o “controspigolature” – “controanagrafe”, “controantropologia,”,
“controaoristo”, ce ne sono una trentina - è questo: non è vero che
“nell’Italia settetrionale ci fu e c’è una tradizione comunale e da noi no….
c’era il feudalesimo”. Per esempio Catanzaro, “città industriale e perciò a
prevalenza popolare”, nel 1473 si è data e poi ha conservato degli statuti
democratici di prim’ordine. Che Nisticò documenta punto per punto, per una
decina di pagine. Ma il resto delle Calabrie? E così via.
Un saggio di spunti, di umori, per lo
più controcorrente. Molto polemico, coi toni a volte del libello. A volte
fulminante – tutta la contemporaneità, dal Settecento al Novecento, in una
pagina.
Però, bisogna dire
rivoltando il giudizio d’insieme, con una documentazione nuova notevolissima.
Bastino le nomenclature, topo e onomastiche, greche, arabe, gli elenchi (i
santi greci, i cenobi bizantini…), le personalità tratteggiate (Cassiodoro, qui
per una volta in dettaglio, o i maestri di greco del Trecento, del papato e di
Petrarca e Boccaccio), il ruolo e i luoghi dei Longobardi, l’elenco delle
“ville” e dei presidi romani.
E il lungo, dettagliato
elenco delle incursioni e distruzioni “barbaresche” (islamiche), delle coste tirreniche
fino a Lavinio, cioè quasi a Roma, tra Secondo Cinquecento e primo Seicento, e
sulla costa jonica in Calabria. Per lo più a opera di rinnegati, i più famosi
(crudeli) calabresi. Le varie immigrazioni degli Albanesi in Calabria, chiamati
dai re di Napoli contro i baroni. In dettaglio l’altrimenti trascurata spedizione
francese nel 1528 contro il Regno di Napoli, ordinata da Francesco I, per sfruttare
l’assenza di Carlo V, impegnato in Nord Africa – agitando i soliti diritti
dinastici, quale erede degli Angiò.
Soprattutto importante un
primo accenno, partendo dal terremoto del 1783, alla “manomorta” – su cui si
costruirà la borghesia dell’Italia unita, così debole, così fasulla. Alla
nazionalizzazione, si direbbe oggi. All’appropriazione demaniale, senza
risarcimento, senza destinazione propria, se non a generici fini di
ricostruzione, sotto forma di Cassa Sacra prima che di manomorta, dei
“benefici” ecclesiastici, terreni, edifici, rendite, e dei preziosi – che poi,
ceduti a titolo di favore a baroni e borghesi, crearono le borghesie piene di
nulla tipiche del Meridione (ultimamente - ma già un secolo fa – i “notabili”
di Salvemini). Con i difetti noti: rendite, parentele, amicizie, manovre, intrighi,
e poca o nulla assunzione di responsabilità e iniziativa.
Un capitolo a parte,
notevolissimo sebbene risolto in poche righe, è la vicenda dei “massisti”
calabre contro i “giacobini” di Napoli, contro la Repubblica partenopea, un fatto
“epocale per il futuro della politica dei secoli XIX e XX”. Con la “Masse della
Santa Fede….primo esercito popolare della storia moderna”. Col contrappunto in nota
che i giacobini erano di idee solo “verbalmente rivoluzionarie”, erano isolati,
sprezzanti, odiati “dal popolo, allora quasi plebiscitariamente borbonico: …. nessuno
di questi dotti era un sanculotto, quasi tutti dei moderati… e conservatori in
proprio, oltre che desiderosi di nuovi acquisti”. Assolta la Santa Fede anche all’epilogo:
“Ruffo offrì la resa e l’esilio in Francia, ma con l’inganno l’inglese Nelson li
catturò. Secondo i più per volontà della regina Maria Carolina; ma si pensa
anche a una faida tra la Massoneria inglese e quella francese!” – “processati che
furono, un centinaio di loro subì la pena di morte”.
Con una ripresa qualche
anno dopo, nella guerra anglo-francese combattuta in Calabria nel 1806-1807 che
ha visto i “massisti” sostenere gli inglesi - e almeno un paio di reparti, si può
aggiungere, inquadrati nell’esercito inglese, con divise, mostrine, e soldo. Con
molte curiosità anche qui, come altrove: la battaglia che negli anali è di
Maida, così celebrata anche a Londra, Maida Vale, è dai francesi è detta di Sant’Eufemia.
Il comandante inglese, John Stuart (poi Sir J.S.) “era americano ma loyalist,
cioè nel 1776 rimasto fedele al re di Gran Bretagna”.
C’è anche il superbo “un
tal Gladstone” – quello che condannò i Borbone e tutto il Regno. E tantissimi patrioti
calabresi: Florestano e Guglielmo Pepe, Michele Morelli, Alessandro Poerio… Le
svariate applicazioni del nome Italia, in Calabria e poi altrove. Gli “aggiustamenti”
della toponomastica dopo l’unificazione – dettagliatissimi, paese per paese. Ma
“non era una novità assoluta, che in Calabria mutassero i toponimi”. Ma, da ultimo,
due pagine sulla Calabria senza
presente, e senza futuro.
Geniali le due pagine
finali sul “controprogressismo” – assortite da un poemetto di analoga
lunghezza, molto più polemico dell’intero libro. E dovrebbero entrare nelle
teorie dello sviluppo economico e sociale: perché la Calabria (con la Sicilia,
si può aggiungere) viene in coda fra le regioni europee secondo tutti i criteri
statistici socio-economici.
Un iperanticonformismo
incontinente. Con l’insultante auspicio finale, seppure con Virgilio: “Una
salus victis, nullam sperare salutem”, l’unica salvezza per gli sconfitti è
che non c’è salvezza”, non potere sperare salvezza.
Singolare all’apparenza,
ma molto veritiero, l’assunto che in Calabria non si fece cultura, popolare,
diffusa, perché non ci fu il feudalesimo, né poi la signoria: “Alcuni baroni
furono degni di nota per azioni di guerra o buona amministrazione; i più, non
lasciarono alcuna memoria”, e “tanto meno stimolarono o pagarono poeti e
pittori”. E si arriva al punto che delle gesta della “Chanson d’Aspremont” e
del romanzo “Aspramonte”, Due-Trecento, “leggiamo sì, ma nei versi del Boiardo
e dell’Ariosto di Ferrara”.
La Calabria è ed è stata
molte cose diverse, e senza continuità, nei quattro millenni della storia che
conosciamo. Anche perché “mole volte è successo che si interrompesse ogni
continuità”. E, si può aggiungere, non ha avuto e non ha un centro, una capitale,
un governo, un indirizzo, che dia un indirizzo e con cui confrontarsi. Nisticò,
vagando, ne riempie parecchi vuoti, con piglio sempre, di lettura.
Ulderico Nisticò, Controstoria delle
Calabrie, Rubbettino, pp. 213 € 14
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