sabato 6 settembre 2025
L’Italia non ha più voglia di lavorare
Chi può si cerca un lavoro all’estero, dove guadagna il doppio, e anche il triplo. Chi non può vivacchia. L’Italia, improvvisamente virtuosa sui conti pubblici (non era difficile, dopo dopo l’economia grillina, roba da manicomio), continua a essere quello che è ormai da tre decenni, un paese in fase di deindustrializzazione. Apparentemente no, è sempre il secondo paese manufatturiero dietro la Germania. Nei fatti è in declino: la produzione industriale è in calo da tre anni, gli investimenti, già deboli, sono in contrazione, la produttività è quindi sempre più debole, ormai d a trent’anni, gli investimenti stranieri che ne erano il fulcro evitano ora l’Italia, per la bassa produttività, la troppa sindacalizzazione, e la burocrazia (spaventosamente) inetta – quando non è cattiva, i giudici insindacabili.
L’industria langue perché l’economia ristagna, si dice. La Ue, gestita da Merkel, la signora “troppo poco tropo tardi”, non si è ripresa dopo la crisi bancaria, e l’Italia ne paga le conseguenze. No, la crisi bancaria è di 18 anni fa. E nella Ue c’è chi va male, la Germania, a cui l’Italia si è legata troppo, e c’è chi va bene.
La scomparsa dell’amore
La-la-Land è lo stato di euforia fantastica, di
chi vive in un mondo di fantasia. Nel film è una storia d’amore reale, come ne
avvengono. Semplice, senza drammatizzazioni, e sempre riacceso, fra un
musicista jazz e un’aspirante attrice. I due fanno carriera, aiutandosi reciprocamente,
poi si perdono di vista (gli impegni artistici allontanano), vivranno ognuno la
sua vita, e quando si incontrano per caso si sorridono. Una storia dunque non a
lieto fine ma a lieto svolgimento. Dell’amore in quanto tale, oltre la vita
quotidiana, le occorrenze, gli impegni, le difficoltà. Una storia alluscita scontata, vivacizzata
da Chazelle con canti e balli.
Riproposto dopo
appena otto anni, si segue curiosamente come una storia d’antan, remota. Una storia d’amore, cantata anche e ballata? La
più scontata, tra un lui e una lei? Non se ne possono più fare, evidentemente –
non c’è pubblico, o non c’è editoria-produzione per storie del genere, straight, classiche. Anzi, non c’è more possibile (convincente) e spontaneo,
c’è solo il coltello.
Anche gli interpreti sembrano di un altro mondo. Specie lei Emma Stone,
diventata un manichino, inespressiva, faccino piatto, occhi esorbitati, per le
fantasie meccaniciste del regista Lanthimos. Lui, Ryan Goslin, f a il
manichino, in “Blade Runner 2049” e in “Barbie”.
Damien Chazelle, La la Land, Sky Cinema
Il mondo com'è (486)
astolfo
Karl Ditters von
Dittersdorf – Il
musicista “vittima” di Mozart, forse più di Salieri.
Autore di 110
sinfonie - “cui se ne devono aggiungere
altre 90 secondo il catalogo pubblicato da Helen Geyer” (Alfredo Di Pietro). Tra
esse dodici ispirate alle “Metamorfosi” di Ovidio, delle quali solo sei
sopravvivono, composte nel 1786. Nonché di 32 opere e Singspiel, di
cui si scriveva anche i libretti. Oggi poco ricordato anche in area germanica,
fu musicista fertile e ammirato a Vienna, che era la sua città. Ma presto era
diventata la Vienna di Mozart. Col quale si produsse nell’evento che meglio lo
ricorda: come secondo violino in quartetto con Franz Joseph Haydn primo
violino), Mozart (viola) e Vaňhal (violoncello), il 12 febbraio del 1785, per
tre dei sei quartetti di Mozart dedicati a Haydn. Una formazione messa assieme
l’anno prima, sempre a Vienna, sempre in onore di F.J-Haydn, dal compositore
inglese Stephen Storace.
Sempre nel 1784,
dopo Storace anche Mozart aveva dato una festa per Haydn, per celebrarne
l’ingresso nella massoneria. Con un quartetto e un programma di cui però con si
conosce la composizione.
Anche in Italia
von Dittersrdorf fu presto oscurato da Mozart tredicenne, al suo primo viaggio,
1769, già ammiratissimo. Avviato a Vienna al contrappunto e composizione da
Giuseppe Bonno (il compositore figlio di un italiano al servizio della corte imperiale
– battezzato col padrinaggio dell’imperatore Giuseppe I), nel 1763, a
venticinque anni, era stato in tournée in Italia, virtuoso del violino, accompagnato
al piano da Christoph Willibald Gluck. Sei anni dopo, nel 1769, Mozart al suo primo
viaggio in Italia, chaperonato dal padre, pianista inventivo oltre che
virtuoso, ne cacellò il ricordo.
Si consolerà con
le decorazioni. Nel 1773 ottenne dall’imperatrice Maria Teresa un titolo nobiliare,
da cui il “von”, e dal papa nello stesso anno l’Ordine dello Speron d’Oro.
Finì male, per avere
litigato con gli ultimi datori di lavoro. Nel 1769 si era impiegato presso il
principe-vescovo di Breslavia (oggi Wroclaw, in Polonia), che lo destinò al castello
di Jánsky Vrch a Javornik. Nel 1794, dopo venticinque anni di servizio, litigò
col direttore del castello e ne fu espulso. Due anni dopo fu accolto da un
barone con Stillfried in Boemia. Ma senza grandi favori. Morirà in miseria, di
gotta, nel 1799.
Due anni dopo la
morte fu pubblicata a Lipsia, allora la capitale dell’editoria europea -l’autobiografia, “Lebenbeschreibung”, che
avrebbe dettato al figlio - e che ora ne alimenta un piccolo revival,
cronachistico se non musicale, con la traduzione in italiano, dopo quella francese
e quella inglese.
Una sua opera comica,
“Doktor und Apotheker”, dottore e farmacista, 1786, avrebbe “surclassato Mozart
e «Le nozze di Figaro»”, con 72 riprese a Venna nei dodici anni successivi,
fino alla sua morte, contro le 38 di del capolavoro di Mozart. Ma è vero che
succedevano all’epoca cose strane, anche divertenti. Dittersdorf ha il ricordo
del castrato Nicolini, il più famoso dell’epoca (in napoletano Nicolò Francesco
Leonardo Grimaldi, noto come Cavalier Nicolino, Nicolino, Nicolini), molto
attivo a Londra, che venne scambiato da un mendicante cieco per una battona di
strada. O il pappagallo di Vittoria Tesi, la grande contralto del Settecento, “la
Fiorentina” o “la Moretta” (di padre africano), talmente bene addestrato che la
Inquisizione se ne insospettì e lo esaminò a fondo, alla ricerca dell’incantesimo.
Che se non è vero è ben trovato: c’era già la rivoluzione in mezza Europa, ma ancora
si pensava settecentesco, pettegolo e ilare.
Loris Malaguzzi – Il pedagogista
creatore del “Reggio Emilia Approach” negli anni 1960 (una metodologia basata
sulla pratica, teorizzata successivamente, ma più col metodo seminariale che ex
cathedra)), la metodologia didattica prevalente nei giardini d’infanzia della
città.
La metodologia di
Malaguzzi si basa su forme in parte già adottate, altre da adottare: il lavoro
collegiale e relazionale (coordinamento) di tutto il personale, la presenza
quotidiana di più educatori e insegnanti con i bambini (non più la maestra-vicemamma),
e poi un atelier per le più diverse pratiche, dal ricamo alla ceramica,
compresa la cucina, il coinvolgimento dei genitori. E con un approccio ambientale
radicato. Per una scuola “luogo di ricerca, apprendimento, ricognizione e
riflessione dove stiano bene bambini, insegnanti e famiglie”. Con una
documentazione minuta di questi primi anni dello sviluppo, disegni, collages, allestimenti,
foto, video - che in effetti è per ogni bambino, a distanza di tempo, sempre
sorprendente. Sulla base di un principio pedagogico semplice: 1) l’apprendimento
è migliore quando è attivo, non passivo, 2) l’apprendimento deve essere
radicato nel mondo naturale, 3) l’ambiente deve essere parte integrante del
curriculum.
Il brigante Spadolino
–
“Il bosco di Baccano (lungo la via Cassia, “fra il tredicesimo e il ventesimo
miglio da Roma”, n.d.r. – è da questo toponimo che deriva la parola di senso comune)
fu rifugio di molti ricercati. La fine la racconta Antonio Baldini “L’Italia di
Bonincontro”, 87: “Ultimo «re della foresta» di Baccano fu il famoso brigante S
padolino, catturato con una falsa promessa di condono dai soldati francesi e
fucilato nel 1807. Il processo fu fatto dalla Corte militare francese, che a
quei giorni risiedeva nella Cancelleria di Roma, e durò otto giorni filati con
l’interrogatorio di quattrocento testimoni. S padolino e otto de’ suoi fidi
ebbero la condanna a morte. La bella amica del capobanda s’ebbe quattro anni di
carcere. Durante il processo Spadolino riconobbe in un gendarme di fianco alla
gabbia un suo ex-saltamacchia. Scoppiò a ridere. Non avrei mai creduto, disse, che
il governo francese reclutasse a questo modo la sua gendarmeria! Andò a morte
facendo per la strada l’occhiolino alle ragazze e giunto sul luogo dell’esecuzione
disse agli amici: «Via, è più che giusto. L’abbiamo bene tormentato questo povero
popolo!». Cinque o sei anni dopo la selva fu tutta sradicata”.
Sticotti – “Gli Sticotti” sono una famiglia, più generazioni, di attori italiani,
detti “comici”, famosi nel Settecento per rappresentare la commedia dell’arte
italiana in giro per l’Europa - di più a Londra e a Parigi (Claudio Meldolesi
ha dedicato loro una monografia) E per teorizzare a metà Settecento, come aveva
già fatto un altro illustre teatrante italiano una generazione prima, Luigi
Riccoboni, l’arte del teatro. Della recitazione più che della messinscena.
Luigi Riccoboni, “Dell’arte
rappresentativa”, aveva impostato nel 1728 il dibattito: contro lo stile
francese, ricercato, propone la
sincerità interiore, un’identificazione dell’attore nel personaggio. La
proposta è ripresa nel 1749 a Parigi da Pierre Rémond de Sainte-Albine, che dà
alle stampe un saggio intitolato
“L’attore”: l’attore dev’essere tutto sensibilità, sentimento e “fuoco”.
Ideale sarebbe anche l’adesione fisica dell’attore al personaggio, la voce,
l’emotività – un pubblico dotato di
“gusto e discernimento” non può accontentarsi
di una mimesi meccanica: l’attore dev’essere un “creatore” e non un “riproduttore”,
per quanto fedele al testo.
L’anno dopo, nel
1750, Saint-Albin viene tradotto, in libero adattamento, a Londra, “L’attore o
un trattato sull’arte di recitare”. Senza indicazione dell’autore, ma opera di Aaron Hill. E riedito cinque anni dopo, sempre
in forma anonima, ma modificata sostanzialmente. A Londra il tema era giù materia
di discussione dal 1744, dalla pubblicazione del saggio di Garrick “Breve
trattato sulla recitazione”. Anche
Garrick era dell’idea che l’attore non debba imitare il vissuto, i modi di essere,
ma debba “assimilare” il personaggio, “nutrirle”, col “calore geniale” della
propria “idea”.
Nel dibattito si
era intanto infilato Riccoboni jr., Antoine-François Valentin, pubblicando nel
1750 a Parigi una breve “Arte teatrale” dall’assunto molto moderno: come il
padre, vuole in teatro naturalezza, ma di più ritiene importanti l’elaborazione
e la padronanza di proprie tecniche espressive: l’attore è tanto più “naturale”
quanto più è consapevole e utilizza i propri
mezzi espressivi.
A questo punto,
1769, Antonio Sticotti traduce in francese un libro attribuito a Aaron Hill, “Garrick
ou les acteurs anglais – che non era di fatto che un adattamento in inglese dell’opera
di Sainte-Albin. Che Diderot è incaricato da Grimm di recensire per la sua
“Correspondance littéraire”. Diderot, che aveva nutrito ambizioni di autore
teatrale, e aveva visto Garrick in scena a Parigi qualche anno prima, ci prende
gusto, e la recensione elabora, nel 1770, nel subito famoso “Paradosso
sull’attore”. In forma di dialogo, dialogando con un “secondo interlocutore”,
che è poi Antonio Sticotti (Sainte-Albin) – Sticotti era dell’idea di “Aaron
Hill”-Sainte-Albin. Un testo seminale per molti aspetti, che faceva piazza
pulita del “teatro classico” in Francia, il cui nucleo è riassunto dal Primo
Interlocutore (Diderot) in questi termini: “Il punto importante, sul quale
abbiamo opinioni del tutto opposte il vostro autore (Sticotti, adattatore di
Sainte-Albine via “Aaron Hill”), e io sono le qualità prime di un grande attore.
Io pretendo da lui molto giudizio; voglio in quest’uomo uno spettatore freddo e
tranquillo; ne esigo, di conseguenza, capacità di penetrazione e nessuna
sensibilità; l’arte di imitare tutto, che è lo stesso, una eguale attitudine a
ogni specie di caratteri e di ruoli”.
asolfo@antiit.eu
giovedì 4 settembre 2025
A Pechino un revival, sovietico
Al tirare delle somme a Tianjin nn si è creato un fronte politico, tanto
meno economico. Il vertice Sco - che non ha un vertice e nemmeno un programma,
è solo una riunione informale, quando la Cina ha bisogno di diffondere qualche
immagine di visitatori illustri – era solo di facciata. Un prologo mediatico alla
vera scena, la parata militare a Pechino vecchia Urss, presieduta da tre leader vecchia
Urss, Xi, Putin e Kim. Con la scusa degli ottant’anni della vittoria contro l’invasore
Giappone - senza menzionare Hiroshima, né le “tempeste di fuoco” del generale incendiario Curtis Le May, tutto made in America.
La scena, godibile a volontà in rete, è una comica dei tempi di Stalin e
Mao. Che erano nemici ma facevano finta di no. Molta storia è passata da allora,
e le differenze, anche ostilità reciproche, si sono accentuate. E così, Russia,
Cina e Nord Corea non hanno più nulla in comune. Ma la nostalgia sì.
Senza il duplice abbraccio e il bacio in bocca, e con vestiti di sartoria, ma i tre leader si
esibiscono come si faceva col cerimoniale sovietico. Con le stesse latenze anche, visibili
seppure non dette – riserve, timori.
L’unica novità è che il presidente Xi ha i piedi piatti. Che lasci circolare
le immagini in cui cammina a papero – e l’occhio vi si affissa, è calamitato dai
piedi. Qualcosa è cambiato, non controlla proprio tutto?
E il dubbio viene: vecchia Urss non sarà anche il sorpasso economico?
Cronache dell’altro mondo – afrotrumpiane (357)
Neri, giovani e belli, ragazze e ragazzi vestiti di bianco, agitano e
promuovono il movimento trumpiano a Washington, il movimento MAGA, make America
great again. Qualche giorno dopo che Trump ha affidato ai riservisti dell’esercito, alla
Guardia Nazionale, i controlli di polizia contro la malvivenza diffusa nella
capitale.
La capitale è la città americana probabilmente più afro di tutti gli Stati Uniti,
la metà o poco meno della popolazione essendo da sempre di origine afro - e il sindaco, oggi un sindaca.
Gli afrotrumpiani forse non sono molti, ma sono giovani, entusiasti, e fanno scena. Molto attivi dopo che Trump ha affidato la città alla Guardia Nazionale.
Alla quale la sindaca, benché Democratica, non ha obiettato.
Problemi di base invidiosi - 879
spock
L’invidia ha conseguenze?
Con e senza il
malocchio?
Purché sia
manifesta - senza scambio di fluidi, basta saperlo?
Parte l’invidia
come una freccetta, una fucilata, una cannonata, un missile?
O non colpirà
piuttosto a caso, come una bomba d’aereo’
L’invidia
consuma, dice la Bibbia, ma chi?
spock@antiit.eu
L’intellettualità filosovietica, che delusione
Un Céline poco più che quarantenne e ancora uomo
di mondo, a caccia di ballerine, protrude ingrigito e incattivito in copertina.
Bazza ninacciosa, riportino sulla fronte, su fondo rosso, un demonio in grigio.
Per il primo di una sulfurea quadrilogia di pamphlet, di cui i tre
successivi sono ancora sotto censura di fatto – d’opinione – per antisemitismo.
Una riedizione, dopo quarant’anni: lo stesso editore aveva osato nel 1982,
unico in Europa, pubblicare questo “Mea Culpa” (insieme con l’ultimo dei
quattro pamphlet, “Le belle bandiere” - tradotto “La bella rogna”: la denuncia
dell’esercito francese che si era subito arreso, per colpa degli ufficiali, e degli
“ebrei).
Raboni – di cui la riedizione conserva l’introduzione
- avviava con l’impervio Céline la sua sfida di traduttore dal francese. Con Céline usciva l’1 gennaio 1982, il 1983 era l’anno di Proust, della “Ricerca”. Con
questo Céline il problema non era però tanto di linguaggio, il pamphlet è
anche breve, una cinquantina di pagine, ma il tema era delicato: la delusione.
Céline era stato, lo stesso ano 1936 in cui poi ne scrisse, in Unione Sovietica,
per spendervi i diritti d’autore (non pagabili all’estero) maturati col “Viaggio”.
E lì aveva trovato una dittatura, anche violenta, e non la rivoluzione di cui tanto
aveva sentito e letto. Da qui la delusione, prima sofferta poi corrucciata,
come se non il mondo sovietico ma l’intellettualità, cui era approdato, con
qualche degnazione, da un paio d’anni appena, si fosse illusa o avesse illuso.
La scoperta della cattiva coscienza, artefatta. Un primo sbocco contro la
letteratura “impegnata”.
Su questo aspetto la riedizione fornisce, a cura
di Antonietta Sanna, notizie e dati dei rapporti di Céline, un outsider
e quasi un franco narratore nella scena parigina, con Sartre e altri letterati-intellettuali
engagés, della letteratura filosovietica.
Louis-Ferdinand Céline. Mea culpa,
Guanda, pp. 77 € 10
mercoledì 3 settembre 2025
Non si arresta la deriva tedesca – Merz a scuola da Meloni
Merz non fa il “volenteroso” e fa come
Meloni, si collega. Mentre annacqua il piano di riarmo anti-russo. E fa proprie
la cautele sull’immigrazione, sul diritto d’asilo. Al punto da sfilarsi su tre
fronti ormai, compresa Ursula von der Leyen, che è la Germania a Brucelles –
niente di meno, e cosa non da poco – ma è stata eletta a sinistra.
Il balzo di
Alternative für Deutschland, il partito di destra nato su posizioni liberali e
oggi estremista, al primo posto nei sondaggi è un campanello d’allarme non si
saprebbe dire quanto nefasto per la Cdu-Csu: i Popolari, la Dc tedesca, la loro
funzione politica primaria nell’ormai lungo dopoguerra è stata sempre quella di
arginare e disinnescare le pulsioni estremiste – dopo Hitler, la Germania non si fida di se stessa.
Su tutti i dossier
sensibili, immigrati, Ucraina, Trump, la posizione del governo Merz è
stata fin dall’inizio allineata su quella prudente di Meloni. In Germania,
in Europa, con la Russia e con Ttrump.
Nom si dice, per ovvi motivi, ma è così. Se non Merz, il capo dei Popolari europei,
il tedesco Manfred Weber, è in contatto costante con Meloni, di cui apprezza
tute le politiche (bilancio, immigrazione, Trump, Putin).
La cosa è evidente,
e anche notata. In Germania ma non in Italia. Si dice perché Meloni è di destra.
No, perché non si capisce. Non si capisce l’urgenza, estrema, che ha la Germania
di recuperare sull’estrema destra montante. Un partito che è rapidamente
diventato il primo partito, è un Salvini al quadrato – e molto più conseguente:
su Russia, immigrazione, Bruxelles.
Merz si è reso conto rapidamente dei limiti
della Germania, politici - e ancora, da un paio d’anni, anche economici. Il governo Merz è nato col
compito di fare da argine non solo, ma di riassorbire la deriva verso Afd. Che non si valuta abbastanza,
ma è enorme, e mostruosa.
Parigi radicaleggia
Forse è il colpo di coda di una
presidenza nata trionfale e presto sotto scacco, su tutti i fronti. Ma non è il
solito vorrei ma non posso, è la Francia che sempre radicaleggia a vuoto, almeno dal secondo Napoleone (ma anche il primo….),
dal 1870, quando pensò bene di sfidare la Germania, quasi fosse al tempo di Napoleone
a cavallo per la Prussia, a meraviglia del filosofo Hegel. Una sorta di acne adolescenziale
- che il presidente Macron esemplifica anche fisicamente – di sfogo permanente.
Parigi ha un piano per tutto. Contro
l’Italia – Libia, debito, fisco. Contro la Russia. Contro Trump – armiamoci e partite,
io salvo i vini. Adesso vuole confiscare e nazionalizzare i depositi dello Stato
russo all’estero. Che è contro il diritto internazionale, e nonsi è fatto nemmeno
nella seconda guerra. E lo propone perché sono in titoli Usa e, evidentemente,
tedeschi – furbo, lui. Poi vuole ìnondare di soldati l’Ucraina, ma i suoi
insieme con quelli inglesi e quelli tedeschi. Una forza, a furia di ridurre, peacekeeping . ma di quale pace?
Cronache dell’altro mondo – propagandistiche (356)
Un’offensiva è stata lanciata per
migliorare l’immagine dei Democratici, finanziando con 8 mila dollari al mese
gli influencer che si accordano per rilancia le linee del partito. Uniche
condizioni: tenere riservato il collegamento e accettare restrizioni ai loro
messaggi.
Il relativo contratto circola redatto
da Chorus, il braccio non profit di una piattaforma liberal di influencer marketing.
Gli influencer nella chat promossa da Chorus hanno collettivamente
almeno 13 milioni di follower sulle
varie piattaforme. Ma ultimamente il gruppo non ha fatto molti progressi.
Per anni, i Democratici hanno provato a
lavorare con gli influencer. Nel 2024 la Casa Bianca del presidente Biden ruppe
i rapporti con numerosi preminenti creatori di contenuti dopo le loro, lievi,
critiche all’amministrazione sulle sue
politiche in tema di cambiamento climatico, Covid, Gaza, e la chiusura di TikTok.
Influencer che criticarono Kamala Harris da sinistra, come Hasan Ikewr, furono
anche loro tenuti fuori dalla campagna elettorale. I Repubblicani, al contrario,
hanno costruito la loro forte presenza in rete passando sopra a critiche anche
sostanziali di Trump.
Il Chours Creator Incubator Programme
è stato fondato da un potente gruppo di dark
money progressista chiamato The
Sixteen Thirty Fund. Il programma è decollato il mese scorso (luglio, n.d.r.), e
ai creatori di contenuti contattati fu detto che puntava a reclutare “oltre”
90 influencer.
(“Wired”)
Giallo d’estate, esile
Un
giallo esile, per una serie di incontri gay, maschili, innocenti – limitati all’adorazione
dell’eterno “ragazzo bruno col ciuffo” (c’è anche un “grazioso ragazzo biondo
di Amburgo”, sempre col ciuffo – qui siamo
a Zurigo), e si fanno anche feste per “due tizi nuovi, tizi giovani”. Con una cagnolina
Lulu che innamora tutti, quasi come i ragazzi biondi col ciuffo.
Sempre
quell’“universo claustrofobico e irrazionale nel quale si entra, ogni volta,
con un senso di pericolo personale”, che Graham Greene trovava nei racconti di
Patricia Highsmith. Ma molto lieve – più che di altro di attesa irritata. Il titolo
originale peraltro non mentiva: “Small g. A Summer Idyll”, dove la piccola “g.”
sta per gay, ed è piccola per indicare un bar o ritrovo dove “è possibile”
incontrar e gay, non esclusivo cioè.
Sopravvalutato,
forse per essere l’ultimo racconto dell’autrice (morirà qualche mese dopo, per
un tumore pregresso), scrittrice peraltro molto seriosa, che non giocava sul
pettegolezzo e lo scandalo, racconta le giornate piene di vuoto di un grafico
pubblicitario di mezza età, un quaranticinquenne con la pancetta, per giunta
deturpata da una cicatrice all’addome cucita male, che s’indurisce e si gonfia invece
di appiattirsi e sparire, a cui hanno ucciso per droga e per soldi l’amico,
naturalmente giovane bruno ciuffo, e della sua cagnetta Lulu. E dei personaggi
che contornano le sue giornate, la segretaria, i ragazzi nuovi, e la droga, che
non si vorrebbe ma s’impone – siano anni 1980.
Curiosa,
senza un motivo preciso, l’eco risuona a ogni pagina di Pasolini, forse per essere
stato il primo che ha sdoganato l’attrazione gay nella narrativa mainstream – o sono le trepidazioni gay
non romanzabili, solo sesso?
Patricia Highsmith, Idilli d’estate, Bompiani, pp. 301 € 6
martedì 2 settembre 2025
Paura e cattiva coscienza dell'Europa
È bastato un vertice Sco, non il primo,
la consultazione periodica di politica mondiale immaginata e organizzata dalla
Cina, e sembra che il mondo sia andato in tilt. Nella stampa italiana
perlomeno, e anche in quella europea – non in quella americana.
La Shangai Cooperation Organization è
stata creata, come foro di discussione, non ha un’agenda e non decide nulla, quasi
un quarto di secolo fa: il 14 giugno 2001 vide riuniti a Shangai i capintesta
della Cina con mezza ex Unione Sovietica: Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan
e Uzbekistan. Si è poi allargata, e ristretta, sempre informalmente, e quest’anno
ha avuto la partecipazione, benché critica (molto), di India e Corea del Nord. Per una photo-opportunity, un colpo di teatro - la Cina ama il teatro. Ma
viene presentata (non si presenta da sé) come il mondo non occidentale che
prende il controllo del mondo.
Questo non vuol essere e non è – non può,
i motivi sono tanti che è inutile elencarli.
Ma si vuole che sia. In Europa, in Italia. Al netto dell’avversione contro
Trump, che avrebbe distrutto l’unità dell’Occidente (ma ancora paga la “difesa
dell’Occidente”, non l’ha smobilitata), perché tanta paura? Come si fa a
pensare la Russia un soldato della Cina? Per quale guerra? Non economica. Non
politica. Non militare, figurarsi.
Questa paura è un altro segnale (se ne lanciano anche per i Brics, quando con Russia e Cina si siede a parlare anche il Brasile - con l'Arabia Saudita....) della
cattiva coscienza dell’Europa. Che dovrebbe cominciare a ragionare – a essere –
in proprio, e non sa e non vuole. L’asse renano? I “volenterosi”? E il
federalismo?
Lo straordinario potere di Renzi
Uscito rottamato dal voto popolare
dopo avere rottamato mezza politica di sinistra, Renzi torna a pontificare da
quale tempo, a giorni alterni, sui media della stessa sinistra. Con interviste
sdraiate più che sedute, in genere sotto forma di “J’accuse”. Di che cosa non si sa. Lui si ritiene sempre grande
rottamatore, ora di governi. E quindi si esercita su Meloni.
Questo è in carattere. Ma perché farne
una bandiera? Scontato anche che i media di Elkann e Cairo lo pompino: sono per
il non-governo, di destra o di sinistra che sia. Nel nome del mitico Centro –
che naturalmente sarebbe la Dc, ma noi non siamo Dc, lo siamo? No, il governo deve
fare poco e durare poco.
Dunque Renzi uguale a se stesso, dodici
anni dopo. Ma come farne una bandiera? Uno che, oltre a essere fallito come politico,
si è reso anche ridicolo, tanto quanto ben pagato, testimonial del Rinascimento saudita – “l’Arabia Saudita come
Firenze”…. È anche agitatore anti-giudici che però si avvale, p.es.in Calabria,
di giudici cresciuti sotto la sua alla, dalla Procura di Cosenza fino a
Gratteri.
Povera Calabria, un pozzo senza fondo
Nel
1908 un aristocratico austriaco, 34nne, molto azzimato, benché frequentatore occasionale
di poeti e artisti, non però di bohème –
anzi: Rilke, Wedekind, Wassermann tra gli altri – nonché romanziere già di
fama, decide di fare, da solo, il viaggio lungo la costa adriatica dell’Italia
(l’Adriatico efrfaanche un mare austriaco) a Venezia fino a Bari, e poi
tagliare per Taranto fino in Calabria. Decide di fare un tour della Calabria. E ne ha già pronto il racconto appena tornato,
racconti di cose viste e di conversazioni occasionali, con gente e di fatti
ordinari. Un testo subito pronto. Senonché il terremoto del 28 dicembre potrebbe
farne saltare la pubblicazione. Van Oestéren rimedia on una postfazione, nella
quale si scusa “per il tono allegro e noncurante cin cui talora racconta quello
che gli è capitato”. E aggiunge due appendici sul terremoto del 1783: le relazioni del cavaliere Du Fay, e quella
di lord William Hamilton, l’ambasciatore inglese presso il re delle Due Sicilie.
Un
tono leggero, dunque. Come le persone che incontra, gente qualunque – compresi i
primi emigrati di ritorno. Sui fatti minimi della vita di ogni giorno. Col
limite della poca conoscenza dell’italiano, e nulla del dialetto. Pochi anni dopo
il suo racconto dovrà confrontarsi con quello di Norman Douglas, più sapido, e
la “Povera Calabria” cade nel limbo. Ma
Douglas è svelto di lingua (i suoi aneddoti hanno soprattutto la forza del
linguaggio). E preferirà muoversi a piedi, al più a dorso di mulo. Mentre
Oestéren usa tutti i mezzi possibili, per fare presto: treno, carrozza, diligenza
postale, mulo, cavallo. Attratto da che? Dal pericolo forse, perdurando la nomea
della Calabria dei briganti. Oppure dalla natura. Di questa ha immagini grate. E
si congeda con le parole celebri di lord Hamilton, “Addio, bella Calabria”.
Il
suo racconto mantiene tuttavia dei punti d’interesse. Gli scorci naturalistici.
E l’ottimismo, malgrado tutto: la Calabria certo è povera, ma von Ostéren buon
illumìnista ritiene che con l’istruzione tutto si risolverà.
L’unica
opera tradotta di un autore austrotedesco (si spostò poi a Berlino) narratore
ragguardevole. Nella collana per ogni aspetto
anch’essa notevole: traduzioni, curatela, grafica, prezzo, “Viaggio in Caabria”,
curata da Vittorio Cappelli, una cinquantina di titoli, tutti curiosamente per
qualche aspetto interessanti. Si direbbe la Calabria un pozzo senza fondo.
Friedrich Werner von
Oestéren, Povera Calabria,
Rubbettino, pp. 187, ril. € 7,90
lunedì 1 settembre 2025
Letture - 589
letterautore
Budella – Sono povertà e
sacrificio nell’eloquio napoletano. “Troppi vi han che tiran le carrozze colle
budella”, dove budella sta per il popolino, l’espressione si ritrova nelle
“Lezioni di commercio o sia di economia civile” di Antonio Genovesi (1803, 13
nota a): “L’illustre Giambattista Vico, uno dei fu’ miei maestri, uomo
d’immortal fama per la sua Scienza
nuova, soleva assai lepidamente dire che troppi vi han che tiran la carrozza colle
budella”.
Céline-Sartre – Prima delle deprecazioni
postbelliche, di Sartre contro Céline,
“pagato dai nazisti”, e di Céline contro la “tenia ghignante filosofante
Tartre”, Sartre aveva letto e ammirato Céline. Ancora nel 1938, quando già
Celine aveva pubblicato due dei suoi quattro libelli reazionari, e antisemiti, “Mea
culpa” e “Bagatelle per un massacro”, ancora nel 1938
Céline non era il sulfureo fascista antisemita delle future polemiche di Sartre.
Il filosofo apriva quell’anno il suo primo e più celebre romanzo, “La nausea”,
riscrittissimo, controllatissimo, con una citazione di Céline presa proprio da
“La chiesa”, la “farsa” del 1926 che è il primo sfogo anti-ebraico di Céline:
“È un giovane senza importanza collettiva, è soltanto un individuo”.
Celti
–
Ora dimenticati – da tempo. Ma sono alla prima riga del “De Bello Gallico”,
dove Galli, spiega Cesare, è il latino per
Celti: “Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam
qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur”, tutta la Gallia è divisa in tre parti, una delle
quali abitano i Belgi, un’altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua si chiamano Celti,
nella nostra Galli”.
Critico
–
È il critico che “fa” l’Autore? Lo
scopre – lo inventa: lo legge, con cura, lo rilegge, ne rileva i motivi e le tecniche,
lo segue nella sua “produzione”, lo inquadra nelle storie, civili, politiche, sociali, letterarie,
di ricerca, di ispirazione, nelle radici, nei piani. Lo (ri)spiega Gabriele Pedullà sul “Sole 24 Ore
Domenica” 24 agosto, in un ricordo divertito del padre Walter, lettore attentissimo a
ogni virgola o tournure del
linguaggio, che aveva i suoi “autori preferiti” a cui non concedeva
tregua, il poeta Pagliarani, Malerba, D’Arrigo, Bonaviri (“noto per aver mancato il premio Nobel per
la Letteratura”, dice l’IA ).
“Era un periodo in cui tutti i narratori
importanti avevano dei critici di riferimento, che li consigliavano e nei momenti di
scoramento li rincuoravano, aiutandoli anche psicologicamente”.
Delfino – Il familiare
cetaceo giocherellone, folletto di tante favole e parchi marini, meta di
escursioni con tuta e gommone anche sfiancanti, è “mosciame” in “Horcynus
Orca”, il romanzone-metaromanzo di Stefano D’Arrigo. La parte cioè del pesce conservato (essiccato) al grado infimo della commestibilità. Che i pescatori
dello Stretto considerano (consideravano, quando c’erano pescatori) poco e
male. Al meglio un folletto, ma non divertente, poiché lacera(va) le reti e
strazia(va) pesci spada e tonni, quindi una disgrazia.
Femminismo – È di Pavese, l’autore
di molti personaggi femminili, ma nel senso del timore della donna? Nadia Terranova,
a cui è confidata la presentazione dell’ultima edizione Einaudi de “Il mestiere
di vivere”, lo dice “terrorizzato dalle donne che ama, donne che infestano la
sua letteratura con le loro assenze e anche con le improvvise apparizioni,
donne di cui non si fida perché da un momento all’altro potranno metterlo in
scacco, donne da cui si mette in guardia da solo”. E ricorda, in ordine inverso
al legame storico, Bianca Garufi, Fernanda
Pivano, Tina Pizzardo. E non sarebbero anche le sorelle Dowlings – e Romilda
Bollati, benché adolescente?
Pavese,
semplicemente, restò traumatizzato al rientro dal confino, quando scoprì che Tina
Pizzardo, alla cui leggerezza doveva il confino (a lui fortemente indigesto,
non avendo temperamento politico, bellicoso), dove si era fatto coraggio con
l’immagine di lei, semplicemente lo rifiutava perché “non lo amava” - senza
pietà (una che di sé – nelle memorie “Senza pensarci due volte” – scriverà:
“Donna libera e disinibita, piena di vita e di socialità, anche volubile, che
aveva bisogno di legami con più uomini contemporaneamente”).
G piccolo – “Una delle
guide di Zurigo aveva classificato Jacob’s (un bar, n.d.r.) così - con una «g
minuscola» - intendendo che vi si poteva trovare, benché non elusivamente,
clientela gay” –
Patricia
Highsmith, “Idilli d’estate”, 1994.
Nazionalpopolare – Detto di Pippo
Baudo in senso spregiativo: Si dice termine gramsciano ma fu l’appellativo con
cui il presidente Rai nel 1987, Enrico Manca, un socialista della corrente
filo-Pci, lo bocciava. Baudo si costrinse ad abbandonare la Rai (“rimettendoci
una ventina di milioni”, come poi dirà, per non aver voluto far valere la
giusta causa), per la Mediaset di Berlusconi – dove fu osteggiato da tutti,
eccetto Mike Bongiorno. L’unanimità del cordoglio è tardiva.
‘Nduja – È l’andouille francese – “le andouilettes sono
salsicce di trippa di maiale”, Gianni Mura, “Giallo su giallo”, p. 32 - a Spilinga rese digeribili
col peperoncino: “Da Troyes a Vitre, a Guéméné-sur-Scorff rivendicano di
esserne la culla. Si trovano in tutta la Francia, una volta ne ho mangiate di
buone anche in Savoia. Ho bisogno di appesantirmi e di dormire”.
Oinops pontos - Si
ripubblica “Il mare colore del vino” di Sciascia che perpetua l’erronea
traduzione di Omero. Il cui mare non è “colore del vino” ma “si vede come il
vino”, cioè spumeggia – come una volta spumeggiavano i vini nella fermentazione.
La traduzione è perfino semplice: pontos è il mare, oinops è un composto, di vino e la
radice di visione-vedere. Quindi la traduzione è: il mare che si vede (si
agita, spumeggia) come il vino.
Salò – Ebbe il più gran numero di
adesioni di giovani che poi sarebbero diventati vedettes dello spettacolo, teatro, cinema, musica, fumetto. Specie
di giovani, che alla chiamata alle armi rispondevano a Salò invece che alla
Resistenza. Dei più noti si è sempre saputo, Fo e Albertazzi – rimasti simpaticamente
amici poi tutta la vita, benché professando fedi politiche opposte. Seguiti da Walter Chiari, Ugo Tognazzi
e Raimondo Vianello, poi a lungo coppia di comici alla Rai, Carlo Dapporto,
Tino Carraro. E Mastroianni, Amedeo Nazzari, Wanda Osiris, Salvo Randone,
Enrico Maria Salerno. E Marco Ferreri.
E Hugo Pratt.
Si
moltiplicano i siti che documentano l’adesione anche di intellettuali, Dino
Buzzati per esempio, forse anche
Concetto Marchesi poi professo comunista, Gianni Granzotto, lo stesso
Spadolini, almeno fino al 1944. Angelo Del Boca, futuro storico delle malefatte
del colonialismo. Il cronista sportivo poi famoso alla Rai Enrico Ameri. I
musicisti Gorni Kramer, Cinico Angelini, molto popolare alla radio negli anni
1850-1960,
Scrittura – Intervistato
da Ganni Riotta su Radio 3 il 12 giugno 1986, Tondelli, a proposito delle tre
antologie di scrittori debuttanti che ha curato, tra il 1986 e il 1990: “Da
molte parti si dà per morta la pratica della
scrittura a farore di altri tipi di linguaggio, il linguaggio
televisivo, quello dell’immagine. Invece questi ragazzi esistono: c’è una
grande parte che scrive”.
Saranno
molti di più successivamente, col proliferare delle scuole di scrittura. Ma
probabilmente avrebbero posto un problema a Tondelli: non si impara a scrivere per
“non scrivere” – per dare parole ai “generi”,
seriali, d’immagine.
Ma
non è salvifica. Lo stesso Tondelli annota, a margine di Testori, “Traduzione
della prima lettera ai Corinti” (una glossa recuperata da padre Antonio Spadaro
“lavorando sulla sua libreria personale”, di Tondelli -. “Robinson” 31
agiosto): “Ho sempre pensato che la scrittura avrebbe potuto, magari in anni e
col lavoro, «salvare» la mia storia in un canto epico. La letteratura non salva,
mai. L’unica cosa che salva è l’Amore, la fede e la caduta della Grazia”.
È
un “bisogno” estetico”.
letterautore@antiit.eu
Se la guerra è colpa degli ebrei
Il
primo dei libelli antisemiti, 1937. Subito tradotto in italiano, ma con ampi
tagli dell’editore Corbaccio, e anche della censura, in commercio fino al 1945.
Proibito in Francia nel dopoguerra e mai più riedito - nel 2017 Gallimard ne
annunciò la ripubblicazione, su autorizzazione della vedova di Céline, Lucette
Almanzor, ma la polemica che seguì sconsigliò la stampa. In Italia era stato
ritradotto - dopo averie edizioni pirata tra il 1965 e il 1976 - nel 1981 da
Pontiggia per Guanda, integrale. Ma ritirato dalle librerie dopo soli tre mesi,
per un’azione penale intentata dal legale della vedova di Céline.
La
guerra, che nel 1937 sembrava fuori dall’orizzonte, era invece già un incubo
per Céline. Che se la prende (anche) con gli ebrei, non sapendo con chi
prendersela. La guerra era il suo incubo, avendola visuta in trincea nel 1914,
con una ferita anche grave. La
guerra è sporcizia, sangue, sofferenza, morte. Il tutto in una cornice
narrativa, di sezioni dissociate, intervallate dai soggetti di tre balletti, “La
nascita di una fata”, “Paul canaglia. Virginie coraggiosa” e “Van Bagaden”. Il
demone del mercato editoriale, perduto dopo gli anni folgoranti del “Viaggio”,
non è estraneo alla ricerca di effettacci, per un succés de scandale. Emmanuel Mounier, che recensì il libello subito
nella sua rivista “Esprit”, sottolineò
puntigliosamente le fonti di una trentina di passi: due opuscoli “dello stesso
genere di quelli che si vendono all’uscita dei metrò, con le liste degli ultimi
numeri del Lotto e le illustrazioni pornografiche”, e “Israele, il suo passato,
il suo avvenire” di H. de Vries Heekelingen, antisemita blando del filone “gli
ebrei in Israele”.
Una nota di Giancarlo Pontiggia, che da traduttore ha dotato
Céline di una perfetta reincarnazione in italiano, una sorta di miracolo, vuole
lo scrittore pericoloso, se lo è, non per l’astio anticomunista e antisemita
dei pamphlet ma “per il voluto attacco che muove alla
cultura umanistica”. Che ne farebbe la modernità, “anzi il punto di svolta
verso la piena modernità novecentesca, che si esprime – com’è noto – nella
rinuncia a un pensiero strutturato”. Un Céline anche molto Kristeva, “I poteri
dell’orrore” – l’evisceramento da cui aborriva, filosofico, di solidissima
genealogia: con Céline qui “danziamo, sotto quel cielo crollato (Nietzsche);
come vorremmo danzare (Heidegger); ecco come davvero danziamo (Céline)…”.
Se non che Céline potrà essere tutto ma non anti-umanista. Céline
finisce anti-umanista dichiarato per essere impreparato ad affrontare la
realtà, che è sempre anti-umana: è un “buonuomo”, il medico dei poveri, uno
incapace di una sola cattiva azione, anche minima, che la guerra ha sconvolto,
e sconvolge dopo gli anni felici della “scrittura”. Perché lui l’ha vissuta dal
di dentro. E perché la guerra si riapprossima inesorabile, ogni avvertimento o
contrasto è inefficace e ridicolo.
Anti-umanista semmai per formazione, intrappolato
nell’autodidattismo – fino al commaraggio da portiera, da signora mia, così
pieno di verità sempre assolute.
Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, pp. 306 pp. vv.
domenica 31 agosto 2025
Ombre - 789
Non
c’è giudice americano che faccia la fronda a Trump, e quindi ora ce ne sono moltissimi, che non venga
registrato dai giornali italiani. Mentre in America non hanno rilievo –
fanno parte della “dialettica” politica. La giustizia è sopravvalutata da noi? No,
è uno strumento di potere molto più potente.
Si
pubblicano le fotine dei sei capi di Stato invitati da Xi a Pechino come quelli
da album delle figurine. Una cosa, insomma, poco seria. Senza dire che è un G 7
alternativo, e a connotazione molto forte,
l’Eurasia. E poi, tre di loro non sono anche pilastri dell’Occidente, India,
Turchia e Pakistan? Una robetta, forse, non è.
Per
la serie “Gialli Italiani” Massimo Lugli rievoca sul “Foglio” l’assassinio
della contessa Alberica Filo della Torre a Roma, in casa sua, in camera sua.
Una caso semplice (era stato il maggiordomo licenziato) su cui invece è stato
montato un “caso mediatico”, con sospetti su tutti. “Gli inquirenti volavano
alto con l’immaginazione”, invece di lavorare: “Vent’anni di indizi trascurati,
reperti dimenticati, intercettazioni mai
ascoltate, elementi sottovalutati”. Era l’anno dopo il delitto, sempre
irrisolto, di via Poma. È difficile difendere i giudici.
“Ieri
Donald è comparso con la nipote Kai, smentendo le fake news sulla sua morte” – riferito senza ironia. Come delle
giudici Democratiche che si divertono a lanciare freccette contro Trump (il
Donald della “notizia”) postando sui social fototessere lusinghiere – immagini
di capigliature, raramente di occhi. Prese tremendamente sul serio, come tante
Perseo. La Great America ha anche un lato leggero, l’Europa non più – non capisce?
Non
ci si crederebbe ma i governanti tedeschi si fanno pagare le spese per fitness, beauty, e viaggi privati, per cifre considerevoli: la beauty
del cancelliere Merz (soprattutto abbronzatura) è costata 12.500 euro in un trimestre,
quella della ministra dell’Industria Reiche 19.264,76 euro. L’ex ministra
degli Esteri Bearbock, presidente o segretaria dei Verdi, quindi anticonsumista,
benché pingue e un po’ trascurata, si è fatta pagare 137 mila per un anno di
“stilista personale”. Senza scandalo. Neanche uno sberleffo.
“Costa
come Koopmeiners” uno che poi si è dimostrato un flop, “con uno stipendio inferiore solo a Vlahovic”, che è lo
scandalo del campionato italiano, può ironizzare la “Gazzetta dello Sport” della
rincorsa della Juventus di Elkann a un calciatore di cui il Paris Saint-Germain
tenta di liberarsi da tempo, Kolo Muani. Che di fatto costerebbe non ”come” ma
“più” del fallimentare Koopmeiners, 60 milioni – e vuole otto milioni, netti, a
stagione. Tutto quello che Elkann tocca muore. Eccetto le fortune personali.
Si
fa poco scandalo dell’immobiliare fiorentino – un caso analogo in tutto, anche
le date, alla Nuova Urbanistica sotto accusa a Milano – perché le cubature
gigantesche in deroga (156 appartamenti di lusso invece della vecchia sala dei
concerti e del Maggio Musicale) sono state autorizzate da Renzi sindaco, e poi
dal suo delfino Nardella, perché si vuole Renzi candidato a grandi cose, anche
se senza voti. Il ”cubo nero” fiorentino serve giusto a evitarci la pagina
quotidiana di Renzi che pontifica – ha abbattuto alcuni governi, ma con questo
il giochetto non gli riesce.
Oppure
non si dice per rispetto all’architetto del cubo, benché di lusso, Fuksas? Che non
è senza difese: non si può fare nulla di nuovo a Firenze, è subito “scempio”.
Lo skyline però non ha un valore, anche architettonico, anche immobiliare?
Trump
e Putin contro l’Europa”, il candido
Mario Monti al “Corriere della sera”. Sempre la solfa vittimista: l’Europa è bella,
brava , buona, gli altri tutti cattivi. E forse anche un po’imbe(ci)lle? Dopo
essersi fatta “mantenere” dagli Usa militarmente per quasi ottant’anni. Per poi
andare a sfidare la Russia in Ucraina, “per la democrazia”, col battaglione Azov. Monti è il tipico europeo, un intellettuale
introspettivo, armato di sue verità.
Pizzaballa
- benché in tenuta sacerdotale - contro Netanyahu, si penserebbe: non c’è partita.
E invece no: Israele sbaglia a puntare la chiesa, che è rimasta la sua sola,
per quanto stanca, difesa, a causa dei trascorsi. Ora, fra le tre religioni di
Abramo, la partita potrebbe farsi 2-1, lo schieramento millenario – al di sopra
delle massonerie, più o meno laicali e\o finanziarie.
L’ultimo
“ordine esecutivo”di Trump, il divieto di bruciare la bandiera, è risentito in
America come un’intrusione sulla libertà di espressione. In Italia è un reato,
previsto dal codice penale, senza scandalo per nessuno.
Oppure
sì, ne fanno scandalo i media dei belli-e-buoni, compresi quelli di Riffeser.
Perché ormai nessuno ha nemmeno un’infarinatura di diritto?
Le
Ong della rotta Misurata-Lampedusa vogliono insistentemente che l’Italia rompa
i rapporti con la Libia. Il che non è possibile, e non è auspicabile. Sarebbe
anche contrario agli interessi umanitari delle stesse ong (vogliono che i
cosiddetti migranti del mercato degli schiavi partano liberamente, “all’avventura”?).
E dunque? Stupidità non è.
Che
il vescovo di Milano chieda un’intervista al “Corriere della sera” per giustificare
la Nuova Urbanistica, affaristica se mai ce n’è stata una, cioè per assolvere i
maneggioni, passi. Ma che il sindaco, il suo partito, la giunta comunale, il
consiglio stesso non facciano nemmeno una discussione, anche solo per dirsi nel
giusto, questo non dovrebbe preoccupare? Il silenzio della politica a Milano è
sordido: a tratti si vuole la città dell’illuminismo (ma giusto per rubare la
primazia a Napoli), mentre è ben la città dei Bava Beccaris, Mussolini, Brigate
Rosse, e sempre dell’Opera del Duomo.
Urla
razziste a Liverpool contro un calciatore del Bournemouth, Semenyo. Partita
sospesa per qualche minuto, intervento della polizia, fermo dell’urlatore,
scandalo. Poi si scopre che a urlare è stato un disabile iu sedia a rotelle, e
niente si è più saputo. Succedeva a Ferragosto. Mentre sarebbe stato (molto)
interessante analizzare la cosa. Il politicamente corretto è proprio un
ottundimento del cervello – poi si dice che siamo caduti in un’epoca MAGA,
trumpiana.
Per
la serie “Gialli Italiani” Massimo Lugli rievoca sul “Foglio” l’assassinio
della contessa Alberica Filo della Torre a Roma, in casa sua, in camera sua.
Una caso semplice (era stato il maggiordomo licenziato) su cui invece è stato
montato un “caso mediatico”, con sospetti su tutti. “Gli inquirenti volavano
alto con l’immaginazione”, invece di lavorare: “Vent’anni di indizi trascurati,
reperti dimenticati, intercettazioni mai
ascoltate, elementi sottovalutati”. Era l’anno dopo il delitto, sempre
irrisolto, di via Poma. È difficile difendere i giudici.
“Ieri Donald è comparso con la nipote Kai, smentendo le fake news sulla sua morte” – riferito senza ironia. Come delle giudici Democratiche che si divertono a lanciare freccette contro Trump (il Donald della “notizia”) postando sui social fototessere lusinghiere – immagini di capigliature, raramente di occhi. Prese tremendamente sul serio, come tante Perseo. La Great America ha anche un lato leggero, l’Europa non più – non capisce?