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sabato 20 settembre 2025

Ombre - 792

“America in nero”, dice “il Foglio”, per “la passione a stelle e strisce per l’omicidio politico”. Mentre l’Italia ne è esente. “In 164 anni di storia unitaria l’unico capo di Stato ucciso in un attentato fu re Umberto nel 1900”. Ma con vari attentati “anarchici” prima del re, tre o quattro contro Mussolini, uno contro Togliatti. E Moro? E quanti morti “simbolici” del terrorismo, generali, giudici, giornalisti? E la principessa Sissi, il cui assassinio muove ancora serie tv in serie? Lo stesso giornale fa peraltro un elenco interminabile di attentati politici, più o meno riusciti, opera di italiani fuori d’Italia, in Europa e altrove.

Si vuole un’“America nera”, e non si capisce perché.
 
E così, “Crédit Agricole muove su Banco Bpm e nomina gli advisor per studiare la fusione”. Poche righe, anodine: Bpm è di Crédit Agricole, e quasi non lo sappiamo. Ma non latita solo la stampa. Oppure: la stampa latita perché acquirente si porta Crédit Agricole Italia, e questo basta al ministro Giorgetti per non azionare il “golden power” - per non indagare se il nuovo padrone è straniero. Lo stesso che dimostrava che Unicredit, in quanto acquirente della stessa Bpm, non è italiana perché ha ancora uno sportello a Mosca.
Da non credere, ma è così: reticenza, anzi silenzio, su tutta la linea nei media “informati”.
 
Due pagine, la firma più prestigiosa, e una vistosa prima pagina, il “Corriere della sera” celebra Rachele Mussolini perché tradì suo marito, quando già Mussolini era il Duce, assassinio Matteotti e leggi speciali alle spalle - lo tradì col fattore. Gli inglesi hanno la casa reale per gingillarsi, i francesi la Repubblica, noi ci facciamo la storia infinita col fascismo, che in tutto durò venti anni. Non è solo un passatempo, un che di morboso c’è.
 
“la Repubblica” chiama alle armi, con un titolone “di guerra” in prima, “L’editto di Trump”, e cinque pagine: è stato lui a chiudere una trasmissione tv. Alla seconda pagina scrivendo: “Da  buon italiano, Jimmy Kimmel (l’animatore dello show, nd,r,) più che un rivoluzionario è stato un campione della sopravvivenza”, tra disgrazie e rifiuti. E che è stato licenziato per avere detto: “La gang di Maga sta disperatamente cercando di caratterizzare questo ragazzo che ha assassinato Charlie Park come qualsiasi cosa, tranne che uno di loro”. L’assassino di uno di destra come uomo di Trump, non è male come informazione.
 
In una delle cinque pagine lo stesso giornale, che Elkann edita, celebra la fine dell’America, della democrazia in America. Affidandola a uno scrittore irlandese che preferisce vivere in America, Colum McCann. Il quale non dice nulla, ma ha in uscita in Italia un romanzo. 
 
Sempre “la Repubblica”: “Nel corso della controffensiva in Donetsk, ha rivelato ieri Zelensky, i soldati ucraini sono riusciti a riconquistare 160 mila km² di territorio”. Più della metà della superficie dell’Italia – tre volte la superficie del Donestk? È l’effetto dell’abolizione della geografia a scuola? E della misura – quanto fa 160 mila km²?
 
Macron e la moglie si devono difendere in America da una influencer che fa soldi spiegando che lei, la moglie, è nata uomo - benché madre di molti figli, anche prima di Macron. Assurdo. Ma è la forza degli avvocati “a percentuale”, i contingency lawyer, che fanno la giustizia Usa. Macron pagherà il legale in percentuale di quanto otterrà come risarcimento per diffamazione – ma intanto il legale può farsi pubblicità gratuitamente andando su tutte le tv e i social. Un mercato. La giustizia non è il forte delle democrazie?
 
Non un commento, uno solo, sul “Corriere della sera”, sul “Sole 24 Ore”, su “la Repubblica”, sul no del governo a Unicredit-Bpm a suo tempo, mentre tace sulla cessione (“a gratis”, come dicono a Roma?) di Bpm a Crédit Agricole. E sul regalo di Mediobanca e Generali alla banca di Giorgetti e a Caltagirone. La verità si lascia a Nagel: “Mercato sconfitto”. Al perdente, come a dire a nessuno.
 
Meloni, si sa, non sa di economia. E il suo partito è analfabeta. Si capisce che non abbia capito come, con la storiaccia di Bpm in mano ai francesi, e Mediobanca e Generali nominalmente a Siena e Caltagirone, abbia regalato “Milano” alla Lega e si sia quindi scavata la fossa. Quello che non si capisce è il silenzio, nelle due vicende, di “Corriere della sera” e “la Repubblica”, i cui giornalisti sanno bene di che si tratta. Specie sul primo, perfino buffo, episodio del risiko, Unicredit dichiarata banca “straniera” nell’ops Bpm. Giornalismo non è - non è stato. È come se Cairo e Elkann, gli editori, avessero voluto armare una trappola alla pdc troppo disinvolta - autonoma, “ingestibile”.
 
Via Baiamonti a Roma non è simpatica. Un po’ perché vi è stata uccisa Simonetta Cesaroni (via Poma è un suo angolo), da chi si è voluto non sapere, ma di più perché la Corte dei Conti se l’è chiusa, per farne parcheggio riservato - così sogliono i giudici a Roma, attorno ai tribunali, per posteggiarvi le loro macchine.
Quelli amministrativi, insomma, sono giudici come tutti, super partes – fanno quello che vogliono. Ora si scopre che la Corte è una filiale (quanto di comodo, per la carriera?) del Pd. E che non sono ammessi a Roma rilievi contabili sulla gestione del Campidoglio, da sempre Pd, e neppure della Regione, quando è a guida Pd. Chi li fa è prevenuto.

 
Due giudici della Corte dei Conti avevano riserve sull’ultimo bilancio dell’ultimo presidente Pd della Regione Lazio, Zingaretti. Il consiglio di presidenza al completo della Corte si è riunito e all’unanimità li ha ammoniti, “siete prevenuti”. Non obiettando nel merito, li ha ammoniti d’autorità, e i due hanno trovato conveniente lasciare il campo libero. Il tutto nel silenzio dei media.
Ora se ne parla perché l’accusatore al consiglio di presidenza è sotto processo per diffamazione. Ma si sa già che sarà assolto.
 
Meloni e Giorgetti hanno regalato a Mps, cioè a se stessi, Mediobanca e Generali. Ora deprivano Mps di un paio di miliardi di crediti fiscali pregressi da far valere sulla fusione con Mediobanca. Forse non si propongono di manomettere il sistema bancario (Giorgetti sicuramente no, la Lega: si è costituita una piazza enorme a Milano, con Mediobanca, Generali e Bpm, con al fianco la francese Agricole - sarà lepenista?), ma lo hanno fatto e lo fanno. Uno dei pochi settori robusti.
 
A parte il linguaggio scurrile nei riguardi del lavoro d’indagine svolto dalla Procura e della sentenza del gip su cui si pronunciavano, ma le tre giudici del Riesame della Nuova Urbanistica a Milano, Paola Pendino, cui si deve il linguaggio, Paola Ghezzi, cognome molto comune nei tribunali a Milano, e Vincenza Papagno fanno paura per la sicumera con cui assolvono l’architetto messo in commissione Paesaggio (autorizzativa) dai costruttori. Per i quali aveva progettato e progetterà altri “grattacieli”. Sono giudici del Pd, difensore d’ufficio? Sono della “buona borghesia”, difensore sociali? Ma fanno le giudici.
 
Eravamo quasi in guerra con la Russia, che aveva “invaso” la Polonia con droni, quando si è saputo che i danni del “bombardamento” li hanno provocato i missili aria-suolo dell’aviazione polacca. Ma l’abbiamo saputo solo perché il presidente polacco, che presiede anche i servizi di sicurezza, è del partito avverso a quello del primo ministro Tusk, che i droni ha avvistato e combattuto. Ci possono raccontare qualsiasi cosa.
 
È materia di condanne di alcuni ucraini in Germania, benché contestate, il sabotaggio tre anni fa del Nord Stream, il gasdotto Russia-Germania. Uno dei condannati ora è stato arrestato in Italia. Ma la cosa non interessa. Anche il sabotaggio all’epoca fu sottaciuto – un fait divers qualsiasi. Non fa notizia che un commando ucraino abbia sabotato il gigantesco impianto – a sei condotte, da solo può trasportare tutto il gas che l’Italia consuma. Fa notizia solo la velina quotidiana dei servizi ucraini. Che sono tutti noi, ma non bisognerebbe sapere chi effettivamente, come, e che cosa difendiamo?
 
‘Economia”, il settimanale economico del “Corriere della sera”, finalmente si occupa della scalata Mps su Mediobanca e Generali. Senza fretta, a p. 16. Senza nemmeno un richiamo in prima. Una mezza pagina, a fronte di quella Bper-Sondrio. Informazione non è.
 
“Fu un errore avere atteso per dieci anni la caduta dell’Urss: i comunisti per primi sapevano che era finita”. Nel personale revisionismo intrapreso per onestà su tutti i fronti Luciano Violante non si nasconde questa verità. Si, ma continua la santificazione di Berlinguer. Che odiava, non c’è altra parola, e combatteva i socialisti, i radicali e ogni altro soffio di sinistra che non fosse del partito. Che era e restò “sovietico”.
 
 

Duse senza Duse

Abbiamo avuto “Maria”, sugli ultimi momenti, non onorevoli, di Maria Callas, abbiamo “Duse” sugli ultimi anni, impervi, di Eleonora Duse. C’è un genere, di donne eccezionali, al tramonto? Per una sorta di ginecofobia gay? Perché è l’unica ragione che si trova a questa ricostruzione. Che a differenza di “Maria”, quasi rispettosa, è anche insistita e lunga. Mancando peraltro lo sviluppo più romanzesco dell’egotismo capriccioso della grande attrice: la monacazione della figlia e dei nipoti, i figli della figlia, abbandonata e ripresa a capriccio.  
Marcello ha il vezzo, già sperimentato nel “Martin Eden” che era tutto l’attore che lo impersonava (Marinelli), di ruotare le storie attorno a un personaggio. Ma Valeria Bruni Tedeschi, che pure regge il racconto, per due ore e mezza, non è Duse, è se stessa. E non nella forma migliore – ha una sola espressione, sia che rida sia che imprechi. E poi Duse non è un personaggio, è una persona storica, lo spettatore, sia pure confusamente, ne ha cognizione: era una, capricciosa e tutto, ma che sapeva recitare. Che era un personaggio perché catturava lo spettatore. In tutta Europa e nelle Americhe, pur recitando unicamente in Italiano. Una sorta di prodigio se, famosamente, Cechov ne scriveva alla sorella in questi termini: “Ho proprio ora visto l’attrice italiana Duse in Cleopatra di Shakespeare (“Antonio e Cleopatra”, n.d.r.). Non conosco l’italiano, ma lei ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”.
È una grande produzione. E quindi molto ricca di ambientazioni, soprattutto di interni. Che, questi sì, fanno storia. Molti i personaggi di contorno, e quindi di curiosità – anche se alla storia non aggiungono e non tolgono: D’Annunzio naturalmente (con molto Giordano Bruno Guerri in qualità di “attendente di d’Annunzio”), e i grandi del teatro, Sarah Bernhardt, Memo Benassi, Ermete Zacconi, c’è perfino Matilde Serao. E perché non Boito, l’amante di letto (e riduttore di Shakespeare, l’“Antonio e Cleopatra” con cui Duse aveva incantato Cechov) – nel 1918, quando moriva, rientrava a pieno nella vicenda? O la sanguigna Sibilla Aleramo, l’eterea Isadora Duncan?  
Ma nel vortice di una dissoluzione che non è dissoluta - non sfonda, non appassiona. Con qualche svagatezza. Si mette in scena Sarah Bernhardt, la Berma, o Haras, della epopea ottocentesca di Proust, per rimproverare nel dopoguerra a Eleonora Duse un teatro vecchio, non al passo coi tempi, ma Bernhardt aveva una quindicina di anni più di Duse, era amputata di una gamba, e malata di uremia - di cui moriva anche lei presto, ai primi del 1923.  
Il solo dei tanti “tagli” della vicenda tentati in sceneggiatura che si ricorderà è l’uso dei reperti visivi d’epoca della Grande Guerra, filmini e fotografie. Del lungo funerale ferroviario del Milite Ignoto da Aquileia a Roma dopo la guerra, e di foto dal fronte
 durante. Queste (poche) immagini non c’entrano con “Duse”, sono intervallate a caso, ma fanno da sole un’altra narrazione della Grande Guerra patriottica. La posa di una compagnia di fanti, un centinaio di soldati, con la baionetta tra i denti fa ancora rizzare la pelle.

Pietro Marcello, Duse

venerdì 19 settembre 2025

L’Europa non esiste – 2

Si va verso il voto Onu sullo Stato di Palestina quando la Palestina non esiste più, nemmeno geograficamente – Gerusalemme, Gaza, la Cisgiordania. Un esercizio di ipocrisia, e di impotenza. Dell’Europa che lo promuove - con Italia e Germania che si astengono per essere stati due paesi persecutori degli ebrei: l’Europa è tutta un’eredità, non più attiva.
È la coda del “secolo breve”, ma di morte lenta. Avviato con i trattati di pace del 1919-1920, a Versailles (Germania), Saint Germain-en-Laye (Austria), Trianon (Ungheria), Sévres-Losanna (Turchia). La dissoluzione dell’Europa viene con la dissoluzione dei suoi imperi continentali? Si, se la si fa partire correttamente, cioè dalla Grande Guerra e dai trattati che la conclusero. Che hanno aperto al via all’imbarbarimento invece che alla democrazia e al progresso, anche economico (economicamente il Vecchio Continente vive di rendita, finché dura, con modeste percentuali, lo zero virgola).
Il Mediterraneo ancora non si assesta, dopo il dissolvimento dell’impero ottomano: Libia, Palestina, Siria, Iraq, e anche Libano, Giordania e la stessa Algeria, con Jihad e Stati islamici, sono sempre l’“arco delle tempeste”. In Europa, negli anni subito dopo i trattati, una ventina di paesi erano dittatoriali, negli anni 1930 una trentina. E bellicosi. La Germania non solo, e l’Italia, ma i Baltici, la Finlandia, la Polonia specialmente, contro Ucraina, Russia e Germania – la Polonia smargiassa che nel 1939 sarà in tre giorni una prateria per Hitler, così come l’invincibile esercito francese (la stessa Polonia
 che ora,  in pace con l’Ucraina, speriamo, ha inaugurato il secondo dopoguerra con la cacciata di otto milioni di tedeschi e l’annessione di territori che della Germania avevano fatto la storia).

Alla dissoluzione di Versailles si è aggiunta da trentacinque anni quella dell’ultimo impero europeo continentale, quello russo. Con molte indipendenze che hanno generato altri conflitti etnici, nazionalistici, di “appartenenza”. Tra gli slavi del Sud in Jugoslavia. E degli Stati Baltici, l’Ucraina, la Moldavia, la Georgia e la Finlandia contro i russi – e dei russi contro la Georgia, la Moldavia e l’Ucraina. 
La storia ora si ripete. Con governi di destra in serie, benché non dittatoriali – vigilando gli Stati Uniti. Ma sempre scombinati e litigiosi. Nella ex Jugoslavia. Per l’Albania (?) contro la Serbia. Di Polonia e Ucraina, sotto sotto, contro la Bielorussia. Tra Ungheria e Romania, irrimediabile. Tra Romania e Moldavia – con la Transnistria. Ora facciamo la guerra alla Russia. Dopo avere spinto l’Ucraina a provare a cacciare qualche milione di russi che ci stavano da secoli, promettendo il paradiso nella Ue e nella Nato, e locupletando le manifestazioni “spontanee” russofobe – appoggiandosi ai neonazisti, gli ucraini che lavoravano per Hitler (questo si trascura).
L’Europa non solo non c’è perché ha abbandonato il disegno  federalista, come non si stanca di predicare Draghi: è un’accozzaglia di piccoli staterelli, tutti presuntuosi. E, nonché in mutande di fronte al passato, presume di sé. Come se il mondo fosse fatto di scemi. 

Una Europa che si è fermata agli imperi. E non abbiamo detto di quelli coloniali, per i quali ha fatto guerre ancora negli anni 1950 e 1960.

  

La forza della democrazia fa un bel vedere

Il tema è insidioso: i “desaparecidos”, invenzione latinoamericana, sostenuta dagli Stati Uniti, di fare semplicemente sparire negli anni 1970-1980 gli oppositori politici, anche se solo presunti, tutti “comunisti”, senza accuse, senza giudizi, senza condanne, per “salvare la democrazia”. Una delle tante derive che hanno minato l’Occidente. Inevitabile, si teme, il solito film di denuncia. Salles non lo fa. La denuncia è implicita, e più nella stoltezza dei protagonisti (i cattivi sono scemi più che violenti). Nonché nella superficialità degli intellettuali che fanno la fronda al regime, pur temendo il terrorismo – tra aperitivi, pranzi, cene, in grandi sale da pranzo o in terrazze sul mare.
Il “desaparecido” della vicenda, una storia vera, Rubens Paiva, ingegnere, deputato, è uno di questi. È simpatico caciarone e ottimo padre, ha una bella casa a Copacabana fronte mare, e una grande sta provando a costruirsi in un quartiere alto. Fa una vita bella finché non viene invitato in caserma, dove si reca da solo, con la sua macchina, e lì scompare.
La storia sarà della moglie e madre, Eunice Facciolla, che per due ore e mezza tiene incollati allo schermo con la sua verve inesauribile, anche quando viene convocata lei stessa, e passa alcune notti chiusa al buio, sempre in caserma. Di come si organizza, anche finanziariamente. Come cambia stile di vita e città, passando per una stagione in casa anonima a San Paolo “dai nonni”, per poi tornare a Rio e al mare. Come alleva i cinque figli, riottosi, poco o nulla consapevoli di quanto accade nella scena pubblica. Compreso il maschio, Marcello, che diventerà scrittore e scriverà la storia che stiamo vedendo – ma da tempo tetraplegico per un incidente d’auto. E come per una vita insegue la verità sulla scomparsa del marito – riesce a ottenere, alla fine, un certificato di morte: i “desaparecidos” comportano anche questo, una serie inenarrabile di nodi legali.
Un film che volendo dire la forza della democrazia la dice indirettamente. Semplicemente col fare la storia privata, cancellando generali, benché golpisti, eserciti, polizie, torture, sevizie. Per l’interpretazione dura e sempre aperta di Fernanda Torres nel ruolo di Eunice Facciolla Paiva. Che le ha valso la maggior parte dei tanti premi (Mostra di Venezia, Oscar,
etc.) di cui il film è stato locupletato.  

Walter Salles, Io sono sempre qui, Sky Cinema 

giovedì 18 settembre 2025

L’Europa non esiste - 1

“Il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità stanno aumentando. E non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno”. Si può sostituire il presente al gerundio. Ma il senso di Draghi è chiaro di per sé: il modello di crescita non c’è, gli investimenti nemmeno. Invitato alla conferenza convocata da von der Leyen per fare il punto sull’attuazione dell’agenda da lui dettata un anno fa nel rapporto sul futuro dell’Unione, non fa cerimonie.
Per sopravvivere – sopravvivere, non moltiplicarsi – l’Unione deve agire “meno come una confederazione e più come una federazione”: deve poter decidere. Ma questo tema è tabù.
Mancano, e non sono possibili, aree che aumentino la produttività, l’innovazione dirompente, tecnologie su scala, ricerca e sviluppo per la difesa, per le reti energetiche, dove la spesa nazionale frammentata non può bastare”.  
Lo stesso giorno il Fondo Monetario pubblica una serie di studi sull’Italia, sul tema “debito elevato e bassa crescita dell’economia”. L’Italia ha bisogno di maggiore produttività e di più persone attive, che lavorino: “Sebbene l’economia sia stata relativamente resiliente, il Paese deve compensare un calo della popolazione in età lavorativa e una carenza di professionalità altamente qualificate….La crescita a lungo termine della terza economia più grande dell'Unione Europea è limitata dalla bassa produttività, dalla carenza di professionisti altamente qualificati e da una popolazione che invecchia e diminuisce”. E questo è vero anche dell’Europa.
L’Europa “non esiste” perché non decide. E questo limite viene da lontano. Dalla Grande Guerra, dai trattati che la conclusero.

Israele tradirà il popolo eletto - f.to Gandhi

“La mia simpatia è tutta per gli ebrei”, è la prima frase che Gandhi scrive. Ben conosciuti in Sud Africa. E apprezzati. Anche per le persecuzioni che hanno subito. Vittime, anche loro come gli “intoccabili” cui Gandhi si dedica (la parola è il titolo della rivista), di “sanzioni religiose”, quindi da avversare, per principio. Ma, aggiunge subito, “la mia simpatia non mi impedisce di vedere le esigenze della giustizia. Il grido di una patria nazionale per gli ebrei non mi attrae molto”. Il motivo? “La sua giustificazione è ricercata nella Bibbia e nella tenacia con cui gli ebrei hanno anelato al ritorno in Palestina”. Cioè facendo anche loro fanno ricorso alla religione, per motivi pratici, politici, che non è una buona ragione.
Gandhi individua quello che sarà il fulcro del sionismo, specie nella versione dei coloni e di Netanyahu: fare della Bibbia, libro profetico, un libro di storia, con archeologia e paleontologia (umana) connesse.
Nel 1938 David Ben Gurion, nato David Grün in Polonia, che dieci anni dopo avrebbe fondato Israele e ne sarebbe stato il primo primo ministro, chiedeva a Martin Buber, stimato filosofo e teologo, che Hitler quello stesso anno costringeva, con persecuzione individualizzata, a rifugiarsi in Palestina, d’impegnare figure morali di sua conoscenza a sostegno del sionismo. Buber scrisse anche a Gandhi, mandandogli il libro di Cecil Roth, “Il contributo ebraico alla civiltà”  - il racconto di ciò le lettere, le arti, la scienza, l’agricoltura, l’industria devono agli ebrei. Gandhi non risulta avere risposto alla sollecitazione di Buber. Ma l’11 novembre, a commento di una serie di proteste e attentati palestinesi contro la gestione britannica del mandato, pubblicò un editoriale sul tema - sulla sua rivista “Harijan”, il nome in uso allora in India per i “paria” o “intoccabili” (oggi chiamati dhalit harijan è “figli di Dio”), la cui liberazione era stata ed era ancora uno dei suoi tanti urgenti impegni politici. Per gli ebrei, contro il sionismo.  
Ma, poi, più che ai sionisti parla agli inglesi, i suoi nemici benché da pacifista, e ai francesi, alle potenze coloniali. Il foyer ebraico a cui si lavorava imputando alle politiche coloniali, non al sionismo: “La Palestina appartiene agli arabi nello stesso senso in cui l’Inghilterra appartiene agli inglesi o la Francia ai francesi. È sbagliato e disumano imporre gli ebrei agli arabi. Ciò che sta accadendo oggi in Palestina non può essere giustificato da alcun codice di condotta morale. I mandati non hanno altra sanzione se non quella dell’ultima guerra. Sarebbe sicuramente un crimine contro l’umanità ridurre gli orgogliosi arabi in modo che la Palestina possa essere restituita agli ebrei, in parte o interamente, come loro patria nazionale”.
E connette – molto politicamente - il sionismo alla questione ebraica in Europa, alle persecuzioni in Germania: “La via più nobile sarebbe insistere su un trattamento equo per gli ebrei, ovunque siano nati e cresciuti. Gli ebrei nati in Francia sono francesi esattamente nello stesso senso in cui sono francesi i cristiani nati in Francia. Se gli ebrei non hanno altra patria se non la Palestina, apprezzeranno l’idea di essere costretti a lasciare le altre parti del mondo in cui sono insediati? O desiderano una doppia patria dove poter rimanere a piacimento? Questo grido di patria nazionale offre una giustificazione plausibile per l’espulsione tedesca degli ebrei”.
Il finale è da pacifista: “Che gli ebrei che affermano di essere la razza eletta dimostrino il loro titolo scegliendo la via della non violenza per rivendicare la loro posizione sulla terra. Ogni paese è la loro casa, compresa la Palestina, non attraverso l’aggressione ma attraverso il servizio amorevole….Se lo desidera, l’ebreo può rifiutarsi di essere trattato come un reietto….. Può ottenere l’attenzione e il rispetto del mondo essendo la creatura eletta di Dio, invece di abbassarsi al rango di bruto abbandonato da Dio”. Aggiungendo alle tante benemerenze “il ​​contributo insuperabile dell’azione nonviolenta”.
Sono molte le riedizioni, più o meno ridotte, dell’articolo di Gandhi. Solitamente non ben ricevuto in Israele - da ultimo sul 
“Times of Israel”. Questo della biblioteca virtuale ebraica dovrebbe essere quello originale.  

Mohāndās Karamchand (Mahatma) Gāndhī, The Jews’, jewishvirtuallibrary.org, leggibile anche in italiano, “Gandhi e il sionismo: “Gli ebrei”)

mercoledì 17 settembre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (606)

Giuseppe Leuzzi


Il tropico di “Temptation Island”, che questa estate ha sbancato l’auditel, tra palme, spiagge, glutei,  e atre asperità, bene abbronzate, innamoramenti e disamoramenti, insomma “una favola”, del paradiso terrestre e del tentatore, si scopre essere stata ambientata a Guardavalle Marina. Una marina senza pretese sullo Jonio. Anzi anonima, per essere in Calabria: senza mafie, senza giudici, magari con la dignità, ma senza reddito apposito. 


Il “Corriere della sera” presenta la sua manifestazione annuale “Il tempo delle donne” con uno speciale. Una cinquantina di articoli, di donne – solo sei di maschi, quattro giornalisti, su temi marginali, uno psicologo, l’allenatore della nazionale femminile di calcio. E una sensazione di soffocamento, mai avendo vissuto, in nessuna situazione, nemmeno nel “profondo Sud”, anzi specialmente non nel Sud profondo, una tale separatezza di genere. È una tendenza, una moda, ma da incubo.
 
Si discute sempre del ruolo di Cavour nella spedizione dei Mille, e poi nell’annessione. Ma la cosa vedeva da un giusto pinto di vista, come nella lettera del 28 luglio 1860  all’amm. Persano, con la quela  “autorizzava” lo sbarco di Garibadi nel continente: “Son lieto della vittoria di Milazzo...Io la prego di porgere le mie sincere e calde congratulazioni al generale Garibaldi. Dopo si splendida vittoria, io non veggo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i napoletani compissero, o almeno iniziassero, l’opera rigeneratrice; ma poiché non vogliono o non possono muoversi, si lasci fare i Garibaldi”.
 
Aggirandosi trent’anni fa tra le “meraviglie” della Sicilia, Arbasino è turbato a Palermo dalla pochezza del tesoro dei re e le regine normanne. E si fa queste due ragioni: “Anche allora saranno stati incapaci di sorridere, in preda alle ansie, guardandosi tetri e truci intorno e alle spalle, in Comune e in Regione)? (E con ragione…). O sarà stata importata su una popolazione pazzerellona e giocosa, da certi Arabi Normanni particolarmente dark, questa angoscia luttuosa mai riscontrata al Cairo o a Deauville?” La “narrazione” di sé che il Sud si è lasciato imporre è la sua seconda pelle ormai – e lo ha reso pure antipatico.  
 
“Quell’asino di Garibaldi”
Engels, ripetutamente sollecitato da Marx, aveva celebrato i Mille sul “New York-Daily Tribune” del 22 giugno 1860 – con un lungo articolo, scritto presuntivamente due settimane prima: ,
Dopo una serie di informazioni, le più contraddittorie, riceviamo infine qualche notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. È, indubbiamente, una delle imprese militari più straordinarie del secolo, e sarebbe quasi inspiegabile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un trionfante generale rivoluzionario. Il successo di Garibaldi dimostra che le truppe regie di Napoli sono ancora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana di fronte ai battaglioni francesi, napoletani, e austriaci, e che la popolazione siciliana non ha perso la fede in lui, o nella causa nazionale.
Il 6 maggio, due battelli lasciano la costa di Genova con circa 1.400 uomini armati, organizzati in sette compagnie, ognuna delle quali, evidentemente, destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi fra gli insorti. L’8 sbarcano a Talamone, sulla costa toscana, e persuadono il comandante del forte là situato, con chissà quali argomenti, a fornire loro carbone, munizioni, e quattro pezzi di artiglieria da campo.
Il 10 entrano nel porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e sbarcano con tutto il loro materiale, nonostante l’arrivo di due navi da guerra napoletane, che non sono in grado al momento giusto di fermarli; la storia dell’interferenza britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa, ed è ora abbandonata anche dagli stessi napoletani. Il 12, la piccola banda aveva avanzato su Salemi, a diciotto miglia di distanza nell’entroterra, sulla strada di Palermo. Sembra che i capi del partito rivoluzionario abbiano incontrato Garibaldi, si siano consultati con lui, e abbiano raccolto rinforzi tra gli insorti, circa 4.000 uomini; mentre questi venivano organizzati, l’insurrezione, repressa ma non domata poche settimane prima, si rinfocolò di nuovo su tutte le montagne della Sicilia occidentale, e come fu dimostrato il 16, non senza effetto.
Il 15, Garibaldi con i suoi 1.400 volontari organizzati e i 4.000 contadini armati, avanza verso nord attraverso le colline, verso Calatafimi, dove la strada di campagna da Marsala si congiunge con la strada maestra che va da Trapani a Marsala. Le gole che conducono a Calatafimi, attraverso un contrafforte dell’alto monte Cerrara, chiamato monte del Pianto dei Romani, erano difese da tre battaglioni di truppe regie, con cavalleria e artiglieria, sotto il comando del gen. Landi. Garibaldi attaccò subito questa posizione, che in un primo tempo fu ostinatamente difesa; ma sebbene in questo attacco non avesse potuto impiegare contro i 3.000 o 3.500 napoletani niente più che i suoi volontari e una parte molto piccola di insorti siciliani, i regi furono successivamente scacciati da cinque forti posizioni, con la perdita di un cannone da montagna e numerosi morti e feriti. Le perdite dei garibaldini sono stimate da loro stessi in 18 morti e 128 feriti.
I napoletani dichiarano di aver conquistato una delle bandiere di Garibaldi in questo scontro, ma, avendo trovato essi una bandiera dimenticata a bordo di uno dei battelli abbandonati a Marsala, è possibile che abbiano esibito questa stessa bandiera a Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li costrinse ad abbandonare quella città la sera stessa. La lasciarono solo il mattino seguente, e dopo sembra che non abbiano opposto ulteriore resistenza a Garibaldi, finché non raggiunsero Palermo. La raggiunsero effettivamente, ma in un terribile stato di disgregazione e disordine.
La certezza di aver dovuto soccombere di fronte a semplici “filibustieri e ad una feccia armata” ricordava loro tutto d’un colpo la terribile immagine di quel Garibaldi, che, mentre difendeva Roma contro i francesi, poteva trovare ancora il tempo di marciare su Velletri e di far fare dietro front all’avanguardia dell’intero esercito napoletano; di colui che in seguito aveva conquistato sulle pendici delle Alpi guerrieri di una tempra di gran lunga superiore a quelli che produce Napoli. La precipitosa ritirata, senza neanche dar mostra di voler resistere ancora, deve aver ulteriormente accresciuto il loro scoraggiamento e la tendenza alla diserzione che già esisteva nei loro ranghi; e quando all’improvviso essi si trovarono circondati e bersagliati da quell’insurrezione che era stata preparata nell’incontro a Salemi, la loro compattezza fu completamente travolta; della brigata di Landi, rientrò a Palermo niente più che una calca disordinata e scoraggiata, in numero grandemente ridotto, in piccole bande successive.
Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno in cui Landi ne uscì – il 16; il 17 marciò su Alcamo (10 miglia); il 18 su Partinico (10 miglia) e oltrepassato questo luogo puntò su Palermo. Il 19, acquazzoni torrenziali impedirono alle truppe di avanzare.
Nel frattempo, Garibaldi aveva appurato che i napoletani stavano scavando trincee intorno a Palermo, e rinforzando i vecchi, cadenti bastioni della città dalla parte che si affaccia su Partinico. Essi potevano contare ancora su 22.000 uomini, e così rimanevano di gran lunga superiori a tutte le forze che egli avrebbe potuto opporre loro. Ma erano scoraggiati; la loro disciplina allentata; molti di loro cominciavano a pensare di passare alle fila degli insorti; mentre era risaputo, sia tra i loro soldati che tra i nemici, che i loro generali erano degli imbecilli.
Le sole truppe degne di affidamento tra loro erano i due battaglioni stranieri. Stando così le cose, Garibaldi non avrebbe potuto rischiare un attacco frontale diretto sulla città, mentre i napoletani non potevano intraprendere niente di decisivo contro di lui, ammesso che le loro truppe ne fossero in grado, dato che essi devono sempre lasciare una forte guarnigione in città e non allontanarsi mai troppo da essa. Con un generale di stampo comune al posto di Garibaldi, questo stato di cose avrebbe condotto a una serie di azioni sconnesse e non risolutive, in cui egli avrebbe potuto addestrare una parte delle sue reclute nell’arte militare, ma in cui anche le truppe regie avrebbero potuto recuperare molto in fretta buona parte della perduta fiducia e disciplina, poiché non avrebbero potuto non riportare qualche successo in alcune di queste azioni.
Ma una guerra di questo tipo non sarebbe convenuta né ad un’insurrezione, né a un Garibaldi. Un’audace offensiva era l’unico sistema di tattica permesso in una rivoluzione; un successo straordinario, come quello della liberazione di Palermo, divenne una necessità non appena gli insorti furono giunti in vista della città.
Ma come attuare tutto ciò? Fu qui che Garibaldi dimostrò brillantemente di essere un generale adatto non solo alla semplice guerra partigiana, ma anche a operazioni più importanti.
Il 20 e i giorni successivi, Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani e le posizioni nelle vicinanze di Monreale e Parco, sulla strada che porta a Palermo da Trapani e Corleone, facendo credere così al nemico che il suo attacco si sarebbe attuato soprattutto contro il lato sud-ovest della città, e che qui fosse concentrata la parte più consistente delle sue forze. Con un’abile combinazione di attacchi e finte ritirate, indusse il generale napoletano a far uscire un numero sempre più grande di truppe dalla città in questa direzione, finché il 24 circa 10.000 napoletani apparvero fuori dalla città, verso Parco.
Era quello che Garibaldi voleva. Egli li impegnò subito con una parte delle sue forze, indietreggiò lentamente davanti a loro in modo da spingerli sempre più lontano fuori dalla città, e quando li ebbe attirati a Piana(1), al di là della principale catena di colline che taglia la Sicilia e qui divide la Conca d’oro (così è chiamata la valle di Palermo) dalla valle di Corleone, egli gettò improvvisamente il grosso delle sue truppe sull’altra parte della stessa catena, nella valle di Misilmeri, che si apre sul mare, vicino a Palermo.
Il 25 egli fissò il quartier generale a Misilmeri, a otto miglia dalla capitale. Non siamo informati su ciò che fece dopo con i suoi 10.000 uomini disseminati lungo la sola strada dissestata che c’è sulle montagne, ma possiamo esser certi che egli li tenne ben occupati con alcune nuove indiscusse vittorie, in modo da impedire che ritornassero troppo presto a Palermo.
Avendo così ridotto i difensori della città quasi della metà, e trasferito la sua linea d’attacco dalla strada di Trapani alla strada di Catania, egli poteva procedere al grande attacco. Se l’insurrezione in città abbia preceduto l’assalto di Garibaldi, o se sia divampata al suo presentarsi alle porte della città, non risulta chiaro dai dispacci contraddittori; ma certo è che la mattina del 27, tutta Palermo insorse armata e Garibaldi si scagliò su Porta Termini, al lato sud-est della città, dove nessun napoletano lo attendeva. Il resto si sa: il graduale abbandono della città da parte delle truppe, ad eccezione delle batterie, della cittadella e del palazzo reale; i bombardamenti che seguirono, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora particolari dettagliati di tutte queste azioni; ma i fatti principali sono sufficientemente definiti.
Nel frattempo, dobbiamo dire che le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco su Palermo lo definiscono subito un generale di prim’ordine. Finora noi lo conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato; anche nell’assedio di Roma il suo modo di difendere la città con continue sortite difficilmente gli poteva dare l’occasione di sollevarsi sopra quel livello. Ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da questa prova da maestro provetto nella sua arte. Il modo di indurre il comandante napoletano nell’errore di mandare metà delle truppe fuori tiro, l’improvvisa marcia laterale e per riapparire davanti a Palermo, dalla parte dove era meno atteso, e l’energico attacco quando la guarnigione era indebolita, sono operazioni che portano il marchio del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento verificatosi durante la guerra italiana del 1859.
L’insurrezione siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che il Garibaldi uomo politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta la gloria del generale”.
 
Garibaldi dunque “un generale di prim’ordine”, che si merita “intatta la gloria”. Ma presto, poche settimane o giorni, Garibaldi perse la stima di Marx e di Engels, per essersi piegato al Piemonte. La corrispondenza è piena di giudizi spregiativi. L'entusiasmo era sbollito presto: dal 5 ottobre al 27 febbraio 1861 nessun accenno agli avvenimenti “napoletani” nella corrispondenza fra i due. Il 27 febbraio 1861 un primo giudizio negativo su Garibaldi. Scrivendo a Engels a proposito di Appiano, lo storico romano di Alessandria, della sua “Storia romana”, Marx scrive a Engels: “Spartaco vi figura come il tipo più in gamba che ci sia posto sotto gli occhi da tutta la storia antica. Grande generale, non un Garibaldi, carattere nobile, realmente rappresentante dell’antico proletariato”. Il 10 giugno, sempre a Engels, Marx scriveva sprezzante: “Cavour è morto? Che ne pensi? Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo...”. Il 28 settembre si ricredeva anche sulle capacità militari di Garibaldi: “Oswald dice che Garibaldi è essenzialmente un capo di guerriglia, che con un grande esercito e su un vasto territorio non saprebbe cavarsela. I suoi consiglieri strategici sono Cosenz (ex ufficiale borbonico, n.d.r.) e Medici”. 11 19 aprile 1864, sempre a Engels: “L’Associazione operaia voleva, istigata da Weber, che io facessi un indirizzo a Garibaldi e poi mi recassi da lui con la deputazione. Rifiutai decisamente”. E continuava: “Che miserabile questo Garibaldi, intendo dire tipo di somaro...”. Per concludere: “Vorrei essere piuttosto una zecca nel vello di una pecora che una tal valorosa scioccheria...”. Engels rispondeva il 29, a proposito di Garibaldi: “…Sono cose che è inutile spiegare a chi non conosce il carattere totalmente borghese di questo signore”.
Tre settimane prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, il loro giudizio su Garibaldi si era fatto sprezzante: “Quell’asino di Garibaldi si è reso ridicolo con la lettera sulla concordia ai Yankees!”. L’allusione è a una lettera con cui Garibaldi rifiutava la proposta del presidente americano Lincoln di assumere un posto di comando nell’esercito nordista, all’inizio della guerra civile negli Stati Uniti.
Garibaldi ne condivideva i timori, che sotto la pressione militare da parte di Cavour avrebbe redatto e anche pubblicato, il 5 ottobre, un manifesto di critica dell’annessione (di sicuro, il 9 ottobre decretava il plebiscito): “Spieghiamoci chiaramente, noi abbiamo bisogno di un’Italia unita, e di vedere tutte le sue parti aggruppate in una sola nazione, senza restar traccia di municipalismo. Noi non possiamo consentire che mediante parziali, e successive, annessioni l’Italia sia a poco a poco inviluppata nel municipalismo legislativo ed amministrativo del Piemonte. Che il Piemonte diventi adunque italiano, come han fatto Sicilia e Napoli, ma che l’Italia non divenga piemontese. Vogliamo noi stessi riunirci alle altre parti d’Italia, che si uniranno parimenti a noi con uguaglianza e dignità. Non debbono adunque imporci le leggi e i codici, che sono ora specialmente propri del Piemonte. Le popolazioni che col sangue han fatto trionfare un’idea non sono simili a’ paesi conquistati, ed hanno il diritto a crearsi i loro codici e le loro leggi…Così pensa, e deve pensare per la salute d’Italia chiunque è italiano».
 
Cronache della differenza: Sicilia
Nel racconto “Il lungo viaggio” (della raccolta “Il mare colore del vino”) Sciascia vede Messina, dalla traghetto, “alla luce del primo mattino…sfolgorante del primo sole…candida, nitida”. Oggi non si vede: la vecchia città attorno al porto naturale, a forma di falce (Zancle, l’antico nome della città), è abbandonata, i messinesi si sono rifatti casa, anche su molti piani (più è alta meglio si vede lo Stretto), incuranti della sismicità, sui costoni verso Ganzirri-Capo Faro.
 
La distinzione di Camilleri, fra i “siciliani di scoglio” e i “siciliani di mare aperto”, è usata da un’attrice che partecipa al documentario “Camilleri 100” come riferita ai catanesi e ai palermitani. Questi sarebbero propensi all’avventura, anche in terraferma, purché lontani da Palermo. Mentre i catanesi, come lei si dice con orgoglio, sono “attaccati allo scoglio”. Comer dire i volubili e i costruttivi. Può darsi. Ma allora con i catanesi “attaccati allo scoglio” pur professando lontano: Bellini, Capuana, Verga, De Roberto, Brancati. Mentre i palermitani, che poi sono il solitario Lampedusa, pur volendosi sradicati, professavano a Palermo.
Ma la verità è che la Sicilia è puntiforme, rigogliosa ovunque. Ad Agrigento Pirandello e Camilleri, a Caltanissetta Sciascia,  a Messina D’Arrigo, Terranova, Gazzola, a Siracusa Vittorini, a Comiso Bufalino.
 
Tanto fiele del pur notorio antipatizzante Stella, il meridionalista del “Corriere della sera” che non viaggia ma scrive (in genere una pagina) di dettagli, “cose viste”, a naso, merita una rivisitazione:
https://www.corriere.it/cronache/25_agosto_03/agrigento-il-grande-spreco-pubblico-della-capitale-della-cultura-12-milioni-e-pochi-turisti-2c4db725-f52f-402d-80a0-9e0186d4cxlk.shtml
Ha stringer locali, collaboratori volenterosi con l’offa di un’assunzione? O è perché Agrigento ha fatto la guida all’anno della cultura, greve di molta pubblicità, con “la Repubblica” invece che con il 
“Corriere della sera”? Bisogna pensarle tutte, tanto disprezzo deve avere un motivo.

 
Stella è da leggere, irraccontabile tanto è squallido. Di protervia leghista - il lessico lo è. Ma alimentata da informatori locali. Il “tragediatore” è figura ben sicula. Accoppiato all’“odio-di-sé”, ma non necessariamente. Oggi “de sinistra”, ma solo felice che uno del Nord lo stia a sentire, e anzi lo trascriva, seppure non citandolo.
 
Il centenario di Camilleri si celebra non a Porto Empedocle, e nemmeno ad Agrigento: si celebra sull’Amiata, dove Camilleri villeggiava, tra Arcidosso e Santa Fiora. Ad Arcidosso Camilleri è andato per qualche estate con alcuni familiari. Ma l’Amiata sé è affrettato a farne un luogo del cuore.
 

“Si facevano mostre di Antonello a Messina, nel 1953”, scopre Arbasino, insieme con tutta l’isola, nel 1995. E giusto per la memoria di Berenson, delle note di viaggio che Berenson ne scrisse nello stesso anno, dopo una sorta di “pellegrinaggio d’argento”, in ricordo della prima visita mezzo secolo prima. “E pensare che Berenson venne qui per una mostra di Antonello”, si meraviglia l’Anonimo Lombardo. Vero, e le mattine dei feriali alla mostra ci andavano le scuole.
 
Si faceva anche collezionismo nell’isola. Arbasino lo ricorda incidentalmente, in mezza riga. Ma Ruffo della Scaletta nel Seicento figurava il maggiore collezionista in Europa, da Messina, dove si era sposato (di famiglia era calabrese) e risiedeva. Committente tra i tanti di Rembrandt e di Artemisia Gentileschi - di cui fu “protettore” (finanziatore) in vecchiaia. Ad Arbasino è sfuggito che il suo idolo Robero Longhi ne aveva già fatto repertorio ed elogio in uno dei suoi primi lavori.
 
Scoprendo la Sicilia nel 1995, ai suoi, di Arbasino, 65 anni, a proposito del paesaggio, se quelli di Antonello sono veri, come potevano essere veri quelli dei coevi toscani, lo scrittore che fu grande viaggiatore fa anche una constatazione: “Oggi infatti il paesaggio siciliano è quasi illeggibile ricoperto da impalcature e cantieri, baracche e bancarelle, macchine e motorini che si affollano in posti stretti, e immondizie che rivestono i panortami e la natura e le coste”. Che probabilmente è, o era, vero. Ma è strano come la Sicilia richiama la vocazione didattica, soprattutto dei diffidenti, o degli antipatizanti.
 
“Come si mangia bene in tutti i ristoranti di Ortigia” è l’unico commento positivo di Arbasino nell’isola. Non è niente ed è molto: Siracusa emergeva da una lunga stagione di inabissamento, muta, polverosa. A svegliarla, partendo da Ortigia, dai restauri pubblici e privati, era bastato l’assessorato, per quanto breve,  di Sandro Musco, intelligente ed efficace, come tutto di questo professore dimenticato – il più costruttivo power broker che l’isola abbia avuto (“nato” con Nicolosi e poi sopravvissuto – all’inevitabile assassinio giudiziario).

leuzzi@antiit.eu

Calvino architettto – scrittore infelice

“Spesso quest’uomo di straordinaria intelligenza ha dichiarato che nel disegno, nella tavola fatta di segni grafici, c’era per lui una risorsa di felicità che gli era impossibile trovare nella scrittura”. Da qui, da questa constatazione, una rilettura di Calvino, che pure ha scritto tutta la vita – immenso anche l’epistolario, che si fatica a riorganizzare. Per di più, era scrittore esigente, curato: “Allora la ricerca della parola giusta, perfetta”, si chiede Voltolini stesso, “del giro di frase elegantissimo e asciutto, come andranno interpretati?” Che la scrittura, come tutto, non può arrivare alla perfezione? No, si dice Voltolini, “Calvino secondo me ci è arrivato più di una volta”, alla perfezione. No, il punto è un altro: “Il punto è la felicità negata, non la perfezione tecnica”.
Le felicità è negata dalla scrittura proprio come modalità espressiva: “Forse non è la perfezione semrpe ricercata ma irraggiungibile che caratterizza la scrittura, bensì l’infelicità espressiva che ne è l’essenza, rispetto alla comunicazione visiva”. Limitata, arzigogolata, e quindi infelice. In sè, e anche per l’autore?
Ma, forse, più che pittore, Calvino non volle essere architetto - così voluttuosamente preciso in tema di mappe e di prospetti, --  di ambienti, di città e anche di mondi, nonché della storia?
Uno dei tanti saggi, brevi, annotazioni più che disamine, che Voltolini ha redatto in quaranta o più anni di recensioni e critiche, ora raccolte nel volume “Su”.
Dario Voltolini, Italo Calvino era infelice di scrivere, fruibile online su smartphone

martedì 16 settembre 2025

Cronache dell’altro mondo – o della “filosofia del rotto” (360)

Il prototipo del meccanismo di aggancio e ormeggio del Dragon, della capsula Crew Dragon, il veicolo spaziale riutilizzabile sviluppato e prodotto da SpaceX, il vettore orbitale del gruppo di Elon Musk, è stato realizzato con ammortizzatori per mountain bike riadattati. È la novità del nuovo libro di Christian Davenport, giornalista del “Washington Post” specialista dell’industria spaziale, già autore di “The Space Barons”, Musk e Bezos - “Rocket Dreams: Musk, Bezos and the Inside Story of the New, Trillion-Dollar Space Race”: “Il prototipo era così rudimentale che sembra assemblato da un hobbysta nel garage con pezzi sparsi – perché così in effetti era stato costruito”.
Una storia che richiama, a un secolo dalla sua elaborazione, nella nazione più tecnologica, in America, la “filosofia del rotto” che Alfred Sohn-Rethel ha coniato a metà degli anni 1920 per Napoli”: “I congegni tecnici a Napoli sono quasi sempre rotti….. Ma per il napoletano il funzionamento comincia proprio e soltanto quando qualcosa si rompe
”.

Se la colpa è del giurato

Il giurato numero 2 è un ragazzo affettuoso, premuroso, che con la giovanissima moglie prepara la nascita della primogenita, a un anno da un duplice aborto spontaneo. Sorteggiato, prova a far valere gli impegni domestici, ma la giudice gli assicura che avrà tutto il tempo libero che vuole. Il suo problma vera sarà che presto scopre che il vero assassino del delitto che si giudica è stato lui. Involontario, in stato confusionale dopo l’aborto, un po’ brillo, ma ha agito da pirata della strada. E la condanna del reo presunto, quello che la Procuratrice ritiene il colepovole, cui pure prova a opporsi a lungo, non lo assolverà. La verità bussa alla sua porta.
Un aneddoto ingegnoso. Ma non tiene l’ora e mezza di discussioni, che sappiamo vane, tra i giurati, per quanto caratterizzati. Il film si segue solo come testimonianza della forza del pluriOscar regista  95nne.
Clint Eastwood, Giurato numero 2, Sky Cinema

lunedì 15 settembre 2025

Secondi pensieri (568)

zeulig


Cicli –Si (ris)scopre (periodicamente) l’oblio, la compassione, la socievolezza, l’amicizia, l’ambiente, la fede, etc., tutte le cose che il mondo psicoanalitico non considera(va) o cela(va).
Col cervello inventivo, anche senza il sogno, o il rimosso (la smemoratezza) – senza cioè un reagente esterno.
Per un insopprimibile ritmo ciclico dell’esistenza – storia? O della conoscenza.
 
Dio donna - Dio è donna lo sostiene Blixen, oltre agli gnostici: “Capiremmo la natura e le leggi del Cosmo se riconoscessimo il suo creatore e padrone essere di sesso femminile”. Ci spiegheremmo il mondo di sangue e lacrime se dicessimo la Provvidenza una pastora e non un pastore: le lacrime sono per la donna perle preziose, il sangue la ragazza lo versa per divenire vergine, la vergine per diventare sposa, la sposa per diventare madre - “La relazione fra il mondo e il Creatore è per la donna una storia d’amore. E in una storia d’amore la ricerca e il dubbio sono assurdità”.

Evoluzione – La vita fa molteplice, mentre poi è solo una – quella del cane non è quella del gatto. Quella umana per esempio, che si studia di adattarla o riadattarla, ricucirla, svelenirla, ma non modificarla, non si può. Quella umana come di ogni altra specie – un goldendoodle o un labradoodle non è diverso da un qualsiasi meticcio umano, un incrocio fra due esseri della stessa specie.
Più che un percorso di adattamento del “migliore” – una sorta di esercizio, o prova, ci chi e che cosa meglio si adatta all’ambiente – è un dio che gioca a dadi. Che trova cioè realtà – processi, qualità – che non aveva programmato e nemmeno immaginato. Un percorso casuale, non del più adatto o del migliore, nei particolari e nella sostanza. Tanto più se è vero, come è vero, che c’erano un tempo tante specie umane (cinque?). Che però, evidentemente, non erano destinate a durare – o non hanno saputo farlo – mentre quella che oggi viviamo, detta col sesso di poi posteriori homo sapiens, ha potuto o saputo.
La Natura, ordinata, viene dopo. Prima, nel disordine, nel processo del divenire, è disordinata – il caos. Un miscuglio non ben combinato di elementi naturali – forze, corpi, anticorpi, clima, aridità, umidità. 

La combinazione salvifica viene dopo, sempre casuale, non “ordinata”, a un’autorità, un principio, una “legge”. La causa è sempre un insieme di cause.

La “selezione naturale” è un bisticcio linguistico, dato che \invece è del tutto casuale. Imprevedibile è la vita come imprevedibile è l’intelligenza – della vita come di ogni altro cosa. Nel lungoperiodo ma anche nel breve e brevissimo.


Storia - La cancel culture che voleva abolirla è la prima innovazione americana decidua, già prima della reazione trumpiana, o MAGA. La critical race theory non è morta, ma stenta, anch’essa  semplificata - puntata sul razzismo, si scontra con l’inevitabile: il razzismo non è tutta la storia.
La storia non è razzista, al contrario. Si è sempre difesa dal ritornante invadente tribalismo, che pure deve averla avviata.


La storia è segnata dall’eternità, da percorsi a noi esterni e ignoti – Nietzsche insomma: “Ogni desiderio anela all’eternità”, eccetera.


Verità È specialmente affossata dalla narrazione, che è la comunicazione – riflessione, pensiero, scrittura – del tempo. Per di più, prevalentemente, nella forma della confessione o memoir. Per il peso assunto nella vita mentale dalla psicoanalisi, il racconto della vita. Qui, però, con un curioso sdoppiamento: la verità concussa (ovviamente concussa, se sottoposta a terapia) nel nome della verità.

zeulig@antiit.eu

Jolie alla Sergio Leone

Si comincia con “Trinità”, si continua con (un po’ di) “C’era una vota l’America” – sergioleonniano  anche il dècor, da produzione a basso costo: il paesaggio remoto è in Basilicata. Tre o quatro scene in tutto, il resto è tutto in interni. E poi purtroppo, per un’ora, si continua con un colloquio interminabile a due, tra la vittima, una bambina sfuggita al massacro ora cresciuta, Selma Hayek, e il ragazzo della posse di assassini rivoluzionari, che l’ha salvata.
L’ex ragazzo, ora quasi vecchio, Dmiàan Bichir, è l’unico sopravvissuto della posse assassina, gli altri sono stati uccisi, uno a uno. Ma lui non muore: alla fine della interminabile confessione-abiura è invitato a uscire e accompagnarsi alla vendicatrice. E qui il film finisce - almeno nella copia Sky, accorciata di una decina di minuti sui tempi della scheda (nel racconto su cui il film si basa, dice la scheda del libro, lei “invita uno stupito Tito in un albergo per fare l’amore, ritrovandosi ad assumere la stessa posizione rannicchiata che tanti anni prima l’aveva preservata dalla morte”).
Detto così, è un film da poco. Ma questo è un problema del racconto dallo stesso titolo su cui si basa, di Baricco. Che la regista ha ridotto e sceneggiato di suo – la produzione è italiana, a basso costo. Un racconto del 2002, col quale Baricco voleva fare tardivi conti col brigatismo, col delirio della “rivoluzione”. E li faceva anche male, spersonalizzando la storia tra persone e luoghi senza identità né personalità, una sorta di narrativa mondialistica - senza peraltro farne un racconto filosofico, sulla violenza rivoluzionaria. E invece Jolie supera questi handicap: i visi che ha scelto, i tempi, i colori, l’illuminazione, gli stessi dialoghi tengono su un racconto credibile.
A cinquant’anni, l’ex modella e diva sembra avere intrapreso una carriera alla Clint Eastwood, con all’attivo già una mezza dozzina di film da regista.
Angelina Jolie, Senza sangue, Sky Cinema, Now

domenica 14 settembre 2025

Problemi di base di logica - 881

spock


Assassinare Odifreddi sarebbe diverso?
 
In che senso?
 
Col silenziatore?


spock@antit.eu


Ombre - 791

H.14,31, traffico improvvisamente impazzito oggi a Roma: taxi che tagliano la strada, da destra e da sinistra, precedenze non rispettate, verdi anticipati. L’As Roma ha perso in casa, contro il Torino, 0-1. Immeritatamente, pare, ma non conta. Possibile che una città, grande, cosmopolita. comunque multiregionale, non abbia altro totem che il calcio, che l’As Roma?
 
Anna Foa, storica, anche dell’ebraismo, a ottant’anni deve rilevare che “la Corte Suprema di Israele ha denunciato la pratica di affamare i prigionieri palestinesi nelle carceri”, e che “ora l’opposizione al governo Netanyahu parla di genocidio”. Solo “manca un’organizzazione sistematica dello sterminio, presente invece nella Shoah, nel massacro degli armeni e forse nell’Holodomor ucraino. Ma ci sono segnali evidenti in direzione genocidaria”.
Più che “segnali” fatti: la “delocalizzazione” – deportazione – dei palestinesi residui, con le bombe a Gaza e i muri in Cisgiordania. Le bombe fanno male come il frustino dei kapò.  
 
Si fa molta filologia da tre giorni sull’assassino di Kirk, l’attivista di destra negli Usa. Si fa in Italia. Su chi è veramente. E su come è stato individuato – forse il padre, forse lo zio, forse le videoregistrazioni. Dettagliate, tortuose disamine delle varie versioni dei media americani. Come se fossero la voce della verità. Mentre non lo sono. Di programma. Come se l’America non fosse un altro mondo, la parte pubblica dell’America, media, giustizia, politica. Nel terzo millennio dobbiamo ancora scoprire l’America.
 
Alla mostra “Lex” a Roma, all’Ara Pacis, “Giustizia e diritto dall’Etruria a Roma”, alcuni reperti esposti risultano falsi. Esposti, sostiene la Procura, fraudolentemente, dal curatore e dal collezionista che ha fornito i reperti, per una sorta di autenticazione indiretta – per poterli poi vendere come autentici. Magari non è così – sono le vendette politiche che sole normalmente scuotono la Procura di Roma. Ma i falsi ci sono, alla mostra sulla legalità. Si vede che a Roma nasceva male, la madre del diritto.
 
L’ex presidente del Brasile Bolsonaro è condannato a 27 anni, per tentato colpo di Stato contro il presidente eletto Lula. Dalla prima sezione della Corte Suprema (Tsf, Tribunale supremo federale), così composta: Alexandre de Moraes (presidente), giurista e politico, “lulista” dichiarato, nemico dichiarato di Bolsonaro; Flávio Dino, già comunista, già ministro della Giustizia di Lula, 2018; Cármen Lúcia, avvocato, nominata al Tsf da Lula nel 2006; l’ex avvocato di Lula Cristiano Zanin; il giurista Luiz Fux, già presidente del Tsf, 2020-2022, gli anni della presidenza Bolsonaro.
Il Brasile è la terza democrazia più grande del mondo, e non per ridere. dopo India e Usa.
 
Si condanna in Brasile l’ex presidente Bolsonaro per colpo di Stato non senza un sospetto di teatro. Il presidente Moraes si è esibito in un’arringa di cinque ore. La giudice Lùcia ha votato la condanna con una memoria di 398 pagine. Il giudice Fux si è prodotto in un’arringa difensiva di dodici ore.
Si vuole il Brasile un paese spensierato, tutto ballerine, samba e lustrini. Mentre non lo è. Anche il suo teatro può esser e triste.
 
“The Atlantic”, periodico anti-Trump, commenta l’assassinio politico di Kirk, il terzo dopo la mezza strage dei Democratici del Minnesota (la deputata Melissa Hortman uccisa col marito, il senatore John Hoffman ferito gravemente con la moglie), e di quello fallito per millimetri dello steso Trump, addossandone la colpa a Trump. Al suo linguaggio, alle sue politiche. L’America si ritiene migliore in tutto, specie nella stampa.
Anche lo scrittore Jonathan Safran Foer dice che la colpa è di Trump.
 
Sono capricciose le tre giudici del “Tribunale dei ministri” del caso Almasri, che hanno lasciato fuori la capo gabinetto della Giustizia, Bartolozzi, per “affidarla” alla giustizia ordinaria. Lo spiega Stefano Ceccanti, professore di Diritto Pubblico, socialista, ex deputato Pd. Affermano che sono almeno quattro le volte in cui Bartolozzi avrebbe mentito, ma non la rinviano a giudizio. “Cercando di separarla dagli altri (i ministri, n.d.r.), dopo aver affermato la sua centralità, danno l’impressione di voler cerare un processo anomalo contro il governo, nella convinzione che per gli altri l’autorizzazione verrà negata”, l’autorizzazione parlamentare.
La giustizia dei furbi – delle furbe.
 
C’è ancora chi ricorda (con raccapriccio) D’Alema al finto vertice cinese degli anti-occidentali. Cazzullo lo difende sul “Corriere della sera”. Ma è tutto vero: “il fico” di Condoleeza Rice, e dei bombardamenti volenterosi dell’Italia sulla Serbia (l’Italia repubblicana ha fatto una guerra con lui, non dichiarata ma armata) e della sinistra mondiale, con Blair e Clinton, invitato a Pechino, allo show anti-Occidente, e lasciato solo. Ma è vero.
 
Giannelli, ex del Monte, sa naturalmente di che si tratta, e la conquista di Mediobanca inscena sul “Corriere della sera” con Meloni, borsetta e tracola e doppietta sottobraccio, a caccia nella “Riserva di Cuccia”, al seguito del fido Lovaglio. Ma ha fatto un errore: Meloni non è cacciatrice, è piuttosto la vera preda, e lo vedrà al voto – non sa nemmeno, non mostra di saperlo,  che cosa le hanno fatto, sotto il naso.
 
Meloni deve spendersi per un paio di giorni su giornali, telegiornali e social per giustificare una gita a New York con la figlia. Perché c’è l’obbligo di rispondere a un senatore Borghi amico di Renzi? Che dice scemenze, e sta in Parlamento da abusivo, senza avere voti? Si capisce che questo Borghi con Renzi si sbraccino contro Meloni. Ma un minimo d’intelligenza? Ci impongono Renzi contro Meloni….
 
“Il Risorgimento, fuori della retorica che l’ha reso insopportabile alle nuove generazioni, è stato un’epopea collettiva da rivalutare”, Alessandro Campi, presidente dell’Istituto per la Storia del Risorgimento. Di più è stato una rivoluzione, l’unica diffusa e conclusa secondo i presupposti dacché si parla di rivoluzioni, due secoli e mezzo ormai. Come tale fu percepita in tutta Europa, a  Londra, a Parigi, in Ungheria, in Polonia e il vasto mondo slavo, nella stessa Vienna imperiale.
 
L’Italia campione di “dumping fiscale”. Lo dice l’ex primo ministro francese, e quindi un nemico, e quindi non fa testo. Ma è vero: 3.600 ricchissimi (per ora) possono non pagare tasse sul reddito che accumulano. Sembra un sogno ma è la realtà.
Il premio glielo ha regalato un capo di governo di sinistra, Renzi, nella qualità di presidente del consiglio e di segretario del partito Democratico. Lo stesso che ogni giorno dà lezioni di moralità.
 
In Italia chiese deserte, soprattutto di sacerdoti – ogni parrocchia ne accoppia due e anche tre, ed è gestita sempre più da sacerdoti immigrati – una sorta di missionarismo di ritorno, rovesciato.
Nel mondo anglosassone, il più antagonista alla chiesa cattolica, invece si riempiono – lo rilevano straniti sia a New York che a Londra, “New York Times” e “Financial Times”. Di giovani, 18-34 anni. In Gran Bretagna stanno per eguagliare il numero degli anglicani, 31 per cento della popolazione i cattolici professi, 34 per cento gli anglicani.
 
Abbiamo Trump ovunque, ora anche sui gadget del calcio, sciarpe, distintivi, caps: quelli del Chelsea se ne adornano perché gli ha consegnato la coppa del Mondiale american per club. Non sarebbe l’ora d farsene una ragione – l’America se la fa?

Questo Di Gregorio è Eduardo

Il solito piccolo capolavoro di Di Gregorio – uno ogni due anni: un film misurato e vivace. Fatto di niente, le piccole cose. Qui del vecchio professore, che un servo-padrone fuori misura accudisce, il solito gigante dell’Est, a cui la figlia accorre dalla Germania, coi due figli, perché ha litigato col marito. Accessoria la storia di quest’ultimo, ben “tedesca” essendo il marito ripudiato tedesco: per farsi perdonare fa a piedi il viaggio da dove vive a Roma, 1.555 km.
Con la solita curiosità: Di Gregorio apprezzato dal pubblico benché snobbato dai critici. Mentre avrebbe di che, e questo film ne fa la rivelazione: è puro Eduardo. Semplice e complesso come Eduardo. Il fisico non soltanto, la maschera. I tempi sono teatrali, l’umorismo lieve, e “tagliente” insieme, col ghigno interrogativo - il “ci siamo intesi” eduardiano.
Gianni Di Gregorio, Come ti muovi, sbagli