skip to main |
skip to sidebar
Perché non la cancel culture del fascismo
La domanda non è
nuova e la risposta non c’è. Perché non ci può essere. Non tanto per i “monumenti”,
quanto per l’urbanistica, che l’autrice non considera, ma che nel ventennio, a
inziativa del regime o per maturazione di progetti precedenti, ha cambiato moto
degli assetti urbani – p.es., visibilissmo oggi, e “provvidenziale”, il
riassetto dei “borghi” vaticani.
Storica contemporaneista,
specialista di storia italiana, californiana con cattedra di Storia e Studi Italiani
alla New York University, Ruth Ben-Ghiat connette la “continuità” delle opere del
regime al neofascismo. Che risente specialmente acuto (“vivevo a Roma nel 1994
e venivo svegliata regolarmente da urla «Heil Hitler!» e «Viva il Duce» dal vicino
pub” – saranno stati “laziali”, che sfogano la rabbia di non vincere in campo?).
E la “continuità” addebita a Berlusconi: “L’Italia, il primo Stato fascista, ha
avuto un lungo rapporto con la politica di estrema destra”. Intende: l’Italia
repubblicana, che era stata il primo Stato fascista, ha avuto…. E continua: “Con
l’elezione di Berlusconi nel 1994 il Paese è diventato anche il primo a portare
un partito neo-fascista al potere”. Capovolgendo - ma non è la sola – il giudizio
storico sui leader democratici, di cui si misura l’abilità nei confronti dei
movimenti eversivi se e in quanto hanno saputo disinnescarli, portarli nell’alveo
costituzionale (es. classico Giolitti e i socialisti).
E ce n’è anche per
Matteo Renzi. “Nel 2014 il primo ministro di centro-sinistra (ma l’Italia non ha
un primo ministro, ha un presidente del consiglio (che non conta nulla giuridicamente,
costituzionalmente: può solo dimettersi, n.d.r.) annunciava la candidatura di Roma
all’Olimpiade 2024 dentro il complesso ora denominato Foro Italico stando davanti
all’«Apoteosi del fascismo», un affresco che fu coperto dagli Alleati nel 1944 perché
dipinge il Duce in figura divina”. Un affresco in effetti contestabile, anche
dal punto di vista estetico. Coperto a lungo da una tenda blu, poi da un panno verde,
fu fatto restaurare dal Coni di Mario Pescante dopo 53 anni, nel 1997 - su
sollecitazione del sovrintendente ai Beni Architettonici e Ambientali, l’arch. Francesco
Zurli.
Ma questo è un problema
marginale nella trattazione. La defascistizzazione la storica giustamente trova
limitata a quanto programmato dalla Commissione di Controllo Alleata, la quale (nel
1944, n. d.r.) “raccomandava che solo monumenti e decorazioni più dichiaratamente
fascisti e «inestetici», come i busti di Mussolini, fossero distrutti”. Sul resto,
specie le architetture di uso quotidiano, ministeri, palazzi di giustizia, palazzi
di civile abitazione, musei, cala il velo della disattenzione – sono luoghi
come altri.
Un articolo breve,
quasi una provocazione a un dibattito - che poi ha avuto luogo online, su altre piattaforme. Un aspetto la storica politica non considera
ed è quello delle estetiche, che, specie nelle arti figurative, proliferano in
Italia tra le due guerre. In architettura e, di più, nella pittura e in musica. Per
effetto della provocazione futurista. Con continuità nel dopoguerra, e sotto bandiere democratiche: i larghi affreschi di Sironi alla Sapienza avrebbero potuto
portare la firma di Guttuso. Oppure – è un altro aspetto che la storica non
considera nel breve articolo - che ne è della cancel culture, allora dominante? Allora nel 2017. Qualche anno luce fa. Il mondo va alle mode americane, ma poi le mode sono deperibili per definizione.
Frequentando quotidianamente i quartieri Monteverde Nuovo e Garbatella, uno si
meraviglia che le case popolari degli anni 1930 fossero, per quanto modeste, non fasciste, nel senso dello show off, migliori – costruzione,
ambientazione, orientamento, assetto urbanistico (piazze, marciapiedi, aiuole…) -
delle migliori residenze odierne.
Ruth Ben-Ghiat, Why
Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?, “The New Yorker”, 7
ottobre 2017
Nessun commento:
Posta un commento