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sabato 10 gennaio 2009

Problemi di base - 8

Perché la Repubblica non pianta alberi, e anzi li abbatte?

Perché c’è sempre qualcosa, se non c’è niente?

E come si fa a annegarsi nel niente, pensandolo?

Perché l’uomo è colpevole? Sì, il peccato originale, ma prima? Dov’era prima la colpa la Bibbia non lo sa.

Perché le donne non amano gli uomini? Gli uomini amano le donne, le donne non amano gli uomini.

Cos’è un compromesso? Come si esercita?

Com’è che c’era la luce al primo giorno, mentre il sole e le altre stelle vennero al quarto?

Quali sono i fini e quali gli effetti delle dita nel naso?

Quando esattamente si dannò il diavolo? È importante.

Letture - 4

letterautore

Arbasino - È il letterato più impegnato, per tutti i cinquant’anni di attività. Più di Pasolini, per dire. Nei viaggi e le scoperte. Nei racconti, nei romanzi, con i “Fratelli d’Italia” rifatto tre volte.
Spartisce il destino d’insoddisfazione dei profeti, anche se l’accostamento lo sorprenderà spiacevolmente: la passione soverchia in lui l’ironia, di molto, e la compassione. Ma è un turbamento condividibile, per quanto egli si voglia snob e solo. E la vertigine è in realtà comune, anche se non altrettanto acuta: quella di vivere tempi mediocri (mediocri? ma si vede, nella politica, ormai da troppo tempo, nella vita urbana, in società). Arbasino ha la hântise di Bouvard e Pécuchet, e tuttavia quella sindrome è comune agli intellettuali migliori, cioè sufficientemente colti e onesti – come Emma Bovary, anche le due messe maniche sono Flaubert.
È contenutista. Bizzarramente, fortemente ancorato alle cose, anche letterarie, e agli elenchi delle cose, cioè ai loro titoli, e quindi agli aspetti meno connotativi. Un instancabile repertoriatore. Per l’ansia di quale mancanza? È uno scrittore espressivo dello sguardo, il solo italiano che non nasconde di vedere tutto, anche l’ordinario e il basso, e i loro insapori linguaggi, per qua nto lutulenti. Ne propone gargantuesche degustazioni, della civiltà materiale e degli insapori linguaggi, mutuandone (mimandone) la mutevolezza, la ripetitività. Potrebbe essere Rabelais, ma c’è passione in lui, risentimento, sdegno, la pirotecnica è pensosa, lo sberleffo non lo appaga, e gioca contro. Né si è ancora capito cosa indigna Arbasino, e di più gli amici, o frequentatori, del medesimo, a volte sembrano i sassi che gli stessi sollevano.
Tutto pure vi è curato, preciso, completo. Ma è la memoria che alimenta i suoi elenchi, le stesse descrizioni, per la prepotenza della cultura. È memorialista: i racconti, “Fratelli d’Italia”, i libri politici, “Paesaggi italiani”. Ne ha la solitudine – nella socievolezza estrema, ostentata, e il disamore. Ma non la cattiveria. Arbasino è allora il memorialista che si rifiuta? Che vorrebbe ancora ballare ma non può, va a memoria. Oppure non quadra per non essere reazionario – il Grande Memorialista è per definizione misologo. Si sente anzi, in quella sua concitazione, caring. Da qui l’irresolutezza, lo spillare e germogliare continuo, talvolta perfino fastidiosamente interrogativo: per soffocamento da indignazione, o da incredulità (l'Incantato del presepio). Anche dove vorrebbe colpire, l’irenismo (la pavidità?) riemerge. E la frivolezza che mette avanti fiisce per ricoprirlo – Mario Luzi in Cina non ne ebbe buona impressione, al punto da scriverci un libretto contro.

Esclusi e marginali - Stare nel partito Comunista “rappresentava una garanzia di potere, sopratutto intellettuale”. Non è stato ipocrita Cesare Cases, interrogato per i suoi ottantanni da Antonio Gnoli su “Repubblica” (30 gennaio 2000). Studiava in Germania orientale nel 1956, “e assistetti a tutto”, dice: “L'ultima cosa che vidi come testimone fu la seduta del partito (Comunista) in cui si scomunicò Ernst Bloch”. Si poteva scomunicare un Ernst Bloch.
Cases rimase iscritto al partito Comunista fino al 1959, “poi ne uscii”. Ma non se ne allontanò. Non si può farne una colpa allo spiritoso Cases. Ma la fedeltà si nutriva di ostracismi. Alcuni:
Carlo Coccioli
Curzio Malaparte
Dino Buzzati
Mario Soldati
Salvatore Satta
Guido Morselli
Aldo Palazzeschi
Primo Levi, uno dei capisaldi del secondo Novecento
Giovanni Arpino
Carlo Cassola, che ne soffrì molto
Vitaliano Brancati
Paolo Monelli
Guido Piovene
Ercole Patti
perfino Landolfi
e lo stesso Arbasino.
Espunti dagli studi e le critiche, e dalle biblioteche, specie dalle comunali, dove si fanno il vero prestito e la lettura. Espunti o in castigo nei cataloghi e nellelibrerie. Grazie alle case editrici di Partito, di proprietà o in graziosa gestione, Milano sempre fiuta il vento, i critici di Partito, gli intellettuali. Perfino i classici e gli autori di lontano si valutavano, e si valutano, sulla base del centralismo democratico, le direttive del Capo: tutti insieme a esecrare Céline, oppure ad annetterselo, idem per Pound o Carl Schmitt, o Tasso, o Petrarca.
Poche le persone libere e non censurate, Debenedetti (che però non poté avere la cattedra, e fu precario per una vita), Contini (che però ha fatto tanti danni, dal Dante pietroso a Pasolini sopravvalutato).

Plurilinguismo – È sempre insidioso: gli accenti, le torniture, le cadenze, l’appropriatezza, il contesto. Anche quando l’uso si certifica filologicamente, come Pasolini usava – alla sua maniera, di maestro elementare con consulente di borgata. Eccetto che a fini sperimentali o parodistici, abbiamo una sola lingua. Che è quella della “Commedia” più che del “Canzoniere”: la lingua si vuole ardita e mobile.
La lingua va nel contesto del testo, essendo la cifra della esposizione. La lingua va nel contesto della lingua. Gadda, per esempio, quando fa parlare i milanesi. L’equivoco nasce con Manzoni, che i lombardi fa parlare toscano. Ma quella è un’operazione politica. Di alta, forse, politica. Con l’applicazione di uomo del dovere, se non di studioso.
La Svizzera mistilingue, a lungo obbligata a parlare le lingue degli altri, ne è subito uscita appena ha potuto adottare l’inglese come lingua comune. Il negoziante tedesco a Zurigo o a Davos non si obbliga a imparare l’italiano e il francese ma opta per l’inglese: la lingua è una cosa, la comunicazione un’altra.

Sciascia - È ottimo scrittore, persuasivo. Ma usa in maniera errata la chiave del “diverso”, del “noi e loro”, e più per la sua sensibilità politica e l’abilità retorica. Questo nei tre quarti della sua opera, quella dichiaratamente politica. Tutto è negativo nella visione che egli ha della sicilianità, e questo non è possibile. Fa eccezione per la vecchia mafia, il vecchio fascismo, e magari le vecchie zolfare, e questo è ancora peggio.
L’eccessiva dilatazione del conclamato pessimismo è confermata e conformata dalla chiave positiva che egli sempre usa per le realtà a confronto, Milano o Parigi o la Spagna. Contraddicendo la presunta caratterialità del pessimismo, e tanto più per il razionalismo residuale, al modo del Pascal della scommessa. È un colonizzato o un assimilato. Ottimo scrittore, ma uno che introietta gioiosamente la propria “dipendenza”, la rinuncia cioè al diverso, a una parte cospicua di se stesso.

Contestando Manlio Sgalambro, che aveva dato l’“addio” a Sciascia (“Corriere della sera” dell’11 febbraio 2005), Manuel Vàsquez Montalbàn dà la vera ragione del “difetto” di Sciascia, alla passione civile di aver dato un ruolo monopolistico, riducendola peraltro alla mafia (“la Sicilia come metafora”). “In un mondo in cui tutto cospira per farci accettare una verità unica”, scrive Vàsquez Montalbàn, “un mercato unico e un esercito unico, la copertura ideologica che si sta costruendo al servizio di questa congiura è fatta su misura per la capacità di analisi e di smascheramento di Leonardo Sciascia”. È invece il contrario: è parte di essa. Se non della congiura, del servizio della congiura.
La capacità di rifiuto si esclude nel momento in cui si combatte sul terreno dell’avversario, anche se non si aderisce alla sua ideologia, e per quanto vivacemente la si contrasti. Si dice no al pensiero unico, al mercato, all’economicismo, pensando, vivendo e proponendo una realtà altra. Altrimenti se ne è complici, per quanto critici, poiché si opera, o si pensa, all’interno del suo linguaggio, e quindi del suo sistema di giudizio. La mafia che diventa la Sicilia, e la Sicilia che diventa l’Italia e il mondo, sono parte integrante della cospirazione: hanno la funzione di demoralizzare chi (i più, la quasi totalità) ne è fuori e vive o vorrebbe vivere un’altra vita. Il monopolismo dell’antimafia fa parte della mafia, si reggono a vicenda.

Luigi Malerba insiste, sul “Corriere della sera” del 31 maggio 2005, che Sciascia ha fatto solo un piacere ai mafiosi, che lo leggeranno, dice, con diletto. Malerba sbaglia, i mafiosi non leggono, ma è Sciascia che gli ha dato questa idea – Malerba, parmigiano di Orvieto, può non sapere che la mafia è ignorante e anzi analfabeta. Ma è Sciascia l’Autore della Mafia, il suo creatore: questo vedere mafia dappertutto da una parte, e dall’altra la sua ipostatizzazione-intronizzazione, nei saggi più che nei racconti (dove invece la Sicilia è diversa, come è).

Sciascia ha una componente forte – nei saggi e anche nei romanzi – di teismo, o spiritualismo, esoterico. Non alla maniera dei fratelli Piccolo, che si può ridurre a mania senile o esoterica, di cui sorridere con divertimento, come faceva il loro cugino Giuseppe Tomasi, ma nel senso proprio, massonico. Si vede nella propensione a rivoltare la storia, al misterico, al complottistico, e finisce nella magnificazione della mafia – viene sovrapposta alla Sicilia come un macigno una manica di brutti ceffi - e in alcuni riferimenti simbolici. È un laicismo sterile, col culto ridicolo del “com’eravamo”, che è un passato più spesso abominevole.
Sterile è il laicismo nell’isola perché massonico: la chiave è sempre quel riempirsi la bocca della Riforma, che l’Italia non avrebbe fatto. È uno spiritualismo sterile ai fini pedagogici e democratici: inevitabile sconfina nella misantropia, che oggi denomina società civile, il disprezzo del volgo, e si chiude nel vecchio notabilato, che in regime democratico non è più produttivo. Ci sono in letteratura più Sicilie, quella della prima lirica italiana, quella del popolo di Guastella e Buttitta, quella di Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati, Verga e il primo Pirandello, e c’è quest’altra, che per essere “francese” e “rivoluzionaria” è – si potrebbe dire alla Sciascia - ineffettuale.

Casini sfida il Pd alle Europee

È sembrato un fuoco di paglia, un’apertura subito richiusa, quella di Casini ai popolari scontenti del Pd, o viceversa. E invece no, è stato, è, un tattico assaggio delle posizioni relative. Il leader dell’Udc, rinfrancato dai molti messagi che gli sono giunti ultimamente dall’interno del Pd, ha solo finto l’apertura delle sue liste agli ex popolari, e lo schieramento dell’Udc nella sinistra, seppure moderata. No, Casini ha solo sfruttato il momento per allargare lo sconcerto tra i popolari. Da giovane-vecchio democristiano sa che solo i rapporti di forza contano, quanti voti uno ha. E in questa prospettiva ha preso l’iniziativa.
Alle europee ci sarà una conta “definitiva”. Da cui Casini si attende che i suoi tengano o incrementino i suffragi, mentre i popolari resteranno con ogni probabilità in sofferenza, come Pd, e all’interno del Pd nella candidature.
Casini non ha fatto nulla di più perché sa che collocare l’Udc a sinistra lo ridurrebbe al ruolo di Mastella. I suoi elettori sono moderati, e se non amano i “massoni” di Berlusconi, si trovano benissimo con il “piccolo Andreotti” Fini. L’avvicinamento tra i popolari e i casiniani, che questo sito da tempo ha segnalato, non è un abbracciamoci, ma un bracico di ferro. Anche questo Casini sa, che non ha nessuna voglia d’imbarcare altri primattori nel suo partito, da Rutelli al giovane Letta.

Che ne sarà di Calciopoli a Napoli? Niente

Non partirà il 20 il più volte rinviato processo di Napoli alla Juventus e al calcio, escluse le milanesi (a Meani, consigliere del Milan, non si contesta il decennio di pranzi con Collina). Gli accusatori non hanno carte nuove in mano, dopo le intercettazioni. Né “La Gazzetta dello sport”, né “L’Espresso” e il “Mattino” hanno da tempo più carte. E precedenti ormai famosi indeboliscono le intercettazioni, da Necci a Saccà, una volta smaltito lo sghignazzo. Su quelle di Moggi si sa già che sono selettive, mancano molte telefonate degli uni con gli altri, e anche parti delle stesse telefonate. Ma, soprattutto, ci sono dubbi sulla condanna che si dava per scontata da parte dei giudici di Napoli: la riforma della Costituzione è ormai certa, che separerà le procure dai tribunali, e i giudici si riposizionano. Nessuno si vuole sacrificare per la Procura. Tanto più che il corpo dei procuratori della Repubblica non gode più a Napoli buona salute, rispetto allo strapotere di qualche anno fa, quando liquidò Cordova, il Procuratore capo che voleva farli lavorare.
Aria nuova in Procura
Il rinvio del 20 sarà addebitato alla difficoltà di formare il collegio giudicante. Che non è una scusa, è anzi, per il momento, l’unica verità del processo. In particolare a Napoli, che da vent’anni a questa parte è la capitale della giustizia italiana, a Napoli e a Milano, Torino, Roma, Potenza, Catanzaro, il cambiamento d’aria politica è sensibile. In città dopo trent’anni, e anche a Roma, aspettando la riforma. Calciopoli è un processo indigesto: non ci sono prove, non c'è corruzione, l'associazione a delinquere è vaga, la decisione rimane tutta sul roppone dei giudici. Il rito abbreviato richiesto da alcuni accusati impone peraltro una sentenza in poche settimane. E nessun giudice vuole esporsi, né con una condanna né con una assoluzione. La riforma aprirà, cosa che i giornali trascurano ma non i magistrati, molte nuove carriere per la magistratura giudicante, nella stessa città di Napoli, e a Roma, al Csm e in Cassazione.
C'è del resto aria nuova a Napoli pure in Procura. Compresa la Procura antimafia, che, operando come si sa in territorio neutro, una specie di Svizzera dell’Italia, le sue energie maggiori ha dedicato al calcio degli altri – non c’è niente del Napoli, squadra anch’essa pulitissima, come l’ambiente, nelle insistite indagini napoletane. La Procura sta recuperando a destra con la decimazione della giunta Jervolino. Ma non ha fugato le ombre accumulate con l’inerzia negli anni della spazzatura, quando solo colpì la Protezione Civile. Il Procuratore Beatrice, stratega mediatico delle intercettazioni dei carabinieri, si sta peraltro godendo “Gomorra”, di cui è il vero autore, in un certo senso appagato, in una col capo Narducci. Mentre tra i carabinieri gli autori dell’inchiesta e gli sceneggiatori degli interrogatori nel proscenio di via In Selci a Roma non hanno avuto le promozioni che da due anni si attendono - non quelle folgoranti di merito, solo qualche avanzamento di anzianità.
I due “Libro nero del calcio”, oltre duemila cartelle sul “coinvolgimento nel sistema Moggi di governo, carabinieri, polizia e guardia di finanza”, che hanno arricchito “L’Espresso” a maggio del 2006, non sono piaciuti all’Arma. Soprattutto per l’ironica avvertenza che le annunciava: “È necessario ribadire con chiarezza che le conclusioni formulate dai carabinieri sulla rilevanza penale dei comportamenti segnalati in questi documenti dovrà essere sottoposta (? dovranno essere sottoposte?) a un doppio vaglio”, della Procura antimafia e dei giudici. L’italiano è quello approssimato di “Gomorra”, quindi di ottima fonte, ma l’Arma evidentemente non si fida.
Surplace a Milano
Non è tutto. Presto potrebbe lasciare Gussoni, e forse anche Collina, i designatori degli arbitri. Non perché sono troppo interisti, ma perché non c’è più armonia nella Lega Calcio post-Calciopoli, dichiaratemente Milan-Interista. Guido Rossi ha irritato Berlusconi, in politica e inpiù di un affare, i giornali milanesi lo sanno e sono divisi, e tutto quello che l’avvocato ha fatto potrebbe venire in questione – che è molto: Guido Rossi non è un Carlo Colombo qualsiasi, è un nome vero, esiste, era consigliere dell’Inter, s’è impadronito della Federcalcio e ha rovinato la Juventus e la Fiorentina. Napoli, dove tutto in teoria si è fatto, ha naso sensibilissimo su chi comanda.
Ieri, in altra epoca, i giudici avrebbero pure marciato, ma oggi suonano strampalate come prove in tribunale le formazioni e le cronache giornalistiche delle partite, di cui i carabineri hanno farcito i Libri Neri. Una sola cronaca a partita scelta tra le tante, quella che criticava la Juventus. O il juventinismo dell’arbitro De Santis, quello col quale la Juventus non ha mai vinto, che le intercettazioni mostrano all’orecchio del Milan. O il rapporto di Moggi con Lapo Elkann. O le denunce, non controllate, di dirigenti sportivi e procuratori inaffidabili, pentiti ex post. Accuse problematiche anche per dei giudici napoletani, della scuola cioè che fa il diritto. Gli umori divisi a Milano e la riforma della giustizia mettono in surplace il processo di Calciopoli.

Fini s'assottiglia

Il presidente della Camera Fini scrive al “Corriere della sera” un concentrato di nulla, sebbene lungo mezza pagina. Non è una novità, ma la missiva è esemplare del linguaggio politico, un documento storico. Vediamola. Scritta “senza alcuna pretesa di organicità”, chiede subito “un ampio confronto parlamentare tra le forze politiche”, e mette agli atti: “una realtà non più tollerabile”, “un crescente sentimento di sfiducia nei confronti della giustizia”, “le fondamenta della nostra democrazia” minate, “la stella polare della riforma”, e “risorse finanziarie adeguate”. Non: ci sono giudici cialtroni e altri che si fanno il mazzo, ma quelli sono protetti dal Csm, sentina di tutti i vizi, un vero organo, seppure costituzionale. No, un politico deve dire quello che ci si aspetta che lui dica. Per il “ci” intendendosi il nulla.
Nella sua nuova veste di statista, da ex missino Fini pare che voglia imitare Andreotti, ma Andreotti non era banale, ed era anzi un uomo politico senza mezze misure, uno con la ghigliottina. Il programma di Fini è invece quello del conte zio manzoniano, che tutto vuole troncare e sopire. Un programma, incidentalmente, su cui Veltroni si è dichiarato subito d'accordo, prima ancora di averne finito la lettura, e anche questo è importante, è un documento per la storia. Anche perché con esso Fini si pone al centro, pure lui, e la cosa non è da disprezzare, per uno che viene dal neo fascismo. Si assottiglia, come direbbe il toscano, come la sogliola, per confondersi, o come la biscia, per passare meglio. Sarebbe maturo per l'Udc, se non fosse che il posto è saldamente presidiato. E allora perché non il Pd, le parole vuote gli assicurerebbero primarie trionfali... Ma proseguiamo.
Fini è, ci mancherebbe, per “il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”, che c’è da diecimila anni o più, da quand’è che l’uomo è sapiente. E per “l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”, nientedimeno. Nonché contro “le nefaste logiche correntizie”. Mentre le intercettazioni “sono e devono restare uno strumento indispensabile di ricerca della prova dei reati”, e chi dice di no? Ma non ci vuole, lo giurereste, “la gogna mediatica”.
Il presidente della Camera dissente dalla riforma che il governo sta preparando, ma il suo dissenso mette tra parentesi “(ipotesi cui non credo)”. Lui vuole una riforma “per un periodo limitato”. Una riforma, dunque, per un periodo limitato, detto da un presidente della Camera. Uno che vuol’essere prudente, non si sa mai, i giudici bisogna temerli. O vuole piacere a tutti, giusto la lezione del primo Veltroni, il buono. Dovrebbe dire: io esisto perché esistono i giudici cialtroni, prima di loro ero un semplice capo dell’ex Msi. Ma questo non si può pretenderlo. Si potrebbe in subordine pretendere che parli in modo diretto, chiaro cioè e franco. Ma forse non avrebbe molto da dire. Si dice di Fini che studia da Andreotti, ma Andreotti, seppure cauto, era un fuoco d’artificio, un politico perfino violento di fronte a tanta voglia di appiattimento. Se mai Fini, il giovanotto famoso per essere stato sdoganato da Berlusconi all’inaugurazione di un ipermercato, ha mai avuto spessore.

martedì 6 gennaio 2009

Il lungo tubo di Mosca

Quando il gas c'era solo da prenderlo
Solo per gli dei il caso non esiste, il loro è un Dio di verità. Per questo è terribile, non c’è verità che non sia distruttiva. Ma già Gesù aveva dei dubbi. L’ambasciatore conversa liberale con tutti, Nikita Rijov, per ognuno ha succose ribattute. Arcangelo concede:
- Con gli anabattisti è fallita la sola vera rivoluzione comunista, di popolo, non classista. Questo avvenne quando a Jan Matthijs, morto in battaglia, alla testa dei fratelli Moravi succedette il sarto Jan Beuckelsz di Leida, che estese il comunismo all’uso delle donne. C’è sempre negli ordinamenti umani un vizio, una frattura.
- Il peccato è grave non tanto per la concupiscenza in sé, quanto perché essa è fomes peccati, induce al peccato - Rijov sa anche di latino.
- Ma ogni speranza, eccellenza, non è perduta. La Scolastica usava il termine opus operatum, l’opera compiuta, per salvare l’effetto della grazia immanente a un sacramento dall’eventuale stato di colpa dell’amministrante: per quanto il prete sia un mascalzone, la messa resta valida. -E intende: così sarà del comunismo. - Dio resta eterno amante delle anime. Accanto alla chiesa visibile prospera l’invisibile.
Si celia, Arcangelo e l’ambasciatore indossano ideali parrucche incipriate, tra gli stucchi, le specchiere e i marmi fulgidi del pavimento:
- Il lusso è utile – Metello non si scandalizza, e del resto il lusso a villa Abamelek è vero, sobrio: - È l’anima dell’economia, da Mandeville a Sombart, Bernard de Mandeville, Marx compreso. - E fino a Rathenau: in un paese nel quale non ci sono più ricchi ci sarà solo gente pove-ra, molto povera, diceva Rathenau, che era banchiere e liberale. – Cancella il senso del limite, è la base dell’accumulazione. La regina Elisabetta ha un guardaroba di tremila abiti. In Germania si faceva ottima musica nelle corti, benché piccole. - C’è gente solida, molti del Partito: l’editore di Severo, Giancarlo Pajetta, Longo, Cossutta, che tiene la cassa, e Zagladin, che parla un amabile italiano. Sanno tutti del gas, è entrato nella grande politica. È la festa della rivoluzione d’Ottobre. Benché presidiata da addetti militari che le uniformi onuste di medaglie appesantiscono, le corazze fanno male al cuore: imitano il principe Menšikov, il cui busto Rastrelli gonfiò di decorazioni, ma hanno i volti cadaverici delle spie di fantascienza. L’ambasciatore, che non indossa medaglie, è se possibile più massiccio, ma si sa che i russi celano lo spirito in un corpo grande.
- I russi sono pazzi - è altra verità di Metello – potenzialmente. Domani l’ambasciatore potrebbe essere dichiarato pazzo, e sarebbe felice al manicomio invece che ai lavori forzati. – Forse per questo sono rigidi: non girano la testa ma il tronco, che non piegano. Il portamento è sempre grave, il gesto fisso, ci saranno scuole di posa. La rigidità si dice ieratica e invece è metafisica, è inalterata anche se ridono, fumano, bevono. - Se non fossero grossi e sovietici sarebbero snob disseccati, imitatori di nessun vezzo. I russi sono geniali perché vivono da sopravvissuti.
C’è il ministro del Commercio estero, onorevole Tolloy, che secondo Metello ha boicottato l’accordo per il gas in obbedienza alla Cia, e invece è presenza naturale, volendosi uomo di Mosca, vecchio carrista, socialista dell’Urss. Alla fine dei conti li ha costretti a ridurre il prezzo. Ogni anno con la festa i sovietici firmano l’accordo per importare i tubi dall’Italia, tubi d’acciaio non saldati per scavare i pozzi di petrolio, migliori di quelli tedeschi. Da quest’anno li pagheranno col gas, l’accordo è concluso. All’assemblea Montedison un socio ha potuto definire l’Ente “il lungo tubo di Mosca”, s’è tolta la soddisfazione. C’è il commendator Gentili, gli occhi chiari pieni d’allegria tra le rughe. Condivide il vizio di tenere le braccia conserte dietro la schiena alla maniera dei ragazzi, che ingobbiscono la figura invece di tenerla eretta. È interessato all’Africa. Lo diverte l’occupazione della Triennale a Milano, che ha presieduto:
- Si divertono, ma la creatività non si vede. Mentre i pochi finanziamenti, raccolti a fatica, si dileguano. Beh sì, sarà una provocazione.
Dino Gentili, fine figura di socialista, è mercante di stampo antico. Ha aperto il mercato cinese nel 1953, prima che il Pci ne pretendesse l’esclusiva. Viene da Cuba, ospite onorato della Tricontinental, per avere dal 1965 riaddolcito l’Italia con la canna di Fidel, invece della barbabie-tola autarchica. Ha portato a Nenni il premio Stalin, e l’ha riportato indietro dopo le rivelazioni di Krusciov, in dollari, forniti da Rizzoli. “Profitti di Mao, contanti per Nenni”, titolò Time del commendatore. È stato oppositore perfino frenetico di Mussolini, ma con diritto al passaporto in qualità di direttore della fabbrica di bottoni di Gurlago, a Bergamo, che sfruttava il brevetto tedesco della corozite, surrogato del corozo, la materia prima vegetale con la quale allora i bottoni si fabbricavano. E uomo di fiducia degli inglesi, per conto dei quali consegnava le medaglie alla me-moria e un piccolo contributo alle famiglie dei caduti per la Resistenza.
C’è l’onorevole Andreotti. Di tutti i crocchi è un gentiluomo piemontese che commercia il ferro, e oscuro spiega che si sarebbe potuto avere il doppio del gas:
- In venti anni sarò stato a Mosca almeno mille volte - dice, una dunque ogni settimana, escluse le Pasque, i Natali e i Ferragosti. Il raddoppio del gas, è un’idea.
(Il gas russo, che ogni anno è materia di controversia internazionale, è anche materia romanzata, con qualche proprietà esilarante, di più episodi di Astolfo, La gioia del giorno, editore Lampi di stampa. pp. 624, € 24,10, di cui pubblichiamo un estratto).

lunedì 5 gennaio 2009

Da Trento a Napoli sciogliete le file

L’esempio è quello di Trento, un candidato ex popolare che in piena autonomia negozia e obbliga il voto democratico e casiniano. D’Alfonso prima, e ora Russo Iervolino, marciano spediti verso una resa dei conti all’interno del Pd. Il sindaco di Napoli, azzerando la giunta in polemica con Veltroni, l’ha anche detto: “Dietro al pretesto del rinnovamento qui si sta consumando in realtà un regolamento di conti interno al partito (Democratico)”. Il rifiuto di Veltroni e la rivolta sono anche dietro il silenzio dell’ex sindaco di Pescara e i mugugni di Marini.
I leader della frazione popolare del partito Democratico devono peraltro tenere conto della critica aperta di molti dirigenti e amministratori locali. Tra i quali cresce, seppure per spirito polemico, la proposta di un’alleanza alternativa con l’Udc di Casini. Per molti aspetti questa è ancora la fase costituente – la vera fase costituente – del partito Democratico, in vista del suo rinnovamento nella lunga marcia attraverso l’opposizione. Quindi una serie di prese di posizione interne in vista del rinnovo del vertici. Ma le tensioni dissolutrici sono anch’esse forti.
Il riferimento a Casini è una sorta di “indice della disperazione”. Non una scelta, poiché il leader dell’Udc e il mondo dei popolari sono molto lontani. Ma un modo come un altro per “fare qualcosa”. Per riacquistare autonomia, e anche per difendersi. Per molti popolari la questione morale di Veltroni è solo espediente a indebolire ulteriormente le componenti dello schieramento non diessine.

L'harem gay della Procura napoletana

L’harem di Romeo non è male. Fra tutti gli intrepidi cronisti giudiziari, ammanicati con questo e con quello, Fiorenza Sarzanini ha un moto d’indipendenza, e ha scritto sul “Corriere della sera” quello che gli stessi giudici scrivono. Solo un assaggio, per non abbattere troppo la categoria, ma memorabile. Il Comune di Napoli, secondo i procuratori partenopei, «si è trasformato in un "regno" in cui un onnivoro e famelico re muove le sue pedine incurante della presenza di una ufficiale regina la quale, non senza una profonda ingratitudine, viene costantemente apostrofata con volgari epiteti finanche dai propri figli putativi, letteralmente obnubilati dalla smania di emergere e di soddisfare a tutto tondo i desideri del sovrano». Il vespone Romeo e l’ape Iervolino sarebbero già abbastanza, ma non è tutto. L'avvocato Romeo, imprenditore dei servizi pubblici, è a capo di «un'organizzazione ben radicata e strutturata, rispetto alla quale il perseguimento degli interessi pubblici è un inutile orpello... e dove i funzionari delle istituzioni sono come in un harem e fanno di tutto per assecondare e compiacere il sultano in modo da diventare suo favorito». Per prenderlo cioè "a tutto tondo"?
Si dice dell’incosciente: balla sul vulcano. Un imprenditore-di-servizi-pubblici è certo figura impagabile. Ma l’harem di soli uomini, e non di femminella ma di robusti manovratori, benché irresistibile, anche per l’impunibilità, per una volta, di un linguaggio osceno in una aula di giustizia, dà voglia d’invocare il vulcano.

La leggerezza del tradimento

A rileggerlo sapendo che Kundera ha fatto la spia, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è un’esibizione senza pudore non ironica né divertente, di carnaccia spenta. L’eterno ritorno vi è dell’eterno rimosso. Per l’insopprimibile bisogno di tradimento, delle amanti e degli amici. Giustificandosi col detto “einmal ist keinmal”, una volta non fa testo. Sembra tutto scritto. L’impudicizia fa dell’“intero universo… un enorme campo di concentramento di corpi identici fra loro e con l’anima invisibile”.
La verve c’è ancora. L’invasione russa fronteggiata e sconfitta con lo scherno. La decostruzione e l’imborghesimento di “Anna Karenina”, con cui un altro romanzo lirico si compone. La bellezza per errore. Il caso sostanza della realtà: “soltanto il caso ci parla”. La teodicea della merda. In un plot che è l’ultimo sogno di onnipotenza del maschio (occidentale). Ma si partecipa molto meno. E all’elogio del tradimento, al capitolo III, “Le parole fraintese”, non si ride più. Fatto dal personaggio più forte del romanzo, la pittrice Sabina, donna libera. Col codicillo: “Il primo tradimento è irreparabile. Esso provoca una reazione a catena di nuovi tradimenti”.
C’è anche l’interrogatorio suadente che finisce in delazione, al cap. V, sulla pesantezza. Amare è atto di cinismo: amiamo qualcuno perché ne abbiamo bisogno. “Vivere nella verità”, come Kafka vorrebbe, o nella “casa di vetro” di Breton, è solo possibile ai bugiardi e ai misantropi. Pesa pure l'ovvio: "Non si dice forse che l'autore non può parlare che di se stesso?... Tradire, e non potersi fermare sulla bella strada del tradimento?... Tutte queste situazioni le ho conosciute e vissute io stesso", l'autore.
D’improvviso appaiono singolarmente riservate le due citazioni promozionali, di Calvino e di Citati, in copertina del tascabile Adelphi.
Resta l’infamia dell’impero sovietico, dentro l’Europa. Più tristi di tutto le intercettazioni, di oppositori e esuli, quando sparlano tra di loro. E questo non per colpa di Kundera.
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984

venerdì 2 gennaio 2009

Il viaggio di Dante è verso la felicità

“Nel mio romanzo in uscita a gennaio, “Les Voyageurs du Temps”, il narratore si ritrova nella chiesa di San Tommaso d’Aquino, nel 7mo arrondissement di Parigi. Tutto è triste, trascurato, grigio, senza speranza. Ha allora l’idea barocca di convocare san Tommaso stesso, quale appare nel “Paradiso” di Dante”. Con lui il narratore fa un viaggio verso la felicità, e l’autore Philippe Sollers con loro. Nello speciale del “Nouvel Observateur” intitolato À la poursuite du bonheur, Sollers apporta questa scoperta, che il viaggio di Dante, "musicista del pensiero", è verso il paradiso: “È un’esperienza storica e fisica, una esplorazione delle radici del tempo. Il 14 aprile 1300, d’improvviso, è più prossimo a noi che la confusione mondializzata dell’inizio del XXImo secolo. All’indomani di tante catastrofi, la felicità del paradiso è un’idea nuova sul pianeta…" http://hebdo.nouvelobs.com/hebdo/parution/p2303/dossier/a391534-eden_caché.html Philippe Sollers, Les Voyageurs du Temps, in "Le Nouvel Observateur", 24 dic.-7 genn.

Alvaro, il primo proustiano

Il ricordo dell’infanzia, tra lo Jonio e l’Aspromonte
I racconti della terra, o della nostalgia - anche se della terra inominabile. Tutti in un modo o nell’altro vivi dopo ottant’anni. San Luca, la montagna e lo Jonio sono esplorati in dettaglio e con precisione, gli anfratti della natura, i linguaggi segreti dei bambini, il carattere molteplicemente forte delle donne, la distanza (l’estraneità) del potere, l’umore sempre tagliente, anche nella balordaggine. “Sebbene io non ricordi quasi più le passioni della mia terra, me n’è rimasta una solidarietà carnale”, dichiara Alvaro d’acchito nel celebre racconto “Ritratto di Melusina”, il primo della raccolta.
Tutto è ripassato nella nostalgia, anche i vecchi nemici. Il barone S.(Strangio), che vive solo, cinquantenne, fuori del paese, è agli occhi di una gentildonna inglese sua ospite “un bell’uomo, con quell’aria che anno di solito quelli della sua regione, di chi avesse trovato la verità e nulla più al mondo lo interessasse e lo dovesse scuotere”, e “amabile, della gentilezza nativa di chi vive tra gli elementi”. Solitario ma non solo, arguisce la nobildonna allargando la visuale: “Questo era il Sud, turchino e stupito nel sole, vestito di scuro, calcinato dal vento, coi lunghi sguardi senza stupore della gente silenziosa, e con le voci gutturali della gente solitaria”. C’è uno stupore di troppo, lo scrittore andava di fretta, ma per vantare un’identificazione superba con la terra d’origine. Tanto più rimarchevole nel letterato più cosmopolita e miglior conoscitore del mondo negli anni 1920 e 1930. Alvaro, prima di oggettivarla in “Gente in Aspromonte” (all’insegna del terribilismo, malgrado il lirismo manzoniano dell’incipit), s’identifica nella Calabria, tra l’Aspromonte e lo Jonio, dov’è nato, vi vuole trovare radici, è la sua unica realtà, dopo una serie di trapianti ovunque in Italia e in Europa.
Tutto si rilegge con interesse. Omessa un’aggettivazione incongrua del meridione e del meridionale. Sono “meridionali” la sera, il volto, il silenzio. Ci sono santi “piccoli come meridionali”, l’“aria secca del paese meridionale”, perfino “una sofferenza di razza” in un ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E un “malessere della sera meridionale, così tarda a finire”. Al Sud la sera finisce prima - in estate, ma è in estate che la sera “non finisce”. E con almeno una sorpresa: “L’amata alla finestra”, il gruppo di racconti che dà il titolo alla raccolta, declina l’amore con un netto impianto proustiano. A tratti potrebbe essere un calco. Così pure altri racconti, per quanto concerne l’uso della memoria.
È l’aspetto di Alvaro meno studiato, quindi sorprendente, ma che meglio ne configura la personalità: la vivacità intellettuale, la conoscenza diretta e l’estrema curiosità per tutto ciò che innova l’Europa e il mondo nei due decenni della sua maturità. Di Proust Alvaro è stato il primo traduttore in italiano, nel 1921. Anche se a uso privato, la sua stima dell’autore della memoria non fece breccia nell’editoria e nella critica. Amico a Parigi e poi e corrispondente di Benjamin Crémieux, il primo proustiano, e di Nino Frank, il joyciano. Ricorrono qui anche “una rosa è una rosa” e il “presente prolungato”, o “presente assoluto”, con cui Gertrude Stein innovava negli anni 1910 e 1920 l’arte del racconto, seppure per una ristretta cerchia a Parigi.
Corrado Alvaro, L’amata alla finestra, 1929

Ombre - 11

Delle tre-quattrocentomila social card che le Poste sono riuscite a distribuire per Natale, un buon terzo sono andate alle suore. Monache di oltre 65 anni, ma anche di età inferiore, bisognose. A Roma soprattutto, ma anche a Milano e in Sicilia. Non c’è un dato preciso che accerti quante suore sul totale hanno fatto richiesta della social card e l'hanno ottenuta, ma è il commento ricorrente fra gli addetti delle Poste: la sorpresa per il gran numero di monache che si sono presentate.

Rachida Dati, bella, colta e capace, non fa “l’algerina”. Per questo la Francia non le perdona, e la fa l’amante del presidente, o di Aznar, o di Blair, insomma la puttana dei potenti. A sinistra proteggendosi con la politica, a destra con l’etica, ma in realtà per forsennata cattiveria.
La Francia è un paese inesplorato. In cui ci sono anche le parigine alla Dati che ne fanno l’immagine, libere e anzi sfrontate, con i tacchi alti, incinte senza marito. Ma di suo è sempre un mondo terragno, chiuso, e anzi cupo. Che non c’è nella letteratura, a parte Giono e Céline, né nei giornali, ma è lì nel voto, nel razzismo, e ora in questo bislacco femminismo anti-femminista.

“Potrei disegnarvi la mappa degli interessi elettorali attraverso i contratti di locazione… ereditati dal Comune di Napoli o dal Comune di Roma”. L’imprenditore Romeo, in carcere per corruzione, si offre di certificare il malaffare di cui tutti a Roma e Napoli sono a conoscenza. “A questo punto”, scrive il “Corriere della sera”, “i pubblici ministeri cercano di entrare nei dettagli”. Ma non delle case date agli amici e parenti. “Lei ha rapporti all’interno del consiglio (comunale) di Roma?”, chiede il Pm.
L’azione penale è obbligatoria, ma per chi?

Lo stesso Romeo afferma che a Milano, dove aveva vinto un appalto, non vollero darglielo perché doveva andare ai milanesi. “Questo camorrista amico di Bassolino non può venire a Milano”, si sarebbero detti in giunta il sindaco Albertini e gli assessori. Invalidarono il bando e suddivisero l’appalto in tre tronconi, afferma ancora Romeo: “Io me ne aggiudico uno, Edilnord un altro, e Pirelli il terzo”. Può darsi che Romeo dica il falso, ma nessuna inchiesta si apre a Milano per accertarlo.

Il sindaco di Pescara è scarcerato. Veltroni critica i magistrati. “L’Unità” sparge veleno su chi critica i magistrati. Al “Corriere” il mite giustizialista Furio Colombo assicura: “Assurdo. Qui a New York, dove mi trovo, nessuno si sogna di prendere posizione o criticare i giudici”. New York, come si sa, è piena di giudici che intercettano e arrestano i sindaci, e poi li liberano.

Prosegue a Cosenza il processo Why not, con interrogatori a questo e a quello. Per l’ipocrisia senza veli della giustizia: non ci può essere una vera indagine, dopo il raid di Salerno Catanzaro può solo condannare gli inquisiti. I calabresi, non Prodi e Mastella, quelli erano già fuori.

Paolo Borsellino era uomo di destra - per questo fu insolentito da Sciascia, che poi si scusò. Agnese Borsellino, la vedova, che si è astenuta in questi quindici anni dall’occupare i giornali nel nome del marito, fa un apprezzamento a Sgarbi, che ha rivitalizzato Salemi, di cui è il sindaco. Tanto basta per suscitare l’ira dei cognati Borsellino, che hanno fatto carriera politica a sinistra, custodi della memoria del fratello assassinato da Riina. Nell’attacco a Borsellino Sciascia coniò la figura del “professionista dell’antimafia”. Era un preveggente?
Anche Maria Falcone si pretende custode unica del fratello. La cui memoria ha dato in uso politico alla sinistra. A quella sinistra, di Orlando e dell’ex Pci, che il fratello ha isolato e messo nel mirino della mafia.

Mastella dice sabato 27 al “Corriere”, per tutta una pagina, cose che incorniciano una repubblica delle banane e una situazione di golpe permanente, a opera dei giudici, con i carabinieri. Ma niente. Lo stesso giornale, che non ne contesta le terribili accuse, le pubblica come gli amorazzi della Marini – o bisogna dire di Luxuria? Un po’ di nudo, seppure coi bozzi.

Moratti dell’Inter ha vinto una partita grazie all’arbitro, e passa all’attacco: “Ma quali favori, ce li meritiamo”, dice. E: “Chi sbaglia oggi lo fa in buonafede. Fino a tre anni fa, invece…”. Può darsi che il presidente dell’Inter sia quello che dice. Ma bisogna essere realisti: è uno che la Procura di Milano ha graziato in almeno tre occasioni, non è uno sprovveduto. Tutti vedono che sei giocatori dell’Inter su undici erano in fuorigioco nella partita incriminata, tutti vestiti di scuro mentre gli avversari erano sul bianco, l’arbitro non poteva in nessun modo sbagliare. E dunque? Perché gli si fa dire quello che dice?

Il giorno dopo Siena-Inter, Sky e la Domenica Sportiva erano alla ricerca ansiosa dell’errore con cui scusare il regalo all’Inter. Hanno creduto di trovarlo in un (forse) errore a favore della Juventus, e per tutto il pomeriggio e la serata della domenica non hanno fatto altro che rimarcarlo, centinaia di replay. Sono succubi di Moratti? O non della par condicio scalfariana, uno a te uno a me, purché vinca io, la virtù della viltà.

L’ex procuratore Gabriele Tinti, autore di “Toghe rotte”, critico della magistratura, scrive sulla “Stampa” che le intercettazioni fanno sempre bene: “Ma chiediamoci anche: se si trattasse di fatti che non costituiscono reato e che però danno la misura della statura etica e politica di chi appartiene alla classe dirigente, non sarebbe bene conoscerli? Io facevo il procuratore della Repubblica; se si fossero intercettate mie telefonate con qualche mafioso che mi invitava con regolarità nella sua riserva di caccia o che mi ospitava a casa sua, non avreste voluto saperlo?”.
È una conferma che ai magistrati, anche ex, il giudizio difetta: ricevere favori da un mafioso è un reato e non un pettegolezzo.
La verità è che per un magistrato i mafiosi non sono veri, non si condannano. Il mafioso è uno che ha (anche) una riserva di caccia, dove convita i magistrati. I magistrati solo perseguono gli amministratori pubblici e i politici in quanto tali. Se vanno a caccia coi mafiosi tanto meglio, o peggio.

Non si sa perché il napoletano Romeo abbia avuto dieci anni fa la gestione delle strade e del patrimonio immobiliare del Comune di Roma. O meglio si sa, ma non si dice. L’ottimo Pippo Pullara, senz’altro informato, esordisce con un titolo promettente, “Immobili comunali: gli interessi di ieri, oggi senza memoria”, ma quando arrivo al fatto si ferma. Fabrizio Caccia sullo stesso giornale, il “Corriere”, facendo parlare assessori vecchi e nuovi, riferisce incuriosito di una Loredana De Petris che non ricorda molto, ma ricorda un Angelo Canale, il consigliere di Stato, rimosso infuriato dal Patrimonio. La verità è ben scritta altrove, per esempio, sul “Messaggero”. Ma seguiamo il “Corriere”.
Canale non era stato commissario al Comune di Roma, distinguendosi per il blocco della rilevazioni di Census, la società della Fiat cui l’ex sindaco Carraro aveva commissionato la ricognizione del ricchissimo, ma costosissimo, patrimonio immobiliare del Comune? L’appalto a Census era troppo oneroso, dissero i commissari. Poi venne l’appalto a Romeo, per il doppio del costo di Census, senza beneficio per il Comune, non che si veda. Canale è dunque la persona giusta da interpellare. Ma Canale è anche ottima fonte del giornalismo della “questione morale”. Da che lato?

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (28)

Giuseppe Leuzzi

L’imprenditore Romeo, in carcere a Napoli per corruzione, afferma che a Milano, dove aveva vinto un appalto, non vollero darglielo perché era destinato alla Edilnord, impresa milanese. “Questo camorrista amico di Bassolino non può venire a Milano”, si sarebbero detti in giunta il sindaco Albertini e gli assessori. Invalidarono il bando e suddivisero l’appalto in tre tronconi, afferma ancora Romeo: “Io me ne aggiudico uno, Edilnord un altro, e Pirelli il terzo”. 
Può darsi che Romeo dica il falso, ma nessuna inchiesta si apre a Milano per accertarlo. 

Reggio Calabria è nei posti alti della classifica del “Sole 24 Ore” sulla qualità della vita per quanto concerne le infrastrutture e la sicurezza. Ma la percezione che ne hanno i reggini è catastrofica: Reggio è ultima fra le 107 province per le infrastrutture, e quartultima per la sicurezza. Effetto dell’immagine riflessa dai media? Anche perché la soddisfazione di chi ci abita è elevata: Reggio viene nella seconda decina dell’indice di felicità, o della soddisfazione individuale, con Firenze, Siena, Padova, Trieste. 

C’è stato a lungo, fino a recente, un uso incongruo, vagamente spregiativo, dell’aggettivo meridionale. Goffredo Parise nel “Prete bello”, 1954, ha un personaggio napoletano, del quale si compiace a mettere in rilievo il “colore meridionale”, il “sangue meridionale”, e più di tutto “uno strano miscuglio di sentori umani” che sarebbe il meridione: “Alla base di questo miscuglio stava il meridione: un odore di laggiù, composito di aromi delle trattorie, dell’eccitante lezzo dei «bassi», di case e alberghi, fino alle abitazioni di ricchi e baroni, e di pisciatoi pubblici”. Ha anche un “sangue meridionale”, che alle ragazze dà vizi segreti “fin dalla tenera età”, i “sogni da napoletano”, “l’odore del letto napoletano, dolciastro”, una “fantasia meridionale”, uno “sguardo meridionale”. “Il prete bello” è scritto bene, fluisce esatto, è un dono che Parise ebbe ventenne e non ripeté, se non a tratti. Questa è l’unica sbavatura. Il narratore sa di Milano, dell’Italia, della guerra di Spagna, del fascismo, ma del meridione ha sentore vago. 
Anche Alvaro, negli anni della riscoperta delle origini, usa un incerto “meridionale”. Nei racconti di “L’amata alla finestra” molte cose sono “meridionali”: la sera, il volto, il silenzio, i santi “piccoli come meridionali”, l’“aria secca del paese meridionale”, perfino un “una sofferenza di razza” in un ragazzo, per le rughe emergenti tra le narici e la bocca. E “malessere della sera meridionale, così tarda a finire”. Al Sud la sera finisce prima - in estate, ma è in estate che la sera “non finisce”. L’odio-di-sé meridionale Non muore la storia dello sbarco alleato che si fa in Sicilia con e per la mafia. “Non esiste”, si direbbe a Roma, ma in Sicilia sì. “Tutti, in Sicilia, (lo) sapevano”, scrive Gaetano Savatteri da ultimo in “La volata di Calò”. Protestando di non crederci, certo. “Tutti conoscevano questa storia. Se ne parlava nelle piazze, magari sottovoce. Tutti erano sicuri che fosse andata così, e ancora molti lo sono”. Savatteri, che è nato nel 1964, lo saprà per scienza infusa – da suo papà, certo, da suo nonno, che in Sicilia sono tutto. E magari non ci crederà, ma l’aneddoto gli piace. Ha scritto “La volata di Calò” per celebrare una famiglia di industriali isolani, i nipoti di Calogero (“Calò”) Montante, che sono al fronte contro la mafia. Ma della mafia gli piace dare questa immagine di onnipotenza. Anche perché il libro, che Sellerio pubblica in bella edizione con molte fotografie, si legge unicamente per questo aneddoto – contro gli americani che hanno imposto la mafia, e contro Mattei che ha imposto le cattedrali nel deserto, mentre i siciliani si battono come si sa contro la mafia e per il mercato. Dopo il racconto di Camilleri “Una corsa verso la libertà”, che rappresenta gli alleati come truppe di occupazione. Piero Chiara così apre il racconto “Una cattiva scelta”: “La caduta del Regno delle Due Sicilie portò alla rovina molte famiglie nobili del meridione e soprattutto gran numero di famiglie borghesi, che erano fiorite all’ombra della corte borbonica. Accadde così che gentiluomini e borghesi di ottima educazione e di elevato tenor di vita, ridotti a povera sorte, aspirarono a modesti impieghi, di preferenza nella pubblica amministrazione, unica immagine in terra della quiete eterna. “Nobili impoveriti e figli di buona famiglia accedettero alle gabelle, alla giustizia, all’esercito, alle finanze, all’istruzione ai lavori pubblici, dilagando in buona parte nell’Italia settentrionale”. “Wiscardo submittitur Calabria” è già nell’arazzo del castello di Pirou in Normandia, nel sec. XI. Ma la Calabria rischiò di essere stato indipendente anche dopo i normanni. Antonio Centelles, barone di origine iberica feudatario pro tempore nel 1444, ne accarezzò il sogno, che nel 1465 Ferrante re di Napoli nel sangue sconfisse. Non c’era strada da Napoli a Reggio Calabria fino ai primi dell’Ottocento. La ragione del sottosviluppo è tutta qui, nell’isolamento. Ottomila dipendenti delle Ferrovie sui 90 mila totali erano nel 2006 in Sicilia. Presumibilmente in vacanza, poiché nell’isola non ci sono treni: le linee sono a binario unico, i treni pochi e con poche carrozze, e nessuno li prende. Paolo Borsellino era uomo di destra - per questo fu insolentito da Sciascia, che poi si scusò. Agnese Borsellino, la vedova, che si è astenuta in questi quindici anni dall’occupare i giornali nel nome del marito, fa un apprezzamento a Sgarbi, che ha rivitalizzato Salemi, di cui è il sindaco. Tanto basta per suscitare l’ira dei cognati Borsellino, che hanno fatto carriera politica a sinistra, custodi della memoria del fratello assassinato da Riina. Nell’attacco a Borsellino Sciascia coniò la figura del “professionista dell’antimafia”. Era un preveggente? Anche Maria Falcone si pretende custode unica del fratello. La cui memoria ha dato in uso politico alla sinistra. A quella sinistra, di Orlando e dell’ex Pci, che il fratello ha isolato e messo nel mirino della mafia. Si potrebbe dire la Sicilia, il paese con più storia in Europa, un paese senza storia. La Sicilia contemporanea, da Cuffaro Vasa Vasa indietro fino a Sciascia compreso. Che tutto scioglie nelle sue passioni, senza riserbo e senza saggezza. Le quali si riducono in realtà a una, la facondia, o sentirsi parlare.

lunedì 29 dicembre 2008

La Repubblica del suk

È lo stesso panettone degli altri anni, dell’esibizionismo della miseria. Resteranno, questi libri di Vespa annuali ossessivi, malinconica ma dura fonte della politica nella Seconda Repubblica. Un negozio. Tra chi vende primizie, chi coloniali, e chi pesci, presto puzzolenti. Ma tutti commercianti col fegato ingrossato perché il vicino vende sempre di più. Senza un’idea o uno slancio, che i censori arcigni non consentono, le mummie dei sanatori giudizari o tra gli stessi giornali che se ne fanno beffe, e incapaci di ribellarsi.
Un politico dovrebbe dare fiducia, condurre gli elettori verso un fine. Questa politica è invece un suk o un bazar, e più per le contumelie che per l’esposizione della merce. Si capisce che Berlusconi, che è un venditore, sbaragli la concorrenza. Che peraltro non sa che dire, a parte accusarlo di turpitudini. Perché non ha merce, o ce l’ha avariata e non sa liberarsene.
Aspettiamo ancora che Prodi parli, o Rutelli. Veltroni e D’Alema non solo non menzionano il comunismo ma neppure il socialismo. E in fatto di democrazia si muovono male, nel loro stesso partito. In tutte le democrazie, anche le più radicalizzate, i politici si rispettano, Zapatero rispetta Rajoy, per esempio, e viceversa, solo in Italia si recitano i reality, a chi ce l'ha più grosso, e questo è tutto.
Bruno Vespa, Viaggio in un’Italia diversa, Mondadori, pp. 478, €19,50

Millennium fancy: farsi fare dalle donne

“Il libro più venduto in Europa” è dunque su un uomo di media età, media reputazione, medio vigore, media intelligenza, che si fa fare dalle donne, dai venti ai sessant’anni. Perché le donne sono più degli uomini, l’amore si fa quando loro vogliono. E anche più numerose, e quelle che più leggono, i romanzi. Il vecchio maschio è imbroglione, traditore, stupratore, assassino, coglione, o cornuto compiaciuto.
O non è una nuova fantasia (strategia?) degli uomini, quella di lasciarsi fare, all’epoca del femminismo? Si può ipotizzare la scomparsa dell’uomo non come una fuga (un’eliminazione?) ma come una resa, una servitù volontaria.
Supereretto dal “Sole” a più riprese a monumento del genere, si legge in realtà fino a pagina trecento solo per questo, per l’arboriana “pasqualite”, la sindrome del vediamo come va a finire.
Stieg Larssson, Millennium Trilogy. Uomini che odiano le donne, Marsilio, pp. 676, € 19,50

Pd: Casini incassa, Rutelli attacca

Natale di gran festa per Casini, a fronte degli attestati di stima e mezzi pensieri di passaggio. Da Lusetti fino a Marini. La parziale assoluzione del sindaco di Pescara D’Alfonso ha fatto crescere i mugugni tra gli ex Dc del partito Democratico, e anche i sospetti. Lo scontro politico fra le due anime, coperto a Roma ma acuto in molte province, si è tramutato a caldo nell’accusa di un tentativo di manomissione della componente popolare a mezzo di una magistratura compiacente. Non con Berlusconi ma con Di Pietro e quindi con Veltroni.
Casini, subissato dalle telefonate di auguri di tanti ex amici, non si illude che una svolta sia imminente. Sa che il democristiano si vuole prudente. Per ora si limita a smarcarsi il più che può da Berlusconi, stanco di aspettarne la morte. Sul semipresidenzialismo com’è sempre stato, ma anche su questioni sulle quali finora aveva in sostanza concordato, le intercettazioni e la giustizia.
Si sposta verso sinistra, ma non al di là della linea divisoria, nessuno dei suoi lo seguirebbe in un’alleanza con gli ex Pci. Abbastanza però per fare da calamita verso la Margherita. La terza posizione, fuori dalla coalizione berlusconiana, non ha l’obiettivo di prendere voti a Berlsuconi, ma di prendere candidati a Veltroni.
Casini si è collocato in posizione intermedia per capitalizzare sul nodo che soffoca il Pd, e si gonfia, il solco tra le due anime, post-Dc e post-Pci. Rutelli stesso, che più di ogni altro della Margherita è stato finora legato all’anima diessina, nella persona di Bettini, suo creatore e sponsor politico, vuole smarcarsi. Attende di sapere come si muoverà la Procura di Roma quando saranno arrivate le famose carte preannunciate da Napoli, ma sta predisponendo una difesa, non solo legale. Su questo aspetto Rutelli si ritiene coperto: un’eventuale incriminazione non potrà isolarlo dai suoi assessori diessini, tra essi Morassut, il successore di Bettini alla federazione della capitale. Ma è sul piano politico che Rutelli è diventato improvvisamente attivista, al Comune, alla Provincia e nelle circoscrizioni. Tra i vecchi della Margherita per frenare la fuga verso Casini. E tra i nuovi del Pd, quelli che non erano parte dei due vecchi partiti, gli ambientalisti e i giovani.

Un eroe anticomunista

Dunque Campanile, che tre anni prima aveva avuto il premio Viareggio, pubblica nel 1976 una novelletta anticomunista. Dunque, si poteva. O non deve Campanile a questo penchant politico la sua marginalizzazione? L’utensileria messa in ridicolo è picista: doppiezza, militarizzazione, ipocrisia. È anche detto: si parla di rivoluzione, compagni, occhio di Mosca e materialismo. Anche l’Eroe è tipicamente comunista. Ma Cordelli lo presenta nella Bur come antifascista. Un lapsus? Ci sono perfino le impiccagioni in Cecoslovacchia, e i servizi segreti dei servizi segreti.
Il segreto è forse assolvere anche i nemici, senza fare autocritica. Ma Campanile è pervicace: irride Churchill e de Gaulle, e salva Pétain. Anche se aggroviglia indissolubilmente il suo gioco dell’essere-non essere, sotto la specie dell’agente segreto.
È anche il 1976, il romanzo è d’epoca – benché probabilmente abbozzato vent’anni prima.
Achille Campanile, L’Eroe, 1976

Pìcaro a Vicenza

Scrittura cristallina, dopo sessant’anni. Miracolo di Parise ventenne. Il libro è pasticciato (scritto in fretta, edito in fretta): dieci lire, “una miserie di elemosina”, diventano dopo poche pagine “una somma enorme”, c’è un dialetto “napoletano” che invece è, forse, romano (“Muoio fascista pe’ mano de rosso”), c’è un “odore del letto napoletano, dolciastro, misto dell’effluvio della biancheria…”, in stanze che poche righe prima “non avevano letti, ma solo materassi stesi per terra”, eccetera. E tuttavia scritto senza una sbavatura, una parola di più. Con enfants terribles molto neo realisti, ma senza il patetico.
Parise era dotato di solida corazza, anche se il generone romano lo rigurgiterà senza affanno, che lui era sceso a dominare. In “Come non ci si difende dai ricordi” Nico Naldini ne fa un ritratto scurrile e anzi cattivo, di segaiolo, opportunista, frivolo, e infine, con Comisso, matto: “El xe mato come so mama”. Una signora che, simile in questo a Goffredo, dice Naldini, era nota in città per la nevrosi dell’accumulo, di guanti, borsette, eccetera. Ma non può esimersi dal distillarne con acume il dono, a proposito della curiosità all’apparenza superficiale: “Goffredo aveva spesso questa visione di se stesso come pianta fanerogama capace di inseminare a distanza mentre lui sarebbe rimasto in ozio. Perché sapeva che il suo ozio secerneva una materia che solidificandosi sarebbe diventata un racconto bellissimo”. Specie con le zie: “Le tantes non hanno mai smesso di attrarlo, per il gusto dell’intrigo che accompagnava ogni loro accidente. In ciascuno trovava contorni surreali per un impianto scenico inesauribile”.
È un romanzo comico, più di Campanile allora in voga, più del redentorista Zavattini. È il picaresco che Parise reinventa. La trascuratezza sarà allora del genere, le ripetizioni, le contraddizioni – il picaresco è un raspare, più che un intaglio. C’è anche la falsità della prima persona, un ragazzo di strada che parla come un glottologo, un esperto d’arte, e un sociologo. Il cui paradiso è una bicicletta mezzo rubata, lui che ha un nonno socialista e biciclettaio. Il genere si vuole incongruente, con un fondale di maniera, come qui è Vicenza. Le avventure hanno poco di avventuroso, come il genere invece vorrebbe: il prete bello è un ex cappellano militare, che, aitante, fascista, ignorante dell’amore, accende l’immaginario e la vita delle nubili del quartiere. Ma c’è un segreto nella scrittura.
Goffredo Parise, Il prete bello, 1954

lunedì 22 dicembre 2008

Se Draghi si dimettesse

“In una Repubblica bene ordinata un ministro del Tesoro e un governatore della Banca centrale che polemizzano in pubblico sarebbe materia di preoccupazione”, scriveva questo sito l’1 ottobre, alla terza o quarta scaramuccia fra Draghi e Tremonti. Sembrerebbe di no. La politica monetaria la fa ora la Bce. Le banche sono transnazionali. E comunque la Vigilanza fa corpo a sé. Della Banca d’Italia pilastro dell’economia è rimasto un grande ufficio studi, che se bene impiegato può essere utile. Come un buon articolo di giornale, per intendersi. Si direbbe che non c’è nulla di male se il suo governatore, non avendo da fare altro che discorsi, si espone alla critica del “suo”ministro, il titolare dell’Economia col quale la Banca quotidianamente interloquisce.
Nulla di male, in effetti. Draghi a luglio, o era ancora giugno, ha aperto una serie di critiche al governo. Che stava per costituirsi. Forse improvvidamente, o forse contava su qualche disgrazia di Berlusconi. O sull’impaludamento di Tremonti, che già una volta Roma ha fagocitato. E invece la crisi ha legato le banche al governo, e Tremonti non perde occasione per spernacchiare il governatore. C’è normalmente di peggio nella politica. Ma un conflitto tra il titolare del Tesoro e il governatore della Banca d’Italia non è un pettegolezzo come un altro.
Forse Draghi dovrebbe prendere atto che, come ufficio studi, la Banca d’Italia ha bisogno di una direzione credibile. Non governativa, si spera, e nemmeno anti. Che dica le cose come stanno, nel mondo, in Europa, e certo anche in Italia, ma con acume. “Il debito pubblico è aumentato”? La Banca d’Italia lo dice ogni tre mesi, quando al governo c’è Berlusconi, ma il debito pubblico aumenta ogni giorno. E dunque? Coraggio, perfino i papi si ritengono passeggeri. Perfino Padoa Schioppa, una volta lasciata l’Economia, evita di suonare le campane a morto per il suo successore. Se uno vuol fare un altro mestiere, d’altra parte, per esempio il ministro dell’Economia ombra, perché impedirselo? Ci guadagnerebbe da ogni punto di vista.

Liberare il Grande Orecchio

Se sono parte del gossip perché censurarle? Può darsi che le intercettazioni facciano bene. Anzi è certo, questa è la verità. Ai giornali, per esempio, che altrimenti non sanno che scrivere. Non dovrebbero però gravare, ecco il busillis, sulle spese della giustizia: che c’entrano le intercettazioni, i verbali, le indiscrezioni, con la giustizia? Perché fare leggi sulle intercettazioni, sprecare il tempo dei parlamentari e il poco denaro dello Stato, quando, come le droghe, il loro consumo è incontenibile? Tanto vale liberalizzarle.
Non è una modesta proposta, un paradosso. L’onorevole Rutelli ha scritto ai maggiori giornali per lamentarsene vittima, chiedendo però che il titolo della missiva recasse: “Ma dico sì alle intercettazioni”. Giusto. Cioè no. Cioè, è un’ottima professione di fede liberale, radicale, ma l’onorevole Rutelli fa male a lamentare che in queste intercettazioni si parli di lui, e di sua moglie Barbara Palombelli, persona tra le più stimabili, a caso, in conversazioni di nessun rilievo penale, giusto per accostare il suo nome a quello dell’imprenditore napoletano Romeo. Che è in carcere anche perché è il maggior appaltatore del Comune di Roma delle amministrazioni Rutelli e Veltroni. Ma questo non incide: nessun addebito è mosso all’onorevole Rutelli.
Ora, ciò che si lamenta delle intercettazioni è appunto questo, il loro uso a fini di pettegolezzo. Con la mezza frase, il contesto immaginario, lo sbobinamento discrezionale, attraverso mani e orecchie a loro volta amiche, anche non pagate, di giornalisti o informatori di polizia. Per dire che sì, forse, non si sa, ma potrebbe essere. Ma è questo il loro bello: è giusto, perché i giornali dovrebbero privarsene, se “Novella Duemila” è già alla quinta o sesta imitazione. E i grandi settimanali e i posati quotidiani ardono di copiarla? È il genere di informazione che tira, e anche la letteratura, a ben guardare, vi fa solido affidamento, su confessioni, verbali, registrazioni, lampi di memoria fulminanti. Ecco dov’è la nuova frontiera di libertà: non più segreti.
Perché avere vergogna, di che? A un galantuomo non fa paura un carabiniere che ne registri le virgole - il defunto senatore Spadolini, che pure spernacchiava da storico la questione morale, impiegava un addetto alla registrazione al seguito. O che lo assista in camera da letto, e se vuole anche al gabinetto di decenza. L’onorevole Rutelli vada in piazza, o da Vespa, o da Santoro, e lanci questo semplice messaggio: “Italiani, ancora uno sforzo!” Vedrà che risposta plebiscitaria.