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Marie de Gournay – Il pettegolo Tallement des Réaux narra nelle “Historiettes” che a Marie
de Gournay, “figlia acquisita” di Michel de Montaigne, si presentarono tre
Racan, di cui uno solo era quello vero - Racan Honorat de Bueil, “il cavaliere
de Bueil”, poeta pastorale, 1589-1679 (gli altri due, nell’aneddoto alla “Amici
miei”, erano il conte di Moret e un Yvrande, “letterato”, altrimenti ignoto).
Tallement non è tenero neanche con Marie Le Jars de Gournay - se non in morte,
quando ne testimonia la generosità: “Mlle de Gournay era una vecchia ragazza di
Piccardia molto signorina.
Non so come e dove era andata a cercare Montaigne, ma si vantava di essere
la sua figlioccia (fille d’alliance, n.d.r., intraducibile, forse “spirituale”,
“d’elezione”). Conosceva e faceva versi, ma cattivi”. E una serie di scherzi elenca
che i tre, Racan, Moret e Yvrande, le fecero. “Per burlarsi di versi in cui
avrebbe usato Tit per Tito, le mandarono questi: «Tit, fig. di Vesp, re del Rom…»
… Le fecero credere che aveva scritto la parola «stronzata» (foutaison).
«Merdieu», disse borbottando come era sua abitudine, «questa parola non si usa,
ma la lascerò: è vero che è un po’ volgare…. Le inventarono una lettera del re
d’Inghilterra, con la quale le chiedeva una biografia e il ritratto. Passò sei
settimane a scrivere la sua vita. Poi la mandò in Inghilterra, dove non sapevano
che farsene. Vollero farle credere che
aveva detto che fornicare non è peccato. E un giorno che le chiesero se la
pederastia non era un crimine: «Dio non voglia!», rispose, «che io condanni ciò
che Socrate ha praticato»”. Per poi concludere. “A suo avviso la pederastia è
degna di lode. Ma questo è un po’ salace per una verginella”.
Corrado
Alvaro – “Un pugno chiuso visto di profilo”, il ritratto che fa
testo dello scrittore calabrese, è di Pietro Pancrazi, l’illustre italianista,
nella recensione-commento di una conferenza che Alvaro aveva tenuto al Lyceum
di Firenze, il 14 febbraio 1931 (nel quadro di un ciclo di conferenze promosso
da Jolanda De Blasi sull’Italia e le sue bellezze, “Visioni spirituali d’Italia”
– un ciclo che riscosse tanto successo da doversi replicare, per oltre 50 conferenze).
Camilleri – “Ha trasmesso la luce dell’isola, dopo gli
anni del lutto”, è la notazione forse più vera di Emanuele Lauria nel ritratto
dello scrittore su “la Repubblica-Palermo”, per il volume che la redazione
palermitana del quotidiano ha confezionato giovedì 4 di curiosità, keyword, ottimismi (“lo sguardo rivolto
sempre al futuro”) camilleriani. Basta poco, se uno confronta la Sicilia come
la si viveva ancora negli anni 1990, silenziosa e sola, con quella di oggi –
anche prima della celebrazione che ne ha fatto “The White Lotus”: il linguaggio
– l’immagine – ha forza dirompente.
Ha imparato a
scrivere Montalbano da Simenon, dalla serie di Maigret impersonato da Gino
Cervi che lui ha realizzato come produttore Rai – lo spiega in un’intervista sul “Corriere della sera” il
12 luglio 2013: “Da produttore del Maigret televisivo… imparai l’arte dello
scrivere romanzi gialli seguendo lo sceneggiatore, Diego Fabbri, il quale
destrutturava proprio il romanzo, e lo ristrutturava” – “proprio”, cioè per
intero: “Da questo smontaggio e rimontaggio imparai a scrivere un giallo…..
Anni dopo, quando mi venne in mente di scrivere il primo poliziesco, mi tornò
in mente questo lavoro fatto accanto a Diego Fabbri”.
Diego Fabbri –
Lo scrittore da cui Camilleri diceva di avere imparato l’arte di scrivere un
giallo (v. sopra), da tempo dimenticato totalmente – nessuno ne chiese notizia a
Camilleri, non durante l’intervista e neppure dopo la sua spiegazione – è stato
un commediografo molto presente sulle scene negli anni 1950 e 1960. Molto romagnolo
e molto cattolico - il suo “Processo a Gesù”, regia di Orazio Costa, il maestro
di Camilleri all’Accademia “Silvio d’Amico”, fu il successo del Piccolo di
Milano nel 1955. Autore di “quasi cinquanta drammi” – già nel 1950 aveva rubato
la scena a Milano con “Inquiszione”, un dramma che fu portato anche a Parigi. Sceneggiatore
di una quarantina di film, nonché di molti teleromanzi Rai, fondatore del sindacato
autori teatrali con Bontempelli et al., direttore della “Fiera Letteraria”,
insomma una presenza autorevole e ubiqua.
Follia – È (anche) un
espediente politico – lo è pure letterario, famosamente (“Sarà pure follia, ma
c’è del metodo in essa”, il cortigiano Polonio famosamente dice a proposito delle
bizzarrie di Amleto). Machiavelli la teorizza al capitolo 2 del libro terzo del
“Discorso sopra la prima deca di Titolo Livio”, titolo: “Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia”. Più di recente teorizzata dal famoso Comma 21 di
“Comma 22”, la satira del militarismo di Joseph Heller, del regolamento
dell’aviazione americana: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle
missioni di volo”. Cui segue inevitabile il comma del titolo: “Chi chiede di
essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.
A proposito di Shakespeare: “Sono molti i re pazzi in Shakespeare. Ma non
lo è il più cattivo di tutti, Riccardo III” – Siegmund Ginzberg, “Il Foglio”
sabato 6.
Inglese – Non c’è più l’inglese, constatava
Patricia Highsmith in conversazione con Josyane Sauvigneau, ripresa da “Le
Monde” in morte della scrittrie, il 7 febbraio 1995: “Muore di divenire una
lingua di comunicazione”.
Italia – È litigiosa,
per costituzione: “Come intuì Machiavelli…la conflittualità endemica è
probabilmente l’origine del nostro dinamismo e del nostro spirito creativo”,
Alessandro Campi, “Robinson”, 7 settembre: “Il conflitto fratricida è il mito
fondante di Roma. Le congiure rinascimentali erano bagni di sangue in famiglia.
Il Risorgimento ha avuto una componente di guerra civile. Due guerre civili
sono all’origine e alla fine del fascismo. Poi gli anni di piombo. Berlusconia contro
antiberlsuconiani… è la nostra storia. Il massimo del particolarismo (e settarismo) politico in una cornice di
cosmopolitismo culturale iniettato nella storia italiana del mito romano imperiale
e del cattolicesimo”.
Selfie – “C’erano una
volta i romanzi, ora qui è tutta autofiction. Un tempo, tra la metà e la fine
del XX secolo, la narrativa letteraria attraeva un pubblico enorme. Oggi gli
scrittori sono passati alla dittatura dell’io” - Beppe Cottafavi, editor Mondadori.
Gli scrittori o gli editori?
Ma delle memorie si pretende che siano “vere”. Non più o meno vere,
proprio vere. Su “7” Camilla Baresani può ripercorrere una mezza dozzina di
casi in cui l’autore – poi spesso l’autrice – ha dovuto confessare di essersi addossata
la storia, in tutto o in parte, per andare in stampa, per farsi notare, per
vendere. Anche a costo di affrontare scandali, anche in tribunale, anche di penali e
risarcimenti milionari: J.T.Leroy, “Ingannevole
è il cuore più di ogni cosa”, Misha Defonseca, “Sopravvivere coi lupi”, James Frey, “In un
milione di piccoli pezzi”, Benjamin Nilomirski, “Frantumi. Un’infanzia
1839-1948”, Raynor Winn, “Il sentiero del sale”. Due dei cinque best-seller sfruttavano
i cliché della Shoah, lo
sterminio degli ebrei a opera di Hitler.
L’autobio non è una novità, ogni scrittore poco o molto ne ha fatto
materia. Ma con incidenza e senso diversi. “Alvaro è sempre autobiografico,
cioè lirico”, poteva notare dello scrittore calabrese Umberto Bosco (“Pagine calabresi”, 1975, “ma
trascende sempre il suo io, lo dissolve negli altri; negli altri capisce se
stesso”…. Un autobiografismo “contrario dell’egocentrismo, la negazione del
narcisismo”.
Lo stesso C.Alvaro, nelle Note autobiografiche premesse a “Ultimo Diario”
(1959), si pone un limite: Il fatto dell’autobiografia nei libri è da indagare
con molta cautela. Quanto a me, mi seccherebbe molto riscrivere quello che ho
veduto”.
Tragedie – “Ci sono due
modi per risolvere una tragedia. Uno è quello di Shakespeare e l’altro quello
di Cechov. In Shakespeare alla fine tutti sono morti. La scena è coperta di
sangue, e la Giustizia svolazza su tutto. In Cechov sono tutti frustrati e
arrabbiati, col cuore a pezzi ma vivi” - Amos Oz, “In terra d’Israele”.
letterautore@antiit.eu
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