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martedì 9 settembre 2025

Brutale è il film, per lo spettatore

Nel confuso dopoguerra l’architetto Läsló Tóth, ungherese, ebreo, sopravvissuto a Buchenwald, riesce a raggiungere gli Stati Uniti, rientrando in un programma trumaniano di 300mila visti, mentre sua moglie Erzsébet, altrettanto titolata, laureata a Oxford, giornalista famosa, anch’essa ungherese ed ebrea, sopravvissuta a Dachau, no. Anche perché deve vigilare su una nipote che ha qualche problema comportamentale. Gli scriverà con costanza, finché a metà film non lo raggiungerà. Lui intanto è diventato celebre anche negli Stati Uniti come architetto. Sponsorizato da un ricco americano appassionato di architettura. Ma parla sempre un pessimo inglese, e sempre resta un po’ estraneo. Erzsébet, la moglie, sorprende tutti quando lo raggiunge, per la spigliatezza, la padronanza dell’inglese, l’uso di mondo, etc. Ma ha sviluppato una precoce osteoporosi, per malnutrizione.
Un film premiatissimo, trionfatore a tutti i premi in America, ma una tortura per lo spettatore – cui non lascia nulla di trionfale, memorabile semmai per lo squallore, di scenografie, di dialoghi, di recitazione.
Il titolo viene dal “brutalismo”, una corrente architettonica tra le due guerre di tipo ingegneristico, che privilegiava l’uso del cemento, a vista – un po’ come i palazzetti di Nervi, che era appunto un ingegnere, e la sua stazione Termini a Roma (oggi nei cubi e parallelogrammi di Zaha Hadid, anche a Roma). Tóth ne è un virtuoso. Anche il Centro Comunitario, la cui progettazione e costruzione è al centro del film, lo è, attraente. Ma resta inanimato, come il film – anche perché recita, deve recitare, come un manichino. Il deus ex machina, un miliardario americano che promuove e risolve tutto, e i suoi familiari sono del tutto improbabili, inanimati, anche come personaggi antipatici – si limitano a parlare di seguito, come a “buttare la battuta” davanti all’obiettivo, ininterrottamente. La moglie appena reduce dal viaggio transatlantico pretende di far godere il marito ritrovato anche se non può reggere l’amplesso. Un cugino Attila, di grande aiuto i primi tempi in America, poi scompare, reo di essersi battezzato. Un quadro, una serie di quadri, della vita come viene, tal quale, senza pause, senza nulla di non detto. Senza nulla, alla fine, di significante. Italia compresa. A Carrara - il bianco Italia ci vuole in architettura - 
Läsló viene violentato, niente di meno, da uno dei suoi benefattori americani. A Venezia viene celebrato alla Biennale Architettura.

Quattro ore di minuzie e nessuno slancio. Con un Adrien Brody, che troneggia in ogni scena, anche lui superpremiato, non si sa se in quanto “reduce della Shoah” o in quanto attore, ma con una sola espressione: inespressivo – del tipo “fate la faccia triste”.

Brady Corbet, The Brutalist, Sky Cinema

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