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sabato 13 febbraio 2010

Quando l'emigrato si bastonava, ieri

Quanto deve essere bello-e-buono l’emigrante? È una risposta che ci dobbiamo, perché la Lega e il governo stanno rompendo ogni diga, del diritto alla vita se non dell’intelligenza – con la scusa della legge e l’ordine, altra diga che invece fanno di tutto per infrangere. Dev'essere giovane e robusto, comunque pieno di coraggio: gliene servirà una riserva inesauribile per superare il trauma di un'altra lingua, un altro clima, altre abitudini alimentari, dell'estraneità, e della povertà inevitabile. L'emigrante infatti, che parte per fare fortuna, sa che deve passare attraverso la miseria morale e la solitudine, se non anche l'indigenza economica. Ci vuole tempra per venirne a capo, e forse per questo l'emigrazione di massa ha fatto e fa la fortuna di alcuni dei paesi più ricchi dell'Europa, dell'America, dell'Oceania. Per gli emigranti la storia è diversa.
Nei primi trent’anni della Repubblica, dal 1946 al 1976, calcola Andreina De Clementi, storica del socialismo e dell’emigrazione, sono emigrati sette milioni e mezzo d’italiani. Poco meno di un terzo di essi sono emigrati dal Triveneto, che ora alimenta il pregiudizio anti-immigrati. Fino agli anni Sessanta c'erano gli italiani, la domenica pomeriggio, alla stazione delle ferrovie di Colonia o di Monaco di Baviera, per passare qualche ora a parlare la propria lingua, anche se in compagnia di estranei. Così come ora ci sono i filippini o i pachistani davanti alla stazione Termini a Roma. Andreina De Clementi analizza il fenomeno dal loro punto di vista, anche se con la documentazione ufficiale, ora pubblica fino al 1956 – che è poi il pregio della sua ricerca, l’analisi dei documenti dei ministeri degli Esteri e del Lavoro da poco accessibili. E ne ricava una storia di trappole e pregiudizi. Tanto più per essere stata quell’emigrazione regolata da accordi bilaterali e non selvaggia.
C’è stata anche un’emigrazione clandestina, ma in situazioni specifiche, in periodi circoscritti. Soprattutto verso la Francia, attraverso i valichi alpini. Ravanusa, nell’agrigentino, perse ottomila abitanti in cinque anni, la metà dei quali per canali clandestini. Normalmente l’emigrazione era regolata con minuzia e controllata. Tra l'Italia e i paesi di destinazione, ma un po' ovunque tra i paesi europei e con le Americhe: era un'emigrazione r egolata, senza prostituzione né droga, né merci contraffatte per il mercato parallelo. E tuttavia non c’è stato impegno internazionale che tenesse. Per la fortissima, costante, inderogabile opposizione dei sindacati nazionali in Francia, Gran Bretagna, Australia, Canada. In Gran Bretagna si arrivò all’espulsione di migliaia di minatori italiani regolarmente ingaggiati e già in attività. Per pregiudizi di tutti i tipi: politici (italiani fascisti, traditori,sconfitti), religiosi, razziali.
C'erano già le Leghe. Con le note schizofrenie a cascata, tipiche del "razzismo a pelle" - per esempio: ciò che è razzismo a Rosarno (Stoke-on-Trent, Peterborough, Greta, Bonegilla, Alta Savoia) non lo è a Milano (Londra, Sidney, Parigi), "noi siamo civili". E c'erano giài trafficanti di schiavi - dei viti d'ingresso, i permessi di soggiorno, le rimesse. In Alsazia e Nord-Pas de Calais in Francia, migliaia di emigrati chiesero il rimpatrio ai consolati subito dopo l’arrivo, per le terribili condizioni cui erano destinati, di lavoro e di mantenimento. Gli emigranti furono anche vittime di pestaggi in più luoghi, senza protezione legale. L’Australia non voleva italiani “di pelle scura”. L’Argentina progettò di escludere i meridionali. Il Canada lo fece. I dieci anni dell’emigrazione postbellica, per quanto protetta, fanno solo una storia di sfruttamento. Ovunque in Europa, compresa la Cecoslovacchia, nel Commonwealth e in Sud America – con l’eccezione del Venezuela.
E dunque, che segno dare all'emigrazione? Non se ne può farne una colpa agli emigranti, soprattutto se richiesti e provvisti di tutti i timbri. Non si può fare una colpa al genere umano del nomadismo risorgente, richiamo duro a morire di una tradizione ancestrale - se non è un istinto, o addirittura una passione, benché non sia registrata dai grandi classificatori, né da Aristotele e San Tommaso, e neppure dai gesuiti, Cartesio, Spinoza, Fourier. A lungo nella storia si è viaggiato per curiosità, per spirito d’avventura, o in esilio, forzato o volontario (quanti delinquenti hanno fatto fortuna in California o in Australia!). Da un secolo e mezzo, treni, autotreni, gommoni e bastimenti hanno dato vita al cosiddetto viaggio della speranza. Da metà Ottocento intere popolazioni si sono spostate, alla ricerca di un salario, che è la forma moderna della riserva di pascolo o di caccia della preistoria: tedeschi o irlandesi che sfuggivano alla carestia per il mancato raccolto delle patate, polacchi stretti fra austriaci, russi e prussiani, italiani del Sud immiseriti dalle politiche doganali anti-agricole, e ora gli africani e gli asiatici.
Attualizzata, questa ricerca si presta a due considerazioni. Quattro milioni di italiani con una specializzazione o un diploma lavorano oggi stabilmente all’estero, cinque-sei con le famiglie. Cinque-sei milioni di africani, asiatici e latino americani fanno in Italia i lavori umili. È in atto, grazie alla mobilità, una sorta di specializzazione ricardiana della merce lavoro, su cui forse non si può intervenire. Che però dice che il sistema produttivo e di governo è in Italia al di sotto delle aspettative della società italiana. C’è anche una tragica ironia nel fatto che il minatore italiano veniva “scambiato” nel primo dopoguerra quella tonnellata di carbone che aveva troncato il Risorgimento, l’Italia riducendo a Italietta, “un paese senza carbone”, domandola con la dipendenza energetica: tra il 1870 e il 1900 la tonnellata di carbone britannico o tedesco costava all’Italia tre e quattro volte più che nella Ruhr o nelle miniere gallesi. Ora comunque non c'è più nulla da fare, per un governo e per un paese, se non adattarsi al meglio a una situazione che in nessun modo può regolare d'imperio: il mercato internazionale del lavoro è un fatto.
Il mercato del lavoro è internazionale
Ci sono una cinquantina di milioni d'immigrati oggi in Europa, dalla Turchia, dall’Asia, dall’Africa, dal Perù e altri paesi latinoamericani. Di che fare un continente, a un tasso di fertilità medio, tra un paio di generazioni. Venticinque milioni di italiani sono emigrati in un secolo, fino agli anni Settanta. Di che procreare, a un tasso di fertilità medio, tre Italie nell'arco di quattro generazioni. E quattro milioni sono emigrati nell'ultimo decennio, in questoterzo millennio, che hanno ancora la cittadinanza italiana, tutti specializzati, diplomati, laureati, dottorati.
È una condizione antropologicamente debole. Emigrazione vuole dire scambio di ricchezza: un salario contro un apporto d'ingegnosità e applicazione. E un incontro: la civiltà si rianima con il meticciato, langue nell'endogamia. L'emigrazione moltiplica le opportunità. Non sempre però, non necessariamente. Anzi in questo secolo e mezzo sono perlopiù, i viaggiatori della speranza, l'esercito di riserva del lavoro, braccia a buon mercato usa e getta secondo le convenienze. E per questo tenuti separati, in punta di bastone, diversi. Quand’anche i governi li accolgano e proteggano come ogni altro buon lavoratore nazionale, come avviene in Germania, in Olanda, in Gran Bretagna, anche in Francia, restano separati nella riserva dell'odio: il gene dell'antisocialità originaria, della violenza, è sempre integro e in agguato, e la tendenza all'esclusione è una delle sue forme.
Si può capire il pregiudizio, senza naturalmente scusarlo: gelosia e orgoglio discendono dall'insicurezza. Abbiamo sempre paura di qualcuno o di qualcosa. Ma l'emigrato resta straniero anche alla sua patria, lontano, indifferente, se non ridicolizzato o criticato, e questo è più triste. Perché è vero: ogni emigrante porta in se stesso, nella sua carica di dignità, le vere radici nazionali. E dunque, perché emigrare in queste condizioni? Perché emigrare da clandestini, a costi astronomici, in condizioni di semi schiavitù, come usa nella civile Europa?
Perché l’indigenza in altri mondi è insopportabile. E non si sopporta più, la globalizzazione ha questo effetto: ha sempre meno esclusi, introducendo alla produzione e al consumo le masse asiatiche e latinoamericane, e per l’egualizzazione dell’informazione. “Il prezzo della ricostruzione” documenta un governo dell’emigrazione, seppure a fini perversi. Ora niente è più governabile, non dall’Europa, non dall’Occidente, per quanto si affanni e faccia la faccia feroce: sfuggono gli scacchieri bellici, sfuggono le merci, si ha voglia di marchiarle, e sfugge in massa l’immigrazione. Che è, sarà, un fattore di egualizzazione. Sarà, è già, la "grande trasformazione" del millennio - se in questi termini la globalizzazione è accetta, se ancora c'è un'ortodossia cui obbedire, seppure solo terminologica.
Andreina De Clementi, Il prezzo della ricostruzione. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra, Laterza, pp.216, € 20

Letture - 25

letterautore

Conoscenza - I gesti del mestiere di scrittore Barthes assimila a un cerimoniale di scongiuro, dell’afasia natale - afasia o perdita delle memoria, che piano piano si riacquista, con fatica e in parte? Si può pensare la memoria non come una cosa che si accumula ma come una cosa che si svela. E la conoscenza come un ritrovamento della memoria – genetica, di specie, familiare, sociale. È una riacquisizione, poiché non si impara liberamente ma secondo canoni prestabiliti: le “leggi” della logica e dell’etica, i tabù, le credenze, la tribù, la famiglia. C’è infatti una conoscenza “normale” e altre forme irregolari. La norma (Pirandello) è la memoria?

Don Giovanni - Cesbron ne fa un giovane borghese sotto educazione sentimentale, alla Moravia: la mamma (Freud), la borghese da portare a letto (Marx), etc. Tutte cose che volgarizzano don Giovanni, il Novecento sarà stato un secolo semplificatore anche per questo, terribilmente rozzo.

Viene dopo Dio nel vocabolario. Ma è più tormentato.

“I sette dolori di don Giovanni”, il racconto di Vernon Lee, è la rielaborazione più originale del Don Giovanni: in un patto con la Bellezza (la Vergine delle sette spade, titolo originale), don Giovanni impegna, e quindi perde, l’inestinguibile lussuria.

Negli anni 1980-1990 le “polacche” in Sicilia e in Calabria ravvivarono l’istituto del matrimonio. Si chiamavano polacche ma erano anche romene, ucraine, moldave, eccetera, slave, donne dell’Est. Erano arrivate al seguito del papa Woytiła e dopo la caduta del Muro per fare il piccolo commercio e lavorare nelle case, e trovarono tutte, quelle che l’hanno voluto, un marito. Uno qualsiasi per loro era comunque meglio degli uomini ubriaconi e maneschi che lasciavano al paese. Erano ambite perché libere mentalmente (viaggiavano, fumavano, entravano nelle case) e amanti del matrimonio. Di ciò che il matrimonio dovrebbe essere: sesso, comprensione, compassione, aiuto vicendevole.
Un’eccezione, non si potevano dire donne Giovanne.

È un nobile philosophe, uno snob. È creazione letteraria. È un mito, come Werther, Robinson, Amleto, come Dante stesso, e già Virgilio. Creato nell’ambito del fas e del nefas (l’indicibile: mistiscismo, religione). L’equivoco nasce con Mozart (Da Ponte), col fatto che gli si apparenta Casanova, altro settecentesco come Mozart (Da Ponte). Da qui la contraddizione. Mentre Casanova e don Giovanni sono agli antipodi, nel rapporto con le donne. L’“odor di femmina” piace a Casanova, lo assoggetta.

Nel “Mito di Sisifo”, il trattato anti-suicidio di Camus, don Giovanni è uno dei tre “uomini assurdi”, gli “eroi” che sovrastano la vita. Camus lo vede in “una cella di uno di quei monasteri spagnoli remoti sopra una collina. E se guarda qualcosa, non sono i fantasmi degli amori sfuggiti, ma forse, da una feritoia cocente, qualche pian silenziosa di Spagna, terra magnifica e senz’anima in cui si riconosce”.

Più che l’amore, che ora sappiamo può essere monosessuale, o asessuale, dice la solitudine dell’innamorato. O: l’innamoramento, forma suprema di rapporto, di conoscenza, isola.

C. Alvaro, “Gente che passa”, pp.221 (“Apologhi per le donne”): "L’uomo che tu chiami libertino è una vittima di un amore infelice. Egli crede sempre nella donna, ma non più in una, alla donna in astratto: capelli, occhi, guance, collo, manisono per lui altrettanti continenti, mondi in un mondo. Egli non riesce a concepire più unitamente poiché il complesso di una donna gli si è rivoltato contro come cento forze diverse. Perciò egli ne adora gli elementi separati, si contenta di uno solo”.

Venezia è il posto di don Giovanni, più che la Spagna (Giono, “Voyage en Italie”, p. 135).

Giallo – Lo è la storia. Da sempre. Del Buono ne ha trovato le radici nella Bibbia, ma c’era già prima.

L’indizio, prima del paradigma indiziario, di Ginzburg, emerge quale uno dei due componenti della narrazione nel vecchio saggio di Roland Barthes, “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti”, tradotto in AA.VV., “L’analisi del racconto”, 1969: è lo scarto, l’imprevisto, l’estraneo. L’altro componente, detto “funzione”, è invece la parentela, la familiarità tra i segmenti della sequenza lineare del racconto. Una distinzione che non cambia nulla ma spiega molto.

Repubblica – La Repubblica non sa scrivere. Non si applica, non pianta giardini né viali, non costruisce piazze né palazzi, sa fare film, sapeva, cioè luccicare. Per trovare un autore bisogna risalire a trent’anni fa, al primo Tabucchi. Montale, Gadda, Landolfi, Luzi, Moravia, Quasimodo, Ungaretti, Saba, Savinio venivano da prima della prima guerra. Pasolini si ricorda per la vita, come D’Annunzio, protomartire gay, e per alcuni film. Calvino è richiesto nel mondo come scrittore per ragazzi. Sciascia è buon narratore di apologhi politici, di una cosa cioè che disprezzava. Sotto l’incredibile Vittorini, un gigante in mezzo tanta truppa, la “poesia” è stata castrata. Poco il resto: franco-fortini e (s)balestrini, tanti. Cristina Campo, chi era costei? Arbasino è fottuto dalle cattive compagnie. Ripellino è morto. Piccolo e Tomasi sono stati ripescati da ultimo, senza inediti. E la critica? Contini ci ha lasciato in eredità Pizzuto.

Scrivere – È non avere pudore. Una delle forme della mancanza di pudore. Una delle più spregiudicate. Come la prostituta che esibisce fianchi, tette, cosce, lingua, lo scrittore esibisce le sue interiora, in forma di poesia e di filosofia.

In Oriente è aggiungere un po’ di sale alla vita, niente di più. È una delle forme della comunicazione, una cosa semplice. Non è ricerca della verità nel verbo - con gli esiti che ridicolizzano la letteratura occidentale: formalismo, rottura, ambiguità, circolarità, plagio.

È un esercizio sportivo individuale, una sciata, una passeggiata.

Lo “stranissimo” caso delle opere che vengono accantonate perché non rientrano in un modello. O non forniscono esse stesse, o i loro autori (Pound per Joyce, Brod per Kafka…) uno schema interpretativo. Miseria della critica.

letterautore@antiit.eu

giovedì 11 febbraio 2010

Problemi di base - 24

spock

Perché Obama non è più Obama da quando vuole governare i banchieri?

Perché le attrici di Hollywood sposano gli attori, dopo i produttori, di Hollywood?
a)perché sanno di che si tratta
b)per raddoppiare (triplicare) la pubblicità
c)per non suicidarsi, sposando persone vere

Perché gli allenatori italiani in Inghilterra dicono che il calcio inglese è migliore?

Perché i martiri si sacrificano per l’orgasmo dei beghini?

Perché Spatuzza parla protetto, fuori sede, in carceri di massima sicurezza, e Ciancimino no?

L’Europa si è svuotata con Hitler, Stalin e Breznev, o era vuota anche prima?

Perché l’uomo di sinistra deve fare la faccia feroce? E la donna.

Perché Parise, tranquillo uomo di destra, per fiuto e sguardo, dev’essere assunto a sinistra?

spock@antiit.eu

Haiti si cerca nel meraviglioso

Hadriana, l’amore segreto del narratore, la settebellezze di Jacmel, il paese del narratore, muore sull’altare mentre sta per sposare un altro. Il giorno di carnevale. Dopo un uragano. I funerali si trasformano in un sabba, tutto il paese consuma il suo atto d’amore con la morta vergine. Ma la mattina dopo la ragazza non c’è più nella tomba. I cattivi spiriti l’hanno trasformata in zombie. O è una “evaporazione”, si dice, si spera, una morte apparente. Che è tanto simile alla petite mort dei convulsionari. Che è tanto simile all’orgasmo. Lo zio del narratore, giudice del tribunale, ne ha vissuto una ai suoi vent’anni, e lei, ora suora e badessa, ogni anno alla scadenza lo ricorda con una letterina amorosa, “al carissimo Fefè…. Gise nei tuoi ricordi”). Nell’“Albero della cuccagna” il senatore Henri Postel sfida il dittatore di Haiti, che ne ha sterminato con disonore la famiglia e l’ha ridotto in schiavitù, con un gesto che mobilita la popolazione e scuote il regime. Non due romanzi ma due racconti, molto esotici e molto europei, sapidi, godibili, simbolici.
La “Cuccagna” è la libertà kantiana, di chi è libero di dire no, la morte lo trasfigura. “Hadriana” è la storia di un amore che non muore. Depestre ha l’ambizione d’inventare un nuovo linguaggio per l’amore, vero surrealista trockista alla Breton, anarchico della parola. Gli uomini usano per una donna “le stesse parole che esprime la gioia ce viene loro da un cibo”, appetitosa, dolce, gustosa, mentre l’amore è tutt’altra cosa, c’è da inventare “una parola-suprema per dire la qualità o il prodigio del piacere che si prova a viversi attraverso il sangue” (“Cuccagna”, p. 127).
“Hadriana” è anche una storia simbolica, doppiamente. Della natura ritrovata, e della politica, perduta a Cuba, ritrovata in Giamaica, tra i “negri”. Di un’invettiva l’autore non riesce a privarsi quando, felicemente in cattedra a Kingston, un ricordo velenoso di Cuba emerge: “In altri tempi, sotto un cielo meno ospitale, mi ero trovato incastrato” tra falsi amici, “titolare di una falsa cattedra universitaria, sotto gli occhi «programmati» di falsi studenti”. La morte rinascita rinsalda i legami, della tradizione, del sangue: con la morte di Hadriana “la filiazione naturale tra il reale e il meraviglioso è stata recisa”, il legame che fa la forza di Haiti, dell’Africa trapiantata ai Caraibi, e non può essere.
Un terzo simbolismo, indiretto, è nelle date. “Hadriana” evapora nel 1938: Haiti è piena di fermenti e quindi di ricchezza. Ma sono appena quattro anni che le truppe Usa mandate dal pacifista presidente Wilson nel 1915 a occupare Haiti hanno lasciato il paese, nel quale ci sono quindi ancora alcune delle strade che essi hanno costruito, qualche ospedale e delle case in muratura. “L’albero della cuccagna” è invece anni Sessanta, in cui ogni luce ha abbandonato il paese, sotto l’Elettrificatore, Papa Fallo, Papa Doc, il tiranno sanguinoso Duvalier. L’albero è anzi l’Elettrificatore stesso, che ci fa l’amore stregonescamente.
Depestre, nella sua seconda vita sempre all’instancabile ricerca della donna-giardino, con la capacità straordinaria di estrarre dalla donna, dalla maschile fantasia della donna, la “negra sole”, la natura, l’essere fuori dall’ordine, fuori dalla modesta ratio borghese, è stato fino ai quarant’anni buoni vittima del breznevismo di Castro. Emigrato da Jacmel a Parigi per studiare e sfuggire alle dittature, fu preso in carico e sostenuto dal gruppo di Présence Africane, il primo nucleo del nazionalismo africano: era, ed è stato a lungo, un poeta combattivo. Salvo poi criticare il gruppo come borghese. Espulso dalla Francia per motivi politici, emigra all’Est, in Jugoslavia e a Praga, da dove è inviato in Sud America, in Cile, in Argentina e, per due anni, in Brasile. Dopo un intervallo a Haiti nel 1958, incuriosito da Duvalier, si stabilisce l’anno a Cuba per una ventina d’anni, benché negli ultimi in dissenso aperto con Castro, insegnando all’università e viaggiando in Russia, Cina, Vietnam. Lascia Cuba nei tardi anni Settanta per la Giamaica, e infine si stabilisce a Parigi, per un lungo periodo all’Unesco, poi premiato autore di questi racconti. Tardi, ma è una sorta di piccolo Dumas, lievemente più abbronzato forse, e meno fluviale, ma con la stessa libera gioia di vivere - che a questo punto si potrebbe dire creola, o antillana, la cifra di una poesia se non di una condizione di vita.
Haiti, che il mondo scopre quasi inesplorata col terremoto, fu “la più bella cosa del mondo” per Cristoforo Colombo, che la battezzò Hispaniola. Subì per questo la prima conquista spagnola, che ridusse la popolazione taìno da tre milioni a seimila, e la destinò a centro della tratta degli schiavi africani. Ceduta dalla Spagna alla Francia a fine Seicento, ha fatto anch’essa la sua rivoluzione a fine Settecento, a non l’ha più finita: di rivoluzione in rivoluzione, con grandi vittorie, una di esse contro il generale Victor-Emmanuel Leclerc, il primo marito di Paolina Bonaparte, “il più grande cornuto della storia”, e grandi sconfitte, è sfinita. “La follia individuale del potente diviene pantagruele grottesco, maschera deformata”, dice della “Cuccagna” Fabio Rodríquez Amaya, l’ispanista che ne cura la pubblicazione, ma l’osservazione vale in realtà per Haiti e i Caraibi: “Il tema del potere rientra come conseguenza di una tipologia letteraria ormai consolidata nei Caraibi dall’opera del cubano Alejo Carpenter e del colombiano García Márquez e nel continente dal paraguaiano Agusto Roa Bastos”, sulle orme del “Tirano Banderas” di Valle-Inclán, nelle spoglie di un dittatore iperbolico e apocalittico.
L’anima è l’animismo
I due racconti sono farciti con un centinaio di pagine ciascuno di precisi rituali e divinità vudù. Per questo stesso fatto separati dalla stregoneria dei galli e le pozioni, finiscono per dare all’isola derelitta una qualche consistenza. Nell’intermezzo, il “Secondo Movimento” di “Hadriana”, l’autore lo dichiara: “”L’efficacia della magia (l’ho imparato da Lévi-Strauss) è un fenomeno di consenso sociale”, di coesione. Sullo zombismo pretendendo di costruire una nuova antropologia del colonialismo, una storia di reificazione troppo in fretta passata agli atti. Ma in realtà lo vivifica, se non con i suoi mostri, con la”reificazione” del meraviglioso che li crea. Nelle due storie l’animismo caraibico, anche stregonesco, ha una distinta funzione risarcitoria e rivoluzionaria, per il bene, la bellezza, la resistenza.
Depestre opera, confusamente, il recupero della négritude, quale Senghor e Sartre l’aveva no definita, dopo averla rifiutata e derisa perché così voleva il Diamat moscovita. Con più lucidità nell’intermezzo tra le due narrazioni di “Hadriana”, a migliaia di miglia di distanza, nei giardini del Lussemburgo a Parigi, con la bella bianchissima giornalista del razionalissimo “Monde”. Depestre è stato il distruttore negli anni 1960-70 della negritudine, che ha sbeffeggiato come l’ultima beffa del colonialismo, assaltatore addestrato e feroce, più di Frantz Fanon, per conto del materialismo dialettico. Anche se il concetto era stato enucleato dal primo grande intellettuale del suo paese, l’etnologo Jean Price-Mars, in “Ainsi parla l’oncle”, del 1928, per l’africanismo persistente ai Caraibi. E tuttavia vale sempre l’avvertimento di Sartre quando il problema si pose, nell’“Orfeo negro”: meglio un’identità che nessuna identità, è una hegeliana antitesi che comunque sarà feconda.
L’intermezzo prende atto, in una diecina di ancora solide proposizioni, che uno stato di schiavi ha una storia di schiavi, e un linguaggio di schiavi. Che deve per questo ancora trovare, nel terzo millennio, una forma di governo che non sia distruttiva. Ma che non si può e non si deve buttare via, estraendone anzi le forze costruttive, per esempio la fantasia. Che si sfrena nei riti, come nel sesso, e nella violenza. Ma a una sommatoria non negativa. La sessualità debordante obbliga il richiamo a Zuma, per esempio, o Idi Amin, Omar Bongo, per non dire di Duvalier, a una maniera tutta africana di atteggiarsi del politico. Ma anche a Vinicius de Moraes e alle sue nove mogli, un assetto non vuduesco, seppure brasiliano, della cultura. Tutti casi negativi e non: un mondo da cui non si esce se non esorcizzandolo, in qualche modo introiettandolo.
Questi “romanzi” della deiezione, tra “uragani, incendi, divinità vlanbindinghe, senza parlare dei flagelli di Stato”, e ora il terremoto, testimonia il vitalismo di una cultura, africana e quindi trapiantata, di seconda mano, ma non sradicata: animista, orgiastica, pagana insomma. Che non si può cancellare, ma adattare a questo terzo millennio della pace borghese.
René Depestre, Hadriana in tutti i miei sogni, Giunti, pp. 177, € 4,65 (Remainders)
L’albero della cuccagna, Jaca Book, pp.199, € 5,68 (Remainders)

martedì 9 febbraio 2010

L'intemezzo comico del giudice

Che pensare del giudice Fontana che lascia dire a Ciancimino tutte le scemenze che vuol dire, per tre giorni, uno a settimana, per non faticare troppo, senza mai contraddirlo, senza farlo contraddire dagli avvocati, senza dissuaderlo, senza allontanarlo, come pure è in suo potere? Un delirio d’onnipotenza, comune col padre, mafioso accertato di prim’ordine, tutta la vita, uno che si riteneva dominus della Sicilia, la Democrazia cristiana, i carabinieri, e anche i giudici. Che infatti lo mandarono al confino in piazza di Spagna. Da dove il figlio Massimo scendeva per fare il principino.
Dice: è la procedura. Ma il processo è il processo del giudice. È il giudice Fontana che pone le domande, o non le pone, e avrebbe ogni mezzo per troncare questa ignobile parata, della mafia che accusa in tribunale la politica, la magistratura e i carabinieri. Dice: ma questo non è un giudizio, il giudice si pronuncerà con la sentenza. No, questa è una condanna, senza dibattimento, senza prove, e inappellabile, starà scritta indelebile in tutti i giornali e nella rete. Fatta pronunciare a un mafioso figlio di mafioso, che tanti morti ha sulla coscienza, e solo parla per riavere un tesoro insanguinato che vigile nasconde.
Si può certo dire che il giudice Fontana in cuor suo sta conducendo un’operazione contro la politica corrotta, Berlusconi, Mancino, Rognoni, si sa che la politiva è sempre corrotta, contro i Reparti Speciali dei carabinieri, magari per conto della stessa Arma, e contro i giudici di Palermo che forse sono suoi nemici, Sciacchitano, Pignatone, Grasso. Può farlo? Dice: può farlo in coscienza, poiché lo ritiene giusto. Ma questa non è giustizia. Non è il compito per il quale paghiamo il giudice Fontana, che ha giurato fedeltà alla Repubblica. Nel silenzio del Csm. Che però si tiene Mancino.
Il giudice tormentato dalla coscienza è caro a Sciascia, alla Sicilia che si contorce allo stravolgimento della realtà. Mentre un giudice in un tribunale dello Stato ha degli obblighi, etici e legali, e molti percorsi definiti. Ma anche nella figura tormentata sciasciana non può essere uno che fa finta di berle tutte, questo sarebbe disonesto, o altrimenti stupido – nella tragedia siciliana farebbe l’intermezzo comico: un giudice è uno che, insomma, ne sa più di Massimo Ciancimino, un pentito-non-pentito, un mafioso che cerca meriti con la mafia. Roba da “L’autunno del patriarca”, altro che coscineza, da TonTon Macoute, tutto così tragico e ridicolo, nella Repubblica Italiana, da Quarto e Quinto mondo inferiore.

5 lezioni a Tremonti, 200 pp. di niente

Di che chiedere il rimborso all’editore! Che è però la serissima, ancorché napoletana, e un po’ accademica Áncora del Mediterraneo, Berardinelli, Macry, Fofi, Filippo La Porta, Herling, Hertzfeld, Percy Allum, Nelson Moe tra gli altri i suoi autori. Sotto il titolo “Tremonti, istruzioni per il disuso”, ben cinque economisti ricamano duecento pagine sul nulla, un articolo dell’“Unità” o di “Repubblica” contro il ministro, un solo articolo, sarebbe già meglio. Roba da revulsione.
Il mondo crolla, senza rimedi in vista, e cinque economisti non trovano di meglio che rifare le bucce a Tremonti, a due libri di Tremonti, “La paura e la speranza” di due anni fa, e “Rischi fatali” di cinque anni fa. Anche in ritardo, dunque – trascurano “Lo Stato criminogeno”, forse perché pubblicato da Laterza, editore democratico. Merita ricordarne i nomi, per evitarli: Alberto Bisin, Michele Boldrin, Sandro Brusco, Andrea Moro, Giulio Zanella.
Non cinque economisti disoccupati, che passano il tempo al bar, i cinque si gloriano di aver girato il mondo tra le università più prestigiose, tutti cattedratici in America, eccetto Zanella in cattedra a Bologna. Goliardi forse, i cinque animano il blog noisefromamerica.org, dove fanno polemicucce. Il milanese Bisin, collaboratore della “Stampa”, vi ha difeso ultimamente Tremonti: “La rigidità finanziaria del ministro Tremonti è tanto impopolare quanto importante. Data la situazione in cui versa l’amministrazione locale nel Mezzogiorno, il governo fa bene nel breve periodo ad accentrare i centri di spesa per investimenti al Sud” - a conclusione, è vero, di un commento di comune fede leghista: “Il Nord continua a pagare”. Ma sono goliardi un po’ attardati, poiché vanno per i cinquanta, sempre eccettuando Zanella.
L’unico motivo di lettura è che i cinque usano lo stile che rimproverano a Tremonti. Anche se tragicamente non lo mimano, la loro non è una farsa, si vuole una satira e una tragedia. Una scrittura generica e non economicistica, da politicanti. Peggio, criticano i libri di Tremonti non per quello che contengono ma su quello che ne dicono le bandelle e il blog giuliotremonti.it. Si può anche decidere che non serve leggere un libro di Tremonti, anzi due. Ma bisognerebbe essere onesti, e limitarsi a un libro di una sola parola: “Stronzaggini”. Se si tratta di Berlusconi i giudici italiani lo permettono.
Si spererebbe a questo punto che i cinque, meno Zanella, siano fuoriusciti di Berlusconi, ma nemmeno questo è vero. Sono americani da vent’anni a passa, e in cattedra retribuita, anzi in tenure track, in carriera. E allora che vogliono i magnifici cinque? Divertirsi a nostre spese, quindici euro a testa. Si capisce a questo punto che l’economia sia la gamba debole dell’America che ci comanda.
AA.VV., Tremonti. Istruzioni per il disuso, Áncora del Mediterraneo, pp. 188, € 14,50

lunedì 8 febbraio 2010

Gli spiriti di Haiti resistono, a letto

“Un pomeriggio di giugno 1958, bighellonando nella stufa della Grande-Rue a Port-au-Prince, mi sono trovato faccia a faccia col mio amico d’infanzia e condiscepolo di classe Laurent Sterne”. Si diverte così René Depestre nei suoi racconti salaci, sempre assortiti di glossario per le innumerevoli varianti sul sesso dell’uomo e della donna, a metà tra la Sorbona e Jacmel, il villaggio d’origine, nel Sud-Ovest del paese, dove le cose si gonfiano inarrestabili, per uno spirito mordace che sopravanza la miseria. Nella donna caraibica incarnandosi la bellezza e perfidia della mulatta, di tanta letteratura europea. Bizzarramente trascurato nella tragedia di Haiti, Depestre ne è l’anima, anche in queste due raccolte di racconti apparentemente divaganti (quattro della raccolta "Éros" costituiscono il mini tascabile “L’oeillet ensorcelé”). Riuscendo un innesto unico, dopo Henry Miller, del sesso nel meraviglioso. Anzi meglio di Miller, del sesso sfrenato nel quotidiano e insieme nella magia.
È un Boccaccio contemporaneo, nero, haitiano, quindi su sfondo di loa, "umili dei del sottosviluppo", e incontinenze. La miscela del surrealismo, da Depestre mediato diciottenne a Port-au-Prince nel 1945, a un incontro con Breton che ritornava in Francia alla liberazione dalla Martinica, e metabolizzato trent’anni dopo - il "surrealiamo popolare" appaia all'"erotismo barocco" in "Ritorno a Jacmel", l'ultimo racconto di "Alléluia". Dopo trent’anni di vita politica, creatore del partito Comunista a Haiti, e per questo esule, in tutto il Sud America, nell’Europa dell’Est, in Cina, e per quasi vent’anni a Cuba, fino alla rottura con Castro nel 1978 – ma già in esilio dal regime dal 1971. Dopodichè si è stabilito a Parigi, alto funzionario dell’Unesco, premiato, a ogni raccolta di racconti e a ogni romanzo, dalla migliore critica (in Italia dal Grinzane Cavour nel 1995). Qui fa l’amore anche in Cina, come dice il titolo, e nella ex Hugoslavia, dove l’amore era proibito, nomade dalle radici multiple, “uomo-baniano” e “geo-libertino”. Le "Memorie del geolibertinaggio" sono un Rabelais tascabile, debordante di fantasia, la scoperta alla Sorbona che la realtà è "sedicente", ma l'amore di tutte le donne del mondo può ancorarla solidamente, dello studente intristito di medicina facendo d'un colpo un "pescatore di perle, orticultore della rosa nera, cacciatore dell'alga bianca, alchimista delle belle forme, corsaro, matematico, poeta epico...", avendo letto tutti i libri, "in un mondo saporitamente orizzontale in cui non c'è più guerra fredda".
Proibito l’amore è anche a San Paolo del Brasile, perlomeno tra un bianca e un nero, in quello che è l’unico racconto polemico o ideologico delle due raccolte, “Samba per Cristina de Melo Pessoa”: “Dopo le grandi città degli Usa, San Paolo è, giusto rima dell’Avana, l’agglomerazione più razzista dell’emisfero occidentale”. Ma gli spiriti di Haiti si divertono anche a San Paolo - di una umanità che sopravvive, malgrado l'inedia ancestrale, e "una terra senza tenerezze né consolazioni", anche due settimane sotto le macerie, cosa per la scienza medica impossibile.
René Depestre, Alléluja pour une femme-jardin, Folio, pp. 217, € 6
Éros dan un train chinois, Folio, pp.211, € 6
L’oeillet ensorcelé, Folio 2 €

Amarsi per odiarsi, il lager di Blanchot

Il titolo non tradotto da Marina Bruzzese in questa edizione presto scomparsa venticinque anni fa, e mai più ripresa, “Après coup”, è il post-fatto. È il titolo che Blanchot ha dato alla riedizione nel 1983 di due racconti del 1935-36, “L’idillio” e “L’ultima parola”. Di cui il primo si voleva che prefigurasse Auschwitz. Blanchot è imbarazzato a dire che no, e quindi teorizza l’autore fatto dai suoi scritti, con molto ingegno. È così che la postfazione, “Après coup” e “L’eterna ripetizione”, fa premio sui due racconti, che invece sono dei gioielli. È una postfazione specialmente ricca delle agudezas che ingombrano la migliore letteratura francese del secondo Novecento: “È la produzione che produce il produttore”, “È, semplificato, l’insegnamento di Hegel e anche del Talmud: il fare premia l’essere, che non si fa che facendosi”, “Dal «non ancora» al «non più», sarebbe questo il percorso di ciò che si chiama scrittore”, l’autore è Euridice, tentato di guardare la sua opera, benché la “legge” lo condanni a sparire, “se l’opera, per quanto minima, è a tal punto distruttiva che impegna l’operatore all’equivalente del suicidio”, “Ci sono le apparenze, non ci sono che le apparenze, e come fidarsi?”, et al.
I racconti sono entrambi concentrazionari. Ma d’impianto surrealista, seppure alla maniera di Kafka. Dal significato “storico” aggiornabile a varie situazioni attuali. “L’idillio” Blanchot avvicina nella postfazione all’opera successiva di Camus, in particolare allo “Straniero”, dell’esilio nel posto più civilizzato. E in effetti è l’anticipazione dell’immigrazione contemporanea, in un posto civilizzato come l’Europa. Ma sceneggia anche, aggiornato alla parità dei sessi e alla reciproca distruttiva comprensione, il vecchio tema del matrimonio come prigione: meglio la morte che la liberazione attraverso il matrimonio – “non potevano che continuare ad amarsi per continuare a odiarsi”.
“L’ultima parola” è nel titolo: un mondo che non ha più la “parola d’ordine”, una cifra, un senso, e non ha più biblioteche per ricostruire la parola, “ciò che succede quando si è troppo a lungo vissuto nei libri”. Un mondo dove, non essendoci più “parola d’ordine”, chiave di lettura, “la lettura è libera”, cioè inconcludente – mentre la letteratura è una vecchia megera. È un grande gioco linguistico del gioco linguistico di Wittgenstein, un gioco alla seconda potenza, se non è pratica talmudica: “L’ultima parola non può essere una parola, né l’assenza di parola, né altra cosa che una parola”. Perché “l’ultima parola non è già più una parola e tuttavia non è l’inizio di altro”. Anche se in italiano il gioco ha poco senso, non essendoci due parole diverse per due termini così diversi come parole e mot, e in inglese, in tedesco e in altre lingue. Una delle parole d’ordine è “fino a che”, ciceroniana.
Ma sono entrambi due racconti, ben sceneggiati, di stampo surrealista. “L’Idillio” fu subito letto e apprezzato da Bataille. “L’ultima parola” doveva uscire su “L’âge d’or”, la rivista del surrealismo, che però Henri Parisot nel 1936 chiuse provvisoriamente, essendo stato scomunicato da Breton. La scomunica politica che colpì Blanchot, con Bataille e altri, scrittori classificati di destra, ha oscurato poi a lungo la sua produzione pre-guerra.
Maurice Blanchot, L’eterna ripetizione e Après coup

domenica 7 febbraio 2010

Juventus penultima nel 2010

La Juventus è penultima in campionato a partire dalla diciottesima giornata, quella che all’Epifania ha segnato la ripresa del gioco, il primo turno del 2010. A quella data risale anche la sua ultima vittoria, a Parma. Cinque i punti raccolti dalla Juventus nelle sei partite di quest’anno, match col Parma compreso. Tanti quanti il Livorno. Ma meno delle squadre di fondo classifica, quelle che si battono per non retrocedere. Ha fatto peggio solo il Siena, che ha rimediato un unico punto. L’Atalanta ha fatto sei punti. Come la Lazio e l’Udinese. Il Bologna ha fatto otto punti, il Catania 11.
Con questa media nelle prossime quindici partite, la Juventus arriverebbe a fine campionato poco sopra la quota retrocessione: con 12-13 punti si attesterebbe a 47-48 punti. Alla pari del Catania, che con la media delle ultime sei partire totalizzerebbe anch’esso 47-48 punti. Risultato cui può ambire anche il Bologna, che ha una partita da recuperare. Sotto i 43-44 punti, considerati quota retrocessione, rimangono secondo la tendenza di quest’anno cinque squadre: Lazio, Udinese, Livorno, Atalanta e Siena.

Lo scrittore nel ruolo di sbirro

Prolisso divertimento risuscitato da Antonio Pane, infaticabile curatore della memoria di Pizzuto, e dalla Fondazione Pizzuto nel 1998. Inquietante anche: è un divertimento sugli anni dello scrittore alla Polizia Politica di Roma, gli anni di Mussolini. Anche se non per l’incarico, era un lavoro come un altro, dirà Pizzuto, non senza ragione.
C’è stata una polemica nel 2005, anche in riferimento a questo racconto, tra lo storico della Polizia Politica fascista Mauro Canali e la Fondazione Pizzuto. Pizzuto, in carriera in questura, era alla PolPol in qualità di poliglotta, e quindi incaricato dei rapporti internazionali. Lo storico Mauro Canali, nel riferirne in “Le spie del regime”, lamenta che il fatto sia taciuto dagli storici della letteratura e dall’autore. In parte è vero, Pizzuto avendo lasciato che il suo lavoro fosse ritenuto una sorta di Interpol, e non la Polizia Politica. Ma i fatti citati dallo storico, compresa la vista al lager di Oranienburg, delegato italiano ai funerali di Heydrich, sono la materia di questo libro – Heydrich, detto der Henker, il boia, organizzatore della conferenza al Wannsee ai primi del 1942 in cui fu deciso lo sterminio degli ebrei, era morto in un attentato della resistenza a Praga, dove era governatore sanguinario della ex Cecoslovacchia. Mentre un’appendice della figlia Maria documenta, in lingua pizzutiana, gli incontri con informatori e spie, lavoro che il padre si portava anche a casa. Rimasto a Roma dopo l’8 settembre, il genero Nanni Fruscia ne testimonia l’impegno “a sostenere presso un Kappler o un Dollmann, lui traduttore di Kant, il rilascio di qualcuno dei fucilandi”. Insomma, Pizzuto non è uno che non c’era. Anche se, come il suo concittadino e amico Guido Leto, che fu pure a capo dell’Ovra, la polizia segreta di Mussolini, tende a sottostimare il suo ruolo.
Il problema è che il caricaturale affresco del ventennio, da parte di chi c’era, senza problemi, viene dopo. Pizzuto non è solo, anche Gadda lo fece, il suo amico Lajolo, e molti altri: quando Mussolini era ormai fuori della storia. E senza traccia, purtroppo, del proprio ridicolo, della propria accettazione del regime quando non fu partecipazione. Ma il regime non era ridicolo né innocuo. Specie per uno che lavorava alla PolPol. Ci furono morti ammazzati, tra gli altri i fratelli Rosselli, ci furono intrighi altrettanto assassini, attentati finti a Mussolini, le bombe alla Fiera di Milano. E c’era, quotidiano, per Pizzuto il compito di spiare i fuoriusciti, cioè gli antifascisti.
Antonio Pizzuto, Rapin e Rapier, Editori Riuniti, pp. 250, € 7,75 (Remainders)

sabato 6 febbraio 2010

Il mondo com'è - 32

astolfo

Assassini (Hashishin) - Hassan-i-Sabah era un giovane sciita persiano, nativo di Qom, uno dei primi centri della colonizzazione araba dell’Iran, bastione dello sciismo duodecimano, educato alla religione nella vicina Ray (Teheran). A 17 anni, nel 1071 dell’era cristiana, Hassan incontrò a Ray un maestro ismailita. Ne divenne amico con diffidenza, perché gli ismailiti “filosofeggiavano”, termine blasfemo per una persona pia, su Dio. Ma un anno dopo anch’egli era ismailita professo.
Hassan lasciò Ray, la famiglia e gli amici, tra i quali il poeta Omar Khayyam, e si recò in Egitto, sede della dinastia Fatimide che privilegiava gli ismailiti. Vi giunse nel 1078, vi restò tre anni, peregrinò per la Persia per altri nove, e nel 1090 si prese il castello di Alamut, nel massiccio montuoso degli Elburz che dominano il Caspio. “Il resto del suo tempo fino alla morte (nel 1124)”, ha scritto il cronista Rashid el Din, “lo passò nella sua dimora, occupato a leggere, a stendere sulla carta le parole della sua missione, a amministrare gli affari del suo regno, con una condotta di vita ascetica, sobria e pia”.
Potrebbe essere l’agiografia del perfetto re, saggio e previdente. E invece Hassan fu il creatore e il capo della setta degli Assassini, che per oltre un secolo e mezzo, fino a che Alamut non fu presa e distrutta dai Mongoli nel 1256, “mise d'accordo, con l'efficienza che lo distingueva, l'assassinio e le arti liberali” (Freya Stark), insanguinando l’Oriente islamico, e anche la cristianità. Nel 1158 un Assassino fu trovato nel campo di Federico Barbarossa che assediava Milano, assoldato evidentemente dai milanesi. Nel 1195 a Chinon gli invasori inglesi scovarono ben quindici Assassini, assoldati dal re di Francia per uccidere Riccardo Cuor di Leone. Sei anni prima, il 28 aprile 1192, due Assassini avevano ucciso a Tiro Corrado del Monferrato, re di Gerusalemme, mandati dallo stesso Riccardo. Alcuni dei successori di Hassan tentarono perfino una politica di alleanze. Tracce di missioni diplomatiche degli Hashishin sono rimaste in varie cancellerie europee.
Hassan è il famoso Veglio, Vecchio, della Montagna, la cui memoria nel 1273, ad avventura finita, elettrizzò Marco Polo in viaggio verso la Cina. Marco Polo racconta con meraviglia come il Veglio si portava in soggezione i giovani suoi futuri sicari. Li faceva trasportare addormentati in un giardino bello come il Paradiso terrestre. Quando poi ne aveva bisogno per un agguato li faceva trasportare, sempre addormentati, dentro il suo palazzo. E alle loro inevitabili lamentele sul Paradiso perduto, spiegava che la missione da intraprendere era la sola maniera per riguadagnarselo.
Il racconto di Marco Polo è contestato dagli storici, non solo islamici. Il termine hashishin è storico, ed è il nome arabo della setta Nizari dello sciismo ismailita. Sarebbe derivata però non dall'uso dell'hashish ma dal nome del capo, Hassan-i-Sabah. La setta Nizari, di cui Hassan fu a capo, nacque sotto la dinastia fatimide ismailita sulla successione del califfo Ma'ad el-Mustansir Billah. I Nizari si chiamarono el-Da'wa el-Jadida, il Nuovo Appello (alla conversioe), in opposizione al Vecchio Appello fatimide.
E tuttavia è certo che quella del Vecchio della Montagna fu una vera internazionale del terrore. Così come è certa la derivazione di "assassino" dal nome popolare dell setta. Nel Paradiso di Alamut i giovani si esercitavano a parlare il latino, il greco, le lingue romanze e l'arabo, a cambiare personalità, a volteggiare come acrobati, all’obbedienza assoluta. Marco Polo spiega che si seguivano già i criteri dei moderni servizi di spionaggio: ogni killer era messo alla prova, veniva eliminato se la missione falliva, ed era seguito e controllato segretamente da un’altra persona. Assoluta doveva essere anche la simulazione. Subito dopo la presa di Alamut, ha scritto Rashid el Din, Hassan-i-Sabah “ha posto i fondamenti dell’ordine dei fedain (i combattenti) nella sopraffazione e nella menzogna, nei preparativi ingannatori e nella dissimulazione perfida”. Non è necessario al terrore un progetto, né un ideale, la suggestione sì.
La setta degli ismailiti, residuale oggi in India, Pakistan, Iran e Zanzibar, è nota nelle fattezze paciose dell’Aga Khan, uomo d'affari. Ma l’Aga Khan è ricco per aver vinto nel 1866 presso l’Alta Corte di Bombay una causa che gli dà diritto alle decime imposte da Hassan, in quanto erede diretto del Gran Vecchio. I Fatimidi erano i discendenti di una famiglia persiana, stabilita in Palestina, che si era abilmente imposta scalzando la vera fede a favore di un sistema di iniziazione di cui essa era depositaria, e che si traduceva probabilmente in un’anticipazione del libero pensiero. Il radicalismo ismailita fu da essi patrocinato come grimaldello per affermare la tolleranza religiosa.
L'organizzazione del Gran Vecchio fu forse il modello dei Templari. Freya Stark, la viaggiatrice inglese che negli anni Venti scandagliò passo a passo la zona di Alamut, sostiene che “il raffronto tra le alte sfere delle due organizzazioni porta stranamente a un risultato identico”. Nell’Ottocento il conte di Gobineau ne ha fatto una forma di nazionalismo militante, che assimilava a quello dei carbonari italiani. Gobineau, per affermare la supremazia ariana, vedeva peraltro negli sciiti, e quindi negli ismailiti, un’organizzazione antisemita: una reazione dei persiani, indoeuropei, alla dominazione araba, e una sorta di esoterismo contrario al semitismo islamico.
Per un periodo il fattore religioso fu importante per gli Assassini. Le guerre di religione sono sopratutto feroci tra sette contigue, e gli uomini del Vecchio si eressero a difesa degli ismailiti contro le altre confessioni islamiche. “Versare il sangue di un eretico è più meritorio che uccidere settanta infedeli”, sostenne per un periodo un testo propagandistico. Ma la costanza non era una dote pregiata in Alamut.
Hassan e i Vecchi suoi successori sono scomparsi senza lasciare opere né memorie. Anche delle loro basi, una cinquantina di castelli nel periodo di massima espansione, non resta traccia. La loro storia, gonfia di brutti segni, premonizioni, angosciose aritmetiche, come in ogni moderna paura metropolitana, alimentata dalle voci e dall'insicurezza, si è dissolta. Nel Duecento le cronache arabe e persiane parlano degli Assassini come di sicari a pagamento. Il pagamento era anzi anticipato, come usa nella mafia: chi moriva lasciava guarnita la famiglia. “Lo perfido assassin” di Dante (“Inferno”, XIX) è, spiegherà un secolo dopo il commentatore Francesco da Buti, “colui che uccide altrui per denari”.

Australia - È il primo paese legalmente multiculturale. È la patria di persone che provengono da oltre 120 paesi. Due australiani sui cinque sono nati all'estero, o hanno almeno un genitore nato all'estero. Fino a circa cinquant’anni fa il ceppo anglo-celtico era dominante. Ora, degli australiani nati all’estero, più della metà proviene da paesi non anglosassoni.
Fino al secondo dopoguerra, in base alla politica dell’“Australia bianca”, varata dal governo federale nel 1901, i non europei erano rimasti praticamente esclusi dall’immigrazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta questa politica fu gradualmente attenuata, e nel 1973 ufficialmente abolita. La politica immigratoria è aperta a persone che abbiano specializzazioni e qualifiche di cui ci sia richiesta, ai parenti stretti dei residenti, ai profughi. Nell’ultimo trentennio l'Australia ha accolto poco meno di un milione di profughi, quasi tutti provenienti dal Sud-Est asiatico. Il volto dell'Australia è così cambiato notevolmente. Anche perché il governo federale favorisce lo sviluppo di una società culturalmente diversificata. Gli immigrati e le loro famiglie sono stati incoraggiati a conservare la loro lingua e le loro tradizioni culturali.

Terrorismo - Da dove viene il terrorismo? La minaccia senza volto, espressione urbana, metropolitana, della paura, fatta di assassinii imprevisti, attacchi suicidi, incendi o bombe incontrollate? La teoria moderna vuole anche per il complotto la giusta causa: il terrorismo è allucinazione persecutoria provocata dal “potere reale”, che è “potere occulto”, e quindi “potere da abbattere”. La tendenza è a privilegiare l’eversione, ma la conclusione è una paranoia di secondo grado, benché politicamente qualificata. Nella teoria classica, invece, il terrore era non più né meno buono del potere da abbattere: una manifestazione di disordine, condotta con fredda determinatezza. Era una teoria meno democraticistica, ma non meno vera. Di cui fu caso ampiamente analizzato la setta degli Hashishin, i terroristi del Vecchio della Montagna, che molti ora assimilano a Osama bin Laden e Al Qaeda.

Unione Europea – Non ha nulla di Unione, poiché ognuno vi si fa gli affari suoi, e poco di europeo, se non i resti del sovietismo: molti regolamenti e molti sbadigli. A meno che per europeo non s’intendano i sussidi a un’agricoltura fantasticamente distruttiva, la protezione dei monopoli, dagli sbarramenti legali all’entrata alle frodi legalizzate, la cura degli interessi parassitari, delle banche in primo luogo. Questa Europa non progetta e non prepara il futuro, fa un po’ di polizia, a uso dei padroni.

astolfo@antiit.eu

Che tristezza l'uomo solo

Tradotto da Dario Villa con brio, e al cinema dallo stilista Tom Ford con eleganza, è (in originale e anche a una lettura meno svelta) un racconto degli anni bui di Isherwood, lo scrittore inglese, qui trapiantato in California, cui il lettore deve la sempre viva trilogia di Berlino degli anni folli. Dovrebbe essere un’elaborazione del lutto per la morte accidentale dell’amico, è la giornata senza storia di un single nei primi anni 1960, di scrittura cupa, tra materiali inerti, la scontata paranoia su Los Angeles, la mania di costruire, la bomba, i vicini di casa, i ragazzi in strada, l’omofobia, che non c’è, i colleghi all’università, gli studenti, gli amici, le bevute. L’autostrada è l'unica libertà dell'uomo solo. Col conseguente elogio a metà libro dell’american way of life, in tutte le altre pagine disprezzata.
È il racconto senza filo di una giornata senza filo. O se si vuole dei sessant’anni dell’autore, che si rigenera alla “democrazia fisica” della palestra – e poi s’innamorerà di nuovo, di Don Bachardy, proprio come uno dei “vecchietti” che nel libro immagina parcheggiati dai vigili nelle case di riposo, dove si sposano, “anche a ottanta, a novanta, a cento anni”. Pruriginoso, cinquant’anni fa, forse anche quando fu riproposto, nella stessa traduzione, da Guanda tren'tanni fa, ogginemmeno questo.
Christopher Isherwood, Un uomo solo, Adelphi, pp. 148, € 16

venerdì 5 febbraio 2010

Voglia d'inflazione controllata - 2

Non c’è solo la Spagna dopo la Grecia. Tutti i trenta paesi più ricchi del mondo portano il debito tra questo e il prossimo anno sul 100 per cento del pil, l’Italia non è più sola. E non c’è solo il debito pubblico: la Spagna, che su questo fronte figura virtuosa, ha poi un debito privato enorme e inesigibile, che in un altro paese avrebbe già messo in crisi le banche. Il fatto è noto
(http://www.antiit.com/2009/12/la-spagna-e-piu-fallita-della-grecia.html
http://www.antiit.com/2009/06/riecco-la-spagna-spagnola.html), ed è stato denunciato già nel 2006, anche se finora si è preferito tacerlo: l’economia spagnola poggia sull’immobiliare, che da quattro anni è però ridotto a una partita di giro, giusto per non dichiarare fallimento, ma con costi alti sia per il sistema che per i ratios delle banche. L’esempio del Santander è quasi da farsa, della più grande banca iberica, che dichiara nove miliardi di utili, mentre ha crediti incagliati per un centinaio di miliardi. Il governo spagnolo, stretto fra l’euro e le banche, fa una scelta malthusiana, tagliando la spesa di 50 miliardi in tre anni, ed alzando l’età pensionabile a 67 anni. Per salvare il salvabile, cioè, taglia ogni possibilità di ripresa per molti anni a venire. Lasciando, col prolungamento della vita attiva, la disoccupazione ai suoi attuali livelli, che in Spagna sono del 22-23 per cento: niente occupazione nuova per un paio di generazioni.
Non c’è via d’uscita se non con una nuova filosofia del debito pubblico. Con un allentamento programmato, gestito, consapevole, del patto di stabilità. Tale cioè che non sia solo un tappabuchi, singole decisioni di singoli governi all’interno del sistema rigido, ma un’iniezione di flessibilità al sistema. In modo da innescare una ripresa: non si tratta di salvare il salvabile, c’è poco dal salvare volendo essere onesti, si tratta invece di rimettere il motore in funzione.

Il fallimento sarebbe più sano

È stato un paradosso all’inizio, che il mercato si sia voluto far salvare dallo Stato, cioè dai contribuenti. Non la General Motors, che è, è stata, l'America, ma è stata lasciata alla procedurafallimentare. No, le banche. Alcune banche, Lehman Brothers e un centinaio di banche minori sono state lasciate al fallimento, senza danni. Una furbata, i salvataggi. Ma a un anno e mezzo sono un grosso macigno sulla strada della ripresa, in contrasto con la concorrenza, e cioè col mercato stesso. E non è un paradosso ma una tragedia, se ci fosse ancora il senso del tragico, che le rapine e gli errori delle banche privilegiate siano pagati dagli Stati, dalle popolazioni, dai poveri. Nel caso italiano la crisi viene addirittura giocata dalle banche contro la liquidità, sommergendo i risparmiatori di derivati sul debito pubblico, cioè di costose polizze su un titolo che è cento volte più solido delle banche che lo assicurano. Mentre in Spagna il Banco Santander può dichiarare profitti record e tacere che è sommerso da crediti inesigibili, un buon terzo dell’immobiliare spagnolo, esposto per 350 miliardi.
È dubbio che la camicia di forza dell’euro possa garantire un salvataggio. Anche se ne escono la Grecia, la Spagna e il Portogallo, si ragiona, il sistema può continuare a lavorare. E invece no. Nell’impossibilità di un allentamento della rigida politica monetaria e del debito europea, sarebbe opportuno che le banche che non ce la fanno, o i paesi che non riescono a pagare il debito, dichiarassero default. Sarebbe un terremoto per tutto il sistema finanziario, ma sarebbe anche un bubbone che scoppia senza infettare l’organismo. O comunque lasciando l’organismo libero di recuperare, una ricostruzione immaginabile dopo il sisma. Anche perché non c’è una vera protezione civile contro i disastri, non c’è una guida o un’idea per uscire dalla crisi, non è Obama, non è l’Unione europea. Più debito pubblico per un debito privato ingovernabile è un sisma distruttivo continuo, già a questi livelli il debito è un mostro divorante.
Il mondo creato dale banche
Il segno di questa crisi sarà che l'informazione è dominata dalle banche. Tuttora, dopo la crisi da esse provocata, l'informazione che è poi la realtà in cui viviamo. Nei giornali, con la occasionale eccezione del "Sole 24 Ore", nei telegiornali, nei commenti degli specialisti. Più di tutti nelle cosiddette bibbie degli affari, "Financial Times", "Economist", "Wall Street Journal" - gli stessi che grasiosamente pongono la virtuosa Italia tra i Pigs, che è un acronimo per Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ma significa porci, i paesi che minacciano il mercato, paesi mediterranei, non la Gran Bretagna o gli Usa. Veramente, la I di quel "porci" dovrebbe stare per Irlanda, ma per non infierire ancora sugli irlandesi gli inglesi benevolenti ci hanno aggiunto l’Italia, Piigs - che poi torna Pigs senza l'Irlanda.
La verità è che lacrisi è gestita dalle banche, non è stata da esse soltanto provocata. Col mercato delle voci e dell'opinikne pubblica. Coi superprofitti che denunciano nel pieno della crisi. Con la feroce sopeculazione in atto, contro la Grecia. E poi contro la Spagna - o in alternativa contro Non molto più di un anno fa l'"Economist" promuoveva a pieni voti malgrado la crisi la Spagna, tanto più, scriveva, per il raffronto con l’Italia, “nella morsa di un declino senza rimorsi” (gli spagnoli erano anche più alti, avendo un cestista di m. 2,13...). Oggi il Bilbao e il Santander non fa più pubblicità?
Perché non è vero che gli spagnoli sono più alti degli italiani. Se dieci banche italiane, due o tre ministeri e sei o sette industrie ne comprassero venti pagine, l’"Economist" non avrebbe problemi a riconoscerlo: i “rapporti” dell’Economist si fanno in base al numero delle pagine pubblicitarie che vengono prenotate.
Tanto, Italia o Spagna, sempre paesi latini sono per Londra, buoni per scherzarci su. Non a torto, visto il credito che danno aalla perfida Albione. Tanta acribia si fa valere anche se l'ottimismo che si esibisce (il credito della Spagna, l'aumento di capitale Unicredit...) è quotidianamente svergognato.
Ma, non va riopetuto abbastanza, i giornali poi contano poco, in quanto sono lo specchio delle banche angloamericane. Sono loro che hanno prodotto la crisi, a loro vantaggio, e la alimentano ora con la speculazione distruttiva contro gli Stati. La politica è sempre relegata in un angolo, non solo in Italia, dall'ideologia non innocente dell'antipolitica, anzi da qualche tempo scopertamente truffaldina, il cui gioco sono le tre carte, nelle pause dell'abbattimento o indebolimento dei governi.

Ombre - 41

Massimo Ciancimino non si pente perché è in attesa di rientrare nell'immenso patrimonio paterno, tutto mafioso, quando fra pochi mesi avrà finito la condanna in cui è incappato con i suo commercialisti. Ma si diverte a fare il pentito, contro i carabinieri, contro ex gentiluomini Dc, e contro Berlusconi e Dell'Utri. Nei tribunali, nei migliori giornali, e alla Rai. E' la terza via dell'antimafia, tra i pentiti pensionati e i mafiosi confiscati: non pentirsi ma professare "profonda fiducia" nei giudici. Avremo anche i "giudici della mafia", oltre che l'immondo raiume.

Massimo Ciancimino, il mafioso playboy, è esibito in tribunale mentre si fanno gli arresti che per decenni sono stati omessi. E si confiscano - non più si sequestrano, lasciandoli in gestione ai criminali, si confiscano definitivamente - parimoni miliardari, in euro. Il problema è che con i giudici palermitani che lo esibiscono ci ritroveremo per l'ternità, all'inferno.

Tito Boeri riprende su “Repubblica” la questione della criminalità dei clandestini. Per negarla. Ma lo fa con calcoli, deduzioni, note, dottrina. Per concludere che sono le leggi contro la clandestinità a incrementare i delitti fra i clandestini. Non gli schiavisti, nei paesi d’origine e in Italia, i cravattari dell’emigrazione. Che spesso sono gli stessi che controllano la droga, la prostituzione, e i vu’ cumpra’.
Non faceva prima a dire “Berlusconi cornuto”?

Il dottor Oscar Magi si dice sopraffatto dalla “fatica morale” impostagli dalla Corte Costituzionale. Che sul sequestro del mullah Omar ha determinato “una possibile eccezione assoluta e incontrollabile allo Stato di diritto”, scrive. Lo scrive un giudice, non Berlusconi. In una sentenza. Sembra di sognare: la Corte costituzionale fa commettere un crimine, a un giudice.
Il dottore è milanese, come Berlusconi, “figlio di magistrato e fratello di magistrato” informa pietoso il “Corriere della sera” (ma non sarebbe un’aggravante?), e si spiega, la Corte costituzionale sta a Roma. L’affranto giudice era il gip dell’“epoca eroica” di Mani Pulite, che tutti mannava ar gabbio, uno di mano lesta, e non si capacita che la Corte costituzionale abbia tenuto fuori dal suo processo i servizi segreti italiani. Mentre elogia i pubblici ministeri Spataro e Pomarici che gli hanno portato “prove certe”. Di che? Ma qui si capisce il perché: la giustizia a Milano la fa la Procura. Anche se non si sa perché.

Sei pagine del giornale sono prese dai giudici: ancora lo sciopero, Massimo Ciancimino, il dottor Magi. E una sensazione di sconforto: dei goliardi in toga, quasi tutti vecchietti, il figlio non pentito di un boss cattivissimo che accusa mezza Italia, creduto, senza mai alcuna prova, un giudice “figlio di magistrato, fratello di magistrato” che accusa d’illegalità la Corte costituzionale.

“The Hurt Locker”, film americano sulla guerra in Iraq, prenderà nove Oscar, o poco meno. Lo stesso film, proiettato al festival di Venezia, non ebbe nessun riconoscimento. Perché miglior attore a Venezia era Mickey Rourke per il film “The Wrestler”. Ma il riconoscimento doveva andare a Silvio Orlando, e “The Wrestler”, un mediocre polpettone sull’atleta suonato, ebbe il Leone d’oro – con gran dispetto dello stesso Rourke, peraltro. Nell’era dell’antipolitica, anche il premio a un attore è in Italia politico: di destra o di sinistra?

Il “Corriere della sera”, che ha “montato” D’Addario, svicola con cronachette di riporto. “Repubblica” e “Il Fatto” invece confermano, con i propri inviati: a Bari si indaga per sapere chi dà le informazioni ai giornali, chi è Tarantini, dove prende i soldi che non ha, e chi è il suo casino viaggiante. Facendo naturalmente finta di bacchettare “Panorama”, il settimanale di Berlusconi che ha rivelato l’indagine. È una bella concorrenza. A sinistra.

Marco Tronchetti Provera non è mai entrato nell’inchiesta sulle intercettazioni che faceva fare. La sua Pirelli e la sua ex Telecom Italia pagano i danni agli spiati, i ministeri di riferimento e 1.600 dipendenti, e questo basta alla Procura di Milano.
Ci sono milanesi e milanesi: se Berlusconi avesse fatto spiare un solo dipendente, per non dire dei ministeri, avrebbero chiesto l’ergastolo. È evidente che la giustizia a Milano si fa in Procura. Ma non si capisce perché. Cioè si capisce: dove tutto è marcio la concorrenza la decide la Procura.

La protesta dei giudici contro il governo è ridicola. Per l’età, le toghe rosse, le Costituzioni in mano, le entrate e le uscite. Ma nessuno lo scrive. Carità di patria? Paura?

Monsignor Crociata, nomen omen dei vescovi, tuona contro “l’irragionevole equiparazione tra immigrazione e criminalità”. Che nessuno pone. Il vescovo vuole criticare Berlusconi, prosit. Ma il problema che si pone è l’immigrazione clandestina. Che è un delitto in sé, anche senza il reato di clandestinità: è lo schiavismo contemporaneo. Perché i vescovi italiani la difendono?

“Sono come Garabombo”, dice Veltroni, e dice tutto. Garabombo è il leader invisibile dei campesinos di Manuel Scorza contro i latifondisti. Veltroni si vede invisibile in Sud America, come la revoluciòn. Allo stesso modo ha scambiato l’Africa con il suo turismo solidaristico. È un tardo terzomondista, ell’età della globalizzazione. Forse è solo ritardato.

Dopo che Mediaset ha infine sollevato “El Paìs” dal fardello della tv, con la sua montagna di debiti, Berlusconi non fa più notizia per il giornale spagnolo. Ne era una vedette, ogni giorno in berlina per un qualche motivo, è letteralmente scomparso.
L’Italia non fa notizia, la Spagna ha altro di cui parlare. La disoccupazione è al 20e passa per cento, le banche potrebbero – dovrebbero - fallire. Ma sono argomenti che la Spagna aveva anche un anno fa. Mentre “El Paìs” era riuscito a portare la non notizia Italia in prima pagina, un giorno sì e l’altro pure, grande giornalismo.

A “Repubblica” scrivono spesso insegnanti. Per lamentare le carenze dei governi Berlusconi, ma anche della scuola. Criticano la ministra Gelmini, e criticano anche l’indolenza e l’ignoranza dei ragazzi, in storia, geografia e in italiano scritto. Vantando implicitamente la propria impegnata preoccupazione, dannando l’altrui insufficienza. Malinconica dissociazione. Tanto più fra gli educatori: la scuola non serve a insegnare?

L'ex sindaco di Bologna Cofferati dice che a Bologna il malaffare è diffuso. Viene dismesso come un invidioso e un fallito, lui che ha riconquistato Bologna alla sinistra ed è stato per un decennio a capo della Cgil. Viene dismesso da sinistra. Non è - era - Bologna il laboratori di Prodi, della nuova Italia?

giovedì 4 febbraio 2010

Se la giustizia distrugge i buoni

Feroce film sull’ingiustizia della giustizia (per Goffredo Fofi "una storia d'amore come non se ne sanno più raccontare"...). Un bravo poliziotto, indebolito dalle vicende personali, della figlia e la moglie perdute in un incidente stradale, mentre lui faceva l'amore con una collega, è fatto fuori da una polizia feroce. La polizia protegge i corrotti, gli spacciatori e gli assassini violentatori seriali per sue superiori ragioni. Mentre tutte le cure la stessa polizia e la società dispiegano, con giudici, carcerieri e psichiatri, per riconoscere buona condotta e amor di Dio al più feroce degli assassini stupratori e torturatori, una sorta di Concutelli, e dargli la libertà, il giorno dopo il suo ennesimo assassinio, commesso in prigione. Nella freddissima Marsiglia. È un film reazionario? È la reazione la resistenza della buona coscienza?
Olivier Marchal, L’ultima missione

L'India subalterna è ancora da scoprire

Tre saggi di Ranajit Guha, di cui uno ampio, “La prosa della contro-insurrezione”, con un intervento critico di Gayatri Chakravorty Spivak (già tradotto nel 1995 in “Altre storie. La critica femminista della storia”, a cura di Paola Di Cori), e un’introduzione di Edward Said, non fermano la rapida obsolescenza della raccolta e dei Subaltern Studies. Una metodologia e un gruppo di storici indiani degli anni 1980, che rilessero la storia dell’India dal punto di vista della “subalternità”, un concetto accennato da Gramsci nelle “Note sulla storia d’Italia”. Un concetto che poteva – potrà – essere fertile, ma è stato ridotto a uno dei tanti circoli viziosi dell’ex terzomondismo, il dominio, le élites, e appunto il neo colonialismo.
Partendo dal concetto di egemonia moderata dominante e subalternità nel periodo risorgimentale, che è solo ovvio, Gramsci lo ha arricchito col riconoscimento della capacità di dominio culturale e politico dimostrata da Cavour e dai moderati. Che anch’esso è ovvio ma è l’inizio della semantica del dominio, del fatto che il padrone ha e dà le parole. Di questo i Subaltern Studies hanno preso negli anni 1980, via Edward Said, con gli attrezzi della semiologia francese del potere, Foucault, Derrida e Barthes, conoscenza e possesso solo per la prima parte, che il padrone vince sempre, anche perché racconta la storia. Con la coscienza maliziosa, da parte di Spivak: “Io scrivo, naturalmente, all’interno di un luogo nel quale si lavora per la produzione ideologica del neo colonialismo anche se sotto l’influenza di pensatori come Foucault”. Mentre Guha giunge alla conclusione che “la storiografia svela la propria natura di conoscenza colonialista”. Ma nel colonialismo tutto è colonialista, non lo dice la retorica stessa? Spivak, alla fine, si dà il compito di “mostrare le complicità tra il soggetto e l’oggetto della ricerca – tra il gruppo dei Subaltern Studies e la subalternità”. È una buona cosa?
Di questa storia rimane poco (il ruolo della religione, la comunicazione orale) o nulla: nulla di più sulla storia dell’India, a parte l’adattamento della retorica francese, qui chiamata anti-umanesimo, ai tradizionali criteri storiografici. Resta inalterata l’esigenza di Gramsci: “Le classi inferiori” deovono “conquistare l’autocoscienza attraverso una serie di negazioni”. La destrutturazione e il sospetto non sono novità, e se usate esclusivamente non sono buona cosa. Tutto poteva essere successo nelle cantine o fra i dottorandi della Sorbona che assimilano i loro maestri. Il solo merito del saggio centrale (anch’esso ferocemente formalistico: si articola su eventi storici arcani, senza una nota esplicativa) è di sottolineare, involontariamente, l’inutilità della linguistica.
L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.
R. Guha, G.C.Spivak, Subaltern Studies, Ombre Corte, pp. 144, €12,50

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (53)

Giuseppe Leuzzi

Enzo Scotti, sottosegretario agli Esteri, presiede il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. Che infatti non esiste.

Una giovane insegnante molisana, giovane di trentatrè anni, gli anni di Cristo, supplente per i ripetenti di matematica a Monza in una scuola superiore, viene condannata quattro anni fa a due anni e rotti di carcere per atti osceni nei confronti di minori, cinque studenti a cui dava ripetizioni essendo stati trovati in abbigliamento discinto in sua presenza. I ragazzi non la accusano, ma il giudice di Monza la condanna. Inflessibile come i genitori di Monza: l’insegnante è un’incapace e ha un pesante accento meridionale. Ora l’insegnante è riconosciuta vittima dei cinque ripetenti, dopo aver passato quattro anni nella vergogna, e ormai, a 37 anni, fuori dal ogni lavoro.
Si sa nell’occasione che la supplente era stata pagata dalla scuole 447 euro. E questa è un’altra storia: emigrare da Isernia a Monza per “fare il professore”, per 447 euro.
Monza si è anche scoperta la capitale del consumo individuale di cocaina, la città dei bulli ripetenti che è stata e si vuole anche la più bacchettona d’Italia.

L’odio-di-sé-meridionale
Alla seguitissima trasmissione a premi “L’eredità”, Paolo Conti chiede a una concorrente veneta, una signora che si diletta di cucina: “In un ristorante calabrese le propongono «pipi arrustuti». Cosa sono?” La signora tituba. Infine, sbagliandosi nel pronunciare “arrustuti”, dice infatti “arrostiti”, opina trionfante per la terza di una quadruplice risposta plurima: peperoni arrostiti. Il conduttore ha in studio una bella ragazza che si è qualificata per calabrese, e le chiede se lei aveva avuto dubbi. “Oh sì”, risponde la velina, “io sono della Calabria superiore”. Che non si sa cosa sia e non c’entra nulla: le risposte alternative erano “spinaci”, “lumache”, “patate”.
Pipi e pepe, arrustuti e arrostiti, non basta avere un dialetto neo latino come il calabrese, un italiano dialettizzato, per essere buoni italiani. Specie con i calabresi, il rifiuto è pregiudiziale.

“La Stampa” trova a Rosarno, dove manda un inviato occasionale, che gli agrumi si “producono” per l’Unione europea, per incassare i contributi europei: “Ne raccoglievamo cento quintali e ne dichiaravamo cinquecento”. Sono i dati che il locale uomo del partito, o del sindacato, ha fornito. all’inviato. Che sono quelli di tutta l’Italia agricola, del latte, del grano, del bestiame, eccetera, ma a Rosarno sono illegali.
L’informatore è credibile, l’inviato non dubita, parla male del Sud. Leggere per credere: “Due anni fa sono cambiate le regole. Oggi i rimborsi arrivano a forfait: 1.500 euro a ettaro, a prescindere dalla produzione”. E Rosarno, “che fino a due anni fa aveva bisogno nei campi di 1.800 immigrati, oggi ne richiede solo alcune centinaia”. Ma come, prima i raccolti non erano inventati?
E i clandestini? “Bulgari e rumeni sono più appetibili degli africani: se li assumi in nero, rischi multe più lievi”. Ma a Rosarno è razzismo, sottintende l’informatore democratico.

“«Le altre questioni nazionali, laici e cattolici, liberali e socialisti, sono parole. Il problema vero insorto con l’unità è l’occupazione del Sud»”, dice un personaggio del romanzo di Astolfo, “Non c’è anarchico felice” (Lampi di stampa, pp. 676, € 21). Ma è un problema, dice ancora, “non grave, non più: «La questione meridionale è stata divisata per opprimere i meridionali, facendoli briganti, sfaticati, ladri, omertosi, che i carabinieri possano bastonare impuni. Tutte cose che loro adesso sono, dopo un secolo di propaganda, e così l’Italia tutta non ha un futuro, per la corruzione che la divora, a Sud e a Nord»”. Con una imprecisione, ma è vero. Non è vero che la corruzione del Sud abbia infettato il Nord, è impossibile, il Sud non ha di suo nemmeno i microbi. Mentre è incontestato che la questione meridionale è stata creata dal Risorgimento, a opera di meridionali, è vero.
La storia del Sud è ancora da scrivere. Alcuni domini mancano del tutto, con le loro culture, i linguaggi, le mentalità, e le persistenze delle culture: i micenei, i bizantini, i saraceni, gli albanesi, e la stessa Magna Grecia che è tutta da riscrivere, la religione, i linguaggi, dal dorico in poi, gli statuti giuridici, gli assetti padronali, i traffici e i legami, mediterranei ed extra. Anche dove è scritta, magari a profusione, solo pallido riflesso, stitico, incomprensibile, di logiche e realtà diverse. Remote, seppure dominanti. A opera spesso di sociologi e storici meridionali, perché no, che come tutti i servi s’impiccano all’albero del padrone – la corruzione dell’intelligenza è il primo delitto del colonialismo. E insignificanti malgrado il dominio, da qui la loro inefficacia, che è la prima causa del perdurante ritardo: l’unità dei carabinieri è come il cavallante che si limiti a strattonare la bestia, il cavallo non berrà, anche se ha sete.
La storia di chi non ha storia non è vuota. È piena di quello che ci mette chi lo priva di storia – poiché questa è un’operazione attiva, non si dà popolo senza storia, ma sì con lo svuotamento di essa. Nel quale, se si hanno dubbi o si scoprono tracce, si annaspa, tra echi, rimandi, omissioni, ellissi, eccezioni, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre. S’incorre in Barlaam da Seminara studiando Petrarca a fondo, nelle lettere, le confidenze, la vexata quaestio se e come conosceva Platone. Si scopre il reggimento calabrese nelle truppe inglesi antinapoleoniche studiando le collezioni di uniformi militari dell’epoca. L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale.
Riprendersi la storia sarebbe stato il primo impulso di una mentalità sana, non adulterata cioè dal dominio. E resta la chiave di ogni liberazione. Non la rivolta, non il rifiuto. L’antistoria o la controstoria, quale usava nel controinformazione, fornisce degli utensili, ma non il presupposto: per liberarsi è necessario non avere complessi d’inferiorità, né sudditanze, e nemmeno rifiuti. È necessario essere contro, ma con giudizio. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.

Pizzo
È una manifestazione del potere, non un assetto o una tara sociale. È sovrimposto alla società, in tutte le sue forme, non ne è espressione.
È il termometro della degradazione del potere. È anche una concezione di vita – è la base di una delle forme dello Stato secondo Max Weber, lo stato patrimoniale. Ma è anche un segnale della morbilità di un sistema di potere, da quello religioso a quello del lager.

martedì 2 febbraio 2010

Quasimodo a letto con Sibilla, per l'assegno

Ragguardevolissimo: lettere di letto di un trentenne, grande seduttore, a una quasi sessantenne, che se li fa pesare tutti, e parla di letteratura. L’attrattiva si spinge ad ammirare le opere dell’amata, criticando al paragone Montale. A meno che non sia una manfrina per ottenere, attraverso Sibilla, l’attenzione dell’eccellenza Pavolini, e qualche assegno dell’Accademia. Né gli editori né il prefatore dicono perché la passione cessò di colpo, il tempo è quando l’assegno è arrivato e Pavolini si defila. Non danno nemmeno l’età degli amanti, il lato più sapido della relazione.
Salvatore Quasimodo, A Sibilla

Sul '68 col rullo piacentino

Un fiammeggiante monumento alla stupidità, uno sberleffo a se stessi. All’incapacità di capire, alla superficialità, all’ignoranza, all’incredibile, incommensurabile, ottundimento di scuola picista, unicamente inteso a spianare la vitalità del ‘68: settarismo, categorie vuote, e riferimenti culturali da parole d’ordine – Lenin che nessuno conosce, Marx che nessuno legge, la storia sovietica, che nessuno ha studiato, nonché la Cina… Gianni Sofri e Edoarda Masi superano l’inconcepibile. Solo si salvano quattro o cinque recensioni di film.
Non da ultimo, l’ottusità si riflette nella mancanza di diacronia, di assestamento storiografico: se è un delirio da flagellazione non c’è pentimento.
Prima e dopo il ’68, antologia dei “Quaderni Piacentini”, a cura di G.Fofi e V.Giacopini