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sabato 28 aprile 2012

Banche a rischio fallimento

Un fondo europeo di garanzie per le banche, dopo il credito illimitato, remunerativo, alle banche stesse: Mario Draghi non lo dice ma sa che l’Europa rischia il fallimento. L’ipotesi è di accelerane il funzionamento con le risorse dell’Esm, il fondo europeo di garanzia ai debiti sovrani in via di costituzione Il rischio non si dice, ma si sa che viene dai banchi spagnoli, il Santander e il Bilbao, tra i più grandi del continente, minacciati dalla crisi dell’immobiliare.
La proposta di fondo anti-fallimento delle banche ha veleggiato a lungo come ipotesi. Dell’istituto Brueghel, di cui Mario Monti è uno dei fondatori. E del direttivo della stessa Bce che Draghi presiede. In particolare del rappresentante, Jörg Asmussen. Un fondo speciale di garanzia bancaria ha chiesto Asmussen in più occasioni, se necessario anche con “soluzioni separate”, in mancanza cioè di un consenso a 27. Il collega francese di Asmussen, Benoît Coeuré, ha incluso il fondo anti rischi in un “financial compact” di più vasto consolidamento del mondo bancario. Il direttore della Brueghel, Pisani-Ferry, propugna una “unione bancaria”, e cioè un “sistema europeo” di supervisione e ricapitalizzazione delle banche per garantire l’euro da ogni rischio di “crisi della bilancia dei pagamenti interna”, per la debolezza o il fallimento di una o più banche.
Si può dirla una battaglia perduta, giacché l’Europa pensa a salvarsi. Una battaglia che l’Europa non ha iniziato , e anzi non s’è nemmeno accorta di stare combattendo, ma ne accetta il verdetto: la “fortezza Europa” che “i mercati” temevano quindici anni fa è svanita.
Il problema della Spagna non è il debito, è l’immobiliare. Cioè le banche. Una crisi analoga a quella americana che è all’origine del crack, di dimensioni minori ma non tanto. Lo sgonfiamento dell’immobiliare è già costato alle banche spagnole 155 miliardi, che potrebbero raddoppiare. Sia Zapatero che Rajoy hanno aiutato le banche con iniezioni di capitali anticrisi, ma non serve. Ora si lavora a una bad bank per l’immobiliare, in modo da poter presentare le banche libere.

La Germania beneficiaria della crisi dell’euro

Si fanno i bilanci di quasi due anni di “crisi europea”, e i pareri ufficialmente sono divisi. Ufficialmente la Germania sostiene, guardando ai saldi della bilancia interna della Banca centrale europea, che la Bundesbank è quella che sopporta i costi maggiori della crisi. Trovandosi per questo sovraesposta nei confronti dei paesi del Sud Europa, i paesi in crisi, e quindi a rischio contraccolpi. È la tesi, polemica e anzi irridente, sostenuta in particolare dal presidente dell’Ifo, l’istituto per la congiuntura, di Monaco di Baviera, Hans-Werner Sinn. A Londra e negli Usa si leggono gli stessi dati in senso opposto: il Sud Europa paga l’austerità, mentre la Germania accumula attivi. Senza un bilanciamento, che anzi la Germania impedisce: col no a una politica espansiva della Bce, e il no agli stimoli alla sua domanda interna, per favorire l’export dei partner europei. Ma non è una “guerra di presupposti”, è un fatto: la Germania è la beneficiaria, unica, della crisi.
La Germania di Schröder e, di più, quella di Angela Merkel, da una quindicina d’anni quindi, ha usato l’euro a suo esclusivo vantaggio. Trasgredendo le regole di bilancio quando le faceva comodo, e imponendone di severissime nella stessa ottica, del vantaggio nazionale. La stessa crisi del debito greco e ora quella dell’immobiliare spagnolo sono opera in misura rilevante delle banche tedesche – in un tribunale fallimentare internazionale sarebbero sospettate, se non imputate, di bancarotta fraudolenta. Una politica che questo sito ha definito di moderno “mercantilismo”: una sorta di guerra civile, anche se sotto l’abito della cooperazione.

A lezione dall’“Astolfo della poesia”

Si riedita il manuale di Pound nella vecchia traduzione di Quadrelli, con una introduzione di Marzio Breda, quirinalista del “Corriere della sera” – a conferma che il poeta americano, con l’esclusione di Massimo Bacigalupo e altri pochi americanisti, è sempre materia per outsider e dilettanti. È un abbecedario piuttosto della scrittura che della lettura. Della scrittura poetica, con una lezione di metrica
Pound fu anche un organizzatore culturale, uno scopritore di talenti (l’elenco è sterminato e caratterizza il Novecento: Eliot e Joyce, e Cummings, Hemingway, W.C.Williams tra i tanti, non escluso Yeats di cui fu per un periodo tuttofare e quasi segretario) e uno studioso di letteratura. Non concluse il dottorato all’università di Pennsylvania a Filadelfia per aver voluto entrare in polemica col rettore (lavorava per la tesi sul ruolo del gracioso nella commedie di Lope de Vega) ma aveva scoperto i poeti provenzali e i siciliani, appassionandosi poi per il latino di Bembo e del Cinquecento (da lui definito “raffaellita”), e mantenne costante nei quasi settant’anni di attività l’interesse filologico. Montale, che spesso ne scrive qui e lì, in testi poi raccolti nel volume “Sulla poesia”, non ne apprezzava l’estetica, o meglio diceva di non capirla. E dai saggi dello “zio Ez” si diceva più che altro confuso: “Solo la sua poesia può rivelarcelo, non quei suoi saggi che saltabeccano tra un millennio e l’atro, trucidando infinite generazioni e sopprimendo interi secoli”. Salvo convenire: “Che cosa può contare un secolo di più o di meno per un Astolfo della poesia, capace di abolire il tempo e lo spazio?” Pound riserva sempre sorprese, al lettore se non allo studioso.
Ezra Pound, L’ABC del leggere, Garzanti, pp. 212 € 12

Gramsci e il socialismo mancato in Italia

Perché non c’è il socialismo in Italia, unico paese europeo, un partito e uno schieramento socialista, è problema chiave – è il problema – della storia italiana nel Novecento, ignorato tuttavia dagli storici: Bobbio, Ginsborg, Lanaro, Pavone, Salvati, la Storia Einaudi. Tutti “di Partito”, cioè del(l’ex) Pci. Orsini ci prova caparbio: il socialismo fu impossibile in Italia per il “dogmatismo”, si diceva una volta, di Gramsci. Proprio così: il bonario letterato del nazionalpopolare, carcerato di Mussolini, era feroce a sinistra. È lui che ha dato l’impronta settaria e divisiva al Pci, che ha dominato e indebolito la Resistenza al fascismo e al nazifascismo, e ha impedito nel dopoguerra l’alternativa o alternanza di governo.
Orsini si applica a rivalutare Turati, la prima vittima di Gramsci, che lo chiamava “un povero imbroglione” e “un essere ributtante”, e questa è opera difficile, il fondatore del socialismo resta sfocato, trascurato dagli stessi storici socialisti, bloccati su Nenni. Ma su Gramsci, come sul Pci, qualche spiraglio comincia ad aprirsi. Mentre se ne celebra l’ennesimo revival, che Enrico Mannucci ha registrato su “Sette” del 19 aprile (“Tutti pazzi per Gramsci”): Donzelli annuncia per l’estate una “Piccola antologia”, Guido Liguori, il presidente della International Gramscian Society, ha appena compilato con Pasquale Voza un “Dizionario gramsciano”, e in Inghilterra Peter Thomas ne tenta il rilancio, con “The Gramscian Moment”.
Non è difficile uscire dall’agiografia. Per Matteotti, fatto assassinare da Mussolini nel 1924, Gramsci non si commuove. Lo chiama anzi “pellegrino del nulla”, come venivano chiamati nella rivoluzione leninista i socialisti che “non marciavano”. Curiosamente ripetendo il “pellegrino del nulla” con cui il Gramsci tedesco, Karl Radek, aveva appena “celebrato” Schlageter, il terrorista nazionalista antipolacco e antifrancese futuro martire del nazismo, fucilato dai francesi il 13 maggio ’23, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno dello stesso anno (“Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei romantici sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino dei Pellegrini del Nulla”) – Schlageter insomma “meglio” di Matteotti, la Terza Internazionale marciava all’unisono anche nei dettagli.
Ma non è l’invettiva che condanna Gramsci - mediata forse da Marx, anche se Gramsci praticava poco Marx, feroce sempre con i compagni non sudditi. Né con l’invettiva si scopre il vero Gramsci. Già nel 1952, in una delle sue ultime note, Croce protestava contro la beatificazione surrettizia di Gramsci: nella nota “De Sanctis-Gramsci”, pubblicata nel numero di settembre dello “Spettatore Italiano”, poi raccolta nel primo volume delle “Terze pagine sparse”, si scagliava con inconsulta rudezza “contro la nuova diade”, inventata da “coloro che hanno il privilegio di tali invenzioni, (i) comunisti”, senza effetto. È la svolta di Livorno e l’anno insensato che aprì le porte al fascismo che vanno riesaminati. La pubblicazione del discorso moscovita sulla rivoluzione imminente in Italia nel 1922, sull’ultimo numero di “Belfagor”, a opera di Caterina Balistreri e Alessandro Carlucci, apre su questo abisso uno spiraglio. E il terzinternazionalismo di cui Gramsci ha oberato Togliatti.
Il diverso approccio storiografico era stato tentato da Bedeschi senza fortuna una quindicina d’anni fa, con “Gentile e Gramsci: i due volti del totalitarismo” e “Il piccolo Lenin. Antonio Gramsci e «L’Ordine Nuovo»”. Orsini ha le carte in regola per uscire dalla storia giornalistica – anche se egli stesso qui sembra volerla privilegiare: professore di Sociologia politica a Tor Vergata e alla Luiss, ricercatore del Mit, già apprezzato autore di una “Anatomia delle Brigate Rosse” che fa testo (nonché denunciatore inflessibile, anche in proprio, dei concorsi truccati all’università). Sulla “Stampa” Angelo D’Orsi l’ha detto “un giovane vivace, e improvvido studioso… privo di credenziali scientifiche”. Ma non c’è partita: D’Orsi, professore titolare a Torino, soprattutto di gramscismo, sembrerebbe accreditato, ma egli stesso di preferenza pratica la collaborazione che depreca ai giornali, “La Stampa”, “Il Fatto”, “Micromega”, e la polemica onnipresente sul web – il problema Gramsci sono sempre stati i “suoi”.
Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino, pp. 147 € 12

venerdì 27 aprile 2012

Angela Merkel teme la recessione

La Germania tiene ancora, ma tiene male. Le esportazioni non vanno più bene, e i consumi, che avevano alimentato la forte crescita nel 2011, sono piatti. Anche per effetto di una contenuta massa retributiva: la quasi piena occupazione tedesca fa perno sui “mini jobs”, retribuiti fino a 400 euro mensili (con ridottissimi oneri sociali), e i “bassi salari”, tra 400 e 800 euro (idem), cui sempre più datori di lavoro fanno ricorso – la flessibilità è totale in Germania. Angela Merkel teme di arrivare tra un anno alle elezioni con alle spalle una recessione, e per questo muta tattica.
È su questo cambio di strategia che Monti è intervenuto negli incontri a Bruxelles a patrocinare una politica europea di sviluppo. Senza ridiscutere il “fiscal compact”. Su entrambi i fronti in linea, cioè, col governo tedesco.
Fra i paesi europei già in crisi ci sono tre delle maggiori economie, l’Italia, la Gran Bretagna e la Spagna. E anche la Francia non se la passa bene: la povertà vi è cresciuta fuori controllo. Tra i paesi in crisi ci sono poi cinque vassalli della Germania: Belgio, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca e Slovenia. Il rallentamento in atto in Germania potrebbe arrivare anche alla recessione, nel secondo e terzo trimestre dell’anno.

Gesù e l’islam – o l’ipotetico siciliano

Un raro esempio di psicologia del profondo degli arabi che sia stata tradotta. A un certo punto sembra di leggere Camilleri, quando il Profeta si attarda in cinque o sei ipotesi sulla morte di Giovanni Battista: la scomposizione del reale nell’ipotetico del Novecento siciliano (Pirandello, Sciascia, Camilleri) non si radicherà nel deserto? Per il resto è semplice, la presenza di Gesù nel “Corano”, e di Maria, Giuseppe suo “cugino”, Giovanni Battista, Anna, Zaccaria. Anche ingenua, specie nel gusto per le etimologie, di “Giovanni” (Yahia), “Nobile”, “Casto”, “Maria”.
Il Vecchio e il Nuovo Testamento fanno parte della tradizione islamica. Una continuità religiosa che incide nella politica e la storia: l’islam riconosce il cristianesimo, il cristianesimo non conosce l’islam, se non come il nemico della Conquista. In questo secolo non si può più dire, sono i mussulmani che perseguitano i cristiani, ma a lungo fu il contrario, almeno nell’islam arabo: i Crociati sterminavano gli arabi, mentre i cristiani poterono poi convivere e professare sotto gli arabi, a Gerusalemme, in Siria, in Iraq, in Grecia, in Egitto – perfino a Dubai e negli altri desertici Emirati del Golfo sopravvivono confessioni cristiane.
Vita di Gesù secondo le tradizioni islamiche

Piazza Fontana non è un romanzo

La capacità narrativa di Giordana non ha ragione di Piazza Fontana. Il film, lanciato in sole 250 copie con la ragionevole attesa di una lunga vita nelle sale, ha lasciato gli schermi ad appena tre settimane dal lancio – a Roma per il 25 aprile era disponibile in soli quattro cinema, King, Madison, Quattro Fontane e Tibur, e ne primi tre nelle sale piccole, da cinefili. Il racconto è solido, ma lo spettatore resta a disagio. Le ferite aperte sono due, le bombe e le indagini, e non è facile addebitare tutto alla strage di Stato salvando poi questo e quello. Oppure il nodo è Pinelli, cioè Calabresi: il ruolo del commissario nell’indirizzare le indagini sulla pista (falsa) dell’anarchia.
Giordana è maestro in Italia del film politico, sulle questioni critiche (appassionanti), ma non abbastanza come il modello americano, che sa essere “imparziale”. L’onorevole Moro, per esempio, è presente a nessun effetto critico. Giordana ce lo vuole come parte buona della politica, ma è pure quello che, disinnescando il centrosinistra, ha precipitato l’Italia nell’autunno caldo, e nella terribile storia che ne seguirà. In questa prospettiva sarebbe stato un personaggio anche lui avvincente - ma non si può, la storia deve essere sempre mutila in Italia?
Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage

La fotomodella smonta le (non) indagini

Per l’uscita del film di Giordana Adriano Sofri ha messo in rete l’ennesima ricostruzione della vicenda, che è, infine, un atto d’accusa. Unico perdente , condannato, di tutta la vicenda, Sofri è l’esempio vivente della contraddizione. Che è giudiziaria, politica, e anche storica o d’opinione – e perfino istituzionale: è l’unico escluso, nonché dalla grazia, anche dalla pacificazione per i 40 anni al Quirinale. Ma finora non aveva eccepito, legandosi anzi ai suoi carnefici, politici e mediatici. Aveva onorato la memoria di Pinelli, ma nulla più. Ora smonta – involontariamente? - l’incredibile vicenda, di polizia e giudiziaria, con un semplice ricorso alla verità delle indagini.
Il suo pamphlet Sofri dice diretto a smontare le “tesi” di un libro di divulgazione, “Il segreto di Piazza Fontana”, scritto tre anni fa dal giornalista parlamentare dell’Ansa Paolo Cucchiarelli, cui Giordana ha fatto riferimento – le cui tesi però (due borse, due bombe, due taxi, e perfino “due ferrovieri”: per poter avere la pista anarchica e quella fascista-servizi segreti Cucchiarelli imbastisce il suo romanzo sul doppio) non ci sono nel film. Ma d’acchito mostra come le indagini sono state condotte male – non per incapacità. Riporta infatti la testimonianza resa il 15 dicembre, 48 ore dopo la strage, da una cittadina norvegese, Gunhild Svenning. Ventitrenne, fotomodella, aveva incassato un assegno di 35 mila lire dall’agenzia teatrale “21” di via Cappuccio, e dalla stessa agenzia alle 15.44 aveva chiamato il radiotaxi per andare alla Banca d’Agricoltura di piazza Fontana in tempo per cambiarlo. L’aveva fatto e se n’era andata a casa a piedi, a via Belisario 1. La chiamata al radiotaxi fu segnalata, Gunhild fu subito convocata, e rese la sua testimonianza. Che il direttore dell’agenzia “21” il giorno successivo confermò. Ma Gunhild insieme con la borsetta aveva anche una “grande cartella”, afferma il tassista. “Era il mio portfolio”, dice la modella.
Le cose si potevano dire e sapere, non c’era bisogno di tante ipotesi campate sul nulla. Che però confluirono a rallentare e deviare le indagini. Inutile dire che su questo particolare dimenticato s’impiantarono per un anno o due quasi processi: la modella era un uomo truccato, la cartella era una valigia, il suo taxi incrociò quello di Cornelio Rolandi, l’accusatore di Valpreda. E non è finita: se qualcuno ritiene la “doppietà” di Cucchiarelli espediente romanzesco, o ridicolo, si ricreda, la Procura di Milano ci ha indagato per alcuni anni, e solo ora archivia, nell’anno 43.
Sofri usa l’episodio della modella per smontare la tesi del complotto. Ma con questo semplice rimando, a una semplice testimonianza, smonta invece la (non) inchiesta su piazza Fontana. Dell’Ufficio Politico della Questura, della Procura, del ministero. Dà uno spaccato di come le indagini si potevano fare e non furono fatte: le indagini su piazza Fontana si potevano fare bene, con professionalità, e furono fatte male, inescusabilmente se non di proposito – poi magari un giorno lo steso Sofri dirà la verità anche sull’assassinio di Calabresi, che non fu indagato. Il complotto non c’è, eccetto che quando c’è.
Sofri scrive “43 anni” per dire che piazza Fontana fu l’opera di gruppi fascisti. E basta. Non è vero: piazza Fontana, come poi Brescia, e altri attentati alla bomba, hanno evidenti responsabilità politiche, giudiziarie e di polizia. Si trova quel che si cerca, la scoperta suppone un progetto, ma come dimenticare? La colpa delle bombe fu così accertata: hanno confessato in due, Valpreda e Pinelli, anarchici. Pinelli si è poi ucciso. Ha confessato quando un questurino gli ha detto: “Valpreda ha confessato”. Lo schema Romeo e Giulietta. Tuttavia, Sofri toglie egli stesso il sasso portante alla costruzione, con la testimonianza di una fotomodella, ineccepibile.
Adriano Sofri, 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film, free online

La paranoia del complotto è(ra) di destra

Il complesso del complotto era di destra – che dobbiamo pensare di una sinistra che se ne fa scudo? Richard Hofstadter lo spiegava nel saggio più acuto sul complottismo, “Lo stile paranoico della politica americana”, prima di Daniel Pipes, “Il lato oscuro della storia. L’ossessione del Grande Complotto”, 2005. Il saggio di Hofstadter, che dopo quasi cinquant’anni la “Rivista di politica” di Alessandro Campi traduce, è del 1963..
Lo storico della Columbia trova paranoico anche il populismo di sinistra americano di fine Ottocento, anti-finanza. E i processi di Stalin. Ma soprattutto, insiste, il complotto è la spiegazione della storia che si dà la destra. Hitler, McCarthy, la John Birch Society, razzista. Di cui trova antecedenti nell’anti-gesuitismo, nell’anti-illuminismo, nelle crociate anti-massoniche, e infine nell’antisemitismo. Con alcune costanti, che ridicolmente l’attualità ripete: il Nemico è sempre troppo potente, e lussurioso - ha captali illimitati, controlla la stampa, esercita la licenza sessuale. Salvo copiarne le attitudini. Il Ku Klux Klan imita il cattolicesimo fine nei paramenti, ne rituali, nella gerarchia. La John Birch Society si organizzò come le cellule comuniste, e professò l’intransigenza ideologica del comunismo.
Al dossier contribuiscono Roberto Valle, “Le derive del machiavellismo immaginario”, e Raoul Girardet, “Il mito politico della cospirazione universale”. Una disamina, quest’ultima, dei ricorrenti complotti dell’Ottocento, sulla spinta dell’abate Barruel, che nel 1797, nelle “Memorie per servire alla storia del giacobinismo” aveva ridotto la rivoluzione del 1789 a un complotto massonico contro la “civiltà cristiana”. Ma si potrebbe andare più indietro, allo storico savoiardo Saint-Réa, allievo dei gesuiti, l’autore della “Congiura degli Spagnoli contro Venezia”: “Fra tutte le imprese degli uomini nessuna è grande come la Congiura… (Sono) questi i luoghi della storia più morali e istruttivi”.
Campi, l’“ideologo di Fini”, che però non l’ha seguito nello spostamento a sinistra, contribuisce con la distinzione tra congiura e complotto. Leonardo Varasano, storico del fascismo in Umbria, candidato alle comunali di Perugia nel 2009 nella lista Azione Giovani (Alleanza Nazionale), critica in una nota “dietrologia e complottismo, due costanti del discorso pubblico italiano”. Presentando la rivista sul “Corriere della sera”, Giovanni Belardelli, che contribuisce alla stessa con una nota sull’idea di nazione nel Risorgimento, rileva come la paranoia dilaghi in Rete, ma ne dà una spiegazione duplice. “La necessità di trovare spiegazioni semplici per i fenomeni complessi, impersonali e opachi” è una. A cui lo storico fa seguire Durkheim: “Quando la società soffre, sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suo male”. E se si trattasse invece di un fallimento politico?
Congiure, complotti, Cospirazioni, “Rivista di politica”, Rubbettino, n. 1\2012 € 10

mercoledì 25 aprile 2012

È la destra che non c’è, o la sinistra?

Galli della Loggia ripropone nel prossimo fascicolo del “Mulino”, dandone anticipazione sul “Corriere della sera”, la sua tesi che non c’è una destra in Italia. Non sul piano delle idee o culturale. Soffocata per tutto il dopoguerra fino a Berlusconi dal conformismo di sinistra, e successivamente incapace di darsi un’idea e un tono. Berlusconi ha vinto (quasi) tutte le elezioni dal 1994 in poi (in quella del 1996 ebbe più voti, anche se meno parlamentari, di Prodi, e nel 2006 perse per i voti di Lombardo, che non può dirsi uomo di sinistra). Ma “l’obiettivo della «rivoluzione liberale» con il quale … si presentò venti anni fa è stato totalmente mancato”.
È discutibile. Berlusconi ha vinto le elezioni ma non ha saputo, potuto anche, governare. Ha ricondotto alla “ragione repubblicana” l’Msi e la Lega, ma non si è sottratto ai condizionamenti di gruppi e gruppetti, le vecchie correnti – non si spiegano altrimenti le fortune, nel suo schieramento, di gente come Scajola o Pisanu. Non è questo però che interessa lo storico, la novità di questo suo ennesimo intervento sulla “destra che non c’è”. Il fatto nuovo è, dice, che paradossalmente “l’interdetto antifascista” si è potuto imporre nuovamente “sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista”. Riportando la storia indietro.
O non è il contrario che è avvenuto e sta avvenendo? Nei numeri e anche nell’opinione: non c’è una sinistra, l’antiberlusconismo non l’ha ricomposta e non l’ha nemmeno rivitalizzata. Perché è morta sotto il conformismo. Coprendosi con un governicchio che ha imposto una serie incredibile di soprusi, e ha creato una serie letale di ingiustizie. È questa la causa della paralisi, italiana, prima ancora che europea: una sinistra con una sola mezza idea avrebbe aperto un qualche spazio politico invece di santificare un mediocre governo di interessi.
Il vuoto non è a sinistra più che a destra? È alla Rai, nei giornali, nel politicamente corretto. Una sinistra che oggi non si sa più nemmeno definire: ogni volta che parla sembra e vuole essere la destra. Una sinistra che già non era più quella di Bobbio, dell’uguaglianza, della solidarietà, ai tempi di Bobbio. Tutti valori medi, “moderati” direbbe Berlusconi – per non dire dei “fascisti” alla Storace: niente di più ugualitario e solidaristico. Né è quella della giustizia che impera, per la carriera di qualche giudice che opportunisticamente si dica compagno - Misiani era un sicuro compagno, Boccassini, che l’ha perseguitato, lo è? Non il fiscalismo del week-end a Portofino, per la vacanza degli agenti delle tasse. O dei contributi al 34 per cento per chi non ha nemmeno un contratto discontinuo, da sprofondare in una previdenza parallela da cui non prenderà mai nulla. La scienza delle finanza è una cosa seria, dove essa ancora si insegna le tasse si pagano, la sinistra non sa nemmeno questo. Ma dov’è la sinistra? Prime firme di questa sinistra sono fascisti e leghisti peraltro dichiarati. C’è, è vero, un predominio incontestato della sinistra nei media, nell’editoria, nella scuola. Qualsiasi giornale uno compri, in qualsiasi libreria si avventuri, in qualsiasi università studi. Ma su che valori, idee, proposte? La mobilitazione, la faziosità, l’esclusione, anche cattiva, con la politica del “gruppo” – la cordata, gli amici degli amici, o compagni. Che seppure siano (siano stati) valori di una certa sinistra (sovietica), non si può dire incarnino o propaghino alcunché di sinistra: d’innovativo, progressista, inclusivo invece che settario. C’è un’asimmetria, ecco. La sinistra si vuole militante, missionaria, resistente. La destra invece “silenziosa”, è stato detto negli anni 1970, e quindi remissiva in ogni manifestazione esteriore, escluso il voto segreto. Per viltà forse, quieto vivere. Forse anche per pudore, una diversa concezione della politica, non totalitaria. Ciò si traduce, in campo culturale, in un’asimmetria opposta rispetto al potere istituzionale ed economico. Della cui forza proterva (regressiva, reazionaria) la sinistra culturale finisce per essere aeda se non guardia, la destra vittima. Lo storico dirà che la promessa liberale non è stata mantenuta in Italia per la resistenza delle istituzioni e degli interessi costituiti: la delegificazione e la deburocratizzazione contro la corruzione, una nuova leva bismarckiana sulla previdenza che consenta contribuzioni e fiscalità in linea col mercato libero del lavoro. Niente che si possa dire di sinistra: corruzione? tasse? imprevidenza? Ciononostante la sinistra si vuole verità e ragione, se necessario col cinismo (calunnia). La destra invece osserva, in cuor uso giudica, e tace. Si veda anche alla Rai, azienda saldamente ex dc. Rai 1 e Rai 2, gestite da Saccà, Del Noce, Mazza, si permettono Santoro, Floris, Annunziata, Benigni, Fiorello, mentre la Rai 3, ex Pci, non lascia passare una virgola on in linea. Si viene rinviati cioè alla casella base: di che sinistra stiamo parlando?

Com’è reale la sinfonia

“Sono realista rispetto al mondo fisico, il Mondo 1. Allo stesso modo, sono realista rispetto al Mondo 2, il mondo delle esperienze. E sono realista rispetto al Mondo 3, il mondo degli oggetti astratti”. Il problema è questo Mondo 3, cioè “il mondo dei prodotti della mente umana, come i linguaggi, i racconti, le storie e i miti religiosi; o, ancora, le congetture e le teorie scientifiche, e le costruzioni matematiche; oppure le canzoni e le sinfonie, i dipinti e le sculture”. E compresa “la serie infinita dei numeri naturali”, che per essere infinita “non può realizzarsi fisicamente o incarnarsi”.
Leggere Popper riconcilia con la ragione – lui dice col “senso comune”. Senza agudezas, né one-upmanship, né sistemi da incastrare. Per la semplicità: come per la fisica, per la filosofia un ragionamento è tanto più bello (vero) quanto più è semplice. Gli “oggetti” del Mondo 3, ad esempio la teoria della gravità di Newton e di Einstein, Popper vuole reali. E aggiunge: “E lo sono proprio nel senso in cui il fisicalista direbbe reali o realmente esistenti le forze e i campi di forza”. Che è quello che Massimo Scaligero, spiritualista, insegnava ai giovani “scampati a Evola” cinquant’anni fa. Popper naturalmente difende la “soluzione realista” sulla base di argomenti razionali. Ma il reale si oppone al niente anche senza.
Karl R. Popper, I tre mondi, Il Mulino, pp. 114 € 10

Com’è dereale il giornale

Eravamo rimasti a Diego Marconi alcuni anni fa, con qualche utile. Ferraris, già storico dell’“Ermeneutica” e teorico dell’“Estetica razionale”, nonché ultimamente della necessità di “Ricostruire la decostruzione”, dopo tanto girovagare tra i telefonini, Babbo Natale, Gesù adulto, Kant, l’ipad, e la filosofia delle donne, un’oggettistica (ontologia?) non innocua, torna stanco al vecchio-nuovo realismo. Per dire che la verità esiste, etc. Tutto giusto, magari. Ferraris è anche brioso e spiritoso. La “virgolettizzazione del mondo” è qui ottimo tag anti-postmoderno. Ma il brio qui trascura, forse per essere passato da cronista a editorialista. Questa la sua “autopresentazione”: ha elaborato il “nuovo realismo” negli ultimi vent’anni, avendo abbandonato “l’ermeneutica, per proporre un’estetica come teoria della sensibilità, una ontologia naturale come teoria della in emendabilità e infine una ontologia sociale come teoria della documentalità”. Semplice, no? In linea, aggiunge, “con l’Occidente”.
E il “nuovo” realismo? Il postmoderno, per cominciare, Ferraris dice finito nel populismo – che è un’altra cosa ma, ci capiamo, intende Berlusconi, la “tv commerciale” (come se ce ne potesse essere un’altra). La modernità riduce al “prevalere degli schemi concettuali sul mondo esterno” – o non il contrario, dove mettiamo la tv? Il “pensiero debole” riconduce a Joseph de Maistre, alla “polemica cattolica contro gli esprits forts”. Folgorante, forse, ma insensato. Senza risparmiarci l’ennesima esercitazione destra-sinistra, della sinistra che diventa destra e viceversa, che non è per la verità da esprit fort e nemmeno debole – se non ha stufato pure i lettori dei giornali, in emorragia di copie. Tanto per la documentazione: il destra-sinistra è applicato allo heideggerismo, alla rivoluzione desiderante, all’ironizzazione e alla desublimazione. A cui Ferraris aggiunge di suo la deoggettivazione – questo è Bush jr. Le cinque alluvioni convergono infine nel realitysmo, ultima ontologia di Ferraris, coniata su “Repubblica” il 29 gennaio 2011. Che a sua volta si basa su tre “meccanismi fondamentali”, che risparmiamo.
Il resto è argomentato, più che spiegato o esposto, sullo schema dell’Autore in resta per il Primato. E, certo, non si può dire: Ferraris esiste. Ma con più “verità” si potrebbe sostenere che il giornalismo, pur esistendo, rovina la filosofia, Ferraris con Galli, Galimberti, De Monticelli.
E Vattimo? È a lui che Ferraris scrive, citandolo (demolendolo) e no. I duellanti “escono” insieme, scambiandosi gli editori, ma stanno ognuno nella sua parte. Vattimo, sempre elegante, resta all’antico: l’ermeneutica, o costante reinterpretazione, resta il miglior strumento conoscitivo, poiché consente di superare la “dittatura del presente” - un’ermeneutica, insomma, un po’ revisionista. Soprattutto, Vattimo s’impegna a rigettare l’accusa che il postmoderno sia stato e sia una difesa e un trionfo per il neocapitalismo – cosa che, se mai qualcuno l’ha detta, nessuno ci crede. Semmai, aggiunge, è il realismo che impone oggi l’accettazione conformista del capitalismo imperante…
Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, pp. 113 €15
Gianni Vattimo, Della realtà, Garzanti, pp.238 € 18

lunedì 23 aprile 2012

Persico tradito dagli amici

Una sceneggiatura legnosa di Camilleri, e una serie inverosimile d’ipotesi dello stesso attorno alla morte di Edoardo Persico a 35 anni, escludendo la probabile tisi. Basate sulle memorie sconnesse degli amici di Persico, Alfonso Gatto e Giulia Veronesi, e sulle reticenze di Anna Maria Mazzucchelli, allora segretaria di redazione a “Casabella”, poi moglie di Argan. Eileen Romano fa di ognuno di questi volumetti Skira un’occasione sociale, schierando attorno al personaggio o alla vicenda amici e parenti, ma questa volta non funziona. Solo ipotesi, non c’è l’uomo, se non come un minus habens, né l’“architetto” che molti (tutti) onorano, sico, il geniale teorico d’arte e organizzatore culturale, condirettore di “Casabella”, che fu all’origine del design a Milano, e avrebbe costituto un soggetto molto più interessante.
Uno sberleffo, involontario, alla storia degli indizi – quando la storia semplice sarebbe stata tanto più interessante. La storia indiziaria di Persico, rilanciata nel dopoguerra da Gualtiero Peirce, un ex comunista passato al “Borghese”, era stata proposta trentacinque anni fa a Sciascia, che non ne fece nulla, e successivamente a Oreste Del Buono, che ne scrisse su “Tuttolibri”, a lungo, nel 1993. L’unico “indizio” di qualche interesse sono le raccomandazioni successive di Persico, quando studiava a Torino, da parte della contessa Soldati. Via parrocchia. Persico fu raccomandato dapprima come addetto alle pulizie alla Fiat poi come redattore alla rivista “Motor Italia”. La “contessa” è la madre di Mario Soldati.
Andrea Camilleri, Dentro il labirinto, Skira, pp. 165 € 15

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (125)

Giuseppe Leuzzi

A Milano per ogni Brambilla, secondo l’Anci, l’associazione dei comuni, ci sono più di 2 Hu. Per ogni Sala, Cattaneo, Galli, Mariani, Barbieri s'incontra almeno un Chen. Il cognome Zhou, al diciassettesimo posto per frequenza, ricorre più di Fontana, Negri, Riva, Pozzi, Grassi, Gatti, tutti cognomi ambrosiani tipici. Mohamed è il 33mo. Tra i primi 100 cognomi si contano 9 cinesi, 3 arabi e uno di Sri Lanka Fernando.
La città della Lega è la più meticcia. Non di meridionali. È una scelta, è una nemesi?

Colombe e palloncini bianchi a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria, con applausi, ai funerali di Luigi Napoli, morto a diciannove anni. Mentre faceva una rapina a mano armata in un supermercato. Nella quale aveva ucciso il commerciante.

A Polistena il sindaco Michele Tripodi sfida il governo e abbatte l’Imu sulla prima casa allo 0,2 per mille. Se lo può permettere perché ha l’amministrazione in ordine, e perché ritiene la tassa “ingiusta e iniqua” – c’è differenza tra i due aggettivi? C’è.
Tripodi è un comunista puro e duro, di famiglia comunista. Suo zio era il senatore “Mommo”, Girolamo, Tripodi, tra i fondatori di Rifondazione e poi del PdCI, parlamentare per cinque legislature, sindaco per trentun anni. Michele è stato l’assessore più giovane d’Italia e più “delegato”, nella passata giunta provinciale di Reggio Calabria, a guida PdCI. Governa la cittadina contro il Pd e la Sel, oltre che contro il Pdl.

Il risentimento
È l’uso da qualche anno al Sud di perdonarsi a vicenda, tra le mamme o le mogli degli assassinati e le mamme degli assassini - che più spesso non hanno mogli, sono giovani e balordi. Davanti ai telegiornali, che ne sono ghiotti: il perdono è politicamente corretto, e le lacrime fanno audience. Con l’intermediazione in genere di parroci e confessori. Ma senza farsi l’esame di coscienza.
In più casi concreti la famiglia anzi si conferma, in questi perdoni superficiali, la scuola del risentimento. Peggio: dell’odio – dell’irresponsabilità (la colpa è degli altri). Familiare e sociale. Per un senso atavico della giustizia (ingiustizia). Per un senso malinteso della democrazia. Di cui soprattutto le donne – le mamme – sono portatrici. Su uno sfondo di rinunce o fallimenti personali, in una realtà tetra che il rancore consolida.

Il “discorso” è la realtà
Si può dire la Calabria la regione che ha più verde protetto. Con più parchi marini. E l’aria più pulit - certificata. I boschi più estesi. Gli ulivi più antichi - una selva interminabile nella valle delle Saline, o piana di Gioia Tauro. Oppure dirla la regione del malaffare. Della ‘ndrangheta. Dell’abusivismo.
È il “discorso” che fa la realtà. Nel senso che interagisce sulla realtà vera, la monopolizza, la domina. Quella sociale e politica, ma anche quella naturale: pochi calabresi sanno godersi l’aria, o trovano verdi i boschi e le coste, pensano che il “discorso” che se ne fa sia un trucco, il “discorso” vero è quello dominante. Dei media, dell’editoria, della sociologia di caserma.

Aggiornamenti
Di alcuni concetti sfocati e da troppo tempo convenzionali, che reggono il rapporto Nord-Sud, un aggiornamento e un minimo di chiarezza si rendono necessari - di alcuni termini deprecativi di cui si obera il mai abbastanza deprecato Sud.
Casta – La politica come casta è una dato nazionale, che Sud è sopportato, male. È l’intoccabilità (immunità) e insieme l’arroganza del potere. Un milione di persone, facendo un rapido calcolo, tra incumbent e contendenti. Circa ventimila persone tra eletti e personale di servizio (consulenti, consiglieri, segretari) nelle Camere e ai ministeri. Venti consigli regionali, cento provinciali, ottomila comunali, un migliaio circoscrizionali. I consiglieri delle tante Autorità. E gli innumerevoli comitati per reduci e falliti.
Consociativismo – L’ha inventato ufficialmente Depretis. Ma era già attivo alla morte di Cavour, Rattazzi fu il primo consociativo.
Corruzione – È ritenuta “normale” in affari, tra privati cioè. Giusto la distinzione di Formigoni. Dove gli affari sono più fiorenti, dunque, la corruzione più fiorisce. Ma dove gli affari predominano è inevitabile che la corruzione infetti la funzione pubblica: è un concetto pervasivo delle relazioni sociali.
Dualismo – S’intende tra Nord e Sud. Invece è tra produttivi e privilegiati (garantiti).
Familismo – Non è solo di Di Pietro, è anche di Bossi dunque – ma si sapeva. È radicato nei ceti professionali. Tra i giudici, i militari, i medici. Di un famoso giudice politico Santoro e la Rai celebrano le virtù dicendolo “giudice figlio di giudice, nipote di giudice” - come se il giudice figlio di contadino fosse da meno. Il compianto sociologo politico della Luiss Viktor Zaslavsky, il cui figlio è fisico, peraltro valente, negli Usa, usava commentare: “Solo in Italia il figlio del professore è professore. Nella stessa disciplina”.
Si dice: una professione richiede formazione, un po’ come nelle arti e mestieri. Ma “Dinastie d’Italia”, una ricerca dei bocconiani Jacopo Orsini e Michele Pellizzari documenta un grado di familismo tra medici, avvocati, farmacisti e giornalisti quattro volte superiore a quello degli artigiani. Anche se incomparabile con quello dei professori universitari, che sarebbe addirittura il doppio. Su tutto il territorio nazionale, a Sud come a Nord.
Questo è importante: la pubblicistica si fa con le università folkloristiche Jean Monnet di Casamassima e Parthenope di Napoli, create appositamente per sistemare i familiari, e con le dinastie baresi dei Massari e Girone (Economia) e De Santis (Amministrazione). Ma uno studio di Stefano Allesina, ecologo all’università di Chicago, sui cognomi ricorrenti, mostra il familismo radicato, nell’ordine, in Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia, Calabria.
In certe condizioni è peraltro valore positivo. La trasmissione delle conoscenza artigianali, di maestranza. O le dinastie industriali, degli Agnelli, i Pirelli, i Benetton, di chi cioè mantiene i capitali in un certo settore industriale piuttosto che movimentarli liberamente alla ricerca del maggior guadagno.
Feudalesimo – In molte aree del Sud si segnala per non esserci stato. S’intende il feudalesimo in senso proprio, nei secoli fra il VII e il XII secolo, prima dell’affermarsi delle città, e poi delle signorie. Quel particolare rapporto tra un signore e le sue genti, di esazioni (corvées, etc.) ma anche di protezione, e di stimolo (esempio). Al coperto di un insieme di statuti obbligati in area imperiale, anche quando il vincolo di sudditanza nell’impero era sfidato o rigettato.
In molte aree del Sud il padrone-guida locale è mancato, come sono mancati gli statuti. In quei secoli “bui” molta parte del Sud era preda di lontane o imbelli monarchie e di incessanti scorrerie, con trasferimenti continui di popolazioni, dalla costa nei più impervi recessi montuosi, e la disgregazione costante, sociale e produttiva.

leuzzi@antiit.eu

sabato 21 aprile 2012

Israele, è meglio che emozioni gli scrittori

Si può prendere, è più giusto, la poesiola di G.Grass contro Israele come un segno di attenzione, e anzi di preoccupazione. Evocare l’antisemitismo, come è stato fatto da tanti, da Bernard-Henri Lévi al governo Nethaniau, è fuori luogo. Perché Grass non è antisemita, e pone un problema politico. E perché dice una cosa, non schiera armi né muove battaglioni. È del resto evidente, un buona fetta dell’opinione israeliana lo sa, che c’è un impasse dentro e attorno a Israele, che esso è determinato da Israele, e che può ritorcersi contro Israele. È giusto dunque preoccuparsi. Meglio ancora se lo fanno gli scrittori, se Israele tocca le corde di chi “immagina” e “vede”.
Un altro tedescofono intrattabile, Friedrich Dürrenmatt, aveva voluto trentacinque anni fa, come Grass non richiesto e senza una speciale occasione, schierarsi a favore di Israele. Al termine di un viaggio breve, una tre giorni a Haifa, Be’rsheba’ e Gerusalemme, invitato a tenere nelle tre città una conferenza. Era un momento difficile per Israele, dopo la grande paura della guerra del Kippur, cui era seguita una stagione ostile all’Onu, culminata nel 1975 con una mozione che diceva razzismo il sionismo – poi ripudiata nel 1991. Di più, in ognuno dei tre luoghi Dürrenmatt subì un’emozione intensa. Che al ritorno lo portò a riscrivere radicalmente la sua conferenza. Allargandone l’impianto politico a quello religioso e alla presenza, allora forte in Europa, del marxismo. Per dire sì, malgrado tutto, e al suo modo parafilosofico, tra l’esistenziale e il trascendentale (mitologico), all’esistenza di Israele: “La mia presa di posizione nei confronti di Israele si fonda su riflessioni … complesse, non tanto perché uno scrittore di per sé tende a riflessioni complesse quando gli si richiede un discorso, ma piuttosto perché la motivazione in sé è complessa”, etc. Ma alla fine senza se e senza ma: “La risposta è semplice: io, che non prendo posizione per nessuno stato in particolare , che in genere non penso molto bene degli stati, e del nazionalismo poi penso decisamente male, prendo posizione per Israele perché credo che questo stato sia necessario”.
Un libro in vario modo interessante, che bizzarramente più non si ripubblica dopo la prima traduzione nel 1978. Il titolo originale dice di più: “Zusammenhänge, Essay über Israel. Eine Konzeption”. Quattro anni dopo la pubblicazione del saggio, nel 1980, Dürrenmatt pubblicò un seguito, “Nachgedanken unter anderem über Freiheit, Gleichheit und Brüderlichkeit in Judentum, Christentum, Islam und Marxismus und über zwei alte Mythen”, sui concetti di libertà, uguaglianza e fraternità nell’ebraismo, il cristianesimo, l’islam e il marxismo, e su “due vecchi miti” – tradotto nel 1998 col titolo “Nel cuore del pianeta”
http://www.antiit.com/2011/10/marx-e-finito-israele-no.html
Friedrich Dürrenmatt, Rapporti. Saggio su Israele

Problemi di base - 98

spock

Dopo i monti i mari? Con le mutande, senza?

Se non c’è limite al peggio, perché c’è il limite?

Intellettuali schierati, militanti a riposo?

Professionisti dell’informazione, non sarà un insulto?

Il giornale è scomodo e antiecologico, l’online è scomodo e freddo: è questo il motivo per cui l’informazione è sempre agitata?

È l’informazione padrona del mondo, o ne è l’ancella? Schiava? Retribuita?

È Emma Marcegaglia al soldo della speculazione? Critica il governo gratis?

Se Fini fu strapazzato 6-4 da Rutelli, e Rutelli 6-4 da Alemanno, chi vincerà la partita nel Grande Centro della Nazione? (Casini, per questo non corre mai)

spock@antiit.eu

Letture - 94

letterautore

Anosognosia – I lettori del “Corriere della sera” che si interessano degli “Esteri” l’hanno trovato mercoledì 11 in un articolo di Lévy contro Grass: “Una sorta di anosognosia intellettuale fa cadere tutte le dighe che di solito trattengono lo scatenamento dell’ignominia”.

Biografia – Genera mostri: lo scrittore si rifà sul personaggio.
Con una differenza geoculturale: non nelle biografie inglesi, sì in quelle italiane, da Padellaro a Citati, e in quelle francesi, con l’eccezione di Troyat, che si vogliono narrative nel senso dell’autore e non del personaggio, quindi immaginarie: fantastiche, critiche, vendicative. Nonché in quelle americane, solitamente profilate, per dire una cosa. Come Citati “torce” Leopardi. Che è ben vivo, ma non era uomo (poeta) di eccessi. Mentre è misurato Pasolini di Siciliano, anche quello di Nico Naldini, che invece era eccessivo.

Dante – Per Carlo Fruttero e i suoi compagni di letture in campagna negli anni dello sfollamento era “molto divertente” – Hemingway “un po’ un salame”, Zola “una ciula completa”.

C’è un Dante islamico. Non poteva mancare, e potrebbe essere il Dante prevedibile del prossimo futuro, se non del settimo centenario. Non va perciò trascurato: è parte del “politicamente corretto” e sarà parte della nuova demografia.
Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921, a ridosso del revival ispanoislamista del primo Novecento, sancito nel 1919 dal sacerdote, filologo e arabista spagnolo Miguel Asίn Palacios con l’“Escatologia islamica nella Divina Commedia”. Poi, nel secondo dopoguerra, lo si rivolle islamico per aver “copiato” il “Liber Scalae Machometi” detto “Libro della Scala”, un testo arabo del secolo ottavo di cui non si ha l’originale, solo l’adattamento castigliano, dal quale, nel 1264, è stato ricavato uno in latino. Alla Scuola di Toledo, del re di Spagna Alfonso X il Savio. Infine, a fine Novecento, Dante è tornato brevemente islamico con la traduzione di Asίn Palacios e con alcuni studi di Maria Corti improvvisata arabista. Che vuole Dante ispano-arabo sulla traccia avanzata nel 1949 da Enrico Cerulli, editore del “Libro della Scala”: che Dante può averne saputo da Brunetto, esiliato, fra i tanti altri posti, anche a Toledo. Nonché siculo-arabo, per i tanti influssi della corte palermitana di Federico II. E quindi, se due metà fanno uno, integralmente islamico. Cerulli era glottologo insuperato dell’altopiano etiopico, con migliaia di pagine sulla lingua e la storia di Harrar, del Sidama, dell’Omi, dei Giangerò e dei Caffi.
Alla pubblicazione del libro di Asίn Palacios gli islamisti maggiori (riflessivi, sereni, meno primatisti) se ne tennero lontani. Corbin tacendo. Massignon riconoscendo l’originalità dell’idea, le fonti islamiche di Dante, ma non trovandoci appigli. Bausani ha prodotto, non ironicamente?, un “Sanā’ī precursore di Dante” - Sanā’ī, morto nel 1130-31 è “il primo grande poeta del sufismo iranico” (Gianroberto Scarcia), autore di vasti poemi epico-religiosi: “il suo «Giardino della Verità», grande poema ora scolastico ora estatico, fu denominato «Corano persiano»”. Ma sull’essenziale, alla fine, anche Asίn Palacios concordava: “Dante, come ogni artista di talento, senza preoccuparsi dell’intenzione dei suoi modelli, senza lasciarsi opprimere dai vincoli dei suoi prototipi, poté trasformarli liberamente per adattarli alla propria intenzione personale e al proprio ideale”, alla propria poesia.
Maria Corti, invece, in “Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante”, del 1993, e nella raccolta postuma “Scritti su Dante e Cavalcanti”, tende a farne un punto certo. Profondendosi in un duplice impegno: ampliare i punti di contatto della “Commedia” col “Libro”, trovarci analogie strutturali, scoprire nel “Convivio” e nel “De Vulgari Eloquentita” tracce dell’aristotelica “Etica nicomachea” nella traduzione di Toledo. Corti vuole Dante maomettano in modo diretto, non solo per collegamenti “interdiscorsivi”, casuali, accidentali, né “intertestuali”, per narrazioni di terzi o letture di digesti, ma proprio come “fonte diretta”. Per aver letto e gustato il “Libro della Scala”. Per collegamenti formali estesi, non casuali e non tematici. E non per avere letto, magari per caso,  il “Tesoretto” di Brunello Latini, che era suo maestro - anche se improsatore.  
A differenza di quelli dello spagnolo Asín Palacios, i riferimenti di Maria Corti sono arabi piuttosto che islamici. Arabo è il divieto a Ulisse di varcare le colonne d’Ercole, che non c’è nella tradizione classica ed emerge appunto con i geografi arabi di Spagna. E araba può essere, in nessun caso islamica, una gigantesca statua di Maometto costruita sullo stretto di Gibilterra, “secondo alcuni geografi arabi”, e di cui la filologa favoleggia: il Profeta alto e barbuto in ottone, con un mantello dorato, su un lastrone di marmo bianco, il braccio sinistro proteso in un gesto per significare “di qua non si passa”, al dire dei geografi secondo Maria Corti. La riprova? È in un testo coevo di Dante, intitolato “Mare amoroso”, che Contini ha incluso nella raccolta “Poeti del Duecento”: “E mai non finirei d’andar per mare\ Infin ch’i’ mi vedrei oltre quel braccio\ Che fie chiamato il braccio di Saufi\ C’ha scritto in su la man «Nimo ci passi»”.
Come riduttivismo non è male. Ma è forse è un segno d’amore, di una filologa che voleva essere meridionale, mediterranea. Dapprima del Nord Mediterraneo, con “L’ora di tutti”, i racconti del 1962 che celebrano la resistenza di Otranto e del Salento ai turchi, premiati l’anno dopo in Calabria, a Crotone. Alla fine avrà voluto essere mediterranea del Sud? Araba più che islamica: “Il Libro della Scala di Maometto” è sospetto all’ortodossia islamica.

Giallo – M.T.Conard, “Platone suona sempre due volte. La filosofia del noir”, lo riporta a Schopenhauer e Freud, e anche a Socrate, Platone, Aristotele, perché tutto è necessario per “spiegare il lato oscuro”. Eccitato forse dalla passione di Frank e Cora invincibile de “Il postino suona sempre due volte”. Anzi, il Marlowe di Bogart, il Quinlan di Orson Welles, e gli svitati di “Pulp Fiction” vede modellati sul “nichilismo di Nietzsche”, sull’“esistenzialismo di Sartre”. Non è il solo. Oreste Del Buono evocava Edipo, i tragici greci. E perché non Shakespeare, commedie comprese? O la Bibbia, Dio in persona. Mentre il giallo, anche con lo spessore del “noir”, si vuole semplice e diretto, complesso giusto nella trama. Per l’invincibile universale attrazione dell’indovinello, dell’escogitazione – anche tra gli animi semplici, senza filosofia. La stessa che ha fatto per millenni la fortuna di aruspici e sacerdoti. Che caratterizza l’essere umano più del riso, o del pianto.

Lingua – Leopardi, dice Citati nella biografia, “amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile”. Era?
Ma è vero che ogni lingua è molte e una. Tanto più che lo stole non è la lingua, ma un uso della lingua. Leopardi era gnomico, e “usava” a questo fine bene l’italiano – Citati è immaginifico, e “usa” a questo fine lo stesso italiano di Leopardi.

Proust – “La memoria è quasi imitatrice di se stessa”, G.Leopardi, “Zibaldone”, 1452. C’è il cultore della materia all’università, politicamente corretto, per non chiamarlo più assistente. Proust è cultore della memoria, per non dirlo onanista, formidabile.

letterautore@antiit.eu

venerdì 20 aprile 2012

Ombre - 127

Cronaca d’apertura della pagina mondana del “Messaggero”: “Alle pendici del Celio, tra le mura antiche di Santa Maria in Tempulo, il deputato dell’Udc Miche Rao e Michela Monti ieri pomeriggio hanno detto sì. Alla cerimonia civile, officiata dal collega deputato Gian Luca Galletti, hanno partecipato, oltre ai figli della coppia…”. Dunque, gli Udc, che sono i vecchi (demo)cristiani, si sposano dopo aver fatto i figli, lei in vestito bianco importante, e solo civilmente. O sono blasfemi? Santa Maria in Tempulo è una chiesa sconsacrata.

Si discute come passare alle banche i crediti delle imprese verso lo Stato, scontandoli. Cioè come passare i margini di utile delle imprese alle banche. Sembrerebbe impossibile ma è quello che Passera propone.
Si tratta di trenta miliardi, siamo nel paperoniano.

“Lo splendido isolamento tedesco” lamenta e celebra l’ambasciatore Puri Purini sul “Corriere della sera”. Chiedendo un occhio di favore per l’Italia di Monti, così virtuosa anch’essa, intende, come la Germania. Ma la Germania prospera grazie alla Ue. Jugulando la Ue. Basterebbe un po’ di politica, per non dire di diplomazia, per riequilibrare pesi e misure.

Non c’è un Adusbef, un Codacons, che sfidi la legalità del conto corrente obbligatorio, anzi la costituzionalità. Col corredo dell’impossibile Iban per tutti i vecchietti delle pensioni sociali, e i pagamenti attraverso bonifico, magari online, perché no, e il semplicissimo F 24. Gli avvocati Lannutti e Rienzi sono ammutoliti: quali utenti proteggono? Il potere delle banche è più imbattibile o suadente?

Calano le vendite dei giornali, per il quinto anno consecutivo. Ma la Federazione degli Editori non se ne cruccia, dichiarando aumentati i lettori, grazie ai siti online – da 4 a 6 milioni tra il 2009 e il 2011. Come se l’apertura di un sito, per un riscontro o un’ultima notizia, fosse la lettura del giornale.

“La Nazione” pubblica una corrispondenza da Siena sul dissidio, aspro, tra il Monte dei Paschi e il sindaco Ceccuzzi, democratico. Non è una novità, lo sanno tutti e lo hanno anche scritto. Ma l’editore della “Nazione” licenzia per questo il direttore, da poco nominato. Potenza di Siena? Della banca? Del Pd?

Prima gli araldi della banche, “Wall Street Journal”, “Financial Times”, “Economist”, poi le agenzie di rating, infine il Fondo Monetario: i dubbi fioccano sul governo Monti. Ma non smontano la fiducia dei nostri giornali. La fede si vuole cieca e assoluta?

A giorni alterni, Monti mette alla gogna la Spagna e la Grecia – che non si fa, nessun altro lo fa. Essendo Monti una persona beneducata, non lo fa per maleducazione. Lo fa da milanese, per provincialismo, gretto malgrado l’esibizione di buonsenso.

Roberto Bagnoli spiega che due italiani su cinque non sanno che pensione avranno. E calcola che il 27 per cento avrà pensioni basse, “inferiori ai bisogni”, il 16 per cento resterà senza. Nel supplemento “Risparmio” del “Corriere della sera”, formidabile testimonianza (involontaria?) del “mercato” che ci domina. Risparmio?
Ma non è una critica. Bagnoli sembra propendere per la fatalità.

Sullo stesso supplemento Marcello Messori celebra un “Addio Oscar dei risparmiatori”. Mesto: “Per l’Italia la perdita inesorabile di un primato. Una caduta ininterrotta da dieci anni. E non è finita”. La colpa è delle banche, spiega il professore, che si sono appropriati dei risparmi delle famiglie e li amministrano male. E conclude: “Risulta necessario rompere il quasi monopolio bancario” sul risparmio.
Ma non ha scritto una riga contro l’obbligo del conto corrente, e dell’inafferrabile Iban, imposto dal duo bancario Passera-Monti.

Giò Ponti dirigeva la Ginori a 23 anni. Giuseppe Terragni progettava edifici pubblici a 28. Il futuro è già passato?

A chi, come, quando, pagare le nuove tasse, e quanto, non si sa. Il ministero dell’Economia, che Monti regge, si è ridotto all’Agenzia delle Entrate. E l’Agenzia delle Entrate si è dedicata a creare un personaggio, o la carriera politica, al suo capo Befera. A costo di costose, benché improduttive, incursioni nei resort di lusso, nei week-end, con laute diarie, e straordinari notturni e festivi.

Il Professore fa scemenze, poi lamenta che i partiti lo “impaludano”: la logica dell’antipolitica è imbattibile. A patto di ritenere tutti sciocchi, anche quando si svenano per pagare tasse inutili.

“Crescita, il governo si muove”, titola in prima il “Corriere della sera” sabato: “Nuove tasse sulla benzina”. Senza ironia.

Secondi pensieri - 97

zeulig 

 Amore – Si vada per esclusioni. Certamente non è disprezzo, o insofferenza. Nemmeno indifferenza. Quello di Isidoro di Robles perdeva le vocali, ma non tutte insieme. Catone il Vecchio dice che l’anima di chi ama vive dentro quella di chi è amato. Bello, e risolve pure il problema dell’anima – dell’etimologia, che non è più ventosa ma di parentele labiali nasali. Ma è per questo che non c’è più l’anima, perché l’amore non c’è? O è l’amore incerto perché l’anima non c’è? La santità, ammonisce Eckhart che se ne intende, non si fonda sulle opere, la santità va fondata sull’essere. Esserci e non concedersi, insomma, è dell’amore il cuore. Se una donna piange, il detto vuole o che la sua vita sia una tragedia o la tua lo sarà. Ma potrebbero esserlo entrambe. Amore è intimità. Che è connotazione sororale - ci sia una sorella o un fratello in carne e ossa, oppure no. Inutile erigere tabù, l’amore si produce nell’incontro, quindi nella naturalezza, nell’abitudine anche. Nella disattenzione, poiché la presenza è costante. Senza punte, riserve, rivincite, prepotenze, sia pure sotto forma di one-upmanship, voglia infantile di primeggiare, che fanno il gioco della coppia caro agli psicologi e normatori. Può essere il massimo contenitore di cattiveria, in tutte le forme, furberia, egoismo, violenza, le passioni non facciano velo. “L’amore e la poesia oggi debbono giustificarsi”, Borges - mi ami? perché mi ami? È il secolo che si allinea a Freud. O Freud ha ragione. Ma già Aristofane giocondo poneva l’amore tra le cose turpi, in omaggio alla sapienza. Ma smitizzare bisogna: se la voluttà è l’arroganza del corpo, l’amore è il narcisismo dell’anima. È il tema dell’amore amato di Lullo - o il tema era l’amante amato…. E capita nei fatti come Wilde, la Gambara e D’Annunzio vogliono, che si uccide chi si ama. Che funziona piuttosto al passivo, ognuno è ucciso da chi ama - barbaro certo, e maschilista di fronte all’“Amor ch’a nullo amato amar perdona”. L’amore, “brutto figlio de pottana”, direbbe l’ortolano Ciccio di Alessandro Scarlatti, si cerca perché non c’è. È l’egoismo in porpora e zibellino, il pavone che fa atto di contrizione appaiandosi, senza smettere la ruota. È barocco, enfatico. Se l’aggressività è una retta in verticale l’amore è nel segmento basso, quello addomesticato, fino alle forme aride della etichetta e il dover essere, ma se l’amicizia manca è egoismo puro, fa presto a risalire il colonnino dell’aggressività. La coppia è garbo: educazione e buona disposizione. E, se c’è la follia, è passione. Filosoficamente resta ignoto, e anche materialmente, come avviene tra due persone, l’attrazione, la repulsione. È roba chimica, di reazioni gastriche? O fisica, di nervi, fibre ottiche? Pare che la realtà sia nella visione, secondo Heidegger, e il solito sant’Agostino. O non è tattile, l’amore? O un fatto di odori, o di ultrasuoni? Una volta si localizzava nel cuore, che è un muscolo, si poteva allora pensarlo riflesso pavloviano. Ma il cuore si disse e ripeté che arde, o piange, quello di Beaumont pianse fino ad affogare, a Orlando Gibbons prese a friggere, Thomas Morley dovette chiamare i pompieri, a opera di madrigalisti magari assassini e grassatori, e la cosa finì. Per cui le pene d’amore non hanno specialista, né accademico né praticone. Sono roba da maghi, buona per i romanzi. Questa è pure la loro misura: non si muore d’amore. Affermano di sapere tutto i poeti, ma è fantasia di timidi, o impotenti - è un classico che i poeti s’inventano gli amori, i Faoni, Agallidi e Ganimedi, le Cinzie, Delie, Lesbie, e le Cornelie, giustamente. 

Anima – In Lukáks, “L’anima e le forme”, e Hillman, “L’anima del mondo”, sta per Dio. Loro non lo sanno, o non lo dicono, ma è così. È parola di cui nessuna lingua conosce l’origine. Ne viene l’animale. 

Corpo – Ha una sua vita autonoma, sia o non separato dall’anima, come vogliono Cartesio e la mistica fascista. Le tette, anche quelle gonfie delle madri e quelle sbrendole dall’uso, le chiappe, le cosce, la nuca, le labbra, il modo di camminare, la voce hanno un loro linguaggio. Commuovono, ricordano, chiamano, promettono, respingono. In che chiave si esprimono le carni mantrugiate delle riviste per soli uomini, le bocche rossissime a o, gli occhi spenti, o scaltri, o avidi, ma di denaro, pagliericci di lussuria coi tempi e metodi di Taylor? Che cos’è il sesso, quante componenti combina, questo resta ignoto, soprattutto alla filosofia, la vita di relazione è terra incognita. Ma la condanna è recente, Delumeau la data all’anno Mille. Il rosario contiene tuttora una serie impressionante di simboli erotici, tra torri e vasi, con aggettivi. Ugo da San Vittore è ancora un estimatore: “Habent corpora omnia visibilia ad invisibilia bona similitudinem”, i corpi visibili rinviano ai beni invisibili. Le parti mute del corpo sono piene di suggestioni, anche le carcasse slombate. E si parla di foto, in assenza del calore dei corpi, o del loro algore. La testa non è tutto, e forse non è il meglio La bellezza oggi è urbana, e la bellezza urbana è il corpo. Urbano: ogni spogliarellista, ogni amante sa che il nudo integrale va recitato. Puškin si accorse dopo essersi sposato quanto sia spirituale la passione, che la novità di un corpo è più forte dell’amore o della bellezza, perché il corpo non può mentire. E che Otello non è geloso, anzi è un carattere pieno di fiducia – o può essere la fiducia letale? L’anima è copula mundi, spiega Marsilio Ficino, uomo dotto, fra le parti basse e quelle superiori. 

 Dialettica – Si vuole scienza della conoscenza, ma non più dei paralogismi. O dell’artificio epistemologico del dualismo: felicità1infelicità, amore\odio, vita\morte, amico\nemico.

Felicità – “La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza” è una delle tarde riflessioni ddel pessimista Leopardi nello “Zibaldone”, 3498. È lo specifico dell’animale uomo, questo “desiderio ardente di felicità” temporale, qui, ora. È il proprio dell’esistenza – della procreazione, della vita vissuta fino a un estremo trapasso – e anche dopo. È il motore del genere umano – del progresso, della storia. È la radice dell’infelicità, ovvio – in hegeliana dialettica. 

Noia – È passione contemporanea. È dell’Ottocento. Ne è primo poeta e censore Leopardi, che la dice anche “tedio” e “fastidio”: “La noia è la più sterile delle passioni umane, Com’ella è figlia della nullità, così è madre del nulla”. Ma non è passione: è l’appassimento della passione, l’estinzione. Sotto la spinta della ragione. Di quella particolare ragione che è l’utilitarismo, nella sua più recente versione del disincanto, o desacralizzazione: la ragione della convenienza – anche dell’efficienza, se si vuole, ma di tipo economico, tra diverse soluzioni la meno dispendiosa. La convenienza come tornaconto. Il tornaconto di una vita ordinata, previdente. La ragione di cui Leopardi dice che tanto meno vede quanto più vede”. Si può dire la vendetta (rivalsa) del niente: l’atonia, la derelizione della speranza (felicità). Un disfacimento, ben più soffocante di qualsiasi forma di tragedia. Non c’è in natura, è un fatto dell’uomo, della storia. 

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Quando la Calabria era bizantina

Riedizione, ampliata al monachesimo bizantino della Calabria settentrionale, dei “Santi italo-greci” che lo stesso Ferrante, parroco di Chorìo, e poi di Santo Stefano d’Aspromonte, aveva inizialmente dedicato all’area grecanica, nell’arcidiocesi di Reggio Calabria. È una ricerca robusta che l’autodidatta Ferrante ha prodotto, stimolato dai parrocchiani che non sapevano più nulla dei loro santi, anche se a tutt’oggi unica: il risveglio della coscienza di un passato che intendeva stimolare è rimasto minimo - più che ad altro, legato ai sussidi auropei per le aree linguistiche minoritarie.
Allargando l’orizzonte, l’originario interesse pietistico e cultuale, soprattutto mariano, della ricerca si amplia alla funzione culturale e politica di questi “santi”, eminenti personalità. Attraverso biografie falsate dall’agiografismo, e tuttavia fonti significative dell’epoca. Nei rapporti con la madrepatria, in bilico tra le due chiese, d’Oriente e Latina, e nel contrasto della quotidiana afflizione saracena (islamica). La Calabria in particolare si popolò di circa quattrocento monasteri greci per la fuga imposta dalla conquista islamica della Palestina e del Levante. Il capitolo introduttivo è una ottima sinossi della ortodossia in Calabria. Il secondo capitolo è una concisa ma significativa storia dei difficili rapporti con gli arabi, specie tra l’VII e l’XImo secolo, fino all’arrivo dei Normanni.
“La Calabria”, premette in una nota il francescano F.Russo, il curatore dei dodici volumi del “Regesto vaticano per la Calabria”, negli ultimi due secoli della dominazione bizantina, in uno dei periodi più calamitosi della sua storia, caratterizzato dalle continue incursioni dei Saraceni, che hanno sconvolto la società nelle sue istituzioni civili, economiche e religiose, ha scritto pure una delle pagine più radiose del suo passato, di cui è stato protagonista il monachesimo calabro-greco”. Monaci facevano la spola tra la Grecia e la Calabria, è Oreste, patriarca di Gerusalemmen, a scrivere la vita dei santi Cristoforo, Saba e Mecurio, “Tra i protagonisti della famosa Eparchia del Mercurion”, e i contatti erano intensi anche col mondo occidentale.
Nicola Ferrante, Santi italogreci in Calabria