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mercoledì 30 ottobre 2019

Demonismo ebraico

Nel villaggio ebraico di Goray presso Lublino, dopo una serie di pogrom specialmemte feroci dei cosacchi ucraini e dei contadini polacchi, gli haidamak, aizzati dall’atamano Bogdan Chmelniki, a partire dal 1648, sono ritornate dopo qualche anno le famiglie già abbienti. Il rabbino Benish, colto, saggio e vigile, ma con una famiglia disastrata. E il ricco Reb Eleazar, ora immiserito, con la figlia Rechele. Una ragazza zoppa, pallida e presto invasata, che però, “pur essendo affetta dalla deformità, destava pensieri peccaminosi negli uomini”, e sarà la protagonista-vittima in questo romanzo gotico-vampiresco di Singer. Un racconto di possessione, in espiazione o a condanna di un’ondata di fanatismo messianico, a opera del falso profeta Sabbatai Zevi – uno dei tanti, questo finito perfino mussulmano, per opportunismo. Di disprezzo della “possessione”, che è solo spirito debole, stupidità: di Sabbatai Zevi i galoppini magnificano la moglie Sarah in quanto “aveva lavorato in un bordello a Roma”.
È la ritraduzione, di Adriana Dell’Orto, del primo romanzo di Singer, 1935. Ritraduzione dall’inglese di Jacob Sloan, il traduttore accreditato delle opere di Singer – non il primo: fu Saul Bellow a battezzare come traduttore Singer in inglese, nel 1953, sulla “Partisan Review”, col racconto di “Gimpel l’idiota”, ma presto i rapporti si guastarono (Singer si risentì dell’incipit di Bellow per “Le  avventure di Augie March”, che pubblicava quello stesso anno, ricalcato su quello di “Gimpel”:  “Sono Gimpel l’idiota”, “Sono americano, nato a Chicago” ). Il futuro Nobel, benché emigrato in quello stesso 1935 in America e presto naturalizzato americano, scriveva e continurà a scrivere in yiddisch, il tedesco degli ebrei europei centro-orientali. Una lingua bastarda che però Mandel’stam ancora ne “Il rumore del tempo”, 1925, celebrava “lingua melodiosa, interrogativa, sempre stupefatta e delusa, con accenti marcati sui semitoni”. Mentre Singer, annotava Magris, segna qui metaforicamente il tramonto: le comunità yiddisch erano ancora fiorenti, il romanzo si pubblica nel 1935, ma Singer ne presentiva la fine. E riprodurrebbe a futura memoria il piccolo grande mondo yiddisch nel 1665, quando il messianesimo sembrò realizzarsi.
Tutto in effetti vi appare minato: lo yiddisch, il pudore, l’arte e la stessa intelligenza. Ma in chiave satirica, perfino sarcastica. Forse per il soffio dell’“Ecclesiaste”. Ma è la brutta copia dello shtetl, il villaggio patria ebraico che gli ebrei orientali magnificavano nostalgici negli stessi anni 1930.  
Nel lungo saggio che ha accompagnato la prima traduzione - di Bruno Oddera per Bompiani, poi ripresa da Longanesi - Magris ne fa il romanzo della demonologia ebraica. Del dibbuk, l’anima del peccatore morto che prende possesso del vivente, Satana e Lilith insieme. È quanto lo stesso Singer spiega nel penultimo capitolo. Qui della parte femminile della coppia disgraziata, del rigattiere povero e forestiero Reb Itches Mates con la zoppa e invasata Rechele. Singer ne tratta spesso nei racconti, dopo questo suo primo romanzo.
Sul romanzo della fine insiste Magris. Estendendola alla lingua, in accordo con Henry Miller: “Il «dibbuk» personifica lo spirito della letteratura jiddish in quanto ‘lingua morta”  - nel 1935? Nella perdita più generale dell’arte del racconto, continua Magris di suo, che Rilke, pure lui fascinatore incontenibile come Singer, avrebbe anticipato nel “Malte”. Magris lo dice anche connesso, il dibbuk, al motivo “del messianesimo sabbatiano”, del falso profeta, “ossia, come si dice alla fine del romanzo, all’empio e protervo disegno di «costringere il Signore» e di «por termine alle nostre sofferenze nel mondo»”. Nel quadro del “chassidismo”, della corrente cuturale ebraica non messianica, che vive giorno per giorno, e delle minute occorrenze rende grazie a Dio. “Il romanzo di una psicosi”, lo dice ancora Magris, quella del Messia.
Di fatto è un felicissimo racconto. Tanto più per saper immortalare una realtà marginale, e quasi insostenibile, se non inventata. Il racconto va spedito, in forma prima storico-documentaria, poi gotica, quando gli eventi miracolosi e tragici si avvitano, per una lettura costantemente golosa e semplice, senza traumi. Nel quadro storico straordinariamente vivace di una “città” ebraica in Polonia nel Seicento, e probabilmente attendibile. Un’opera che oggi non sarebbe più possibile, l’antisemitismo avendo instillato troppi veleni, e quindi troppe difese. I gentili, dice Singer senza veli, in un paio di righe, vi erano pochi, il minimo indispensible per i lavori meniali del sabato e nei bagni, rinchiusi in un ghetto.
Non un racconto lusinghiero. Magris nella vecchia introduzione e Adelphi nel risvolto fanno molto caso di Henry Miller, l’erotomane americano-parigino, “scopritore” e mallevadore di Singer: “Che meraviglioso, meraviglioso mondo,un mondo bello e terribile, quello di Isaac Bashevis Singer, benedetto sia il suo nome!”. Ma bello allora nel senso di mostruoso.
Un racconto disturbante, di una “elezione” cieca, chiusa, vergognosa a uno spirito libero. Insensata per sapersi predestinata. Nel tanfo di chiuso e di sporco. Potrebbe essere un’opera antisemita, i cliché ci sono tutti, come dati di fatto reali – tribali, caratteriali: stupidità e orgoglio, fanatismo, classismo, superstizione, ignoranza, sudiciume, malattia, caratteriale e materiale, violenza.

Isaac Bashevis Singer, Satana a Goray, Adelphi, pp. 182 € 18

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