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giovedì 27 novembre 2025

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (615)

Giuseppe Leuzzi


“Le Alpi sono una delle due prove dell’esistenza di Dio”, afferma il maestro Muti risoluto a Cazzullo che lo intervista per il “Corriere della sera”. “Perché?” “Perché hanno preservato una mediterraneità che ci appartiene”.
Non se ne può più degli Odini.
 
Michelangelo Mammoliti, supercuoco italiano dello stellario Michelin, che esercita nelle Langhe, si dice “di origine piemontese”. Mentre sarebbe “piemontese, di origine calabrese”. Ma fa piacere, che una persona di seconda o terza generazione si identifichi col luogo e la cultura dove ha avuto e dato il suo contributo di saperi e capacità, e per questo prospea – è premiato. L’“origine meridionale” connota un lamento, una ricerca di buona volontà, di carità, per di più corredato da rivalsa.
 
La guerra dei trent’anni a Milano
Gianni Santucci fa sul settimanale “La Lettura” del “Corriere della sera” una recensione-sintesi che lascia senza respiro del volume di Laura Antonelli Cali e Nicola Erba “Atlante storico della mala milanese” – un atlante che consta di ben 521 pagine, e non comprende i “bravi”, anzi riguarda solo trent’anni, dal 1963 al 1993.
Leggere per inorridire:
“S’ammazzavano come cani. Sparavano come invasati. Pippavano come ossessi (la terza è ancora attualissima). E ofrivano servizi ai regolari: donne, bamba, bische. L’amarcord è una lente che li distorce. Il tempo li deforma. Ingiustificatamente li imbelletta. No, erano cattivi, spietati, a volte sadici, spesso sociopatci. Erano tantissimi. Banditi d’ogni risma e d’ogni provenienza. In brutale competizione. Erano famelici e feroci, aspiranti principi d’una città che in un anno contava centocinquanta morti d’eroina e più di cento morti ammazzati. Non un secolo fa: negli anni Ottanta e Novanta. Roba che le Gomorre di oggi (sulle quali il pelosissio stomaco della politica contemporanea prospera spremendo voti e consenso) sono quiete province coi giardinetti all’inglese. Così era Milano: generazioni di innocenti falciate dalle spade in vena; la rapinetta con la siringa asfissiante abitudine; quotidiane rapine in banca con mitra e pistole; sequestri di persona a nastro; evasioni di gruppo dal carcere; rivolte a San Vittore; clan stranieri animatori di sparatorie in strada”.
E ancora: di che parliamo? “Di quella Milano che è stata una portaerei per tutte le droghe. Una piattaforma per tutte le mafie. Una savana per tutte le masnade del banditismo predatrio: dai clan sardi agli uruguayani. A questi, sovrapponete i decenni della violenza politica”.
Non senza il richiamo di prammatica: “Aggiungete il progressivo piantar radici di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra”. Però, “una città putrida, corrotta, indecorosa. Sporca nell’anima e sporcacciona nel costume”.
“Offrivano servizi” apre un altro abisso: la mala come parte di un “sistema”, per usare la lingua delle antimafie.
 
Mi-To, o come Milano di bevve Torino
L’Olimpiade invernale è l’ultimo scippo. Di Milano a Torino. Della piatta Milano a vocazione alpina – come già della provinciale Milano, di fiere e commercianti, a vocazione transalpina.
A un certo punto era sembrato che Mi-To diventasse una conurbazione, tanto massicio era il trasloco dalla capitale sabauda, capitale di un regno bene o male, al centro della politica europea, a quella degli affari. Mi-To come un sifonamento, con autostrada a tre o quattro corsie, affiancata da complessi direzionali e produttivi, e treni a frequenza e articolazione metro. Poi l’ideologia green, contro il consumo del territorio, altrettanto improvvisa ha cancellato l’ipotesi. Ma i fatti restano.
La banca, i telefoni, i libri in fiera  ultimamente, tutto quello che Torino ha inventato e prodotto Milano se l’è già preso. Non le automobili, troppa fatica l’industria, me se ne è prese le finanze, riducendo il tutto in poltiglia. Come già aveva fatto con Olivetti, un campione mondiale subito ridotto a niente.
Rileggendo Cattaneo e Salvemini si scopre anche che Milano ha minato il Risorgimento, pur di sottrarlo a Torino. Con le Cinque Giornate per il verso giusto, democratico. Ma subito poi alleandosi pronta, nobili e notabili, con la Torino sabauda, Carlo Alberto e il conte di Cavour – che da giornalista e deputato nel ’48 voleva piazza pulita dei democratici: “Ciò che soprattutto è indispensbile è di reprimere energicamente il minimo movimento repubblicano in Lombardia. Fatemi fucilare il primo lombardo che mandi un grido sedizioso”. Già fatto, senza forche. E nel 1859 la Lombardia si farà sabauda senza nemmeno il solito plebiscito di facciata, caso unico fra gli ex staterelli italiani, nobili e notabili erano già in linea.
 
Dalla brigata Catanzaro con orrore
Bisogna salire presto alla piazza del Municipio, alla Posta il bancomat rischia altrimenti di esaurire la provvista. Ma è andata bene, è anche fresco e la piazza è vuota. Se non per un suono di tromba. Incerto, ma è il “silenzio”. Di mattina?
 Sarà qualche ubriaco, il suono viene anche ovattato, remoto. La grande piazza è vuota. O no, sotto il Milite Ignoto ci sono dei ragazzini. A quest’ora, già in villa – la piazza fa da “villa comunale”, uno spazio chiuso alle macchine? Prima della scuola? Ma no, oggi è festa. E uno ha la tromba. È più alto degli altri, e ora la imbraccia di nuovo: è lui che prova il “silenzio”, al Milite Ignoto. Al cenno di un barbuto, che lo riprende, sarà il maestro. Ma sì, oggi è il 4 novembre, il governo raccomanda che si celebri la vittoria, con i morti, e la scuola di musica per cui siamo celebri avrà preparato quache piccola cerimonia, con gli allievi più piccoli, per la solita corona d’alloro del sindaco.

Ma è una festa triste quest’anno, avendo letto ieri, riletto, la storia della brigata Catanzaro, come fu decimata dai carabinieri, su ordine dello Stato maggiore, italiano. Non se ne parla, e non è un bene, anzi fa male.  
Si fanno ancora film di richiamo ed evocazioni appassionate di questo o quell’episodio eroico o cruento della Grande Guerra e niente, neanche un richiamo, al più terribile di tutti, l’esecuzione sommaria della brigata Catanzaro. Lo ha ricordato ieri, incidentalmente, e nemmeno tanto simpateticamente, “l’altravoce, il Quotidiano – Reggio Calabria”, come per collegare i Morti con la Vittoria. Un fatto terribile, che non ha trovato nessuna documentazione storica (giusto un tentativo di ricostruzione di due giovani appassionati di storia locale una ventina d’anni fa, Irene Guerrini e Marco Pluviano) e una sola narrativa, incidentale, nei racconti di guerra di Corrado Tumiati, allora medico militare, scrittore a tempo perso.
Un caso non unico, la memoria in Italia fa difetto. In Francia si era scritto della guerra qual era in corso d’opera, Barbusse, “Il Fuoco”, Genevoix, vari racconti (“Sous Verdun”, “Nuits de guerre”, “Au seuil des guitounes”), Dorgelès, “Les croix de bois”. E poi naturalmente Céline, volontario mutilato di guerra. In Italia niente durante e poco dopo. Giusto un libello di Malaparte, “Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti”, 1921 – che accuratamente non tiene conto della brigata Catanzaro, un fatto trucido e non un’esclamazione retorica.
Nonché della Catanzaro, nemmeno un cenno nelle storie e nelle evocazioni delle esecuzioni sommarie per scarso rendimento, una barbarie. Di reclute peraltro quasi sempre male addestrate e spesso male equipaggiate. Che sono anche la parte più viva, e raggelante, di “Addio alle armi” di Hemingway: le decimazioni, che tanto orrore susciteranno nell’occupazione tedesca dell’Italia, furono sperimentate nella Grande Guerra variamente dai carabinieri. Nel 1917, prima di Caporetto, contro la brigata Catanzaro che sul Carso s’era rivoltata dopo dieci campagne di fila in prima linea: presero una trentina di fanti a caso e li fucilarono. Ne accenna commosso, per inciso, D’Annunzio nei “Taccuini” - giusto lui contro il quale, nell’adiacente suo “campo di aviazione”, i rivoltosi avevano tentato di dirigersi.
Poco si sa – si è detto - sui motivi della rivolta, e sul suo svolgimento. Solo l’esito è chiaro, non potendosi sottacere la relazione di Cadorna: “La rivolta è stata sanguinosamente repressa con la fucilazione di 28 militari e con la denunzia di altri 123 al Tribunale di guerra”. La brigata Catanzaro, benché fosse ovunque nel Carso, è praticamente cancellata dalle storie militari. La ricostruzione di Davide Scaglione su “l’altravoce” ne dà un quadro prima dell’eccidio voluto dai vertici militari.
La brigata era inquadrata nella Terza armata, comandata dal duca Emanuele Filiberto d’Aosta. Composta dal 141° e dal 142° reggimento di fanteria. Con effettivi in maggioranza calabresi, più siciliani e pugliesi. Fu impiegata come brigata d’assalto sul Carso, dal luglio 1915 al settembre 1917. Con turni logoranti, praticamente ininterrotti, in prima linea, nei settori più contesi. Il 141° reggimento aveva meritato la medaglia d’oro al valore militare (per l’audacia dimostrata tra luglio 1915 e agosto 1916), il 142° la medaglia d’argento.
Una ricostruzione dei fatti per la verità c’è, su “Calabria Sconosciuta” n. 131 di fine 2011. Dove si spiegano anche i fatti. La brigata Catanzaro aveva protestato a fine maggio 1917, dopo la decima grande offensiva. Era una protesta vocale e la cosa venne taciuta dai comandanti. La notte del 15 luglio, all’ordine di partenza in prima linea per l’ennesima campagna dell’Isonzo, i due reggimenti si ribellarono, con urla e tiri di mitragliatrice. Tre militari morirono, tra essi un ufficiale e un sottufficiale, e una ventina furono feriti. Dopo circa sei ora la rivolta si spense, verso le quattro del mattino. Si preparava l’XIma battaglia carsica dell’Isonzo, detta di Bainsizza (la XIIma sarà detta di Caporetto). La Brigata aveva ininterrottamente, per due anni, partecipato alle dieci precedenti. A Castelnuovo, Bosco Cappuccio, Oslavia, sul monte Mosciagh, durissimo, sul Cengio, sul San Michele, a Nad Logen, a Nova Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Non per punizione, anzi con grandi elogi e medaglie al merito. Ogni campagna implicava tre-quattro settimane di prima linea. Dopo Caporetto la brigata Catanzaro combatterà sul Pria Forà, in Val d’Astico e in Val Posina. Sempre con impegno, e anche con successo: un mese dopo la rivolta la brigata Catanzaro veniva nuovamente elogiata.
Nell’offensiva di ottobre-novembre 1915, in soli quindici giorni la brigata aveva perso 2.037 uomini – di cui 55 ufficiali. Nella terza battaglia, dal 18 settembre al 4 novembre 1915, aveva perso più della metà degli effettivi, 4.348 uomini - feriti 2.579, gli altri morti. Nel 1916 aveva subito perdite in varie battaglie, e in due era stata di nuovo annientata. In quella per Gorizia, nella seconda parte dell’attacco, nel mese d’agosto, aveva perso 3.496 uomini (2.484 feriti). Nelle tre battaglie successive era restata in linea dal 16 settembre al 7 novembre, perdendo i due terzi degli effettivi: 3.434 uomini (2.749 feriti). Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol. 6, p. 63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti. Ma questo è il rovescio della medaglia, dei cafoni immolati.
Tumiati, che si trovò nel pieno della sedizione e della decimazione, ne fa nel racconto “Errori” una rappresentazione amareggiata. I fucilandi vengono scelti a caso, senza colpe specifiche. A lui, che ardisce difendere i portaferiti, avendoli visti al lavoro tutta la notte, viene opposto uno scaricabarile. Fino al generale, che lo tratta da intruso: “La notizia disturba, evidentemente, i giudici si guardano l’un l’altro seccati”. Il “giudizio” è veloce. Questo lo ha già scritto Hemingway in “Addio alle armi”, il romanzo della guerra, anche lui in difesa dei portaferiti. Lo ha scritto anche in dettaglio, ma senza averlo vissuto. Tumiati è testimone oculare: del “giudizio” sommario si conferma subito mentre si allontana, sentendo urlare dall’interno della baracca: “I trenta condannati avevano compreso d’un tratto la loro sorte e, dopo un attimo di stupore incredulo, avevano gridato. Che altro potevano fare?”.
Forse per la fretta non ci sono agli atti i nomi di chi ha preso le decisioni e su quali criteri: “In un’ora il campo fu levato”, continua il racconto, “e i battaglioni, incolonnati, musica in testa, ritornavano in linea. Tararilla, tararà. Tararilla, tararà”. Il racconto angosciato degli eventi Tumiati fa precedere da uno ilare su un caporale calabrese in forza alla Brigata, giovane muratore biondo con “l’estro vivo del cantastorie”, che scriveva e gli portava da leggere per svagarsi poemi che ancora lo commuovono. Esca alla testimonianza: “La Brigata Catanzaro fu certamente una delle più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il suo proverbiale eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica. Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie nuove”.


leuzzi@antiit.eu


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