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lunedì 27 ottobre 2025

Ma tutto è dazio - il libero scambio non è mai libero

I dazi non sono tutto, altri e più efficaci sono gli strumenti che gli Stati adottano per “proteggere” le proprie economie.
“Negli accesi dibattiti sulla politica commerciale, a Washington e altrove, i dazi sono spesso descritti come lo strumento principale, o addirittura l’unico, con cui i governi intervengono nel commercio globale. Sono facili da quantificare, più facili da politicizzare e prontamente utilizzati nei negoziati bilaterali. Ma questa attenzione ai dazi è fuorviante. Oscura i meccanismi più fondamentali attraverso i quali i paesi modellano le loro relazioni commerciali con il mondo. Poiché gli squilibri interni di un paese tra consumi e produzione devono sempre essere coerenti con i suoi squilibri esterni, qualsiasi cosa influisca sui primi non può che influire sui secondi, e viceversa. I dazi sono solo uno dei tanti strumenti che un governo può utilizzare per modificare lo squilibrio interno di un paese.
“Come la maggior parte di questi strumenti, i dazi funzionano spostando il reddito dai consumatori ai produttori. Ma a causa della loro visibilità, sono spesso tra gli strumenti politicamente più controversi. Al contrario, molti degli interventi commerciali più incisivi nel mondo odierno non si presentano come dazi, ma come scelte politiche che non sembrano affatto correlate al commercio. Decisioni fiscali, strutture normative, politiche del lavoro e norme istituzionali possono influenzare la distribuzione del reddito e l’equilibrio tra consumi e produzione nelle economie, con implicazioni di vasta portata per il commercio globale.
Per capire perché i dazi ricevano un’attenzione così sproporzionata, è utile considerarne la visibilità. Un dazio è una voce di spesa in una negoziazione commerciale che influisce sul prezzo di un bene importato. È facile da identificare, facile da usare come arma, facile da revocare ed è ovviamente collegato al commercio. Ma la stessa semplicità che rende un dazio politicamente rilevante lo rende anche un indicatore poco efficace della politica commerciale nel suo complesso.
“In sostanza, un dazio è un’imposta sulle importazioni. Rendendo più costosi i beni esteri, offre ai produttori nazionali un vantaggio in termini di prezzo. Questo può avvantaggiare alcuni settori e preservare posti di lavoro. Ma questi benefici hanno un costo: i consumatori pagano di più per beni e servizi. L’effetto netto è un trasferimento di reddito dalle famiglie alle imprese, ed è questo trasferimento che, riducendo la quota di pil delle famiglie, riduce i consumi complessivi rispetto alla produzione.
Questo spostamento del reddito dai consumatori ai produttori è l’essenza dell’intervento commerciale. Che si tratti di una tariffa, di un sussidio fiscale o di una legge sul lavoro che comprime i salari, il risultato è un cambiamento nella distribuzione interna del reddito che ha anche implicazioni esterne. Se i consumi sono tassati e la produzione è sussidiata, è probabile che le esportazioni nette aumentino. Al contrario, se le politiche spostano il reddito dai produttori ai consumatori, è probabile che le esportazioni nette diminuiscano. In questo senso, qualsiasi politica che influenzi l’equilibrio tra consumi delle famiglie e produzione totale influirà anche sull’equilibrio tra  risparmio interno e investimenti interni, e quindi è di fatto una politica commerciale.
“Consideriamo la politica valutaria. Quando un paese interviene sui mercati valutari per mantenere la propria valuta sottovalutata, raggiunge gli stessi obiettivi di un dazio. Una valuta più debole rende le importazioni più costose e le esportazioni più economiche, sovvenzionando la produzione e tassando i consumi. Come i dazi, questo rappresenta un trasferimento di reddito dagli importatori netti (il settore delle famiglie) agli esportatori netti (il settore dei beni commerciabili), ma avviene attraverso i tassi di cambio anziché sotto forma di dazi.
“La restrizione finanziaria può avere lo stesso effetto. Nei paesi in cui il sistema bancario serve principalmente il lato dell’offerta dell’economia, la soppressione dei tassi di interesse rappresenta di fatto una tassa sul reddito dei risparmiatori netti (il settore delle famiglie) e un sussidio al credito per i debitori netti (il settore produttivo). Trasferire il reddito dai primi ai secondi crea uno squilibrio interno – proprio come quello creato dai dazi doganali o da una moneta sottovalutata – tra consumi e produzione. Questo si manifesta sotto forma di maggiori esportazioni nette.
“Le politiche fiscali e regolatorie possono funzionare in modo simile. I governi potrebbero fornire sussidi diretti o indiretti a settori strategici, anche attraverso la costruzione di infrastrutture su misura per i distretti manifatturieri. Queste misure potrebbero non violare le norme internazionali sull’intervento commerciale, ma modificano gli incentivi relativi all'interno dell'economia in modi che rispecchiano il protezionismo tradizionale. Rendendo più economico o più attraente produrre che consumare, raggiungono lo stesso obiettivo: un cambiamento interno che produce un effetto esterno”.
E non è tutto: l’ecoonmia è forse più complessa e polivalente della politica, da gestire con accortezza. Per questo Adam Smith si appellava - si dice si appellasse – alla “mano invisibile”, dell’aggiustamento autonomo, graduale, non imposto. Si appellava alla provvidenza.  
Michael Plettis, Behind the Veil of Tariff Fixation, Imf “F &D” – “Finance&Development” settembre 2025 (leggibile anche in italiano, Dietro il velo dell’ossessione tariffaria)

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