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martedì 2 dicembre 2025

Letture - 598

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Giorgio Caproni  - La scuola Primaria Statale ex Crispi - poi Gianicolo, ora Ic Largo Oriani, in ossequio alla “riforma” Gelmini – si doveva intitolare a Giorgio Caproni. Che vi aveva insegnato, e ha abitato una vita in una casa dietro la scuola. Ma il consiglio d’istituto, cioè la dirigente del “plesso” e i rappresentanti di docenti, personale ATA e genitori, ha detto di no, meglio l’indirizzo postale.
 
Casanova – “Figlio di attori e principe degli avventurieri, chierico a Venezia e in Calabria, segretario del cardinale Acquaviva a Roma, soldato della Serenissima in Oriente, violinista nel teatro San Samuele a Venezia”, Armando Torno, recensendo “Casanova” di Stefan Zweig sul “Sole 24 Ore Domenica”: “Condusse vita randagia tra Dresda, Praga e Vienna, Svizzera, Olanda, Russia e Polonia; particolarmente in Francia, dove introdusse il gioco del lotto dopo essere fuggito dalla prigione dei Piombi. Con il nome di cavaliere di Seingalt seduceva donne, duellava, praticò la magia; riuscì financo a diventare confidente degli inquisitori. Morì bibliotecario del conte di Waldstein a Dux, in Boemia”. E scrisse, in francese per farsi capire da tutti, una “Storia della mia vita”, in quattromila pagine, tradusse l’“Iliade” in veneziano in ottava rima, galoppante, e in toscano, scrisse racconti e commedie, un romanzo di fantascienza, “Icosameron”, nonché saggi di storia e di politica, e risolse problemi matematici.
 
Fellini – Riviveva Kafka. Milo Manara, che ebbe un lungo rapporto con Fellini per un progetto che poi restò sulla carta, “Viaggio a Thulum”, ricorda il primo incontro nel suo studio in Corso d’Italia a Roma: “Mi colpì che il nome sul campanello fosse «Il disperso». Capii in seguito che era un’allusione a Kafka”. Al romanzo “America”, “il cui titolo in origine era appunto «Il disperso»”.
Ma era legato a una cultura popolare, dell’immagine. Sempre Manara: “Fellini amava i fumetti e i fotoromanzi. Li considerava gli strumenti culturali con cui la gente si avvicinava alle immagini e alla scrittura” - come nel Medioevo, arguisce poi: “Gli affreschi nelle chiese erano come fumetti, che scatenavano la fantasia degli umili fedeli più delle prediche”.
 
Italia – Fra le tante beatitudini di Stendhal in Italia, questa del saggio “Dei pericoli della lingua italiana” (“Memoria per un amico incerto nelle sue idee sula lingua” – l’amico sarebbe Silvio Pellico) è fuori concorso: “Questo giardino dell’universo, questa bela Italia che ai tempi dei Romani assoggettò tutti gli altri popoli, che sotto Leone X li civilizzò, che sotto Gregorio VII, senz’armi, fu la seconda volta la padrona del mondo allora tutto armato, e che oggi tagliata a pezzi dalla forbice delle parche regna ancora sugli altri popoli con l’impero dei più dolci piaceri. Da quando i barbari, stanchi delle loro sanguinose contese, vollero dimenticare le ferite e cicatrizzare le piaghe dei loro cuori, noi li vediamo accorrere nella nostra bella patria. Essi vengono a consolarsi dei dolori della vita con gli accenti incantevoli di Rossini, davanti alla ‘Ebe’ di Canova o contemplando i furori di Otello e le grazie seducenti di Desdemona”.
Con un solo problema: “La causa che ferma il cammino dello spirito di un popolo così interessante per tutto l’universo, del primo popolo del mondo, non può che essere curiosa da indagare…” – la causa è la lingua, lo scollamento fra la lingua d’uso e la lingua letteraria, artificiosa, trecentista.
 
Henry James – Fu “europeo” per ragioni familiari? John Banville, analizzando il saggio “Hawthorne” di H. James sulla “New York Review of Books”, ricorda che “fin dall’inizio”, dell’attività di scrittore, “James ebbe diverse ragioni per abbandonare la sua «cara terra natale», che è quella di Hawthorne” - salvo professarsi da ultimo “americano”. Fra le tante una pesò di più sull’esilio – “un esilio felice, va detto”, un autoesilio: “La presenza costante e spesso rumorosa del suo amorevole ma rivale fratello maggiore, il filosofo William James”.
Il padre, eccentrico, ricco e spendaccione, da cui lo scrittore prese il nome, Henry James sr., aveva investito gran parte della ricchezza ereditata in viaggi familiari in Europa, con la moglie, i quattro maschi e la figlia Alice. William non ne subì l’influsso: “Era tanto un vero yankee quanto un bramino del New England, ed era contento di essere l’«americano» che Henry, negli ultimi anni, aveva devotamente ma in modo poco convincente affermato di essere, se avesse rivissuto la sua vita. Il fatto è che Henry aveva una sensibilità europea quanto un non europeo potesse coltivare”.
Tornò in America due volte nel 1882: a gennaio per la morte della madre, a dicembre per quella del padre. E poi nel 1910, per rivedere William, malato terminale.
 
Machiavelli – “Una finissima stratega. Potrebbe aver letto Machiavelli?” “Ne sono quasi certa. Suo padre, Lord Morley, ha tradotto parte dell’opera di Machiavelli, e l’ha regalata a Thomas Morley, protettore di Jane” - spiega la scrittrice Philippa Gregory, che di Jane ha ricostituito le vicende nel romanzo storico “La traditrice”. Jane è Jane Parker, Lady Rochford, moglie di George, il fratello di Anna Bolena. Che quando Anna e il fratello vengono decapitati alla Torre di Londra dal volubile Enrico VIII, riesce a rimanere a corte, nel sul ruolo, cioè “a sopravvivere a cinque regine”, di cui era la prima dama di compagnia, finite male. Ci voleva un solido metodo, era difficile sopravvivere agli umori di Enrico VIII – che continuò a praticare il cattolicesimo malgrado lo scisma, spiega Gregory, e si volle “seppellito con rito cattolico”.
 
Pietroburgo – “La città più astratta e più premeditata di tutto il globo terrestre (ci sono città premeditate e non premeditate)”, F. Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo”.
 
Scrivere – Un caso - una forma? - di ipocondria? Dostoevskij lo fa dire al memorialista di “Memorie del sottosuolo”, a inizio del racconto: “Tutti quanti si vantano delle proprie malattie e io, forse, più di qualunque altro”.
 
Umberto Saba – Soffrì molto le leggi razziali perché, “pur essendo di razza mista”, annotava all’epoca Leonetta Cecchi Pieraccini nelle “Agendine” che ora si pubblicano, “per solidarietà con la madre abbandonò fin da giovinetto la casa paterna e ha sempre vissuto con la madre, e si iscritto all’associazione ebraica e ha sposato un’ebrea e ha una figlia ebrea”. Pur volendosi italiano: “Ora si trova rinnegato come poeta italiano mentre egli era ambizioso di essere forse il primo. È avvilito e scorato fino a rasentare il pensiero del suicidio”.
 
Stati Uniti – Un’America non romanzabile, a metà Ottocento, secondo Nathaniel Hawthorne, perché non ha – non aveva – un passato? In un s aggio su Hawthorne pubblicato nel 1879, Henry James gli imputa questo problema: come ambientare un “romanzo” in America, la sua “cara terra natale”, giacché non ha “nessuna ombra, nessuna antichità, nessun mistero, nessun tono pittoresco e cupo, né altro che una prosperità comune, alla luce del sole”.
Un saggio autoreferenziale?
Rileggendolo, John Banville così ne sintetizza sulla “New York Review of Books” l’argomentazione, in difesa dell’indifendibile Hawthorne – una lunga lista di “elementi di alta civiltà”, essenziali per un artista, di cui l’America era carente: “Nessun sovrano, nessuna corte, nessuna lealtà personale, nessuna aristocrazia, nessuna chiesa, nessun clero, nessun esercito, nessun servizio diplomatico, nessun gentiluomo di campagna, nessun palazzo, nessun castello, nessuna tenuta, nessuna vecchia casa di campagna, nessuna canonica, nessuna casa con il tetto di paglia, nessuna rovina ricoperte d'edera; nessuna cattedrale, nessuna abbazia, nessuna piccola chiesa normanna; nessuna grande università, nessuna scuola pubblica, niente Oxford, né Eton, né Harrow; nessuna letteratura, nessun romanzo, nessun museo, nessun quadro, nessuna società politica, nessuna classe sportiva, niente Epsom o Ascot!” Salvo poi pentirsene, di “questa tremenda salva”. Per concludere: “Il lato negativo dello spettacolo a cui Hawthorne assisteva
potrebbe, in effetti, con un po’ d’ingegno, essere reso quasi ridicolo”; sebbene molto possa mancare negli Stati Uniti ancora giovani, “molto c’è”. E di questo “molto” il “dono nazionale” fa “quell’«umorismo americano» di cui negli ultimi anni abbiamo sentito tanto parlare». Di Mark Twain?

letterautore@antiit.eu

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