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lunedì 23 febbraio 2009

Simone Weil, Apologia della bancarotta

Simone Weil ha scritto, forse nel 1937 (comunque al tempo del governo in Francia del Fronte popolare delle sinistre) Quelques méditations concernant l’économie, con la variante Esquisse d’une apologie de la banqueroute, due saggi che i curatori trascurano ma acuti e di attualità:

Alcune meditazioni concernenti l’economia
L’economia è cosa singolare. Quante volte, da un certo numero di anni, non si parla, sia a proposito di questo oq uel paese, sia a proposito del mondo capitalista nel suo insieme, di crollo economico? Si ha così l’impressione, eccitante e romantica, di vivere in una casa che, da un giorno all’altro, può crollare. Fermiamoci pertanto un istante a riflettere al senso delle parole, e se c’è mai stato un crollo economico. Come tutte le questioni estremamente semplici, così semplici che non si pensa mai a porle, questa è tale da gettare in un abisso di riflessioni.
Ci sono stati, almeno all’apparenza, crolli nella storia; l’esempio che viene per primo alla mente è quello dell’Impero romano. Ma il declino del mondo romano fu amministrativo, militare, politico, intelletuale tanto quanto economico, e salvo esame più approfondito non sembra esserci ragione di dare all’economia il primo ruolo in questo dramma. Ai giorni nostri tutti i crolli economici previsti a sazietà da anni, Russia, Italia, Germania, capitalismo, si avvicinano secondo ogni apparenza altrettanto poco che la fine del mondo : perché tutti i giorni se ne predicono per l’indomani.
Si citano, è vero, anche esempi convincenti. L’ancien régime, nel 1789, non è caduto per l’impossibilità economica e finanziaria di sussistere? Più di recente, la Repubblica di Weimar non h ceduto a difficoltà economiche che non ha saputo o potuto risolvere? Si potrebbero trovare parecchi esempi analoghi. Non si ha certamente torto ad allegarli. Si omette tuttavia di solito, al loro riguardo, un particolare molto significativo. Queste difficoltà economiche, così gravi che frantumano i regimi, sono ricevute in eredità dai regimi che li sostituiscono e di solito in forma ancora aggravata; e tuttavia divengono allora molto meno nocive. La situazione economica e finanziaria del 1789 era lungi dall’essere brillante; ma i manuali di storia che spiegano così la caduta della monarchia dimenticano che la rivoluzione ha portato, invece che un rimedio, una guerra rovinosa, ed è sopravvissuta perfino alla terribile avventura degli assignats. Le difficoltà che anno fatto crollare la Repubblica di Weimar non sono sparite, salvo errore, all’avvento del Terzo Reich, e tuttavia esse l’hanno lasciato sussistere. E gli antifascisti che giudicano impossibile che il Terzo Reich si prolunghi dimenticano che il regime democratico, socialista, comunista o altro che subentrerebbe in Germania soffrirebbe molto probabilmente degli stessi mali almeno per un periodo abbastanza lungo, e dovrebbe adattarvisi.
Queste osservazioni porterebbero a pensare che non c’è crollo economico, ma che c’è in certi casi una crisi politica provocata o aggravata da una cattiva situazione economica: il che è molto diverso. Un’analogia permetterà di vederci più chiaro. Il legame di causa e effetto tra le sconfitte militari e i mutamenti f governo o di regime politico è un fatto di esperienza corrente. E tuttavia non perchè, nemmeno in questo caso, le condizioni nuove create dalla sconfitta militare ed nano impossibile al regime in vigore di sussistere; il regime nuovo si adatta a queste condizioni senza essere meglio armato per sopportarle. È che la sconfitta diminuisce o cancella quel prestigio del potere che, molto più della forza propriamente detta, mantiene i popoli nell’obbedienza. In molti casi sarebbe materialmente altrettanto facile, forse più facile, rivoltarsi contro uno Stato vincitore che contro uno Stato vinto; ma la vittoria spegne le velleità di rivolta anche presso i più malcontenti, e la sconfitta li eccita in tutti. Le ripercussioni politiche dei fatti economici non procederebbero da un meccanismo analogo?
Le difficoltà economiche non sono sempre analoghe alle sconfitte militari; esse non lo sono che in certi casi.
L’economia non è comparabile a un’architettura, né le disgrazie dell’economia ai crolli.
In tutti i campi ai quali si applica il pensiero e l’attività umana, la chiave è costituita da una certa nozione dell’equilibrio, senza la quale non ci sono che miserabili brancolamenti; equilibrio di cui la proporzione, cara ai Pitagorici, costituisce il simbolo matematico. I Greci, e dopo di essi i Fiorentini del XIVmo secolo, hanno inventato la scultura quando hanno concepito un certo equilibrio proprio al marmo e al bronzo in forma umana. Firenze ha scoperto la pittura quando ha formato la nozione di composizione. Bach è il più puro dei musicisti perché sembra essersi dato per compito di studiare tutti i modi di equilibrio sonoro. Archimede ha creato la fisica quando ha costruito matematicamente le diverse forme di leva. Ippocrate è partito dalla concezione pitagorica che assimila la salute a un equilibrio nel gioco dei diversi organi. Il miracolo greco, dovuto principalmente ai pitagorici, consiste in essenza nell’aver riconosciuto la virtù della concezione e del sentimento dell’equilibrio.
Il miracolo greco non si è ancora esteso alla vita economica. La nozione dell’equilibro propria all’economia noi non la possediamo. Gli uomini non l’hanno mai formulata; ma c’è anche da dire che non sono due secoli che ci si è messi a studiarla. Non si direbbe senza dubbio che la pura verità affermando che questo secolo e mezzo di studi economici è stato inutile. Non c’è stato ancora un Talete, un Archimede, un Lavoisier dell’economia. L’apparizione, poco più di un secolo fa, di dottrine rivoluzionarie c’entra probabilmente molto in questo fallimento. I rivoluzionari, ansiosi di dimostrare che la società borghese è divenuta impossibile, non hanno naturalmente mai cercato di definire l’equilibrio economico a partire dalle condizioni che erano loro date; e per l’avvenire hanno ammesso come evidente che la rivoluzione, in materia economica, apporterebbe automaticamente tute le soluzioni sopprimendo tutti i problemi. Nessun rivoluzionario ha mai tentato seriamente di definire le condizioni dell’equilibrio economico nel regime sociale atteso. Quanto ai non rivoluzionari, la polemica ne ha fatto dei controrivoluzionari preoccupati non di studiare la realtà che avevano sotto gli occhi, ma di cantarne le lodi. Noi subiamo oggi, in tutti i campi, le conseguenze funeste di questa improbità intellettuale, che d’altronde, più o meno, condividiamo. Possediamo, è vero, una specie di equivalente a buona mercato di questa nozione di equilibrio economico. È l’idea, se si può usare qui questa parola, dell’equilibrio finanziario. Che è di un’ingenuità disarmante. Si definisce col segno uguale posto tra le risorse e le spese, valutate le une e le altre in termini contabili. Applicato allo Stato, alle imprese industriali e commerciali, ai semplici cittadini, questo criterio sembrava un volta bastare a tutto. Costituiva nello stesso tempo un criterio di virtù. Pagare i debiti, questo ideale di virtù borghese, come ogni altro ideale, ha avuto i suoi martiri, di cui César Birotteau resterà sempre il miglior rappresentante. Già nel V secolo prima della nosta era il vecchio Cefalo, per far comprendere a Socrate che lui aveva sempre vissuto secondo giustizia, diceva: “Ho detto la verità e ho pagato i miei debiti”. Socrate dubitava che questa fosse una definizione soddisfacente della giustizia. Ma Socrate era uno spirito maligno.
Oggi questo criterio ha perduto molto del suo prestigio, sia dal punto di vista economico che da ello morale; e tuttavia non è svanito. Si ha sempre tendenza ad applicare allo Stato la formula di Cefalo, o almeno la metà di questa formula; nessuno chiede allo Stato di dire la verità, ma si giudica abominevole che non paghi i suoi debiti.
Non si è ancora capito che l’ideale del buon Cefalo è reso inapplicabile da due fenomeni legati e quasi altrettanto vecchi che la moneta stessa: sono il credito a la retribuzione del capitale.
Proudhon, nella luminosa operetta “Che cos’è la proprietà?” provava che la proprietà era non ingiusta, né immorale, ma impossibile; intendeva per proprietà non il diritto di uso esclusivo di un bene, ma il diritto di prestarlo a interesse, qualsiasi forma prenda questo interesse: affitto, mezzadria, rendita, dividendo. È in effetti il diritto fondamentale in una società in cui si calcola d’ordinario la fortuna in base al reddito.
Dacché il capitale fondiario o mobiliare è retribuito, dacché questa retribuzione figura in un gran numero di contabilità pubbliche o private, la ricerca dell’equilibrio finanziario è un principio permanente di squilibrio. È un’evidenza che salta agli occhi. Un interesse del 4 per cento quintuplica un capitale in un secolo; ma se il reddito è reinvestito, si ha una progressione geometrica così rapida, come tutte le progressioni geometriche, che con un interesse del 3 per cento un capitale è centuplicato in due secoli.
Senza dubbio non c’è mai che una parte piuttosto piccolo dei beni mobile e immobili che sia affitta o collocate a interesse; senza dubbi, anche, i redditi non sono tutti reinvestiti. Queste cifre indicano tuttavia che è matematicamente impossibile che in una sazietà fondata sul denaro e il prestito a interesse la probità si mantenga per due secoli. Se si mantiene, la messa a frutto del capitale farebbe automaticamente passare tutte le risorse nelle mani di alcuni.
Un colpo d’occhio rapido sulla storia mostra quale ruolo perpetuamente sovversivo vi ha giocato, dacché la moneta esiste, il fenomeno dell’indebitamento. Le riforme di Solone, di Licurgo, sono consistite anzitutto nell’abolizione dei debiti. In seguito, le piccole città greche sono state più di una volta sconvolte da moti in favore di una nuova abolizione. La rivolta in seguito alla quale i plebei d Roma hanno ottenuto l’istituzione dei tribuni aveva per origine un indebitamento che riduceva alla condizione di schiavo un numero crescente di debitori insolventi; anche senza rivolta, un’abolizione parziale dei dbiti era divenuta una necessità, perché a ogni plebeo divenuto sciavo Roma perdeva un soldato.
Il pagamento dei debiti è necessario all’ordine sociale. Il non pagamento dei debiti è anch’esso necessario all’ordine sociale. Tra queste due necessità contraddittorie, l’umanità oscilla da secoli con una bella incoscienza. Disgraziatamente, la seconda lede molti interessi all’apparenza legittimi, e non si fa rispettare senza problemi e senza qualche violenza.

Abbozzo di un’apologia della bancarotta
La parola «bancarotta» è una di quelle che si usano con imbarazzo, che suonano male, come adulterio o truffa. Quando si pronuncia riguardo alle finanze del proprio paese, si parla volentieri di «bancarotta umiliante». Si possono cercare scuse a una bancarotta, si possono trovare ragioni di attenuare tale o tale responsabilità, ma nessuno pensa che la bancarotta non proceda in qualche maniera da un peccato; nessuno considera che essa possa costituire un fenomeno normale. Già il vecchio Cefalo, per far capire a Socrate che aveva condotto una vita irreprensibile, gli diceva : «Non ho ingannato nessuno, e ho pagato i miei debiti». Socate, maligno, dubitava che questa fosse un definizione sufficiente della giustizia. Il cittadino medio – e noi siamo per la maggior parte del tempo cittadini medi – applica volentieri allo stato il criterio di Cefalo, almeno per quanto concerne il secondo punto; perché sul primo, nessuno chiede a un governo di non mentire.
Proudhon, nella luminosa opera di gioventù intitolata “Che cos’è la proprietà?” prova col ragionamento più semplice e più evidente che l’idela del buon Cefalo è un’assurdità. L’idea fondamentale di Proudhon, in questo libretto troppo ignorato, è che la proprietà non è cattiva, né ingiusta, ma impossibile. E intende per proprietà non il diritto di possedere un bene qualunque, ma il diritto molto più importante di prestarlo a interesse, qualsiasi forma prenda questo interesse: affitto, mezzadria, rendita, dividendo.
La dimostrazione di Prudhon riposa su una legge matematica molto chiara. La fruttificazione del capitale implica una progressione geometrica. Il capitale, non rendesse che l’1 per cento, s’accrescerebbe tuttavia secondo una progressione geometrica in ragione di 1+ . Ogni progressione geometrica genera grandezze astronomiche con una rapidità che sorpassa l’immaginazione. Un calcolo semplice mostra che un capitale che non rendesse che l’interesse derisorio dell’1 per cento raddoppia in un secolo, e si moltiplica per sette in due secoli; e con l’interesse ancora modesto del 3 per cento è centuplicato nello stesso spazio di tempo. È dunque matematicamente impossibile che tutti gli uomini di un paese siano virtuosi alla maniera di Cefalo per due secoli: anche se una porzione relativamente piccola dei beni mobili e immobili fosse affittata o investita a interesse, è matematicamente impossibile che il valore di questa porzione centuplichi in alcune generazioni. Se è necessario all’ordine sociale che i debiti siano pagati, è più necessario ancora che i debiti non siamo pagati.
Dacché esistono la moneta e il prestito a interesse, l’umanità oscilla tra queste due necessita contraddittorie, e sempre con un’incoscienza degna di ammirazione. Se ci si divertisse a riprendere tutta la storia conosciuta presentandola come la storia dei debiti pagati e non pagati, si arriverebbe a capire buona parte dei grandi avvenimenti passati. Ognuno sa che, per esempio, la riforma di Solone a Atene, o la creazione dei tribuni a Roma, sono effetti dei torbidi provocati dall’indebitamento eccessivo della popolazione. Che si tratti della popolazione o dello Stato, non c’è stato mai altro rimedio all’indebitamento che l’abolizione dei debiti, aperta o mascherata…
[Noi sappiamo costruire dei meccanismi che ritornano] allo stato iniziale quando un certo limite è sorpassato; ma non sappiamo costruire analoghi agganci automatici per la macchina sociale. Le sofferenze, il sangue e le lacrime degli uomini ne fanno le veci.
Noi possiamo oggi dedicarci a meditazioni amare sul fenomeno dell’indebitamento. Lo Stato è stato precipitato a corpo morto dalla guerra in questo ingranaggio matematico di cui il paese sembra non potersi liberare. Il sangue è stato consumato gratuitamente e presto dimenticato, o quasi; ma le famiglie che hanno dato i loro figli hanno prestato il loro denaro, e questo prestito vecchio di venti anni ci strangola tutti i giorni di più. Machiavelli diceva che gli uomini dimenticano più facilmente la perdita del loro padre che la perdita del loro patrimonio. Aveva senza dubbio ragione, ma la giustezza di questa formula ci apparirebbe oggi in modo più chiaro se si dicesse figlio invece di padre. Nessun governo ha osato ancora annunciare che considerava nulli gli oneri finanziari ereditati dalla guerra. Malgrado le difficoltà di una tale operazione bisognerà tuttavia arrivarci un giorno, perché è impossibile che gli oneri continuino ancora a lungo a fare valanga. Ciò è tanto più impossibile in quanto gli oneri che procedono dalla guerra che si minaccia fanno un’altra valanga non meno temibile. Perché oggi ancora gli stessi uomini che darebbero senza esitare il loro sangue o quello dei loro cari senza chiedere nulla in cambio hanno bisogno del quattro per cento e di una garanzia di Stato per collaborare ala difesa nazionale.
La nozione di contratto tra lo Stato e i singoli è un’assurdità in un’epoca come questa.

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