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martedì 5 aprile 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (85)

Giuseppe Leuzzi 

Berlusconi va a Lampedusa e promette un campo di golf. Anche se c’è stato per pochi minuti, il prefetto gli avrà pure spiegato che nell’isola non c’è l’acqua. Berlusconi è molto superficiale in genere, e più per il Sud, che accascia di calorose pacche e smaglianti sorrisi, e delle prime scemenze che gli vengono a mente (il Ponte, l’Alta Velocità, Napoli pulita). Ma una gaffe così al Nord non l’avrebbe fatta: avrebbe saputo che gliela facevano pagare, mentre al Sud tutto quello che viene dal Nord, l’insopportabile Berlusconi compreso, è buono. I temibili Piromalli di Gioia Tauro erano tra i maggiori clienti del “Madoff dei Parioli”, la truffa dei soldi spariti, con 14 milioni. Dunque, non è difficile. Il Procuratore Capo Caselli va in tv a dire che Andreotti non è stato assolto a Palermo dall’imputazione di mafia ma solo “prescritto”. Questo non è vero. Ma Andreotti non obietta, né il suo avvocato a Palermo, l’onorevole Pina Bongiorno, del partito di Fini, presidente della commissione Giustizia alla Camera. C’è dunque una giustizia, anche in Italia? Nelle celebrazioni del centocinquantenario il Sud scopre di aver dato più martiri, in Calabria, a Napoli e nel napoletano, e in Sicilia, per l’idea di unità e di democrazia, che tutto il resto d’Italia. Prima di essere liberato dal Piemonte e da Garibaldi.
 
Calabria
Ancora cinquant’anni fa, chi ne faceva il giro in ferrovia, sulla Roma-Reggio e per l’infinita Reggio-Taranto, aveva la sensazione d’inoltrarsi in un mondo di silenzi e quasi ascetico, tra coste disabitate e la montagna incombente, per quanto distante. Incontrava rade borgate, stazioni che sembravano caselli abbandonati, e un paesaggio quale Omero forse lo aveva visto tremila anni prima, se non era cieco. L’ombra chiusa dei boschi inframmezzava la coltivazione di ogni centimetro quadrato delle erte coste in cui era possibile raccogliere terra fertile. L’economia, dei trasporti, delle abitazioni, degli usi, ha poi trasformato il paesaggio, ma la natura è lenta ad adattarsi, e con essa il linguaggio (la mentalità, le passioni). Tra le persistenze è il linguaggio, il più lento forse alle mutazioni, che è umorale. L’umoralità è il tratto distintivo forse di tutto il Meridione, l’instabilità relazionale. È il problema maggiore per il turista, per il residente una fatica quotidiana. La risposta non è mai netta, e non è consequenziale. Non è detto che in questa trattoria si mangi, non alle ore canoniche, né che abbiano memoria di una prelibatezza che vi hanno servito il giorno prima. Non è detto che l’amico o il familiare che avevate lasciato la sera prima di ottimo umore e buona disposizione oggi non sia invece scorbutico e aggressivo. Ma ci sono delle differenze. Nelle aree di corte, o metropolitane, o che prima si sono addentrate nella modernizzazione, la Sicilia, il Napoletano, dov’era documentata dai viaggiatori ancora all’indomani dell’unità, l’umoralità si è stabilizzata: c’è un galateo comune dei modi, e un’esplicitazione del linguaggio. Se non il sentimento, che resta sempre imprevedibilmente variabile, almeno il modo di porsi e di porgere si adegua a certi standard attesi. Sono qui le radici del “riso” che caratterizza la poesia e la scrittura in genere del meridione e in particolare della Calabria, sotto le forme del grottesco, del sarcasmo, della beffa, dell’ira sconsiderata, e si realizza nell’alternanza rapida, improvvisa, dei registri alto e basso, di toni elevati, epici, elegiaci, idilliaci, e di volgarità. A partire dall’“Aspramonte”, il poema in ottave del Quattrocento su cui l’Ariosto si è modellato, che è una ripresa della canzone analoga del Duecento, in lasse romanze, di ambito normanno, calabro-siculo (fu cantata a Messina nel 1192, alla partenza della Crociata). Non si può non dire il Mediterraneo una frontiera. La frontiera dell’Italia, del Sud dell’Italia, con l’Africa. Non da ora, per gli sbarchi, lo è sempre stato – ora semmai si tende a dimenticarlo, insieme con la geografia elementare. A fine Duecento la “Chanson d’Aspremont”, commissionata dai re normanni per i Crociati che partivano da Messina nel 1192, faceva dell’Aspromonte il baluardo della cristianità contro gli “Africanti” che avevano invaso il meridione. “L’estrema frontiera dell’occidente era collocata a sud e lì convenivano tutti gli eserciti d’Europa al seguito di Carlomagno”, scrive la massima conoscitrice del poema, Carmelina Sicari, nel saggio “Il Sud e la lingua”: “In Aspromonte Orlando vince Almonte e salva Carlo che sta già per soccombere”. Non senza conseguenze, spiega la studiosa: “Il nome dell’Aspromonte risuona per tutta Europa giacché entra nel novero delle canzoni di gesta, veri e propri manuali di formazione umana e cavalleresca”. Ora, certo, gli echi si sono affievoliti. Non c’è il mare, in Calabria, nella memoria e nella tradizione, nella favolistica raccolta da Calvino e da Strati, nei canti popolari. Ma non c’è neanche la campagna, né la montagna, in questa forma di memoria che è oblio. C’è un modo d’essere interiore, etico, di rapporti morali, e per quanto concerne la natura astratti. La condizione mentale del calabrese, faticatore, testardo, collerico, insomma ben materiato, fisico, è la metafisica. La grande tradizione calabrese è del resto speculativa. Si può dire il silenzio il linguaggio della Calabria, il linguaggio prevalente, di cui l’eminente antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani delinea incidentalmente gli originalissimi connotati ne “Il silenzio, la memoria e lo sguardo”. Benché di una memoria ancora indistinta. Il silenzio e la memoria sono più forti in un popolo cui la natura consentì di conservare pochi e incerti segni del suo passato, impegnandolo per terremoti, tempeste, alluvioni, e anche l’incuria politica, a una costante ripartenza. Non ci sono calabresi di mare. Né di terra, la terra non fa passione: è sinonimo da millenni di fatica, ci stiamo malvolentieri (nessuno ci abita più). Oggi meno di prima: un tempo, malgrado il rifiuto, si ricreava la campagna nelle condizioni più ardue, bonificando i suoli di pietre lungo i torrenti, sui pianori in montagna, strappando alle coste strisce pure minime di terra con faticosi muri in pietra, concimando e riconcimando terre aride, alluvionali. E tuttavia respiriamo bene, con pienezza, solo a contatto con la natura. Si può forse dire così: i calabresi sono attorniati dal mare e troppo pieni di storia, che rifiutano – non la rifiutano propriamente, non in coscienza, la rimuovono. Civilizzati che vogliono essere istintivi, e respirano con agio nella natura. Che peraltro non conoscono (classificano, nominano, rispettano) ma nella quale si immedesimano. “Bruna Alessi è Calabrese”, titolava il 2 maggio 2004 “Le Matin” di Losanna, rispettabile giornale svizzero. Fatto non eccezionale, si presume, se non che Bruna, scriveva “Le Matin”, “possiede un dono divinatorio”, e da quattordici anni organizza (organizzava) il Salone internazionale della veggenza a Ginevra. Tra una ventina di operatori, medium, tarologi, astrologi, numerologi e altri parapsicologi. Da lei scelti personalmente. Con che metodo? “Li sento”. La scelta “non è facile, e talvolta molto difficile, ma in tanti anni non ci sono stati imbrogli”. Niente ciarlataneria, insomma: di proposito sono esclusi “gli adepti della magia nera, della magia virtuale, e dei malefici”. Benché, sussurri Bruna, “personalmente ci creda”. Da buona credente: “Per me credere nella magia e in Dio non è contraddittorio”. Una doppia certificazione d’integrità, di cui il giornale non dubita (“imparabile!”), non può dubitare. “Città d’arte”, “Museo a cielo aperto”, “Memorie di poesie e d’arte”, s’incontrano spesso girando queste indicazioni all’ingresso di paesi che poi si manifestano poveri, soprattutto di gusto, tra casoni non finiti e strade rotte. Indicazioni non di segrete pulsioni ma della politica locale, che una maldestra concezione della democrazia lascia agli sprovveduti. Un “ciarlatano calabrese”, originario di Taverna, tenne in apprensione la Spagna a fine Seicento, riscoperto da uno studioso americano, Eric Olsen, “Calabrian Charlatan, 1598-1603”. Tenne in apprensione la Spagna, dicendosi l’erede dei re di Portogallo. “Nel 1958 un uomo, detto «il Ciarlatano Calabrese» dalla Spagna nemica, apparve a Venezia pretendendosi il re Sebastiano, il sovrano portoghese scomparso in battaglia due anni prima. Per cinque anni Veneziani, Spagnoli e Portoghesi si affannarono sulla vera personalità e identità dell’uomo. Era un pazzo? Era un impostore?”, si chiede Olsen. Ravvivò il “millenarismo portoghese” e acutizzò la lotta per liberare il Portogallo dalla Spagna. “Ricordo anche di essere andata a casa di Ruby, viveva con un’amica calabrese, con la quale divideva un appartamento squallidissimo al piano terra…”. Nelle inesauribili incarnazioni agli atti della sua breve vita, Ruby ha avuto due amici nemici, Sergio Randazzo e sua mamma Grazia, informa Piero Colaprico su “Repubblica”: lei li ha invitati a Milano e loro ne parlano male. Dal nome, i due dovrebbero essere siciliani. Il loro disprezzo diventa acuto alla vista dell’“appartamento squallidissimo” condiviso con “un’amica calabrese”. Che il caposervizio di Colaprico rende esplicito in un sommarietto sintetizzando: “La casa nella quale viveva con una calabrese era uno squallidissimo piano terra”. Senz’altro, senza nome né professione, o età, o altro segno di umanità: vivere con una calabrese al piano terra è il massimo dello schifo per il capo servizio di “Repubblica” e per la N.D.Randazzo. La Calabria ha 140 vitigni autoctoni. Ne avessero un decimo a Franciacorta, e magari un po’ di un decimo dell’insolazione della Calabria, conquisterebbero il mondo – oggi si dice il mercato mondiale. Nonché greca, la Calabria ha avuto un lunga storia ebraica. La più antica sinagoga rintracciata in Occidente, del Terzo-Quinto Secolo, a San Pasquale di Bova, ora Archeoderi. Il primo libro stampato in ebraico, a Reggio nel 1475. Il primo “intellettuale” ebraico che si ricordi in Occidente, il medico scrittore Donnolo di Rossano (originario di Oria nel Salento, ostaggio dei saraceni, riscattato dai parenti calabresi), coetaneo e ammiratore-concorrente di san Nilo. Il redazionale dedicato dal “Corriere della sera-Mezzogiorno” alla Calabria a fine marzo è all’insegna del lusso: “Calabria, roba da ricchi”. In Calabria si gioca a golf, pare. E si va in barca: “Gli ottocento chilometri di costa portano i calabresi a desiderare in automatico uno yacht”. È vero che la provincia di Reggio ha la più alta “densità” di telefonini in Italia. Ma non sarà che bisogna avere più contratti, il segnale essendo incerto? 

leuzzi@antiit.eu

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