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sabato 12 luglio 2008

Draghi studia da capo del governo

Il governatore della Banca d’Italia scopre impunito a luglio che “i salari perdono potere d’acquisto”. E che “ci sono rischi anche per i risparmi”. Sollevando per questo panegirici. Poi ammonisce che “la libertà del commercio internazionale è oggi a rischio come mai dagli anni Ottanta”. Lo dice all’Aspen Institute che Tremonti presiede. Il quale ha buon gioco ad ammonire contro gli stability forum: “Sarebbe come mettere i topi a guardia del formaggio”. Ammonisce cioè contro Draghi, che le banche dei maggiori paesi industriali hanno messo a capo del Financial Stability Forum. Ma Draghi non se la prende, non è a un duello di verità.
L’onestà e la sagacia di Draghi si prendono paginate. Replicate il giorno successivo per un altro messaggio rivoluzionario e ultimativo del governatore: “La pressione fiscale è eccessiva, ora tagliate tasse e debito”. Ora e non prima, Draghi si vuole di sinistra. Il come non lo dice, lo lascia a Tremonti. Il suo compito è solo conquistare lo spazio, per ora: è alla fase dell’image building.
Draghi fa il governo ombra, criticando ogni aspetto, grande e minimo, delle misure economiche del governo Berlusconi, per accreditarsi plausibile sostituto. Forte dell’impunità che ancora per tre anni dovrebbe essergli assicurata dalla carica – alla quale è stato chiamato da Berlusconi, ma presidente Ciampi. Draghi dà per scontata, malgrado la protezione di Gianni Letta, la sua non riconferma con questo governo e si propone di sostituirlo, di sostituire Berlusconi: la carriera sorprendente di Draghi dovrebbe fare un altro passo con Palazzo Chigi. Nientedimeno, ma è così. E non tra molto, dentro questa legislatura.
Sembra fantapolitica, ma tutto è fantapolitica nella carriera di Draghi. Chiamato alla Banca d’Italia da consigliere delle banche d’affari. Responsabile negli anni Novanta, da direttore generale del Tesoro, di molti dei guai dell’Italia: la sopravvalutazione della lira sul marco, che portò alla svalutazione catastrofica del 1992, la svendita dei grandi servizi pubblici, un sistema di governo aziendale che favorisce i soliti pochi e scoraggia gli investimenti stranieri. Quindici mesi fa, quando la crisi finanziaria era palese anche a questo sito, Draghi la riduceva a “una turbativa”. Ma è l’uomo di fiducia di chi conta, banchieri e editori, e del generone romano nella persona di Letta, e il suo progetto non è fantasioso.

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