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mercoledì 3 aprile 2013

La fine del parlamentarismo

Finisce nell’eccesso, come ogni bestia arrivata alla fine violenta, esagerando i suoi difetti: l’inconcludenza, l’irrilevanza. Il soggetto è il parlamentarismo, la deviazione patologica del regime costituzionale, della Repubblica parlamentare. Degli inciuci e degli accordi sottobanco. Della sopravvalutazione, anche, della propria funzione: segno ne è l’attorcigliamento delle Camere appena elette, grillini compresi, sulla riduzione del loro costo di funzionamento. Di cui poco o nulla importa al paese, che ogni mattina ha da affrontare i debiti, la disoccupazione e perfino la fame. Dev’essere una nemesi, o altrimenti il parlamentarismo dovremmo dirlo irriformabile: non si spiega altrimenti che un Parlamento appena eletto in una campagna segnata dall’insoddisfazione verso le beghe di partiti, non trovi altro da fare che ingolfarsi in queste beghe, ingigantirle - si parla di dieci, forse cento milioni di tagli… È una forma agonica, seppure lenta, lunga.
La crisi dell’Italia ha una sola causa. Precisa, e anche nota, a molti. Che però si tace: il parlamentarismo sterile, l’incapacità del Parlamento di fare vere leggi, opportuna, incisive, importanti. A partire dal 1973. Quell’anno Giulio Andreotti, liquidata la sua prima esperienza a palazzo Chigi con un governicchio di destra, si fece eleggere capo dei deputati Dc e in quella posizione si spostò a sinistra. Prese cioè a sopravanzare i socialisti, alleati di governo, con il Pci. Su pressione, si disse, del Vaticano - i socialisti ponevano problemi che i comunisti non ponevano: controllo delle nascite, aborto, divorzio, scuola laica, Israele. E a discutere ogni legge in anticipo col capogrupo Pci alla Camera, Pietro Ingrao.
Andreotti istituzionalizzò Istituzionalizzando la superfluità del lavoro parlamentare che già Moro aveva avviato, con regolamenti che rendevano impossibile alla Camera fare qualsiasi provvedimento dotato di tempestività ed efficacia. I governi intanto avevano così preso a operare per decreti, successivamente rinforzati dai voti di fiducia.
Era l’inizio di quello che Berlinguer dopo qualche mese chiamerà il “compromesso storico”. Su due fondamenti. “Una peculiarità radicata del socialismo italiano, una forte positività” è il non essersi mai “identificato con le socialdemocrazie europee di tipo tedesco o inglese”. Uno. Due: “È necessario operare per il superamento della divisione del mondo in blocchi e zone d’influenza”. Perciò “la via italiana al socialismo passa per un accordo con la Dc. Per un «compromesso storico» tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo”. La consecutio non era logica: la rivoluzione che passa per la Dc, e per un compromesso. Ma così incontrava Andreotti. Che invece aveva già trovato la formula giusta: “L’impegno reciproco a non compiere atti di reciproca ostilità”.
Il problema italiano nasce da questo spericolato onniparlamentarismo, dalla furbizia di Andreotti: la moltiplicazione del debito, la burocrazia ingestibile, le spese inutili, i privilegi della politica, l’incapacità di legiferare. Dibattiti estenuanti furono introdotti da Luciana Castellina e altri irriducibili su ogni minimo disegno di legge che non fosse negoziato col Pci. E il compromesso era sempre al ribasso. Craxi, che tentò di rompere questo compromesso legislativo, fu liquidato.

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