astolfo
Anton Coppola – Antonio
Francesco Coppola all’anagrafe, zio del regista del “Padrino”, ricordato dal
maestro Pappano nelle memorie, “La mia
vita in musica”, come uno di quelli che “riuscivano miracolosamente a mettere
su un allestimento nel giro di pochi giorni” – un allestimento d’opera, opera
complessissima – è stato compositore di successo negli anni giovanili, prima
della guerra. Autore in particolare dell’opera lirica “Sacco e Vanzetti”, sul
caso della condanna degli anarchici italiani che divise l’opinione.
Fu musicista
(flautista, direttore d’orchestra, compositore) anche il fratello Carmine, il
padre di Francis Ford, il regista.
Italia Coppola – Italia Pennino,
la madre di Francis, era anche lei legata alla musica. Era zia di Riccardo Muti
– una prozia. Figlia anche lei di musicista, il compositore di canzoni
napoletane Francesco Pennino. Fu paroliera di canzoni famose per i film di
Francis Ford, “Non ci lasceremo mai”, per il matrimonio di Connie nel
“Padrino”, “Ninna nanna a Michele”, con musica di Nino Rota, per il “Il padrino
parte II”, e “Come Back to Love (the Chief’s Death)” per “Apocalypse Now”.
Oltre che di molte canzoni per le colonne sonore del marito Carmine, per “The
Black Stallion”, un film di avventure per bambini del 1979, “Napoleon”, il
capolavoro di Abel Gance che Francis Ford ha recuperato e restaurato nel 1981,
affidandone il commento musicale al padre (un’esecuzione a Radio City Hall, con
grande orchestra), e “I ragazzi della 56° Strada” (“The Outsiders”) dello
stesso Francis Ford, 1983. Da ultimo divenne un personaggio, pochi anni prima
della morte, a 91 anni a gennaio del 2004, con un best-seller sulla
cucina italiana, “Mama Coppola’s Pasta Book” – aveva grande fama di cuoca.
L’annata 1998 del
vino zinfandel dei vigneti che possedeva prima di venderli per il suo ultimo film
Francis Ford Copola aveva battezzato Edizione Pennino. E col nome di “Mammarella”
ha lanciato una produzione, tuttora attiva, di piatti pronti “organici”, di
pasta variamente condita. Spiegando che Italia si faceva così chiamare dai
nipoti, piuttosto che nonna, grandma, che la faceva vecchia (il maestro
Muti stigmatizza domenica sul “Corriere della sera” l’uso in America di legare
l’italianità alla “mamma”: “In America le trattorie hanno sempre il nome della
mamma: Mamma Maria, mamma Rosa…”).
Giusy Devinu – Presto dimenticata,
morta di soli 47 anni, nel 2007 (la ricorda solo Pappano. “La mia vita in
musica”, come “scomparsa troppo presto”) è la soprano cagliaritana che fu
Violetta nei migliori teatri, a Spoleto, la Fenice, la Scala, e a Parigi. negli
anni 1980.
Delitto Matteotti – Mussolini, ligio
allo Statuto, ne riferì in Parlamento, prendendosene la responsabilità. Dopodiché
passò al regime, promulgando la legislazione totalitaria. Un salto di cui tutte
le storie del fascismo danno ovviamente conto, ma senza un perché – uno specifico,
per la situazione, il momento. Un dettaglio non indifferente è fornito a Aldo
Cazzullo sul “Corriere della sera” da Margherita “Magalì” Sarfatti, nipote
dell’omonima amante e ispiratrice di Mussolini. A proposito dell’“orrendo delitto
Matteotti” che cosa disse la nonna a Mussolini? “Gli consigliò di non indietreggiare,
anzi di assumersi tutta la responsabilità politica dell’accaduto. Lui lo fece.
E approfittò di quell’assassinio per instaurare una dittatura”. Considerando
l’opportunismo e la costante incertezza dell’uomo Mussolini, un passo da non
sottovalutare.
Fairbanks, Alaska – È la città, la
seconda più grande dell’Alaska, ora di 32-35 mila abitanti, di un emiliano, Felice
Pedroni, un immigrato giovane e avventuroso, che la rese ricca appena fondata
con l’oro. Il fondatore – il primo costruttore di abitazioni nel deserto di
fango e capanne – fu un Elbridge Truman Barnette, di cui nulla si sa, nel 1902.
Che qualche tempo dopo battezzò le sue case con questo nome, dal vice-presidente
degli Stati Uniti in carica con Th. Roosevelt dal 1905 al 1909, Charles W.
Fairbanks, repubblicano. Probabilmente per ragioni di comune loggia o
appartenenza massonica, nel Rito scozzese antico e accettato, di cui Fairbanks
era Gran Maestro. Felice Pedroni è una sorta di “patrono” laico della città,
poiché nello stesso 1902 che si costruivano le prime case scopriva nel territorio
adiacente la prima miniera d’oro: diede ricchezza all’agglomerato, ed è per
questo ricordato, anche se morì poco tempo dopo, nel 1910.
Tutto Pedroni
aveva fatto in poco tempo. Il 22 luglio 1902 aveva scoperto il filone d’oro
nel greto di un torrente oggi denominato, a suo ricordo, Pedro Creek. Subito
ottenne la concessione per l’estrazione dell’oro. E l’8 settembre poteva
fondare nella sua baracca un Distretto Minerario di Fairbanks, di cui si portò
presidente. Presto organizzò anche un viaggio in Italia, per trovare moglie, da
ricco. Non tornò al suo paese, Fanano, nel modenese, troppi brutti ricordi,
provò nel bolognese, a Lizzano in Belvedere, dove si propose ad Egle “Adelinda”
Zanetti. Che però non poté sposare, una vita in Alaska non lusingando né
Adelinda né la sua famiglia. Tornato a Fairbanks, sposò una ballerina di saloon,
donna che presto trovò “incontentabile”, una irlandese, Mary Ellen
Doran. Che pretese anche una residenza, un ranch, nel continente, nello
stato di Washington. Senza però dargli pace. Prima di morire, Pedroni ebbe
anche a litigare col socio con cui aveva messo in valore la miniera, in
tribunale.
Fairbanks lo ricorda
ogni anno nella manifestazione detta dei Golden Days, i giorni dell’oro: si fa
una gara per scegliere un sosia di Pedroni, che poi entra in città a cavallo, e
va a depositare in banca un sacchetto pieno d’oro. Anche Fanano, che si è
gemellata con Fairbanks, ne onora la memoria, con una targa che ricorda la
traslazione delle sue ceneri nel 1972 al locale cimitero. E in suo onore la
locale trattoria è stata ribattezzata “L’osteria dell’emigrante”.
Orfano di padre, rifiutato, pare, dalla
famiglia di una ragazza cui si era proposto in matrimonio perché povero e ignorante,
era emigrato a 23 anni. Dapprima in Francia, nel 1881, poi, nello stesso anno,
negli Stati Uniti. Lavorando da bracciante, e poi da minatore. Scoppiata la
febbre dell’oro, nel 1894 si trasferì in Canada, e da qui pochi mesi dopo nel
bacino dello Yukon, cioè in Alaska. Ebbe fortuna solo sette anni dopo, avendo resistito
alle condizioni climatiche proibitive della regione.
Grande migrazione – Dal 1910
al 1970 circa sei milioni di afroamericani sono emigrati dal Sud degli Stati
Uniti al Nord. Da North e South Carolina, Georgia, Tennessee, Mississippi, Louisiana
agli stati americani del centro-nord. Specie nelle città, che videro così la
formazione di ghetti neri, quartieri a popolazione principalmente nera – specie
a New York (Harlem), Chicago (Bronzeville – ma Chicago ha anche il soprannome
di “città nera”, fu la destinazione prescelta da almeno mezzo milione dei sei
milioni censiti nella Great Migration), Detroit (oggi in grande maggioranza,
fra l’80 e il 90 per cento, abitata da afroamericani), e Cleveland, in Ohio.
Nel 1910 gli Stati Uniti contavano 13 milioni e mezzo di immigrati, il 14,5
per cento della popolazione, quasi tutti dall’Europa. La riduzione del flusso
europeo, nel primo Novecento, portò a un incremento dell’immigrazione asiatica.
Che però non era gradita – negli Stati Uniti era dominante l’eugenetica: contro
di essa si vararono leggi restrittive dell’immigrazione. Per il contemporaneo
sviluppo industriale del Centro-Nord la migrazione dall’Europa fu sostituita da
quella interna, la Great Migration.
Dall’indipendenza, da quando si fecero statistiche demografiche, ne1 1780,
fino al 1910, oltre il 90 per cento degli afroamericani viveva negli stati del
Sud. In particolare in Louisiana, South Carolina e Mississippi. Nel 1970 restava
al Sud poco più della metà degli afroamericani. E anche loro si erano
urbanizzati: nel 1900 solo un quinto degli afroamericani del Sud viveva in aree
urbane. Nel 1970 più dell’80 per cento, per lo più in aree urbane di grandi dimensioni,
nelle città.
Anton Guadagno – Ricordato
anche lui, come Anton Coppola, da Pappano in “La mia vita in musica” come uno
di quei musicisti italiani in America che “riuscivano miracolosamente a mettere
su un allestimento nel giro di pochi giorni”. Nativo di Castellammare del Golfo
(Palermo), è stato direttore del Metropolitan di New York e della Wiener
Staatsoper per l’opera italiana.
Jim Crow – Le leggi Jim
Crow sono un sistema di leggi locali, e degli Stati meridionali degli Stati
Uniti, che a cavaliere del 1900 crearono l’apartheid per gli afroamericani.
A opera del partito Democratico. Sotto la sigla “uguali ma separati”. Con la
separazione in tutti i servizi pubblici (trasporti, ristorazione, sanità,
igiene) e privati (domestici e sociali). Un regime non istituito, non
dichiarato, che tuttavia canonizzava legalmente la separazione nelle scuole,
nei trasporti, nei luoghi pubblici (parchi, bagni, bar, ristoranti). E nelle
forze armate.
Succedevano ai
“codici neri”, applicati dall’indipendenza fino alla fine della guerra civile,
nel 1866, che già avevano ridotto i diritti degli afroamericani.
Le leggi Jim Crow furono
dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema nel 1954. Con una sentenza che
verrà applicata solo dieci anni più tardi, nel 1964, dalla presidenza di Lyndon
Johnson, il vice e successore di John Kennedy, col Civil Rights Act. Dopo un decennio
di protesta civile, animata dal reverendi Martin Luther King, Ralph Albernathy
e altri, a partire dal famoso episodio di ribellione di Rosa Parks, una giovane
nera che si rifiutò nel 1955 a Montgomery, Alabama, di cedere il posto in autobus
a un bianco, e fu per questo arrestata. Ma ancora nel 1965 si registrava un Bloody
Sunday – in realtà due repressioni violente, una di domenica e una di due giorni
dopo, per impedire una marcia di protesta, pacifica, da Selma a Montgomery, in
Alabama, per protestare contro il governatore dello Stato. Il 7 marzo 1965 la
polizia di Selma e una squadra armata di cittadini bianchi attaccarono la marcia
appena partita, di 500-600 persone, ferendone una cinquantina. Da qui il bloody
Sunday con cui è ricordata - un evento molto amplificato perché in diretta
televisiva per tutto il Paese. Due giorni dopo gli organizzatori ritentarono la
marcia, ma ne furono bloccati alla partenza. Dopo lunghe trattative, la marcia
fu effettuata il 21 marzo, e dopo quattro giorni si concluse, pacificamente, a
Montgomery. In agosto il Civile Rights Act del 1964 fu implementato di un
Voting Rights Act, chiudendo del tutto la stagione del separatismo.
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