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sabato 24 luglio 2010

La creazione del “Sud”, chiave dell’annessione

A fine agosto 1860 il “fedele collaboratore di Cavour” Giuseppe Massari, mandato a Napoli da napoletano “per assistere i piemontesi nella conquista della città”, scrive a Donna Ghita di Collegno: “Creda a me, Napoli è peggio di Milano”. Questo è stato – è – l’humus unitario. Ma con Napoli, colpevole di non essersi sollevata contro i Borboni e di non acclamare i piemontesi, i piemontesi saranno feroci – per Napoli intendendosi anche la Sicilia e la Calabria. La questione meridionale è nata con lo Stato unitario, il fatto non è più contestato, lo spiegava Villari nell’“Antologia della questione meridionale”, e lo conferma Corrado Vivanti, il curatore della Storia d'Italia Einaudi. Nelson Moe va un po' più in là. 
Il fico d'india
Questo è un libro onesto, non prevenuto, non a effetto, che però non si scrive sull’unità. E anzi, per la sua parte centrale, che è poi il carteggio tra Cavour e i suoi collaboratori al Sud, si finge che non esista. E un'allegra esposizione di un punto di vista. Ma convincente. Nei suoi limiti: il quadro è veritiero, le responsabilità non sono ripartite. Mancano quelle del Sud, la capacità di reagire, e anche di difendersi. Storicamente non accurato, insomma: l’antimeridionalismo di Pasquale Villari è un’invenzione, quello di Cavour pure (il conte non sapeva assolutamente nulla dei suoi “cari napoletani”, né gli importava). Ma il punto di vista è persuasivo, ben sorretto dalle pezze d’appoggio, il feroce leghismo postunitario: dà vita al fatto con gli stessi personaggi e gli argomenti che vorrebbero negarlo. Del “Sud” non manca niente, nessuno stereotipo. C’è pure il fico d’india – e la copertina col fico d’india con cui gli Editori Riuniti pubblicarono nel 1992 “La questione meridionale” di Gramsci. Nel titolo originale la questione meridionale viene legata alla cultura italiana, italian culture and the southern question. Non nel senso che la “cultura italiana” è inclinata, per tradizione, passione, interesse, alla squalifica del Sud. Ma per gli interessi specifici dell’autore, storico della cultura. Che qui analizza la “nascita del Sud” in alcuni scrittoori del Grand Tour, e in Gladstone, Cattaneo, Gioberti, Leopardi, Verga (un capitolo, questo, esemplare nell’italianistica), l’“Illustrazione Italiana”, Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti. Ma finisce per rendere vero il primo senso, che l’Italia si è fatta con la “creazione” del Sud. Che è il senso vero, molto esplicito del carteggio di Cavour sulla questione meridionale, che costituisce il capitolo più ampio del libro e che Moe decide sardonicamente di richiamare come “La liberazione” (la fonte sono i cinque volumi di corrispondenza raccolti da Zanichelli attorno al 1950 sotto il titolo “La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del regno d’Italia”). Una conclusione più esplicita che in "Darkest Italy", con cui lo "storico e giornalista" britannico John Dickie ha anticipato di un anno Moe - con la stessa lettura degli "stereotipi" e de "L'illustrazione italiana", ma con capitoli diversi sulla "sicilianità" di Crispi e sul banditismo. La conclusione è alla prima pagina: “L’unificazione scisse la nazione in due parti, accentuando il carattere settentrionale dell’una e quello meridionale dell’altra”. E poco importa che essa fosse opera in buona misura di meridionali, fuoriusciti o comunque critici. Ma non di De Sanctis, che vi si oppose polemicamente, e in ultimo di Settembrini, che si resero conto subito che la liberazione era un’annessione. La squalifica del Sud emerge tra l’infanzia e la vecchiaia di Casanova. Che nelle “Memorie” ha ricordi esecrandi del suo viaggio a Martirano, nel cosentino, alle dipendenze del locale vescovo: “Sessanta ore dopo esserci arrivato, lasciai Martirano”, s’inventa nelle Memorie” cinquant’anni dopo. Ma nel 1743, quando Casanova aveva diciott’anni, a Venezia si cercava e si prendeva lavoro a Martirano. La creazione del Sud è in buona misura opera di meridionali, emigrati e non, Giuseppe Massari, segretario di Cavour, Francesco Trinchera, Crispi, il calabrese Biagio Miraglia, e tanti, troppi altri. Contro di loro De Sanctis, anch’egli emigrato a Torino, dovette sostenere dure polemiche. In particolare contro il napoletano Trinchera, che tutti i napoletani voleva a tutti i costi assassini e traditori – Trinchera era del partito di Lucien Murat… Nel secolo abbondante del Grand Tour, i viaggiatori facevano riferimento alle borghesie meridionali, le sole in grado di ospitarli e di indirizzarli, e ne riflettono, osserva Piero Bevilacqua nella prefazione, “il calco negativo di un idealtipo settentrionale rielaborato dagli intellettuali meridionali”. La frase più nota di Gladstone, la più citata in Italia, è dalle sue “Lettere” da Napoli, dove viaggiò con l’amico, economista celebre, William Nassau Senior, anche per assistere al processo al patriota Carlo Poerio, ed è una citazione: del regime borbonico “ho visto e sentito usare questa forte e vera espressione: è la negazione di Dio eretta a sistema di governo”. La peggiore condanna di Napoli, insomma, è creazione di Napoli. Il siciliano Crispi, governatore sabaudo a Palermo, secondo una denuncia inoltrata a Cavour “ha raccolto in dodici ore di dominio (a Palermo) tutto l’odio che il più infame dei satelliti del Borbone, Maniscalco, raccolse in dodici lunghissimi anni”. Magistrale è la ricostruzione che l’autore fa della definitiva “creazione” del Sud da parte di Pasquale Villari, un calabrese di Bagnara emigrato politico a Firenze, dove insegnò e morì nel 1917 senza aver mai fatto ritorno al Sud, e il barone Leopoldo Franchetti tra il 1874 e il 1878. Che avrebbe definitivamente sepolto il Sud, non più il luogo del pittoresco: il “Sud” diventa “una minaccia per l’integrità politica e morale della nazione”, partendo dal “dispotico latifondista”, corrotto, mafioso, sperperatore. Alle “Lettere meridionali” di Villari si fa solitamente merito da parte dei meridionalisti di avere “influenzato” Franchetti, positivamente cioè. 
Affrica, caffoni, beduini 
Ma nulla eguaglia la cattiveria dei collaboratori di Cavour, in quella straordinaria corrispondenza sull’annessione, che non si può assolutamente dire altro. Bixio gli scrive che “i napoletani sono degli orientali, non capiscono altro che la forza”. Luigi Carlo Farini, governatore a Napoli nei primi mesi del dominio piemontese gli scrisse il 27 ottobre 1860 la nota invettiva: “Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Per il genero di Manzoni, D’Azeglio, piemontese dunque milanesizzato, “la fusione coi Napoletani… è come metterci a letto con un vaiuoloso”. Non si tralascia nessun capo d’accusa, la sporcizia, l’ignoranza, l’anarchia, la babele, e il “Medio Evo”. La corruzione del sud è già allora il tropo dominante, da parte di un ceto politico che dopo qualche mese, col governo Rattazzi, con Lissa e Custoza, e con le speculazioni di Firenze e Roma avrebbe singolarmente connotato nel senso peggiore l’Italia unita. Lo stesso Cavour a Lady Holland scrive che “i napoletani” – cioè il Sud - sono “corrotti” e “abbrutiti”. Corrotti “fino al midollo” li diceva all’ambasciatore inglese a Torino. La nipote ne accrediterà nel 1862, per ragioni di stato, la morte nel segno della pietà per “i napoletani”: “Li governerò colla libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le provincie più ricche d’Italia”. Cavour morirà in effetti senza aver concesso ai suoi luogotenenti lo stato d’assedio tanto invocato. Ma la versione pietosa della sua fine contrasta con tutto il carteggio. E poi col primo dibattito parlamentare sul Sud, l’8 ottobre 1860. Dove l’unica voce dissenziente tra le dure apostrofi contro “i napoletani”, fu quella del milanese Giuseppe Ferrari. Contrario all’annessione in quanto federalista, ma anche onesto testimone, di Napoli dove si era voluto recare di persona: “Ho visto una città colossale, ricca, potente… Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti più splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle nazioni”. Un testimonianza che spicca anche per essere unica: nella preparazione immediata dell’annessione non un solo cenno all’innovazione tecnica nel regno del Sud, nella ferrovia, nella marina, nell’agricoltura degli agrumi e della vite, alla competitività internazionale, alle buone finanze, e a quella straordinaria integrità della Pubblica Amministrazione che consentiva di rimediare ogni pochi anni a disastrosi terremoti rapidamente, senza sprechi, e con soluzioni tecniche di avanguardia. 
Piemontesi e cappuccini
I buoni sentimenti del resto, siano stati quelli di Cavour buoni, non mutano la natura delle cose. La verità di questo libro è, incontrovertibilmente, che il Sud è stato conquistato. Da padroni incapaci. E l’incapacità, come la più generale stupidità, è infettiva. Celiava il poeta africano Agostinho Neto, che ha voluto e realizzato l’indipendenza dell’Angola: “Le colonie non sono uguali: a qualcuna sono capitati i gesuiti, ad altri i cappuccini. A noi sono capitati i cappuccini, che più che altro generavano figli”. Al Sud non sono capitati i prussiani, gli inglesi, o i francesi, ma i piemontesi. Che tra tutti gli italiani non erano i peggiori. Ne è esponente tipico un non piemontese, La Farina, che non sapeva nemmeno cosa stava scrivendo a Cavour il 21 novembre 1860: “Fuori del suo nome (di Cavour, n.d.r.), non v’è nome piemontese che qui sia conosciuto: del Piemonte nessuno ne parla, nessuno ne chiede; la sua storia è ignorata, delle sue condizioni politiche, delle sue leggi non se ne ha notizia alcuna: insomma l’annessione morale non esiste”. E continua chiedendo lo stato d’assedio, senza sapere che ha descritto, per patriota che fosse, l’unificazione come una conquista: “I Napoletani si sono così abituati a considerare la loro città come un mondo a sé, che per farli entrare nella vita comune della nazione bisogna non solamente invitarli, ma costringerli”. Il principe di Carignano, luogotenente generale dell’ex Regno a fine 1860, lo confermerà con maggiore imprudenza allo stesso Cavour (i briganti erano in un primo momento “unitari”): “L’annessione qui si è fatta sotto la pressione rivoluzionaria con la paura dei fucili dei Garibaldini e dei banditi”. E chiederà truppe truppe e comandanti con carte bianca: “Ciò che serve qui sono truppe sparse ovunque e in grande quantità, e invare Governatori e intendenti delle altri province del Regno, ma persone senza mandati”, oggi si direbbe senza regole d’ingaggio. Dopo le ultime guerre di liberazione o umanitarie, in Serbia, in Iraq, in Afghanistan, il “modello” ha un’identità ben precisa, cioè imperialista. Resta da capire la persistenza, per un secolo e mezzo ormai, degli stereotipi, benché così cattivi e dannosi. Una spiegazione è la persistenza dell’opinione pubblica nella forme delle idee ricevute o dei preconcetti: l’equivoco è, come la speranza, duro a morire. Studiando l’Olocausto una cosa è chiara: il nazismo non si nascondeva e gli ebrei ovunque in Europa sapevano che il nazismo era razzista feroce, ma si ritennero fino all’ultimo europei eguali agli altri, e in Germania anzi tedeschi. Un’altra spiegazione è purtroppo la verità sull’opinione pubblica, che raramente non è stata, non è, un fenomeno di dominio. Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli, L’ancora del Mediterraneo, pp. 379, € 25

venerdì 23 luglio 2010

Il mondo com'è - 41

astolfo 

 Antipolitica – Contrabbanda la fine (l’abbattimento) dell’opinione pubblica. È il segno della rivoluzione italiana in corso dal 1992, che è in realtà una controrivoluzione e per molti aspetti (le carcerazioni di massa, la dissoluzione dei Parlamenti) un vero e proprio golpe, in senso tecnico: l’aggiramento, la negazione di ogni spazio alla sfera pubblica della politica. Quello che l’inglese sinteticamente chiama l’opinione pubblica perché sommariamente s’identifica con la libertà di stampa. La libertà di stampa in Italia si applica a circonvenire l’opinione. A deviarla, a comprimerla, a svuotarla quando si fosse formata, nel nome di niente – una falsa questione morale, una agitata cioè da uomini di potere oscuri, editori, giudici, sbirri. Non si può ritenere l’antipolitica il proprio dei media. O i media non sono organi della libertà d’opinione, ma strumenti affaristici, o di poteri oscuri.  

Berlusconi - 4 – Unpalatable per molti aspetti, baüscia, pappagallo, vitellone. Destinato a essere vituperato da tutti o quasi i beneficati, attrici di secondi ruoli, politici inetti. E tuttavia già una specie rara: quello che amava le donne.

Europa: a lutto con la Germania – Il purgatorio dell’Europa (o è l’inferno?) è la contemporaneità? È l’intellettualità, superba e modesta? Viviamo in un tempo di prosperità e di pace, quale il mondo mai ha avuto, nel quale le rivoluzioni si susseguono, la caduta dell’Urss, la globalizzazione, i diritti umani, e lo chiamiamo inferno. Ma è l’atto di chiamata che non è neutro. Il sentimento della decadenza è ciclico, e ha radici psicologiche profonde. Ma è definibile storicamente. La mansione critica del dire – dell’opinione, dell’intellettuale – si rapporta da qualche secolo alla filosofia tedesca. E quindi, nell’ultimo secolo e mezzo, all’eclissi di un impero che è fallito prima di nascere. Che ha conquistato Parigi, e tuttora la domina per il persistente complesso di Sadowa, ma a prezzo di dure sconfitte, per la stessa dignità dell’essere tedeschi – hanno vinto da barbari, i tedeschi, e quando hanno voluto imporci quel supremo raffinement filosofico che è la volontà di potenza si sono disintegrati. Con essi il nostro mondo: il lutto della Germania è il lutto dell’Europa. È qui che si è aperta la voragine tra l’Europa e gli Stati Uniti, due mondi contigui che non hanno più nulla in comune, malgrado la lingua. 

Kossovo: come disintegrare l’Europa (e la Cina) – Era un’arma puntata contro l’Europa (e in subordine contro la Cina), e il Tribunale dell’Aja, infeudato agli Usa, lo dimostra. L riconoscimento, non dovuto, dell’indipendenza del Kossovo, apre la strada, se necessità ci sarà, nell’ottica della pax americana, al dissolvimento di molti stati nazionali in Europa, Spagna e Belgio in primo luogo, Romania, Ucraina, paesi Baltici, Gran Bretagna. Si capisce l’errore di Scalfaro e D’Alema di fare la guerra alla Serbia in soccorso degli Usa (si diceva per i diritti umanitari, ma questo non si dice più: bisognerebbe fare la guerra al Kossovo per difendere la minoranza serba). Apparentemente si combatteva una guerra per i sacri diritti nazionali, in armonia con l’ideologia del Risorgimento, ma in una cultura e una politica poco o anti nazionale. Si dice che l’Aja statuisce per tutto il mondo, essendo un organismo Onu, ma in realtà è solo in Europa che ha un’eco legale e politica e statuisce un precedente. Con i separatismi si tiene aperta la dissoluzione dell’Europa qualora desse fastidio nel governo del mondo – e della Cina. È il senso e lo scopo dell’ideologia comunitaria: un’arma teorica creata in un paese, gli Usa, che ha gruppi linguistici ed etnici, ma nessuna minaccia di separatismo. 

Semitismo – Esiste solo, anche per gli studiosi, l’“Orientalismo” di Edward Said. La revisione della storia dopo la globalizzazione parte da quest’opera tarda (1978), tradotta peraltro solo nel 2000, che applicava all’asse Occidente-Oriente le ricerche del terzomondismo. Ma con l’effetto di cancellarlo, di cancellare un ventennio abbondante di riflessioni e di storia, “Présence Africaine”, la poesia africana di Senghor, l’“Orfeo Nero” di Sartre, o il razzismo antirazzista, l’Algeria, Fanon , le indipendenze, Alfred Sauvy, Samir Amin, Arghiri Emmanuel, P.T.Bauer. Si fa in chiave semitica? Di “primato” degli orientali vicini, israeliani e arabi.

Sessantotto - È come la nascita di Gesù Cristo: l’impero è rimasto in piedi ma nulla è stato più come prima. Per una rivolta intellettuale (morale). Buona in tutte le novità che ha portato, compreso, a suo modo, il 18 politico. È stata l’unica rivoluzione veramente popolare (spontanea)? Nell’origine, lo svolgimento, gli esiti. In Italia e in Europa – nel mondo conosciuto. 

Sigonella – Non fu ma minacciato lo scontro con i carabinieri, secondo le tardive reminiscenze dell’ufficiale che comandava i carabinieri della base. I marines erano evidentemente nella base, di stanza o aviotrasportati, ma non furono schierati. Reagan non voleva Abu Abbas, che si sarebbe preso comunque altrimenti, prima o dopo: meglio ammortizzare l’ira dei terroristi su Craxi e l’Italia, e prendersi la benevolenza degli ebrei di tutto il mondo. Sigonella fu forse un atto stupido d’indipendenza: quanto è costata a Craxi, ai socialisti, all’Italia, la protezione di un terrorista? Per di più spregevole, se non stupido.

Tecnologia – Sta mutando il tempo della storia, Che modifichi il mondo, la realtà e la sua percezione, si è sempre saputo, dal fuoco. Oggi lo modifica rapidamente e radicalmente. Il treno, l’automobile, l’aereo hanno mutato, con la velocità, lo spazio – oltre a rendere stabile per numero di morti la condizione bellica, per incidenti e esalazioni. L’elettronica sta mutando – ha mutato – la memoria, col suo immenso potenziale. Il telefonino ha reso universale la solitudine, che invece avrebbe dovuto abolire – la solitarietà, di ansia e delusioni. Nulla che l’uomo non riesca ad assorbire, il suo potenziale è necessariamente più grande della tecnica – un’altra innovazione della tecnica contemporanea è lo straordinario ampliamento della capacità di adattamento dell’uomo, alla perdita del tempo (ozio) ora in vece che alla fame, Ma con costi: ogni innovazione implica dei costi, e la sommatoria non si può fare, la tecnologia (Prometeo) è un dovere e forse una condanna. 

 Telefonino – La disponibilità totale, continua, di se stessi è fonte di ansia e delusioni. È un’offerta di se stessi non richiesta, che riduce o elimina la difesa del riserbo. Se non è sorretto dall’esibizionismo, è un denudarsi senza gioia.

 Terrore – Viene sempre con la pace. Dopo le Crociate, nella Belle Époque, dopo il Vietnam e l’Afghanistan. Non sapendo divertirsi, e invece di fare la guerra dopo che essa si è mostrata perdente, gli intelligenti uccidono gli innocenti. astolfo@antiit.eu

Il pentito è utensile inerte del giudice

Si dice che il pentimento di Ciancimino jr. è strumentale, lo ha detto ieri anche un tribunale, ma non si dice abbastanza. Non si dice quanto è strumentale, artefatto, e cioè mafioso, il pentitismo. Nel racconto di Flannery O’Connor “Un buon uomo è difficile da trovare” il male svanisce. “Uccidere un uomo o rubare un copertone”, il delinquente abituale non ne ha ricordo: “Ho scoperto che il delitto, in sé, non conta. Puoi fare una cosa come un’altra, uccidere un uomo o rubargli un copertone della macchina, presto o tardi te ne dimentichi, ti prendono e amen”.
L’argomento è trattato di striscio dalla letteratura del pentimento, l’indifferenza etica del criminale, l’insensibilità. Ed è trascurato dalla normativa sui pentiti, che fa del ricordo un dato euristico, come il giorno e la notte, o le stagioni. Del ricordo di un criminale, per il quale i fatti della vita che per una persona civile sono eccezionali, il pizzo, i dispetti, le bastonature, gli assassini, sono il normale soffio della vita. No, i pentiti della legge sono solo un utensile nelle mani del giudice. Tanto più, curiosamente, quanto più sono numerosi: i 25 di Mannino o i 28 di Giacomo Mancini. E hanno presa principalmente in chiave politica – nessuno ricorda i pentiti di Mancini, che pure ci sono stati, concordi al solito, riscontrati, veridici, e poi azzerati dal processo. Anche quelli che hanno detto qualche verità, come Buscetta o Brusca. Nessun pentito (italiano, mafioso) ha portato all’intercettazione di un’azione delittuosa in corso, alla cattura di un latitante, allo smantellamento di una rete mafiosa in atto. Nel loro universo di mafie vincenti e perdenti, seppelliscono i perdenti.
L’infamia è nota della legislazione premiale. I pentiti parlano per gli sconti di pena. E per la pensione, il premio di reinserimento, la protezione (un mafioso è sicuro di morire comunque ammazzato per mano di altro mafioso, la protezione gli allunga la vita), e perfino (Saro Mammoliti in Calabria, i Piromalli), per mantenere proprietà e capitali estorti. Ma c’è di più: il carattere indistinto dei loro ricordi, a monte della strumentalità, è tema ancora intonso. Un killer come Spatuzza, autore riconosciuto di un centinaio di assassinii, nel mezzo di altre centinaia, migliaia, di azioni delittuose (minacce, vessazioni, esazioni, attentati, bastonature, ferimenti) nell’arco di un decennio, non può ricordare, se non ricostruendo. In sé è un archivio vuoto. Non può avere avuto alcuna coscienza (sensibilità) nel corso di questa attività: il delitto di mafia, quotidiano, non è dostoevskjano ma meccanico, istintuale. Come mangiare, andare di corpo.

giovedì 22 luglio 2010

Come non vedere la questione morale dei giudici?

C‘è una questione morale dei giudici (la questione morale è la questione morale stessa) non da ora. La novità è che non si può più far finta che la giustizia sia giusta. Il Csm è marcio. La Corte Costituzionale, per la quale l’arresto è ammesso, se non auspicato, nel caso di concussione non dimostrata, o di corruzione non dimostrata, lo nega invece in caso di stupro accertato. Il Tribunale di Brescia dibatte ora, per la prima volta, la strage di piazza della Loggia nel 1974, trentasei anni fa. Senza scandalo per nessuno, purtroppo.
Che dirne? La Corte Costituzionale è semplicemente fascista, benché nominata da presidenti democratici, Scalfaro, Ciampi: è fascista la forma mentis dei suoi luminari, tra ermellini, autorità del ruolo, e cecità – questo sito l’ha detta una corte napoletana, data la composizione, ma è la stessa cosa, l’orpello sovrapposto alla sensibilità, l’autorevolezza del leguleismo. E il marcio della magistratura non è questo o quel Procuratore o presidente di Tribunale che briga una promozione: questo è il solito tran-tran di combriccole e cordate contrapposte, di sindacati, spesso di logge, talvolta camuffate politicamente. Non è qui lo scandalo.
Questa perversione fa comodo ai grandi giornali, concorrendo al disfacimento dell’opinione pubblica che è ormai il solo obiettivo dei giornali stessi, asserviti agli usurai Bazoli e De Benedetti. Questo è già un punto, ma a patto di ritenere i giornali necessari all’opinione pubblica, e non meri veicoli pubblicitari o di poteri occulti. Un democratico realista può solo lamentare il silenzio del presidente della Repubblica, rispettoso certo dei ruoli istituzionali, ma verso il Parlamento e verso il governo ben più vocifero. Inevitabile il pensiero che anche questo presidente teme la magistratura, benché abbia, a differenza dei suoi predecessori di questo straordinario golpe ininterrotto, collaudato intelligenza politica. Gli manca il coraggio o ha paura, pure lui? E di che?
La Corte costituzionale e il Csm del resto presiedono un consesso giudiziario che annovera golpisti veri e propri, succubi di dossier da caserma. Per abbattere questo o quel governo, non importa se di destra o di sinistra. Nonché Procuratori della Repubblica filo-Riina, che è quasi inimmaginabile, non fosse vero – di Riina...

mercoledì 21 luglio 2010

I giudici siciliani al lavoro per Riina

Il Procuratore di Palermo Ingroia, quello di Caltanissetta, Lari, ci sono o ci fanno? Quello che sostengono, che sono impegnati a sostenere, a provare oltre ogni prova contraria, facendo appello a personaggi del calibro di Spatuzza e Ciancimino jr., è quello che Riina vorrebbe dare a intendere. Che lo Stato voleva trattare con lui. E per questo magari si è ammazzato Borsellino, lo Stato se lo è ammazzato, da sé, e forse pure Falcone: per dare prova a lui, Conte di Montecristo e Imperatore della Cina unificati, di affidabilità. È troppo imbecille, eppure è vero: le due Procure lavorano alacremente, contro ogni possibile prova, a “dimostrare” quello che Riina afferma.
Non fanno altro da anni. Dimostrando quello che tutti i siciliani sanno: che le Procure antimafia raramente si occupano della mafia. Se non c’è intrigo, se non c’è da colpire a mazzate di mafia qualche ministro, anche soltanto con un concorsino esterno in associazione, qualche generale, qualche dirigente di Polizia, i Procuratori di Palermo non vanno nemmeno in ufficio, vanno direttamente alle tribune antimafia della televisione, di Stato. Per denunciare l’irrimediabile: che lo Stato non gli consente di trovare il ministro, il generale, il dirigente da incolpare.
Ciancimino jr. fa miglior figura del tozzo Riina, ma dice quello che dice Riina. Spatuzza è l’uomo dei cento omicidi (“almeno cento”), ignorante ancora più che violento, che ora si vuole teologo – lui intende: toccato dalla grazia. Questi due personaggi fanno la verità, oltre che sulla Rai, sul “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “La Stampa”, e tutti i giornali ex Pci. Nonché nelle amate Librerie Feltrinelli, che fanno a gara a ospitare il finto pentito Massimo Ciancimino per illustrare le gesta di suo padre, illustrate in un volume della casa editrice. Questa non è antipolitica. Non è nemmeno concorso esterno in associazione. È proprio mafia – sarebbe.

È Fini il papa straniero di De Benedetti

Fini non è l’uomo dello schermo. È anzi il candidato vero, seppure ancora in pectore, di Carlo De Benedetti, l’editore di “Repubblica”, al governissimo di Centro, che scalzi Berlusconi. Il “papa straniero” evocato da Ezio Mauro, il direttore di “Repubblica”.
Questo sito ipotizzava Fini come l’uomo dello schermo qualche settimana fa, quando Mauro lanciò il “papa straniero”, cioè il candidato democratico non del Pd. Recependo gli umori di Milano, che invece puntavano, e ancora puntano, su Bazoli, magari in accoppiata con D’Alema (http://www.antiit.com/2010/06/laccoppiata-bazoli-dalema.html). Ma più di una voce all’interno di “Repubblica” asserisce che il vero papa stranero è da intendersi Fini. Voci critiche, che registrano la candidatura a debito dell’editore e anche del direttore. Fino al punto di accantonare l’antiberlusconismo per augurarsene il fallimento – “è il solito esercizio del perdente De Benedetti”.
L’editore in persona avrebbe preparato la candidatura, dopo aver saggiato la consistenza del personaggio con alcuni incontri privati. Dopodiché ne avrebbe convinto anche il direttore Mauro.

La nuova Dc già vecchia con Renzi

Il qui lo dico e qui lo nego, e il rinvio, costante, inaggirabile. A Firenze sembra di rivivere gli ultimi, eterni, decenni della Dc, e non sono nemmeno tre anni dacché il giovanissimo Renzi mise nel sacco alle primarie le vecchie volpi ex Pci, e le costrinse poi a votarlo massicciamente. Non fa che rinviare, Renzi, l’area di Castello, la seconda tramvia, la terza, gli Uffizi, e ora l’Alta Velocità. Non obietta, non ha una proposta da avanzare invece di un’altra, ma ferma tutto.
Fa capire che tutti i contratti devono essere rinegoziati con lui. Che lui non è Domenici, il sindaco precedente, anch’egli democratico ma diessino. E anche questo riporta alla vecchia Dc: mostrare subito chi comanda. Per fare che non interessa. Senonché il blocco dell’Alta Velocità comporterebbe penali gravosissime, e tutta Firenze sta col fiato sospeso.
Se ne potrebbe arguire pessimisticamente che non ‘è novità possibile, che anche i giovani nascono vecchi, eccetera. Ma è solo un rigurgito di vecchia Dc. Che si dà fiato prospettandosi la deflagrazione del Pd, una corsa in tempi ravvicinati a raccoglierne l’eredità. Se non è questa prospettiva, appunto, a scoraggiare gli elettori, allontanando i simpatizzanti e ingrossando le fila di Berlusconi.

martedì 20 luglio 2010

Il colpo di coda Dc parte dalle caserme

Le mine disseminate dalla Dc, a lungo inattive o mascherate, scoppiano ultimamente a ritmo preoccupante. Anche perché si coprono, pur essendo assassine, con i crismi della legge. Nelle inchieste baresi, in quelle di Quattrocchi e Capaldo, nel Csm, nel Tar del Piemonte. Riattivate e avallate incautamente dal partito Democratico. In una con la reviviscenza tutta democristiana che sogna da un anno il Grande Centro. Rilanciato da Fioroni e Casini, compresi i vecchi arnesi come Pisanu, De Mita, Mancino, forti del previsto dissolvimento del Pd e del Pdl, e quindi dei contributi di Rutelli e Fini, col fiancheggiamento della grande finanza, tutta cattolica. Il Vaticano di Bertone non ci crede, ma gli ultimi mohicani Dc sono talmente sicuri di sé da non guardare in alcun modo Oltretevere.
In prima linea sono i residui giudici democristiani, a Torino, Firenze e Roma. Il caso di Torino è il più sinistro: che un tribunale amministrativo possa ritenete tranquillamente non valido l’estensione al candidato presidente regionale del voto di lista a lui apparentato, che è la norma da una ventina d’anni, questo ha fatto sussultare molti, l’illegalità cioè dichiarata, l’improntitudine manifesta – il democristiano è sempre quello che qui lo dico e qui lo nego. Anche perché un sinistro rumore di stivali si agita in sottofondo.
Conoscendo i democristiani è difficile immaginarli impegnati su un fronte militare così ampio e preciso. Non perché non ne abbiamo il fegato, l’ultima Dc si è mostrata capace di ogni turpitudine, compreso l’assassinio politico. Ma perché sono confusionari. Invece la manina delle intercettazioni prima, poi della collocazione delle stesse presso una Procura, quindi dei tempi della rivelazione, e infine dei verbali pronti, ogni giorno, o ogni due giorni, lavora tempestiva, ordinata, disciplinata. Da caserma? Molte indicazioni, per prime dalla cronaca giudiziaria, dicono che le indiscrezioni vengono da fonti militari. Questo configura un golpe nel senso proprio del termine: non è più l’antipolitica all’opera, dei padroni dei giornali e delle banche, è un’eversione militare.
Non sia meraviglia. la parola è grosso ma purtroppo non è una novità. Abbiamo avuto quarant’anni fa i giudici emeriti di Milano e Roma che hanno coperto le bombe, Caizzi, Amati, Occorsio. Abbiamo ora lo scalfariano Capaldo che da solo scoperchia l’Italia, Fastweb, Finmeccanica, Grandi Appalti, la Cricca, la P 3, e prossimamente il Csm. Tutto da solo non può farlo, solo per le intercettazioni, le trascrizioni, le fotostorie, la diffusione, sempre calibratissima, ci vogliono spazi e forze, grandi apparati.

Pinelli-Calabresi: resta il “j’accuse” di Camilla

Riletto dopo la beatificazione di Calabresi, a opera dei familiari e delle istituzioni, è un sano richiamo alla realtà. “Credo che agli onesti questo libretto apparirà addirittura un «giallo» aberrante”, è la conclusione di Camilla Cederna: “Anche perché in un’epoca in cui come niente si sfreccia sulla luna e le più complete diagnosi mediche son fatte dai calcolatori, leggendolo, essi verranno a contatto con una realtà delle più abnormi, offensiva per il buonsenso, repugnante alle coscienze”. È non sapeva che è l’unico testo solido che ci rimane della maggiore tragedia della Repubblica, l’inizio sanguinosissimo del terrorismo, iniziato dentro le istituzioni. Dopo quarant’anni, nessuna ricostruzione di storico, nessuna ricostruzione d’autore (Sofri è parte in causa, e al solito è flebile, evocativo). In loro vece una serie di ecumenismi, appunto parentali e istituzionali, all’insegna dell’“abbracciamoci e pace ai morti”. Che confermano che la verità è sempre nascosta.
Il libretto, che Enrico Deaglio ripubblica in edizione economica (con qualche improntitudine: Pinelli è alto m.1,65, la finestra del salto m.1,68…), è mal connesso ma è onesto. È il resoconto del processo Calabresi-Lotta Continua, cioè del processo che (non) si è fatto per la morte di Pinelli. Corredato da alcune testimonianze dell’autrice in prima persona: la notte della morte di Pinelli, che Camilla Cederna visse minuto per minuto in sequenza agghiacciante, l’incontro senza riserve dell’autrice col giudice Biotti, il giudice del processo incartato, l’invito a cena col nuovo questore di Milano, il resistente integerrimo Allitto Bonanno, che la rimprovera di gettare fan go sulla Polizia, “un corpo che conta quattrocento laureati”. Sullo sfondo l’altro processo che non si è fatto per le bombe, sempre a Milano, del 25 aprile – per le quali Allegra e Calabresi avevano incastrato alcuni anarchici pacifisti milanesi con testimoni falsi.
Le analisi mediche non c’entrano, né la Luna, sono gl inconvenienti della fretta, ma i fatti ci sono. Cederna prima e più di Lotta Continua accusa Calabresi, che conosceva per il piglio atletico e piacione, arrivando a notarne “la catenella a forma di manette che gli brilla sul mocassino”. Il suo è il “j’accuse” di Zola di cui in italia si è sempre alla ricerca, sicuro e smodato. Ma i fatti sono fatti. E nel libretto, pubblicato a caldo a Feltrinelli nel 1971, ci sono tutti, fatti illegali e anche violenti. Il fermo illegale di Pinelli. La mancata verbalizzazione dei suoi interrogatori, durati quassi tre giorni. I falsi testimoni, la professoressa Zublena, il tassista Rolandi, Il tentativo d’infangare la memoria di Pinelli, prima. Poi, la santificazione, da parte degli stessi accusatori. I ritratti inoppugnabili di Pinelli redatti dai cattolici con i quali aveva familiarità, Mario Gozzini, Manghi, Ruggiu. Il ricovero di Pinelli morente al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli senza darne le generalità. Il mancato avviso alla moglie (Calabresi, che pure conosceva personalmente Pinelli, non si scuserà: “Signora, avevamo tanto da fare”), alla madre di Pinelli. La carentissima autopsia fatta firmare a quattro luminari. Le archiviazioni vergognose dei giudici Caizzi e Amati. Senza nemmeno un sopralluogo nel luogo della caduta. I miserabili trucchi degli stessi giudici per coprire le archiviazioni all’opinione pubblica. La brutale ricusazione del giudice del processo Calabresi-Lc al momento in cui stava per disporre la riesumazione del cadavere.
Ci troviamo anche Edmondo Bruti Liberati, prossimo capo della Procura milanese, nipote di Beria d’Argentine, autorevole esponente del Csm all’epoca, giovane uditore al processo Calabresi-Lotta Continua Il famoso procuratore Pomarici di tante indagini sul terrorismo, compresa quella su Sofri,e quindi su Calabresi, che non ci hanno liberato: è un sostituto alle prime armi, poco conosciuto a Milano (qui erroneamente chiamato Guido) ma abbastanza per affidargli indagini sensibili strappate ad altri Procuratori solerti. C’è Gerardo D’Ambrosio, giovane magistrato “di cui non si conoscono le opinione politiche”, e “che tra l’altro ha insistito per averla”, per avere la seconda inchiesta, quella disposta da Bianchi d’Espinosa. D’Ambrosio salverà quattro anni dopo la verità ufficiale e la memoria di Pinelli inventandosi il “malore attivo”, quello che ti fa saltare dalla finestra senza che tu lo voglia – pur definendo la vittima sempre “l’anarchico Pinelli”, mancandogli evidentemente il numero sul polso.
La verità insomma non sarebbe impossibile. Ma resta quella della scrittura: questa scomposta scrittura lascia senza fiato sull’immoralità e l’abiezione del potere in Italia, delle caserme e dei loro giudici. Camilla Cederna, che non aveva pratica di caserme e cronaca giudiziaria, ne dà in poche righe il non perento ritratto: “In questura la trasgressione come regola corrente, in tribunale quella serie di contraddizioni e d’incompatibilità che soltanto nei governi e a livello di magistratura si possono trovare, colpi mancini, tradimenti, sconcertanti ammissioni”.
Camilla Cederna, Pinelli, Saggiatore Tascabili, pp. 153, € 9,50

lunedì 19 luglio 2010

Non è Wilde, ma è come se

Giallo doppio: trovare l’autore, e poi trovargli l’opera. Ricostruisce una probabile attribuzione a OscarWilde sulla base degli argomenti che Wilde dopo il carcere annunciò qui e là di voler trattare e che in qualche modo sono presenti nel testo. E dà al testo, poco wildiano (scintillante), una sia pur modesta dignità. Tutto questo partendo dal solo indizio che l’opera fu pubblicata nel 1919, sotto lo pseudonimo di Oscar Fingal che corrisponde ai primi due nomi di Wilde all’anagrafe. Formidabile racconto filologico di Lilli Monfregola, la cui ricostruzione costituisce la vera lettura, su un fondo di bottega di una libreria del Vomero che chiude, e del fantasioso editore di Robin-Vascello, Claudio Maria Messina. Tutto fila. E perché l’editore non pubblicò il testo col nome di Wilde, che gli avrebbe valso un successo a occhi chiusi? Perché nel 1919 non si poteva citare O.Wilde. Manca solo un tocco wildiano: che lo stesso indizio sia falso: il testo, o l’autore pseudonimo, essendo l’editore originario, Alfieri & Lacroix, ben radicato nella storia dell’editoria). Nella “letteratura di mezzo”, o dei falsi letterari, farebbe testo. Oscar Fingal Wilde, Divagazioni sulla felicità, Robin-Biblioteca del Vascello, pp. 129, € 10

Le illegalità dei giudici, nel silenzio delle istituzioni

Il Procuratore dell’inchiesta, a suo dire, più scottante della Repubblica dà un’intervista al giornale “la Repubblica”. E già questo sarebbe passibile di carcere duro. Ma lo scalfariano Capaldo, impunito come il suo protettore, va oltre, col metodo del qui lo dico e qui lo nego. Al giornale fa dire “devastante”, poi precisa, per rimarcare di più il suo assunto: “L’espressione virgolettata “«una società occulta devastante che condizionava le istituzioni» non è mai stata pronunciata da me”. Furbo certo, un giudice napoletano non può non esserlo. Ma tutto questo è illegale.
Non è la sola illegalità dei giudici, garantiti nell’impunità dal Csm. Ci sono, da Bari in poi, cioè da quando si è parlato di delimitare l’illegalità dei giudici, i verbali pronti per la pubblicazione. Selezionati: un tema al giorno – ogni due giorni se un tema attecchisce. Tutto ciò non solo è illegale, ma indica che c’è una manina dietro questi verbali, e quindi un’organizzazione.
Il Tar del Piemonte passa sopra alle leggi elettorali, nazionali e regionali. Cioè a leggi di rilievo costituzionale. Solo per mettere nel mirino, con l’eletto leghista alla Regione Piemonte, una lista Udc dissidente che ha osato sostenerlo. Tutto questo è assurdo prima ancora che illegale. Senza che un solo grido di dolore si sia alzato dal presidente della Repubblica o da un qualche luminare del diritto: un tribunale disapplica leggi di rilievo costituzionale, leggi specialmente sensibili perché ledono la libertà di voto, e non un solo lamento si sente.
Questa diffusa illegalità è d’altra parte sostenuta dal partito Democratico, anzi ne è la linea del fronte, e questi è tutto dire sulla natura democratica di questo partito di refoulés, gli sconfitti della storia – di sinistra avranno la maschera sinistra. Lo stesso Capaldo fa un processone al napoletano Cosentino, per aver fatto dire che il suo rivale di partito e di candidatura alla Regione Campania Caldoro era un finocchio. Roba che ogni candidato dice del suo concorrente. Essendo una querelle napoletana, non interessa molto al resto dell’Italia. Ma Capaldo è un giudice napoletano che opera a Roma: li ha ma letti i dossier (non le chiacchiere) di De Benedetti contro D’Alema?

domenica 18 luglio 2010

Problemi di base - 32

spock

Filisteo, chi è filisteo?

Perché le moltiplicazioni vanno a gruppi, di due per due?

Vanno Suv e station wagon, con le monovolume a otto posti, e case più numerose e più ampie per le coppie senza figli e i single. Per compensare la solitudine?

Perché i bambini sono assorti sulle giostre e tristi? Perché devono fare felici i genitori?

Giudicare, verrà da Giuda?

Chi ci libererà dal Settecento?

Perché credere al Settecento?

Perché bisogna fare la fila alle Poste?

Perché le tante signorine delle ferrovie gracchiano negli altoparlanti delle stazioni, invece di parlare? Perché mettere tanti altoparlanti nelle stazioni, migliaia (milioni), se non si capisce mai niente?

È l’uguaglianza etica? Vista dall’alto e anche dal basso.

Perché i gravi cadono, non c’è scampo, e i leggeri veleggiano?

spock@antiit.eu

Ombre - 56

Herta Müller, che non si potuta leggere prima del Nobel perché anticomunista (se non per la perspicacia di Roberto Keller, editore minimo di Rovereto), viene in Italia, ospite degli stessi cominformisti che l’avevano proibita, e la prima cosa che dice è: “Come fa questo bellissimo Paese a votare a destra?”. Il come è semplice, anche se lei forse non c’è abituata: con la scheda. Ma forse la scrittrice voleva compiacere gli ospiti. È vero che il pensiero unico è co(mi)nformista.

Si chiudono la biblioteca e l’archivio Pertini a Firenze, dono dell’ex presidente, ogni anno consultati da un centinaio di studiosi, senza una ragione e senza preavviso. Cioè una ragione c’è, mormora qualche impiegato di malavoglia: il Comune vende l’immobile, che è di sua proprietà, e ritiene che vendendolo vuoto ci ricaverà qualcosa in più. L’odio socialista è ancora dominante nel compromesso.

Le firts ladies africane a Parigi per i cinquant’anni della fine dell’impero appaiono, nelle atroci foto della sfilata, imbiancate. Si è celebrato il cinquanten ario per promuovere l’industria delle creme?

Tutta l’Italia scrive a Quattrocchi, informa “la Nazione”, per avere giustizia. Leggendo, si scopre che sono quasi tutti condomini, e appaltatori di opere pubbliche che denunciano i concorrenti. Che Italia reale è? I condomini scrivono quando l’amministratore lo consiglia, per “istruire la pratica”.

“Sono presunti innocenti”, dice Maroni dei politici suoi compagni di governo accusati di massoneria segreta. Non bisogna più essere colpevoli per perdere l’innocenza, ora si è innocenti sub iudice. Maroni, benché ministro dell’Interno, è leghista, e si sa che i leghisti hanno un’idea peculiare della giustizia – molto lombarda, del “ghe pensi mì”. Ma non bisogna sottovalutare le novità, non c’è limite al peggio.
Nel thriller famoso “Presunto innocente” diventa il giudice che indaga.

È un nuovo 1992, è una nuova Mani Pulite, come Craxi sbagliò…, i giornali disappetenti ripetono stanchi gli stessi argomenti. Si dice anche che la tragedia ripetuta finisce in commedia, o qualcosa di simile. Ma l’esercitazione è soprattutto dei giornali di Berlusconi o a lui vicini, il gruppo della “Nazione”, “Il Tempo”.

Ganzer sarà innocente, ma tutti i documenti contro di lui vengono dai carabinieri. In forma ufficiale e anonima. La questione morale è la questione morale stessa. Di tutti gli inquirenti, giudici e carabinieri.
È una coda delle bombe mai acclarate? Il passato che non passa.

Sul “Corriere della sera” di Firenze, Mihajlovich risponde domenica tra gli altri a Sofri. Il calciatore non era simpatico - tanto più per essere finito interista… Ma quanto più intelligente, politicamente, di Adriano. Sulla guerra civile – detta da uno che aveva i killer in famiglia. Sulla guerra alla Serbia di D’Alema. E sugli stessi criminali di guerra Arkan e Milosevic.
La nota di Sofri rilanciata su Facebook è la solita, pallida, letteratura della guerra umanitaria.

Dice Berlusconi che il diritto all’informazione non è un “diritto assoluto”. E che “la libertà dell’individuo trova un limite nella libertà degli altri”. Due fondamenti della libertà, e due ovvietà. Ma non per il manipolo di giornalisti e giudici che ci governa, che li imputano al fascismo di Berlusconi. O lo sanno, e fanno il gioco di Berlusconi? Che è, si sa, uno specchio fedele – in sé sarebbe poca cosa.

Si merita tutti i giornali Gattinoni con un abito superlusso che vuole un monumento alla libertà di stampa, contro il disegno di legge sulle intercettazioni. È la regola delle pubblicità, e pazienza. Ma il designer della casa è quel Mariotto che finora non si sapeva perché dovesse turbare le modeste serate di “Ballando sotto le stelle” col suo severo cipiglio di giurato. Col quale ha accompagnato alla vittoria il principino Savoia. Mariotto è monarchico?

Si usa l’inglese anche dove c’è il corrispondente italiano più chiaro. A Milano si usa anche a sproposito, un inglese maccheronico è stato adottato per le qualifiche e le carriere - per intimorire gli interlocutori? per lusingare i titolari? “Vanity Fair”, edizione italiana del settimanale della Condé Nast (“Vogue”), si fregia di una cinquantina di qualifiche, tra esse alcune senza senso: ha degli (delle) International Editors, che non sono redattori agli esteri, non sono niente, e un Executive Vice President Editorial che è solo una qualifica un po’ lunga per un collaboratore, Verdelli.

Un gelato e una coca a Porto Cervo sono costati sessanta euro a una signora francese. Che, benché ricca, se ne è lamentata. Ma aveva torto, fanno dire i giornali alla proprietà del locale: “Con una vista come la nostra, il prezzo non è esagerato”. La vista è “mozzafiato”, dicono le cronache, sui megayacht ancorati nel porto.

La Panda a Pomigliano si calcola che produrrà il 15 per cento del pil di Napoli. Il calcolo non è contestato. Tace anche la stessa Cgil che non la voleva. Tacciono gli intellettuali che hanno tifato per la Cgil al referendum.

Tra gli oppositori della Panda a Pomigliano si sono distinti illustri filosofi, quale Augusto Illuminati. Polemista di globalproject.info, Illuminati ha prodotto per il sito più pezzi ironici sul TINA chomskyano, “There Is No Alternative”. Che è un baluardo della libertà, il rifiuto della soluzione obbligata. Ma il professore, come la Cgil, non dice l’alternativa. Dev’essere uno di quelli del “tanto peggio tanto meglio”, che fece grande Togliatti, nulla muore in natura.

Riesce “Alfabeta”, rivista intellettuale per intellettuali. Pensata e scritta come nel 1980, al tempo della prima “Alfabeta” – la mezza verità brillante, che però è tutta bugia. Anche la grafica è ripetitiva, i bastoni, la carta. L’Italia è proprio sovietica.
Per restare in tono, Eco riesce ad essere noioso, co(mi)nformista anche lui.
Eco pontifeggia\ sull’“Alfabeta” ritornato\ come una scheggia,\ seduto sul sagrato.
Oppure: Eco s’è tagliato\ con la barba\ in senso lato\ anche la ghirba

“Alfabeta 2“ esordisce con un testo di Augusto Illuminati che è puro ’77 – la confusione, la violenza. Uno che pure sa riconoscere lo spessore – e l’onestà no? - di Jim Morrison. Il settantaciquenne professore di filosofia di Urbino scambia l’Onda – cos’è? - col movimento, col Sessantotto . S’informa cioè per procura di cosa succede all’università? Ma nel ’68 non era contro?
L’anno scorso Illuminati ha pubblicato “Per farla finita con l’idea di sinistra”, e certo vuole dare un contributo.