Cerca nel blog

sabato 23 luglio 2011

Il “sovrano” di Bataille è stupido e inutile

Finito presto ai remainders, è la versione originale, del 1947 (la riedizione, rivista, figura in appendice a “L’esperienza interiore”, 1954, in italiano nel 1973). Di interesse quindi storico, ma anche interpretativo: Bataille vi è “più” Bataille.
È il documento di un’inutilità: “L’uomo è l’impossibile, incarnato in tutti i sensi”. O anche: “È l’inammissibile e non ammette, non tollera quello che è se non rendendo la sua essenza più profonda”, inattingibile – e perché dovrebbe attingerla, fissarla? Il proprio dell’uomo è “questa immensa stupidità”, detta anche “ebetudine ipocrita”. Anticipa e illustra 37 “principi” per un’“operazione decisiva”: l’operazione “sovranità”. Che è in primo luogo un “metodo d meditazione”. Detta anche “esperienza interiore” e “estremo del possibile”. Collocandosi “al segreto, al fianco del surrealismo”. In raffronto ad altre esperienze similari: l’ebbrezza, l’erotismo, il riso, il sacrificio, la poesia.
Il batagliano non vi si smarrisce. Se non per la carenza persistente di senso, anche ponendosi nell’automatismo della ricerca a protocolli aperti, “senza senso” predeterminato. La sorpresa c’è sempre. Ma a documento di un’inutilità – non voluta. “La stella eccede l’intelligenza divina”? “L’uomo è genuflessione?” “La tigre ha la magnificenza miserabile e perduta h manca a Dio”? È topos surrealista ma lo dice bene solo Borges, in poesia.
Georges Bataille, Metodo di meditazione, Mel-Libraccio, pp.92 € 3,10

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (95)

Giuseppe Leuzzi

Jung contrappone nella sua psicologia archetipica un io “meridionale”, mediterraneo, greco, pagano, a un io “nordico”, selvaggio e eroico. Non è una buona scelta, commenta James Hillman, nell’ “Enciclopedia del Novecento”, vol. V, della Treccani (“Psicologia archetipica”): l’io “ariano, apollineo, germanico, positivistico, volontaristico, razionalistico, cartesiano, protestante, scientistico, personalistico, monoteistico” è solo effetto e causa della “nevrosi nordica”.
La stessa psicologia archetipica, dice Hillman, “si sente invece più a suo agio a sud delle Alpi”.

Gian Antonio Stella fustiga Berlusconi ancora una volta sabato 16 sul “Corriere della sera”, che lo monta in prima e sul sito, per la legge abortita che sospendeva il pagamento a De Benedetti in via provvisionale del mezzo miliardo abbondante cui il giudice De Ruggiero l’ha condannato. E porta a esempio una sua propria condanna analoga, per 15 mila euro, a favore di Mannino, il politico siciliano, che lui invece ha versato senza battere ciglio. E che Mannino, benché Stella abbia poi vinto la causa, non gli restituisce. Morale?
Però, il mangiasud Stella fregato da un siciliano non è male.

Lo stesso giorno il “Corriere” si scusa con poche righe anonime, in fondo alla pagina delle lettere, di tre articolesse con cui il leone Stella ha artigliato tre anni fa l’università di Messina. Una vetrina del giornalismo milanese.
Una citazione per tutte: Gelmini, il ministro dell’Istruzione più eversivo, dopo Gentile e Malfatti, è “paracadutata al ministero di viale Trastevere per investitura monarchica di Silvio Berlusconi…. come una marziana con le antenne e la pelle verde squamata” – il vero ministro è, garantisce il Nostro, Pino Pizza. Unico cenno critico peraltro al Lombardo-Veneto, nelle vesti della ministra, il sarcasmo era tutto per Messina, Salerno, Lecce, Enna etc.
Il vero problema è, però, che il rettore di Messina Tomasello e sua moglie Carmela Grasso si accontentino di quelle poche righe.

I veneti in Sicilia, oggi Zonin e Zamparini tra i più noti, in passato i Cassina, per esempio, e altri all’ombra del cardinale di Palermo Ruffini, tra essi il famoso senatore Verzotto, il power broker, hanno lavorato liberamente e prosperato onorati. Nella logica dell’intervista del generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca nel 1982, “se sono a Palermo ci sono grazia alla mafia”, sarebbero perlomeno collusi, se non mafiosi in senso stretto. Ma Dalla Chiesa non lo disse all’epoca e i carabinieri se ne guardano oggi. Le quattro grandi imprese siciliane invece, Rendo, Costanzo etc., appena presero a vincere appalti a Nord furono subito smembrate per mafia. Sulla fede del casellario giudiziario, magari senza condanna, di un solo operaio, di una ditta di lontani subappaltatori.

Analizzando le “Tre élites coloniali”, dei tre imperi, romano, spagnolo e britannico, l’antichista Ronald Syme esalta con sua stessa sorpresa l’australiano. “L’uomo australiano… esalta la ribellione, l’originalità, il piacere della cultura metropolitana, che non ritiene incompatibile con galeotti e banditi. Come se fossero eroi nazionali”. Si sa che l’Australia fu popolate nel Settecento dall’Inghilterra di galeotti e banditi.
Syme giudica positivamente anche l’atteggiamento del’australiano, “radicale”, di fronte al “vecchiume” dell’Inghilterra.

Milano
Woodcock sollecito manda a Milano anche le virgole delle chiacchiere, all’orecchio assoluto dei colonnelli della Finanza (due e-mail innocenti d’impiegati Mediolanum, l’affitto di Tremonti, etc.) Mentre non manda a Roma le sue inchieste su Roma, un atto palese d’illegalità. Protetta, bisogna dire dal Csm, cioè del presidente Napolitano, la napoletanità c’è e lavora.
Da buon napoletano Woodcock sa chi comanda: è Milano. Nelle vesti del vice Procuratore Francesco Greco, primo napoletano della capitale morale.

Anche la Lega demolita da un napoletano non è male. È quello che sembra, uno scherzo. Ma Woodcock, il procuratore di Napoli, potrebbe avere segnato la storia contemporanea, se la Lega, come sembra, non si risolleverà dall’ennesima furberia, il voto disgiunto in Parlamento, per l’arresto di Papa, incolpato di nulla, e il non arresto di un senatore del Pd contro il quale invece il processo è serio. Una dimostrazione della propria inconsistenza, da parte del partito di Bossi, che i suoi elettori, tutta gente “a premio”, che vota utile, ha immediatamente recepito. Si leggano i giornali locali, il “Corriere della sera”, “Il Fatto”, “Il Giornale”, “Libero”. E' perplessa perfino la “Padania”.

Non è la prima volta che la Lega vuole i ministeri. Già Maroni aveva aperto una succursale dell’Interno, nientemeno, a Milano nel 2003. In precedenza la pretesa era stata avanzata dal sindaco berlusconiano Albertini, al grido: “Se Roma è la capitale, Milano è il capitale”. Di nuovo c’è ora che Napolitano vuole sbolognare il governo. Per una grande coalizione. Senza parere. A piccoli strappi. Si può dire che è Napoli che muove Milano? È un caso di comunione d’interessi.

“Il mio viaggio in Italia” di Walter Benjamin ne dice: “Milano saluta gli stranieri non in italiano, ma in modo transeuropeo”. Più moderno, più civile (c’è anche tra le persone colte, nel Novecento, una diminutio dell’Italia)? No, “con ogni mezzo riporta loro alla coscienza l’idea del sensazionale”.
In questo diario, di un viaggio in gruppo, a vent’anni, per la vacanza della Pentecoste, Walter Benjamin è deludente: non c’è scintilla. Va perfino a visitare il Cimitero maggiore. Dove però, nello spreco di marmi e bronzi lucidi, ha un graffio: “Questo infelice camposanto milanese non è più un monumento al denaro quanto al dio del denaro”.

Viene fuori a pezzetti, la paura di Milano è sempre tanta, la verità che si sapeva sullo scandalo del calcio. Nel 2006 il designatore Bergamo aveva ben spiegato a Borrelli che lui parlava anche con Moratti e Facchetti. Ma l’ex Procuratore Capo napoletano di Milano si guardò bene dall’incriminare l’Inter. Poi si dice che i napoletani sono masochisti.

La giustizia a Milano è politica, si dice. Dai tempi di Borrelli e Di Pietro. No, è corrotta: ha creato e mantiene una vasta area di libero scambio per ogni tipo di malaffare, droga, Borsa, frodi, estorsioni, taglie bancarie, fallimenti pilotati. Al riparo di Berlusconi, delle periodiche condanne di Berlusconi. È infinita e interminabile la rete degli interessi criminali, grandi e piccoli, che si protegge al riparo di queste condanne: Saras, Telecom, Rizzoli Corriere della sera, etc.
I giudici di partito, D’Ambrosio, Colombo, lo stesso ingombrante Spataro, sono (sono stati) compagni di strada, foglie di fico. Il corpo della giustizia, dei procuratori e dei giudici, è corrotto – in maggioranza è napoletano, è vero.

Anche su Berlusconi bisogna intendersi: c’è un angariamento, non una condanna vera – ne basterebbe una sola vera per sempre, piuttosto che una finta al mese. Col metro di Milano, ciò vuol dire anche paradossalmente che Berlusconi non paga abbastanza, o non le persone giuste.

Gatto e Forno i giudici belli di Basiglio
Hanno aggredito tre anni fa due ragazzi, di nove e tredici anni, rinchiudendoli per 69 giorni in casa di correzione, con l’imputazione di atti osceni e incesto: un disegno imputato alla bambina avrebbe mostrato atti di copulazione con un bambino. Li hanno aggrediti per motivi abietti: i due ragazzi
erano figli di famiglia non abbiente, e meridionale, che per questo deturpavano la scuola elementare e media alla quale erano iscritti, quella di Basiglio o Milano 3. Un quartiere che si pretende ricco e affluente della capitale morale. Sono stati assolti, al termine di un processo che solo voleva assolverli. Perché evidentemente parte del quartiere: la direttrice della scuola, due insegnanti, uno psicologo e un’assistente sociale.
Le imputazioni erano non lievi, semplici, e comprovate. Lesioni colpose a carico dello psicologo e dell’assistente sociale che avevano costretto il fratello a confermare che il disegno era della sorellina. Falso a carico della direttrice e di due insegnanti, le quali sapevano che il disegno era di un’altra bambina ma lo tacquero al Procuratore della Repubblica. Il Pm Forno si è opposto alle imputazioni, affermando che erano errori e non colpe. E la giudice ha condotto il procedimento in maniera da dargli ragione. E non per un fatto caratteriale, Forno non è un innocentista – è durissimo con Berlusconi, che per una scopata viene accusato dallo stesso di prossenetismo. Due giustizie, allora? No, è lo stesso Forno, la buona borghesia milanese. All’ombra peraltro del cattivissimo Procuratore Capo Bruti Liberati, che, a giudicare dal nome, di Milano è la parte nobile..
Questo sito aveva registrato la prima tappa dello scandalo il 25 maggio 2008,
http://www.antiit.com/2008/05/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-18.html
concludendo: “Solo è stata preparata con cura la festa dei compagni per il ritorno - la solita scena televisiva dei bambini civilmente impegnati. Magari dallo stesso sindaco e dal direttore didattico, la Rai non è così cinica”. Non è stato così, la “festa” è sempre a carico dei due fratellini, e dei loro genitori, che intanto hanno imparato che dovevano sloggiare. Né i fratelli né i genitori hanno mai ricevuto le scuse di nessuno, psicologo, assistente sociale, insegnanti, direttrice, sindaco. E il processo a queste persone, per imputazioni accertate, è stato invece a loro carico: il Pm Pietro Forno e la giudice Anna Maria Gatto sono stati “durissimi”, a detta del loro avvocato, prudente: “Sembrava che la famiglia e i bimbi fossero gli imputati e noi gli orchi cattivi”. I giornali giustizialisti non hanno nemmeno dato notizia della scandalosa assoluzione, il “Corriere della sera”, “Il Fatto Quotidiano”, “Repubblica”. Il sindaco di Milano 3, dopo la sentenza, ha accusato i due fratellini di “complotto”, sic, a danno suo e del comune.

leuzzi@antiit.eu

venerdì 22 luglio 2011

Lo scandalo Penati è la Procura di Milano

Sembra la solita vendetta d’imprenditori falliti, quella che tira in ballo Penati, la punta di diamante dei Ds ora Pd a Milano. Forse per questo lo scandalo è sottovalutato dai grandi giornali della questione morale, a partire dal “Corriere della sera” e dal “Fatto Quotidiano”. In realtà Penati, e i Ds-Pd milanesi e nazionali, sono da tempo al centro di uno scandalo ben documentato, anche se occultato con applicazione e scienza. E denunciato da Albertini nel 2005, quand’era sindaco della città, alla Procura di Milano, dove ha presentato la denuncia direttamente nelle mani del procuratore Capo Borrelli e del suo vice D’Ambrosio, e alla Corte dei Conti. Senza che i due consessi abbiamo effettuato il minimo atto istruttorio. Nemmeno contro Albertini, imputabile allora di calunnia.
Penati, presidente della Provincia, aveva acquistato azioni inutili della Serravalle, la società autostradale di cui la Provincia è comproprietaria col Comune di Milano, da Marcellino Gavio, socio di minoranza. Pagandogliele 9 euro, contro i 3 del valore di carico. Poi Gavio aveva messo 50 milioni nella cordata Unipol per l’acquisto di Bnl. Tutti sanno come realmente sono andate le cose, ma ma questa parte della vicenda è pubblica e documentata.
C’era la truffa aggravata. E anche l’abuso d’ufficio, la decisione essendo stata presa da Penati in giunta, cioè tra compari politici, senza investirne il consiglio provinciale. Era stata anche eseguita da Bruno Binasco, semplice collaboratore di Penati all’epoca, che ora è indagato per finanziamento illecito allo stesso Penati. Ma per puro caso: la Procura di Milano non ha esperito alcuna indagine sulla circostanziata denuncia di Albertini. Non un mitomane o un anonimo, il sindaco di Milano.

Gatto e Forno fanno giustizia a Basiglio

Hanno aggredito tre anni fa due ragazzi, di nove e tredici anni, rinchiudendoli per 69 giorni in casa di correzione, con l’imputazione di atti osceni e incesto: un disegno imputato alla bambina avrebbe mostrato atti di copulazione con un bambino. Li hanno aggrediti per motivi abietti: i due ragazzi erano figli di famiglia non abbiente, e meridionale, che per questo deturpavano la scuola elementare e media alla quale erano iscritti, quella di Basiglio o Milano 3. Un quartiere che si pretende ricco e affluente della capitale morale. Sono stati assolti, al termine di un processo che solo voleva assolverli. Perché evidentemente parte del quartiere: la direttrice della scuola, due insegnanti, uno psicologo e un’assistente sociale.
Le imputazioni erano non lievi, semplici, e comprovate. Lesioni colpose a carico dello psicologo e dell’assistente sociale che avevano costretto il fratello a confermare che il disegno era della sorellina. Falso a carico della direttrice e di due insegnanti, le quali sapevano che il disegno era di un’altra bambina ma lo tacquero al Procuratore della Repubblica. Il Pm Forno si è opposto alle imputazioni, affermando che erano errori e non colpe. E la giudice ha condotto il procedimento in maniera da dargli ragione. E non per un fatto caratteriale, Forno non è un innocentista – è durissimo con Berlusconi, che per una scopata viene accusato dallo stesso di prossenetismo. Due giustizie, allora? No, è lo stesso Forno, la buona borghesia milanese. All’ombra peraltro del cattivissimo Procuratore Capo Bruti Liberati, che, a giudicare dal nome, di Milano è la parte nobile.
Questo sito aveva registrato la prima tappa dello scandalo il 25 maggio 2008,
http://www.antiit.com/2008/05/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-18.html
concludendo: “Solo è stata preparata con cura la festa dei compagni per il ritorno - la solita scena televisiva dei bambini civilmente impegnati. Magari dallo stesso sindaco e dal direttore didattico, la Rai non è così cinica”. Non è stato così, la “festa” è sempre a carico dei due fratellini, e dei loro genitori, che intanto hanno imparato che dovevano sloggiare. Né i fratelli né i genitori hanno mai ricevuto le scuse di nessuno, psicologo, assistente sociale, insegnanti, direttrice, sindaco. E il processo a queste persone, per imputazioni accertate, è stato invece a loro carico: il Pm Pietro Forno e la giudice Anna Maria Gatto sono stati “durissimi”, a detta del loro avvocato, prudente: “Sembrava che la famiglia e i bimbi fossero gli imputati e noi gli orchi cattivi”. I giornali giustizialisti non hanno nemmeno dato notizia della scandalosa assoluzione, il “Corriere della sera”, “Il Fatto Quotidiano”, “Repubblica”. Il sindaco di Milano 3, dopo la sentenza, ha accusato i due fratellini di “complotto”, sic, a danno suo e del comune.

Tre anni fa, il 25 maggio 2011 questo sito così poteva già configurare la vicenda:
“A Basiglio, o Milano 3, il comune più ricco d’Italia, una famiglia d’immigrati meridionali dava fastidio. Davano fastidio i due figli, di nove anni lei e tredici lui, che andando a scuola la infettavano. Sia quella elementare sia la scuola media. Finché un’insegnante delle elementari, la direttrice, il sindaco, lo psicologo e gli assistenti sociali non sono riusciti a mandare sorella e fratello in galera – in casa di correzione, in due case separate. Con l’imputazione di disegni osceni.
“A questo punto succede una cosa straordinaria: virtù impensate emergono nel giornalismo del gossip. Il fatto non poteva sfuggirgli, che dei meridionali pecorecci vadano a infettare la civica Milano. Ma allora, perpetuandosi lo scandalo per qualche giorno, si viene a sapere, un po' detto, un po' negato, ma insomma: non la bambina incriminata ha fatto il disegno osceno, bensì un’altra. Come si arguisce del resto dalla didascalia che lo accompagna. Dopo due mesi, e una sentenza del Tribunale dei minorenni, anzi esattamente 69 giorni, i due bambini incarcerati vengono liberati. Non subito: il ragazzo si farà un'altra settimana, perché la psicologa che seve dare il prescritto parere, non ha avuto il tempo di perscrutarlo.
“Il fatto non vuole dire nulla. Magari la direttrice, l’insegnante e le assistenti sociali sono meridionali, e la psicologa che dopo due mesi, trovando il tempo, scagiona i due bambini, è settentrionale. Oppure è viceversa. Il fatto è che Milano imbastardisce tutto. E sempre si assolve.
La casa di correzione i giornali pudicamente chiamano istituto, si elogia il senso civico della bambina che si è accusata dei disegni osceni, si critica lo Stato insensibile, e si tenta di non dire più che i colpevoli erano meridionali, infiltrati nel comune più ricco d’Italia. Di tacere che è stato detto. Ma sopratutto se ne parla il meno possibile: non ci sono tavole rotonde né articolesse sui bambini traumatizzati, sui genitori aggrediti, sugli insegnanti incapaci di leggere o razzisti, sugli psicologi che si pronunciano una volta a settimana - gratis?
“Nessuno si chiede se l’insegnante e il direttore didattico abbiano poi denunciato la bambina che ha fatto i disegni (non l’hanno denunciata), se gli assistenti sociali siano venuti a prelevarla e richiuderla (non sono venuti), o perlomeno se abbiano chiesto ai suoi genitori come mai a nove anni sapesse così bene il kamasutra (non l’hanno chiesto). Né perché a Basiglio lo Stato dei milanesi vituperato usi due metri.
“Solo è stata preparata con cura la festa dei compagni per il ritorno - la solita scena televisiva dei bambini civilmente impegnati. Magari dallo stesso sindaco e dal direttore didattico, la Rai non è così cinica”.

giovedì 21 luglio 2011

La Lega demolita da un napoletano

Una “condanna” per un deputato accusato di nulla. E un’“assoluzione” per un senatore accusato invece di corruzione. Una condanna per un deputato della propria coalizione di governo, e un’assoluzione per un senatore del partito avverso. Il tempo dirà se il doppio voto della Lega risponde a una rottura del monolitismo interno al partito di Bossi. Lo sconcerto è invece forte tra gli estimatori della Lega nei giornali e nelle istituzioni, il Quirinale in primo luogo: “Il partito della lealtà, delle parole chiare, si è qualificato per la duplicità”. Il commento unanime è che ha fatto harakiri, benché involontario.
Anche questo esito può essere prematuro: Bossi è sempre vivo. Inoltre ci vorrà tempo prima che Papa, il deputato che Bossi ha condannato, possa far valere le sue ragioni Un terzo fatto però è certo: il passo falso della Lega, sia o no mortale, è stato indotto da un giudice napoletano, Woodcock. Che, bisogna aggiungere, non disdegnerebbe di restare negli annali per aver visto il bluff della Lega.

Sarà antileghista il Pdl targato Dc

Un voto contro un deputato del Pdl e uno a favore di un senatore del Pd. E contemporaneamente un’insubordinazione a Bossi. Che però potrebbe non esserci stata o essere un gioco delle parti tra Bossi e Maroni, non è la prima volta. Ma il fatto è indubbio: se è dubbio che la Lega si sia frantumata, indubbio è che ha rotto con Berlusconi, e viceversa. Niente sarà più come prima tra i due alleati residui del centro-destra.
Alfano è uscito euforico della giornata delle opposte votazioni. Il neo segretario Pdl ritiene infatti il suo compito, di compattare e rilanciare il Pdl, fortemente facilitato dallo sgambetto della Lega. Anzi, a suo dire, praticamente “risolto”.
Non è possibile che la Lega si sia divisa tra Bossi e Maroni perché non c’è materia, su questo il giudizio è unanime: la Lega non ha nessuna consistenza ideologica o programmatica. Tanto più ora, che dovrà dire addio al federalismo di cui aveva fatto la sua carta d’identità in questa legislatura. Ma l’offensiva del partito di Berlusconi è ora, più che nel 1996 e nel 2001, contro la Lega più che contro Casini e Fini: un forte recupero del voto smarrito dietro la Lega soprattutto nelle province venete, abbandonando il fanfaronismo sugli immigrati, la sicurezza, i meridionali.

Addio al federalismo

Vera o sceneggiata che sia la frattura all’interno della Lega, sui rapporti con Berlusconi e quindi col governo, il federalismo finirà nel nulla, senza decreti attuativi. Ci vorrebbe un colpo d’ala: un forte pressing politico e una priorità assoluta rispetto all’agenda politica che sta emergendo, che vede in primo piano la riforma elettorale. Ma questa spinta non c’è né al governo né fuori, nei media e al Quirinale. Sembra anzi che la Lega vanga lasciata volentieri a cuocere nel suo brodo, non ha più alcun referente esterno. Lo stesso Bersani se ne guarda. Mentre il Pdl intravvede la possibilità di una rimonta, proprio sulle ceneri della Lega più che su quelle dei finiani.
Il Pdl non dichiara l’opposizione al federalismo. Tanto più nella sua riedizione “democristiana”da futuro Grande Centro: il localismo è la parte più robusta del bagaglio politico confessionale e Alfano se ne dichiara primo sostenitore. Ma non farà nulla per facilitare la riforma avviata dalla Lega. Tra le prime iniziative del neo segretario del Pdl c’è il rilancio del partito nel Veneto e in Piemonte, regioni che il Pdl ritiene “scippate” da Bossi al momento del varo delle candidature, Veneto e Piemonte.

martedì 19 luglio 2011

Roma società aperta

“I Romani non mostrano alcuna forma di preoccupazione per la purezza razziale. E come potevano?” Formidabile k.o. mentale a tanta erudizione latina anteguerra, prima ancora che erudito – Syme aveva già pubblicato il “Tacito” col quale divenne famoso – e storico. Il fatto – l’irrilevanza delle origini, etniche come sociali, per la classe dirigente romana – è perfino poco documentabile perché del tutto assente come questione a Roma e quindi negli scritti che ce ne sono rimasti: si accedeva naturalmente, normalmente, ai posti di responsabilità per capacità politica. Roma era la prima “società aperta”, Syme perfido prospetta a Popper che non ne aveva tenuto conto: “Era il valore individuale che contava, non la razza o l’origine”. Una seconda perfidia è nel raffronto con le élites coloniali spagnola e britannica, così povere a petto dei Seneca, di Traiano e gli Antonini, di Adriano. O di Marziale, Quintiliano, Columella
Ronald Syme, Tre élites coloniali

Ombre - 96

“Ma la Dandini ha fatto un libro?” Succede per la terza volta in tre giorni all’edicola di ascoltare questa richiesta di signore di una certa età. Che poi non chiedono su che argomento, o quanto costa. Basta la Dandini, basta la tv.

Arrivano in Fiat i fratelli Elkann, eredi dell’Avvocato, e per prima cosa si prendono la Juventus, cacciandone il cugino Andrea, erede di Umberto. Poi, dopo le molte brutte figure, gliela ridanno invitandolo alla belligeranza con Milano. Poi, dopo che Andrea ha minacciato Moratti e tutti i suoi compari, ne prendono le distanze.
Si ripete sempre lo steso modulo, di Gianni contro Umberto.Per ora solo a danno della Juventus. Ma si vuole che il capitalismo familiare protegga le aziende. Da cosa?

È una brutta estate per i fan di Murdoch? Non molto dopo Capodanno Milano bene ne accoglieva il figlio James con ricevimenti esclusivi e brindisi. Grande democratico, che doveva comprare La 7, creare un giornale, abbattere Mediaset, e riportare l’Italia alla libertà. Ma Milano non si vergogna, dimentica.

Boris Johnson, il sindaco “berlusconiano” di Londra, che è stato giornalista di giornale popolare, dice che le intercettazioni sono pratica corrente in quel tipo di stampa. Ma c’è voglia di scandalo: Murdoch dovrà pagare un conto salato.

Voce atona, tirata a quattro pizzi, fresca di parrucchiere e estetista, Giulia Torre annuncia che processerà Berlusconi, comunque vada, come una qualsiasi velina dei programmi tv. Almeno così si arguisce, dall’incerta dizione, da velina. Ma non è una velina, è un giudice, e non è in un programma tv.

A Tempio Pausania c’è una Procura. Che d’estate tiene banco. Una volta l’estate era riempita dalla Coca Cola, un ossicino nella bevanda si dissolveva lo spazio di una notte, e dal triangolo della morte alle Bermude. Ora c’è la Procura di Tempio Pausania. L’anno scorso – in onore al Tempio? – scoprì una P 3 a Firenze, di alcuni massoni attorno a Denis Verdini. Che poi si dissolse. Due anni fa (non) fece il processo per le foto di Berlusconi nudo in villa. Anche le foto adesso valgono poco. Quest’anno processa la villa e Berlusconi stesso, per un altro Tempio che vi sarebbe trafugato. Dissolto?

In alternativa, la Procura del Tempio ha la scomparsa del desposito della Maddalena: mssili,kalashnikov e lanciarazzi katiuscia. Ma qui si sa già chi li ha rapiti: l’esercito italiano. Razza di ladroni.

Patrizia D’Addario, la prostituta barese che è andata a letto con Berlusconi, dice che tutto glielo ha organizzato un’avvocatessa, Maria Pia Vigilante. La quale “convocò il «Corriere della sera» e suggerì di rilasciare la famosa intervista”.
Magari non è vero. Magari la donna ora non vuole pagare la parcella. Ma l’avvocatessa s’era fatta dare un anticipo? O lavora anche lei a percentuale?
“Convocò il «Corriere della sera»” vale una storia del giornalismo.

È possibile che il “Corriere”, sia pure nella persona di Sarzanini, accorra a una chiamata di Maria Vigilante? Proprio il giorno dopo in cui il famoso sindaco dalemiano di Bari, nonché giudice, Emiliano, va (perdente) al ballottaggio? Quant’onesta e quanto sola appare questa Vigilante.

Il sindaco di Voghera e il commercialista Marchese sono stati carcerati una settimana dai giudici napoletani, e dagli stessi vituperati con volumi d’intercettazioni, nonché dai giornali con paginate su Voghera. Poi sono stati scarcerati, perché, dice il commercialista, i giudici pensavano che portassi soldi all’estero, “ma avevano scambiato il prefisso dell’Ucraina con quello di Voghera, che sono simili”. Non è possibile, ma è vero.
I giornali non chiedono scusa (il “Sole 24 Ore” e “Repubblica” non danno notizia della scarcerazione), i giudici nemmeno. E il Csm?

Non ha potuto fare niente contro la manovra, e allora il “Financial Times” gioca d’anticipo: subito un governo tecnico. La crisi cioè, una trattativa interminabile, un governo impossibile. Il mercato non è che si nasconda.

Il Tar del Lazio azzera la giunta Alemanno perché non ha abbastanza donne. Non in base a un qualche comma di legge, di lettura sia pure forzata. No, d’imperio.

Gian Antonio Stella fustiga Berlusconi ancora una volta sabato sul “Corriere della sera”, che lo monta in prima e sul sito, per la legge abortita che sospendeva il pagamento a De Benedetti in via provvisionale del mezzo miliardo abbondante cui il giudice De Ruggiero l’ha condannato. E porta a esempio una sua condanna analoga, per 15 mila euro, a favore di Mannino, il politico siciliano, che lui invece ha versato senza battere ciglio. E che Mannino, benché Stella abbia poi vinto la causa, non gli restituisce. Morale?
Però, il mangiasud Stella fregato da un siciliano non è male.

Lo stesso giorno il “Corriere” si scusa con poche righe anonime, in fondo alla pagina delle lettere, di tre articolesse con cui il leone Stella ha artigliato tre anni fa l’università di Messina. Una vetrina del giornalismo italiano. Una citazione per tutte: Gelmini, il miglior ministro dell’Istruzione dai tempi di Gentile, è “paracadutata al ministero di viale Trastevere per investitura monarchica di Silvio Berlusconi…. come una marziana con le antenne e la pelle verde squamata” – il vero ministro è, garantiva il Nostro, Pino Pizza. Unico cenno critico peraltro al Lombardo-Veneto, il sarcasmo era tutto per Messina, Salerno, Lecce, Enna etc.
Il vero problema è, però, che il rettore di Messina Tomasello e sua moglie Carmela Grasso si accontentino di quelle poche righe.

Bernanke magnanimo con l’Italia, lui che con gli Usa rischia il default, è la verità del mercato.

lunedì 18 luglio 2011

Problemi di base - 67

spock

Eroismo egoismo?

Se è come dice Nietzsche, che Dio è la grammatica (“Noi non possiamo sbarazzarci di Dio finché crediamo ancora nella grammatica” o “La «ragione» nel linguaggio: oh, vecchia infida baldracca! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica”), l’afasico è naturalmente senza Dio, da tempo immemorabile dunque? E il dislessico?

O è Nietzsche un destrorso, poiché privilegia l’emisfero destro, della percezione sintetica, rispetto a quello sinistro, del linguaggio?

O è un drogato? La droga per prima brucia il lobo sinistro.

Si capirebbe anche il suo insistente due-in-uno: i due lobi interagiscono, è quando si scindono che si perde la bussola.

Nietzsche-Zarathustra rideva ancora a Torino?

Se non c’è comunicazione al di fuori dell’imprinting, di codici stratificati riconosciuti, un vero Grande Fratello sarebbe la sovversione totale? Woodstock, ancora uno sforzo!

A quando una guerra di mafia tra i giudici?

spock@antiit.eu

Berlusconi statista - 7

Ha varato una finanziaria di guerra e ha lasciato tutti senza parole, soprattutto i più velenosi. Sanità, pensioni, statali, ha abbattuto d’un colpo tutti i totem, e nessuno se n’è accorto. Che dirne?
Prendiamo per buona l’ipotesi che il ciclo berlusconiano sia al capolinea, se non già finito, e facciamone l’obituary, come l’impavido Montanelli lo minacciava al suo finanziatore e salvatore. La giustizia politica potrebbe rilanciarlo, questa come altre volte, soprattutto in Sicilia, in Campania e nel Lazio, che sono dopo la Lombardia le regioni più popolose – ma anche in Lombardia: uno vede Daria Colombo leader degli arancioni e cambia canale, o suo marito Vecchioni, il milanese che ogni tanto si fa napoletano. Ma tutto finisce e dunque anche Berlusconi – come direbbe di lui il solito Montanelli: era Berlusconi il suo salvatore nel 1974, quando gli sparavano addosso, alla testa prima che alle gambe, e poi per vent’anni il suo finanziatore a perdere.
Ecco, un’opposizione, per giunta ex comunista e ex cattolica, che si fa forte di Montanelli, il discorso si potrebbe concludere qui. O in rapporto ai suoi nemici, i giudici e i giornalisti: l’uomo ha perfino dell’aplomb. Se la farà con le Ruby e le D’Addario, ma al confronto dei torvi giudici ambronapoletani e delle loro giornaliste, o dell’allegro Ingroia, ha stoffa e anche un minimo di decenza. O in queste giornate della finanziaria di guerra, di cui i suoi nemici non si sono nemmeno accorti: allora è uno statista. Uno che sconfigge i Soros e i loro insidiosissimi esecutori nei giornali. Reduce da uno di quei vertici noiosi di Bruxelles dove è, pare, l’unico a sapere di non contare niente, al confronto del ragazzetto smarrito Sarkozy per dire, e della stessa papera Merkel.
Ma ragioniamone, in chiave del tempo che fu, da contemporaneisti che cercano di perscrutare la verità delle cose.
Alcune sono inoppugnabili. Una è che il berlusconismo riempie un vuoto che il Pci ha creato, con una parte della Dc. Avendo raccolto i cocci della stessa Dc, del Psi, e dei partiti laici, liberale e repubblicano.
Un’altra è che l’uomo non è imbattibile, Prodi l’ha battuto due volte. Che è un uomo solo. Ma anche Berlusconi è solo. E dunque deve avere una qualche consistenza.
Prodi peraltro ogni volta è finito nelle sabbie mobili. Perché a sinistra c’è solo una palude insidiosa. Di finte dialettiche politiche, in realtà di menzogna e ipocrisia, per di più violenta sotto il cappello della faziosità – che non crea ma mira a distruggere, segreta e virulenta, volgare, aggressiva. Non si sa e non si parla di lavoro. Né di produzione. Non si parla di strategia politiche. Né dell’antipolitica dominante. Né dei suoi astuti patrocinatori, banchieri e affaristi. Non si parla di Milano che ci governa, male, malissimo, da vent’anni senza correttivi, avvinti alla sua infestante corruzione. Non si considera che l’Italia, il paese di un forte, fortissimo, Pci, egemonico tuttora in molte aree, è l’unico paese in Europa a non avere un partito socialista. A non avere avuto mai un governo socialista. Se Prodi ne è stato vittima pur essendone il leader vincente, l’unico, che dire di Berlusconi, che ne è invece il nemico dichiarato? Anzi, non più di una sagoma di tirassegno. Si dice che Berlusconi è, e governa, la melassa italiana. No, Berlusconi “governa” la melassa sinistra.
L’inconsistenza mediatica della destra, o la rissosità dei suoi governi si può imputare, come si fa, a colpa di Berlusconi, alla sua incapacità di gestire le coalizioni e il governo. Ma nessuno è mai riuscito a governare bene e abbastanza a lungo con Bossi e Casini, e nessuno ci riuscirà con Fini, tanto gonfio di sé quanto asciutto di idee. Trattare ogni giorno con la Lega non è facile, che si tratti di smaltire la spazzatura di Napoli fuori Regione, o delle insegnanti meridionali, anche se di sostegno. Il neo fascismo e il separatismo sembrano remoti e anzi inesistenti, ma correvano l’Italia ancora una quindicina d’anni fa. La Lega è perfino diventato un partito politico, e anche pragmatico, delle cose da fare. Un successo la cui portata si valuta al confronto con la Francia, dove invece il populismo, escluso per principio dal “campo repubblicano”, è cresciuto nel tempo e a lungo, per un trentennio ormai, a livelli minacciosi per la democrazia, condizionando e falsando tutte le elezioni presidenziali dopo Mitterrand.
Inimicizie pericolose
Parlare a favore di Berlusconi, o comunque di Berlusconi, non è meritevole. Anche perché lui stesso, in questi ben fascista, solo ascolta i suoi, e tra i suoi i fedeli a ogni costo. Non Ferrara né Confalonieri, forse neanche sua figlia Marina, ma sì Fede, Sallusti, Santanché, Dell’Utri, gli “incondizionali”. Parlarne tuttavia bisogna dato che quest’uomo occupa la scena pubblica. Anche se a costo di dirne bene, o meno peggio di quello che normalmente si dice.
Seppure è un pieno che è un vuoto, come si vuole, è un’ombra gigantesca. Qualcosa che, nell’eclisse permanente della politica in Italia, ha fermato in qualche modo la marea dell’antipolitica, dopo la caduta del Muro e il riuscito abbordaggio della pirateria giudiziaria, guascona, ricattatrice. È l’unico argine alla canea dei profittatori (il “mercato”). E dei pirati delle informazioni (l’“opinione pubblica”: giudici intercettatori e relativi portavoce) che spianano loro il campo coi diversivi.
È creazione dell’opposizione: è il fantasma dell’opposizione. Un’opposizione indigente non può che avere un nemico indigente. Berlusconi sarà stato la “giustificazione” di tanta idiozia politica, che nell’ex Pci è immensa, a cominciare da Berlinguer, uno che riuscì a dilapidare quindici o sedici milioni di voti: nel sindacato anzitutto, che l’Italia sta portando a tanti mali passi, e poi nella scuola, che questo partito ha semplicemente distrutto, e nella giustizia, dove si è fatto ostaggio di squadristi e mafiosi.
È il re dei media, si dice. Ma è una forma d’invidia. I suoi peggiori nemici sono suoi concorrenti. Falliti in tv, sovrastati nell’editoria – è il caso di De Benedetti e Rizzoli-Corriere della sera In una cosa però i suoi critici, come la concorrente Rcs, hanno di sicuro ragione su Berlusconi: è melenso. Non sa “usare” i media. La sua Mondadori o i suoi giornali non hanno pubblicato un rigo, figurarsi un libro, contro le malefatte della Rizzoli-Corriere della sera, sulle ruberie, l’ipocrisia, l’opportunismo, i continui maneggi. O si prenda il caso, alla Rai, di Santoro: lo hanno allontanato quando gli veniva utile - un paio di serate con De Magistris e Berlusconi avrebbe rivinto le elezioni (ce n’è sempre una). Si conferma che i media, se sono influenti per gli insuccessi, non lo sono per i successi di Berlusconi - ha vinto, quando ha vinto, contro i media.
Ma come nei media così, bisogna dire, in tutti i suoi affari: non ha mai rovinato nessuno. A differenza dei suoi grandi nemici della Milano che conta, De Benedetti e Bazoli, che tanti morti hanno sulle spalle. E ha salvato molti. Compresa “Repubblica”, quando la rovinosa gestione mondadoriana della televisione minacciava l’ancora gracile testata: Berlusconi finanziò Mario Formenton e Mondadori pagando duecento miliardi l’ormai fallita Rete 4. Compreso De Benedetti, che deve a Berlusconi l’unico grande affare della sua vita, la licenza dei telefonini Omnitel-Vodafone, pagata 750 miliardi a fine 1994 e rivenduta a quindicimila due anni dopo.
In una vecchia intervista a Nanni Filippini su “Repubblica”, Alain Touraine spiegava già nel 1987, prima della caduta del Muro, la crisi della rappresentanza politica: “La vecchia politica è legata all’idea della rappresentanza. La destra e la sinistra quali le conosciamo si sono formate durante lo sviluppo del sistema industriale. Oggi non ha più senso: non ci sono più borghesi e operai; c’è una crisi della rappresentatività politica: che apre delle possibilità e tuttavia nasconde dei rischi”. Obama ne è la sintesi, non c’è “prodotto” della modernità migliore, simpatico perfino ai suoi nemici politici. O Sarkozy, dopo Zapatero, dopo Blair: tutti come Obama persuasivi, a prescindere dagli atti concreti, non eccelsi e anche fallimentari, perché più belli, più giovanili, meno radicati (classificati) politicamente-ideologicamente. La battuta di Nanni Moretti, solo, al bar, con D’Alema al televisore: “Di’ qualcosa di sinistra” fa ridere ancora i sessantenni ma non dice nulla ai trentenni.
Ogni annata il vino è nuovo. Ma Berlusconi ha preteso di fare ancora il vino, altri sono passati alle adulterazioni.

domenica 17 luglio 2011

Marchionne fuori con un piede e mezzo

Non si aspettava la soluzione dai giudici contro la Fiom, ma il “contorno” lo ha confermato nella perplessità: l’Italia, e quindi una Fiat italiana, sono fuori dalla realtà e dal mercato. Le decisioni su Termoli e Pomigliano d’Arco sono le solite non-decisioni, Marchionne non si aspettava di più dai giudici italiani, un colpo di qua e uno di là. Ma il mancato isolamento della Fiom, che ora sottoporrà l’azienda a uno stillicidio di ricorsi individuali, nella politica e nei giornali, anche nei “suoi” giornali, l’inesistenza della Confindustria, perduta nell’assicurare un posto di ministro a Marcegaglia, e l’inconsistenza della politica lo hanno confermato che in Italia c’è poco futuro. La stessa prospettiva che incombe sulla componentistica, stando al modello econometrico Prometeia, che ha difficoltà a innovare e fare il prezzo, e da quattro anni riduce l’attività più di quanto la riduce Fiat.
Se ha già fatto un passo fuori, ora è come se ne avesse fatto uno e mezzo: La riflessione sugli investimenti questo significa. L’ad della Fiat più che mai pensa che il solo possibile futuro dell’auto sia fuori dell’Italia, l’italianità del marchio e la leadership che il gruppo mantiene nel mercato italiano considerando vantaggi residui. Da non trascurare ma non decisivi per lo sviluppo. In Italia decide la politica, anche il mercato e l’opinione pubblica, e il manager italo-canadese sa già da un pezzo che la proprietà non ha più alcun peso politico, né mostra di poterselo guadagnare.
Nelle more dell’acquisizione-integrazione con Chrysler, Marchionne tiene ancora coperte le decisioni sul futuro del raggruppamento, dove e come concepire modelli e piattaforme produttive, nonché dove localizzare la produzione. Ma non si aspetta molto dall’Italia.

Prove beat a quattro mani, cercando lo scandalo

Si ascolta Brahms anche in questo ripescaggio, dopo la morte di tutti i personaggi a chiave, di un romanzo a quattro mani del 1945. Prima quindi che Françoise Sagan ne facesse la cifra della “generazione perduta” in “Buongiorno tristezza”, 1954, la generazione di Marlon Brando (“Fronte del porto”, 1954) e James Dean (Gioventù bruciata”, 1955).
Ascolta Brahms il diciannovenne Phillip, al secolo il bellissimo, alto, muscoloso Lucien Carr che tutti concupivano. E che, una notte di bevute, litigherà col pigmalione David Kammerer, che lo segue da presso da ragazzino e lo ha introdotto a Rimbaud e Verlaine, lo stordisce, lo crede morto e lo butta nell’Hudson, dove David affogherà. Al processo gli avvocati giocheranno la legittima difesa, contro un’aggressione sessuale, e la cosa venne così giudicata – poi Carr lascerà la poesia per l’Upi, l’agenzia di notizie, dove lavorerà apprezzato per quasi cinquant’anni alla Upi.
Burroughs e Kerouac, amici di Phillip-Lucien, riscrivono la storia per circa un anno, un capitolo l’uno, uno comincia dove l’altro finisce – quello che in giornalismo si chiama “fare rigaggio”, allungare il brodo. Ne resta un discreto quadro d’epoca, “generazionale”: di ventenni verbosi, omo o bisessuali, che però non fanno l’amore, più che altro si fanno, di qualsiasi elisir, spendendo l’“assegno fiduciario”, la rendita che i genitori hanno costituito per l’università. Ma senza il beat, non ancora: questa di Burroughs e Kerouac è più convenzionale e meno vera della storia reale. Una prova d’autore, la prima conosciuta di entrambi, per cultori della materia. O un “libro delle origini”, con le radici della maniera purtroppo scoperte.
Burroughs vi mostra, aveva 28 anni e si fa in tutta la storia di eroina una volta sola, una fulminante, aforistica, percezione del reale. La madre di Phillip è “una puritana moderna, capace di credere nel peccato senza credere in Dio. Anzi, credere in Dio era per lei qualcosa di troppo debole e peccaminoso… una proposta indecente”. Ma è l’unico sbalzo, con l’ipocondria mortale della stessa: “La sua unica preoccupazione ormai erano le sue malattie, che stavano pian piano assumendo forma organica dietro la spinta del suo forte desiderio di morte”.
Si conferma che il non lontano “Sulla strada” è ipercostruito, per riscritture evidenti, anche redazionali, forse per progetto: il mito della prosa spontanea si nutre con applicazione – i trentenni non saranno dissimili dai ventenni, accuditi dalle donne. Il maledettismo serve a ritmare l’esperienza, cioè l’esistenza. Fino al virtuosismo della frase corta, che prima di Getrude Stein e Hemingway è della Bibbia di re Giacomo, e i parroci praticano. Ma questa pre-tecnica beat si manifesta per finalità didattica: non la storia interessa ma come si costruisce. Che non è male, la retorica è il nocciolo della poesia. Se non che rimanda allo psicologismo che il taglio brusco doveva bandire.
È anche un quadro repellente. I personaggi sono in età di andare al fronte, ma la guerra nella loro Manhattan non c’è. Questi ventenni non solo non sanno nemmeno che c’è una guerra. Sono già i ventenni che hanno a ogni momento bisogno di tirarsi su, mangiando, bevendo, fumando, facendosi, ma qui in un quadro poso simpatico. Se mangiano sempre, e bevono, in dettaglio, in ognuna delle centocinquanta pagine, quantità spropositate di cibo e alcol, è perché l’America non conobbe il razionamento. Anche questo fa parte del quadro d’epoca, ma la cosa non è consolante.
James Grauerholz, dal 1974 amico e consigliere di Burroughs e dal 1999 esecutore testamentario del Fondo Burroughs, fornisce in appendice tutte le chiavi necessarie. Una in più è questa: Kammerer nel romanzo è chiamato Allen, e Allen è anche Ginsberg. Che con Phillip-Lucien adolescente aveva avuto “diversi incontri” sessuali (il poeta li apprezza in più tratti espliciti nei diari ora pubblicati, “The Book of Martyrdom and Artifice”). Un amore cui dedicherà nel 1956 “Urlo”, il poema dell’epoca. Ma solo nella prima edizione, Carr resterà fedele all’integrità eterosessuale sancita dal processo - le “chiavi” a volte sono noiose, le biografie non sempre esaltano.
Si conferma che in altre letterature i beat sarebbero una nota a pie’ di pagina, e più per l’ingenuità, il vitalismo di scrittori che sono stati o si vorrebbero ladri, pugili, lavapiatti. Dell’America che si specchia nelle squadre muscolose di hockey, basket, foot-ball, sport veloci di gruppo, di forza, avendo un cuore che è una macchina possente. Insipida ma per igiene. Ma restano parrocchiali i suoi maledetti, in un mondo d’idioti, le bestie da soma incolte che fu l’umanità della frontiera, se si montavano a dieci, dodici anni, benché anch’essi figli di mamma. Non si ride con loro, se scoreggiano è con intensità. Buoni cronisti sono, epigoni del neo realismo, di tele di fondo e quadri di genere.
William S. Burroughs-Jack Kerouac, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, Adelphi, pp. 179 € 17

Il potere, che non c’è, è ovunque

Questa edizioncina per i sessant’anni della Bur è il cap. II de “Il Potere. Come usarlo con intelligenza”, un terzo dell’opera intera, di cui però contiene le novità. Dietro quella più generale, del potere considerato come attività, il fare, universale quindi e inevitabile.
Hillman ne analizza in dettaglio una ventina di manifestazioni. Alcune con più insight. Il controllo, l’esibizionismo, la leadership, che dev’essere occulta, la tirannia, il “potere sottile” (pedagogia, filantropia, piacere….) . Ne fa la fenomenologia, al modo, avverte, come Gertrde Stein diceva di Oakland, che “là non c’è alcun là”: “Una fenomenologia ritiene che non esista una cosa, come il potere, in sé e per sé”. Con i lampi che sempre ravvivano le sue riletture: Ercole è il “mangiatore di manzo”, mentre il bell’Adone coltiva la lattughina, fascinum è un amuleto scacciaguai che i romani portavano al collo, in forma di pene, il “senno di poi” è in tutte le lingue (after-wit, esprit de l’escalier). Talvolta epigrammatico: “Le galline sono capaci di uccidere i galli”, “il sadismo è l’erotica della paura”.
Un saggio di Silvia Ronchey situa Hillman nella psicologia, nella ripersa degli archetipi junghiani. Là dove il suo scavo teorico è più debole - seppure forse proficuo terapeuticamente, la depressione rappresentando come una sorta di entrata nel paese delle meraviglie, l’inizio della vita complessa, l’orfismo della morte rigeneratrice.
James Hillman, Gli stili del potere, Bur, pp. 115 €4,90