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sabato 6 febbraio 2016

Il patriarca di Putin

L’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca non “cambia il mondo”. Viene dopo mille anni di scomuniche reciproche, e almeno cinquanta di approcci vaticani, dalla conclusione cioè nel 1965 del Concilio, che ha levato lembargo – le tante scomuniche. Ma le “incomprensioni” non sono finite, e la chiesa ortodossa russa non ha alcuna propensione verso Roma. È il patriarca in persona, Kirill, che ha questa curiosità, ma per arrivarci ha dovuto architettare un incontro semi-fortuito in aeroporto, all’Avana: il sinodo dei suoi vescovi non ne è contento. Per gli attriti secolari, e per uno recente: l’attivismo antirusso dell’ortodossia ucraina di obbedienza latina.
I vescovi hanno infine accettato, anche se l’incontro dovrà essere informale, perché Putin ne ha bisogno. L’ortodossia russa non è insensibile all’urgenza della patria. L’incontro è una delle tante iniziative di Putin per uscire dall’isolamento. Non tanto per la questione ucraina – nella disattenzione la divisione del paese sta diventando fatto compiuto. Quanto per le sanzioni.
Cinquant’anni fa era anche il tempo in cui il figlio di Breznev si faceva ricevere in Vaticano, dall’altro papa conciliatorista, Paolo VI. Nel quadro di una balorda westpolitik di Breznev, l’uomo che poi occuperà con l’armata rossa mezza Europa orientale.
Un passo avanti però c’è: Putin è più serio di Breznev – il cui figlio veniva a Roma a gozzovigliare con le squillo di via Veneto, facendosi scarrozzare in Ferrari (il sovietismo è stato anche questo). 

Ombre - 303

Al prefetto Tronca risponde Pignatone, il capo del Procura: l’ennesima affittopoli romana è tutta qui, tra le due “anime” (?) del Pd. Con schieramento di giornalisti al seguito. Tutto per portare i diessini a votare il popolare Giachetti.
Continua la saga del Procuratore Capo di Arezzo che non demorde. Non inquisisce in realtà nessuno su Banca Etruria, e non lascia il posto. Nemmeno ora che tutto fa intravedere la bancarotta fraudolenta, a favore di alcuni soci, amministratori e obbligazionisti. Reato grave e anche evidente.
“la Repubblica” e “il Venerdì di Repubblica” piangono il ribasso del petrolio: “Potremmo pagarlo caro”. Tutto perché i petrolieri americani non guadagnano abbastanza, e molti anzi perdono. C’è una logica? Il mondo va proprio “‘n’arreri”, come diceva il poeta siciliano Domenico Tempio.
Prudenza (cerchiobottismo) tra Renzi e Bruxelles in lite continua: ha ragione Renzi come ha ragione la Ue. Mentre il fatto è un altro: l’Europa è imbalsamata e in crisi per – per dirla con Piketty – “la Germania non ama un dibattito come si farebbe in Parlamento, dove rischia di andare in minoranza, e preferisce i criteri di bilancio automatici”. Anche se è “il blocco della democrazia nell’eurozona  con un set di regole rigide che ci ha condotto sull’orlo dell’abisso”.
Il commissario Moscovici, molto amichevole, dice che la flessibilità concessa all’Italia è troppa. Juncker mette l’Italia sotto inchiesta per l’immigrazione e per il bilancio. Dopo aver impedito il salvataggio delle quattro banchette,  mentre lo concedeva alla grande Nordbank tedesca. La sospensione del giudizio sul bilancio durerà quattro mesi. Cioè: l’Italia è messa da Bruxelles nel mirino della speculazione. Stupidi, Juncker e Moscovici, non possono essere.

Si può anche pensare a questa Commissione, di Juncker, Vestager, Moscovici, come occupata a cerare un solido piedistallo a Renzi, al di là cioè delle chiacchiere in cui il fiorentino eccelle. Questi commissari non sono neanche domini del proprio regno: sono burocrati che obbediscono a ordini. Ma perché a spese dell’Italia – più spread e meno capitalizzazione in Borsa?

 “Gloria a Dio”, inneggia Ted Cruz vincendo le primarie repubblicane nel timorato Iowa. Con una faccia e una smorfia da beffardo paraculo. La “diretta”, la tv, youtube, quanto hanno fatto per distruggere la politica, svelandone i cosiddetti “arcana”? Si capisce che nessuno ci creda, non voti, o voti a casaccio.

Bail-in europeo da rivedere, il regolamento che addossa il fallimento delle banche ai correntisti e ai sottoscrittori di obbligazioni. Lo dice il governatore della Banca d’Italia Visco - oltre che il buon senso. Che però dov’era quando il regolamento fu discusso e approvato, come sempre a Bruxelles all’unanimità? È il problema italiano, la scarsa applicazione.

Si celebra Ventotene, la riconversione del vecchio confino e il Manifesto per l’Europa, celebrando Spinelli, qualcuno anche Ernesto Rossi, nessuno Colorni. Che invece il Manifesto ha redatto, pur attribuendone la paternità A.S. e E.R. (che vi ebbe un ruolo minimo). Sempre subcultura Pci – Colorni era socialista.

Spinelli si celebra in quanto vecchio-nuovo Pci, benché abbia condotto una battaglia trentennale contro l’antiatlantismo del suo vecchio partito, Rossi in quanto massone.

Arriva El Sharawy a Roma e fa gol. Delirio delle cronache romane, inni al “neoacquisto egiziano”, e al “campione egiziano”. Di buon cuore. Mentre El Sharawy è italiano da tutti i punti di vista. Solo italiano. Quando non farà più gol sarà il brutto egiziano? È difficile accettare anche solo un nome straniero.

La Procura di Milano doveva procedere contro alcuni usurai, per sentenza del tribunale di Verbania. Non l’ha fatto. Dopo cinque anni e inutili solleciti ha proceduto la Procura Generale. Se non che la Cassazione ha cassato la Procura Generale e ha ridato la causa alla Procura. Che immediatamente ha disposto il sequestro di beni per cinque milioni. Sempre senza inquisire gli usurai.

Si ripetono con Verbania i fuochi d’artificio dell’Aggiustizia Napoletana a Milano. Dopo i ritardi, i dinieghi e gli abusi denunciati da Vigna e da Robledo. Ma la medaglia d’oro della dell’Aggiustizia spetta indubbiamente alla Cassazione, cioè a Roma. Che ha restituito gli atti alla Procura di Milano argomentando: “Contro l’inerzia investigativa la legge non prevede alcun rimedio”.
I Napoletani di Milano tengono ancora molti per le palle anche a Roma, non solo la famiglia Esposito? 

Il segreto di Caravaggio è la pittura

“Uno degli interpreti più puri della Controriforma”. Ma “ogni sua opera è un saggio di ambiguità “- di molteplicità espressiva. Forse è qui il “segreto” che D’Onofrio pretende del suo Caravaggio,. Che al contrario è limpido, anche se per più aspetti innovativo. Su una iniziale galleria dei personaggi che forma un contesto già affascinante. Di botteghe e commerci d’arte, collezionisti ricchi e ladri, e mecenati generosi che sono anche inflessibili censori. Specie i due grandi papi, Clemente VIII Aldobrandini, e Paolo V Borghese, governanti rigidi, di profonda moralità, e accorti committenti, ma duri punitori, il primo di Giordano Bruno e Beatrice Cenci, il secondo di Caravaggio. Roma era allora, per il fiammingo Karel van Mander, “la capitale delle scuole di pittura”.
Il titolo è civetta, il volume è onesto fin nell’impaginazione, con accesso semplice alle figure di rimando. Lo storico dell’arte, ora direttore del Macro a Roma, fa divulgazione senza gratuità. E senza le alzate d’ingegno della “follia critica” che si è scatenata sul personaggio e la sua opera da alcuni decenni. Notizie e documenti sa anche trattare con la tecnica della suspense. Il personaggio è presto detto: di “una determinazione fuori del comune” sin da ragazzo, in cerca di gloria. La fama sulfurea è tutta nella tarda romanzata biografia, di oltre un secolo dopo la morte, di un prete messinese, Francesco Susinno. Non sbagliata, era aggressivo e amava le cattive compagnie, il maledettismo c’entra tutto, ma univoca. Caravaggio resta un solitario, di cui non tutto si può sapere. Specie della sua arte pittorica.  Essendo uno che non va a scuola e non fa scuola. Cioè la farà, ma per la potenza della sua opera: “Caravaggio non rivela a nessun i segreti della sua tecnica, che ancora oggi fatichiamo a comprendere”.
È a Roma giovanissimo. È sicuramente pittore a bottega, di “teste”, e di caraffe d’acqua trasparenti. Ma con chi e per quanto tempo non si sa, eccetto che per il cavalier d’Arpino, presso il quale ha lasciato, o ha dovuto lasciare, la prima opera attribuita, il “Bacchino malato” – questa di rifiutare o sottostimare le opere altrui per poi rivendersele a miglior prezzo ai collezionisti privati sarà pratica corrente per tutta l’opera di Caravaggio (la “Morte della Vergine”, rifiutata all’esposizione in chiesa come “bagascia senza decoro”, fu rivenduta al duca di Mantova con l’expertise di Rubens). Fa una vita apparentemente dissipata, benché abbia uno zio alla corte pontificia, tra bevute, prostitute, che usa spesso come modelle di Maddalene e Madonne, risse, aggressioni, sfratti, fermi e processi, un provocatore e un violento. Ha presto estimatori e committenti importanti: Costanza Sforza Colonna, la figlia di Marcantonio, dei cui figli la zia di Caravaggio è stata nutrice, quando abitava novella sposa a Milano, Francesco Maria Bourbon Del Monte, il ricchissimo e letteratissimo marchese Vincenzo Giustiniani, i papi regnanti, e ha dalla sua presto i giovani, quelli che costituiranno la folta falange dei caravaggeschi, ma ha contro, perfidi, tutti i critici o intenditori d’arte, e i colleghi di maggior prestigio.
Caravaggio ha deciso presto, già ai dodici anni, che sarà un grande pittore. La fama che si crea è all’opposto, di uno scapestrato: poco applicato, litigioso, uno che gli sbirri devono speso fermare e più volte trattengono in carcere. Ma è uno che si controlla molto, nell’apparente dissolutezza. Il “Bacchino”, la sua prima opera, “è ritratto dal vero, ma allo stesso tempo è la copia del riflesso di uno specchio”, un artificio che si ritroverà in molti sui dipinti. Non dipinge d’istinto, elabora da subito una tecnica complessa, che gli consentirà negli ultimi anni la pittura “a risparmio”, delle figure e le ambientazioni, che con pochi tratti sbalza su una superficie scura. Van Mander lo ricorda poco attivo: “Quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due”. Ma è un modo per reinventarsi: cura la disposizione scenica, incluse le “storie” personalissime dei suoi soggetti (non fa multipli). Molte opere di grande impatto ha lasciato per poco più di vent’anni di attività, e tra mille problemi, da alimentari a caratteriali.
È un selvaggio, ma cura anche le relazioni. Grazie soprattutto alla protezione del suo primo acquirente, il cardinale Bourbon del Monte, rappresentante dei Medici a Roma. Uomo dotto, oltre che ricco, formato a Urbino, dai Della Rovere, eredi della civiltà di corte di Federico di Montefeltro, sperimentatore (alchimista), protettore degli innovatori: artisti, scienziati, pensatori, scrittori, e musico non dilettante - lo stesso Caravaggio si dilettava di musica. Uno dei tanti medaglioni di questo “Caravaggio segreto” a corona del mistero-non-mistero dell’artista.

Il segreto sono i dipinti a cui Caravaggio via via pone mano. Analizzati da D’Onofrio ognuno in dettaglio: una creazione continua, inventiva, innovativa. Un artista sempre all’erta, allo specchio. Ama le citazioni illustri, spesso alla lettera, specie di Leonardo: “Il maestro toscano è un riferimento costante per Caravaggio, al pari e forse anche più del Buonarroti”. È ambiguo? È inventivo: “L’artista crede più nel potere di persuasione del dubbio che in quello della verità”. È riflessivo, molto, ma in forma istintuale. Rifugge dall’affresco, tecnica progettuale rigida, lui dipinge coi colori, senza nemmeno disegno preliminare. Ma progettuale in realtà lo è, secondo un filo narrativo: i suoi quadri sono storie, anche quelli sacri, di carattere e soggetto rituale. Fino a disporre – a san Luigi dei Francesi e altrove -  la scenografie delle sue pitture a seconda del punto di osservazione dei fruitori. 
Costantino D’Orazio, Caravaggio segreto, Sperling & Kupfer, pp. Pp. 186, ill., € 9,90

venerdì 5 febbraio 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (274)

Giuseppe Leuzzi

Dopo il caso Quarto, fulmineo coming-out a Bisceglie-Molfetta-Andria-Trani, provincia della Puglia: tutti in massa a iscriversi al Pd, consiglieri, sindaci e presidente di provincia, 400 nuove tessere. La politica al Sud è un optional, che potrebbe invece essere un gigantesco capitale.

La Svezia annuncia 80 mila rimpatri di immigrati. Un gesto ingeneroso, e poco politico. Impossibile da effettuare – l’annuncio si fa per scoraggiare nuovi arrivi. Ma i giornali italiani ci credono. I soli. C’è molta voglia di Nord.

Apparire per essere
 “Socrate aveva scoperto la coscienza, ma non le aveva ancora dato un nome” – questo farà Platone.
Ha il tono e il ritmo della rivelazione il “Socrate” di Hannah Arendt, il breve saggio ricavato da una sua dimenticata lezione nel 1954. Che anche il successivo principio di non contraddizione di Aristotele, “con cui Aristotele fonda la logica occidentale”, riconduce “a questa fondamentale scoperta di Socrate: essendo uno io non mi contraddirò, e al tempo stesso potrò contraddirmi”. Che ha un altro più fondamentale fondamento: “Che la vita insieme agli altri comincia con la vita insieme a se stessi”. Per essere bisogna essere se stessi, non negarsi: riconoscersi, accettarsi (emendarsi, etc.), affermarsi.
Riconoscere se stessi, continua la filosofa, si rende manifesto nella polis tramite l’apparire: per essere bisogna “apparire”: “Intendiamo per polis una sfera pubblico-politica in cui gli uomini conseguono la piena umanità,  la loro piena realtà di uomini, non solo perché esistono, come la dimensione privata della sfera domestica, ma anche perché appaiono”.
L’odio-di-sé, per quanto discreto, umile, indotto da giuste cause e a esse votato,  induce la non esistenza. Con danno per sé e, soprattutto, per gli altri. Quando il legame non sia interrompibile: di origine (nascita, luogo), linguaggi, cultura, destino.

La disperanza
Al Sud manca la speranza. (Considerazione centrale, dopo una serie di aneddoti e considerazioni su questo o quell’aspetto peculiare: le iscrizioni senza avviamento al lavoro, gli immigrati, etc.). Non manca il lavoro né la ricchezza, intesa come risorse naturali terra fertile, minerali. La Calabria, la Sicilia, molte zone del napoletano hanno un saldo attivo d’immigrazione per i lavori domestici e agricoli, e di manovalanza generica, in qualche caso anche per la sanità e la nettezza urbana, “posti” semipubblici. In rapporto alla popolazione c’è in queste regioni tanto lavoro immigrato quanto ce n’è nelle altre zone d’Italia – eccettuata la Lombardia e, forse, il Veneto.
I numeri della disoccupazione vanno inoltre ridotti di due e forse tre punti percentuali, in base ai calcoli Inps. Defalcando il finto avviamento al lavoro (iscritti che non intendono lavorare) e i finti contributi minimi, benché essi siano stati raddoppiati da 51 a 102 giornate lavorative. Si arriva nella realtà a cifre di disoccupati maggiori che nel resto d’Italia ma in linea con le medie europee.
Quello che manca è la speranza: l’aspettativa del miglioramento sociale e culturale che è poi il motore dello sviluppo. Si è detto giustamente che la disoccupazione italiana è meridionale, donna, con un titolo di studio. Ma su questo si è ingiustamente sociologizzato come dell’esito di una fuga in avanti, di una mentalità dell’irrealtà, di un’incapacità a essere. Questa incapacità c’è ma per effetto dell’incapacità di “costruire il futuro”.
L’accumulazione primaria non manca, e anzi è feconda, malgrado le delinquenze liberamente in agguato, e così pure l’applicazione intensiva al lavoro. Quello che manca è la trasformazione del peculio originario in un processo di sviluppo, che consenta il ricambio e l’ascesa sociali, che sono il motore dello sviluppo stesso. I normali processi di moltiplicazione e diffusione della ricchezza, la rendita immobiliare, le infrastrutture, i servizi, sbocciano a macchie, restando isolati in genere e episodici, non durano. La dispersione è la norma.
Sono anche individuabili i canali di disseccamento delle risorse: una parte va in edilizia improduttiva, l’abusivismo cosiddetto di necessità, una parte nell’economia malavitosa, che finisce nella confisca se non in “Svizzera”, una parte viene tesaurizzata nella forme estreme dell’avarizia, e una parte viene sterilizzata dal lavoro immigrato (europei dell’Est, africani, asiatici) in rimesse all’estero. Si va per continui cortocircuiti, e quello che oggi è un bellissimo progetto e una costosa iniziativa, subito domani è un fallimento.
La stessa cosa si può dire altrimenti: manca il ceto medio istruito-professionale. Quello che c’è è di risulta, è demoralizzato, e si applica poco. La mancanza di speranza è all’origine della demoralizzazione del Sud. Che, anch’essa, è forte nel ceto medio istruito-professionale.

Milano
Le inglesi si vendono agli sceicchi, care, o agli oligarchi. Le squadre inglesi. Le squadre milanesi a asiatici abusivi e di poca fortuna. C’è un motivo?

“Striscia la notizia” fa un sucessone mostrando i napoletani nell’arte di saltare il tornello alla metro. È un cult, va in scena quasi ogni sera grazie al corrispondente napoletano. Lo stesso si fa a Milano. In misura più ampia perché la metro è più grande. Farebbe anche più notizia che non nella solita Napoli. Ma non si mostra.  

L’Expo si è chiusa in perdita, sicuramente di 90 milioni, forse di qualche miliardo se si conteggiano le immobilizzazioni senza ritorno di Arexpo, la società cui sono stati messi in capo  i terreni espropriati. Questo in aggiunta ai un paio di miliardi spesi graziosamente dallo Stato. Ma non si dice, e anzi non si può nemmeno sapere la fiera è stata un trionfo.

Si leggono per obbligo di lettore informato i giornali milanesi, “Corriere della sera”, “Sole 24 Ore” – e per devozione, “c’era una volta Milano”, etc. Ma non si “reggono”, come si dice a Roma. Si vede dai supplementi, femminili, moda, living, style, blog. Insopportabili: di un gusto marziano, e in vario modo (costo, melensaggini, prezzi consigliati, pubblicità redazionale) fastidiosi. Si direbbero controproducenti, ma è il giornalismo made in Milano: si vende e fa vendere.

Non è una questione di Nord e Sud, i giornali di Milano sono diretti da napoletani. È una questione di modo d’essere, di pensare l’arte, il verde, l’abbigliamento, il viaggio, la cucina, e di andare al ristorante, al pub, in discoteca. Tutto artificioso: un po’ inconsistente un po’ demenziale, ma pieno di sé e presuntuoso.  

O si può allargare l’obiettivo: milanese era una volta il filo, la cotoletta, il risotto, il panettone, la Borsa, la nebbia, i promessi sposi. Una vasta, ricca, provincia. Ora è l’Italia tutta, malata – corrotta nell’anticorruzione: la Lega, i giudici, i giornali..
Di chi il bubbone pestifero?

E le fiere. Milano era come Francoforte, o Francoforte come Milano: città di fiere. E quindi di mercanti, anche ambulanti, e di banchi. Poi tentò le filande, per fare Lucia Mo(n)della. E approdò al made in Italy, la fatica affidando à façon a napoletani, turchi e cinesi. Una breve storia di Milano sarebbe questa.

500 famiglie morose sui pasti a scuola a Corsico, periferia di Milano, 35 mila abitanti. Cioè quasi tutte. Ma nessuno scandalo. La cosa fa notizia giusto perché il sindaco vuole rientrare delle spese. .

“Contro l’inerzia investigativa la legge non prevede alcun rimedio”. La Procura di Milano ha evitato di indagare certi usurai che il Tribunale di Verbania gli chiedeva. Finché la pratica non è stata avocata dalla Procura Generale. Sempre di Milano ma gestita da non napoletani. La Procura ha allora fatto appello in Cassazione, che le ha dato ragione, con la suddetta motivazione. Arguzia napoletana – la Cassazione è infestata di napoletani? Leguleismo ispanico-lombardo, alla “Promessi sposi”?

La giustizia napoletana a Milano si direbbe insopportabile due volte. Il dubbio è infatti che furbescamente ne goda, di sterilizzare il\la suo\a incumbent.

Ci sono molte mafie a Milano, ma sono tutte di calabresi, napoletani e siciliani. Com’è possibile, Milano è stata occupata?

leuzzi@antiit.eu 

Giallo sotto vuoto

Ottocento pagine di bianchi e paraculate, 870 in originale, quando ne bastavano ottanta. Disgraziatamente con  l’avallo dell’Accademia francese, di Fumaroli e di Pivot. Una parodia involontaria dell’industria del best-seller, della scrittura delle scuole di scrittura.
Una storia d’amore contro l’amore. E un omaggio ai “maestri”, delle scuole di scrittura. Una storia d’amore-possessione, di una ninfetta. Più “Twin Peaks” che “Lolita”. Con una serie di baggianate riflessive tra scrivere e amare. Senza personaggi “reali”, in un’America di cartapesta – tipo la Boston di Scerbanenco. Accompagnata dalla fabbricazione del best-seller, criticamente compiaciuta. Anche se piena di errori. Nel New Hampshire l’età minima per il matrimonio non è 18 anni la 13 per le donne e 14 per l’uomo. La pena di morte vi è sospesa  (moratoria a tempo indefinito) dal 1976. I tramonti vi sono come le albe a Ostia, un po’ piatti. E vogliamo mettere un Procuratore anni Duemila che non persegue un Potente - quando invece è il contrario che fa e vuole fare?
Un polpettone: sentimentale, sordido, sadomaso, provinciale, postindustriale. Esemplare in un certo senso, del nulla sotto vuoto delle scuole di scrittura. Pieno di baci Perugina – la creazione più grande è “costruire l’amore”. Con una dozzina di punti di vista, giusto per épater le bourgeois, minorizzarlo. Altrimenti farebbe uno sceneggiato italiano, tipo “Don Matteo”, per agevolare l’addormentamento. Ma così lungo? Il comma 26 del manuale dello scrittore è che “scrivere un libro è come amare qualcuno: può diventare molto doloroso”. E leggerlo?

Però è vero. Nola non è diventata la nuova Lolita, però è vero che Dicker ha incassato in un colpo quanto Nabokov prolifico non ha incassato in una vita.
Joël Dicker, La verità sull’affare Harry Quebert, Bompiani, pp. 775 € 14

giovedì 4 febbraio 2016

L’amore virtuale è più reale

L’amore oltre la morte. Nell’iperrealtà dell’immateriale (virtuale). Da una storia di Gianni Rodari, “C’era una volta il barone Lamberto, ovvero i misteri dell’isola di San Giulio”, sul lago d’Orta, i luoghi stessi del nocciolo scenografico del film. Allargata alla virtualità elettronica, e-mail, skype, iphone , e all’astrofisica delle stringhe e la particella di Dio. “Una storia di realismo tecnologico”, la vuole il regista, “oltre i sensi”. Ma ne ha fatto una storia ben realista, seppure tecnologica, e ben dentro i sensi.
Uno storione complesso, com’è nelle corde di Tornatore, regista visionario, moltiplicatore di immagini. Ma semplificato. Un’elaborazione del lutto. “Ci occupiamo di stelle morte milioni di anni fa, anzi sono vive per noi perché sono morte”: la filosofia del protagonista, un astrofisico, è il filo della sua vita oltre la morte, la giusta presenza in ogni circostanza, l’assenza che più di tutto pesa. E una storia filosofica (semiologica), sulla consistenza, quasi materialità, della virtualità.
Non del tutto perché i due protagonisti sono reali e hanno una storia reale. Personaggi forti: lui è professore, con una famiglia che lo ama, lei una studentessa, che si paga gli studi facendo la controfigura al cinema, per scene di morte violenta - forse per esorcizzare la morte del padre in un incidente di macchina con lei alla guida. Ma la storia si dipana dopo la morte di lui, tra sviluppi elettronici, di forte impatto emotivo. Sullo sfondo dell’ananke sterile della quotidianità. Nonché degli stessi media tradizionali, compresi il cinema in cui il regista eccelle e l’arte, dell’immaginario sterile – di mercato, di maniera. Immateriali sono le passioni. .  
Giuseppe Tornatore, La corrispondenza

Una conferenza europea sul debito

Il fatto è che “il pil dell’eurozona non ha ancora, 2015, recuperato i livelli del 2007”. In un quadro espansivo dell’economia globale. E il motive è altrettanto incontestabile: “il crollo improvviso” dell’economia dell’eurozona tra il 2011 e il 2013  “fu innescato dal tentativo di ridurre  i deficit troppo rapidamente”. In particolare “con aumenti di tasse tropo radicali”. Thomas Piketty, affronta la debolezza dell’eurozona in un’analisi sulla “New York Review of Books” in uscita che invoca “Un New Deal per l’Europa”.
L’autore del nuovo “Capitale” (“Il capitale nel XXI secolo”) parte dalla constatazione che il Front National, nazionalista, euroscettico, è il secondo partito in Francia e in molti distretti il primo. Non è un fatto isolato, ed è l’inizio della disgregazione. Cui può rimediare solo “una rifondazione sociale e democratica dell’eurozona, intesa a incoraggiare la crescita e il lavoro”.
Piketty parte dall’ovvio: “Abbiamo una moneta unica, con diciannove diversi debiti pubblici,  diciannove tassi d’interesse sui quali i mercati finanziari sono completamente liberi di speculare, diciannove diversi sistemi fiscali in incontrollata concorrenza l’uno con l’altro, senza una rete sociale comune, né standard educativi condivisi. Questo non può funzionare, e non funzionerà mai”.
Hollande, il presidente socialista francese, aveva annunciato nel 2013 la proposta di un Parlamento ristretto all’eurozona e dotato di poteri. Perché non portare avanti il progetto, chiede Piketty? In mancanza di un rilancio, il peggio ancora non si è visto - “altrimenti l’agenda sarà monopolizzata dai paesi che hanno optato per un isolazionismo nazionale – la Gran Bretagna e la Polonia tra essi”. Una “conferenza dell’eurozona sul debito” è comunque necessaria subito, “come quelle che si tennero nel dopoguerra, a beneficio in particolare della Germania”.
Piketty, novello Keynes, ha anche una proposta specifica sul consolidamento del debito: su come e di quanto il debito andrebbe ridotto. Cominciando dallo scremare il debito della parte accesa per sanare la crisi: “In una prima fase, potremmo porre tutti i debiti pubblici eccedenti il 60 per cento del pil in un fondo comune, con una moratorio sul ripaga mento fino a che ogni paese non avrà riagganciato una traiettoria di crescita robusta in confronto al 2007”. Impossibile? “Tutta l’esperienza storica va in questa direzione: sopra una certa soglia, non ha senso ripagare il debito per decadi, anche dal punto di vista dei creditori”. Una democrazia basata su un Parlamento dell’eurozona composta da membri tratti dai parlamenti nazionali, in proporzione alla popolazione”. La proposta si articola poi in pratica in vari interventi, specie fiscali. Wishful thinking? “Se la Francia, l’Italia e la Spagna (circa il 50 per ceto della popolazione e del reddito, contro il poco più del 25 per cento della Germania) proponessero uno specifico progetto e un nuovo ed effettivo Parlamento, un compromesso si dovrà trovare”.

Stupidario romano ter

Tutto nelle cronache romane s’incentra sul giubileo. Si chiudono al traffico venti metri di strada? Per agevolare “i cammini dei pellegrini del Giubileo”. Si aprono le chiese chiuse? Si aprono i camion bar? Tutto per agevolare i pellegrini del  Giubileo -- per lo steso motivo  i camion bar si chiudono. Si intensificano i controlli, o si allentano? Per la sicurezza del Giubileo. Di cui nessuno in città ha cognizione. Nemmeno nelle parrocchie.

Più del Giubileo, però, i camion bar prendono l’attenzione delle cronache romane. Non da ora, da mezzo secolo ormai. Ogni giorno, non c’è scampo: Roma non ha altri problemi che i camion bar.

Forse solo il “Corriere dello Sport” non ne parla – non parla dei camion bar. Ma poi bisogna sorbirsi ogni giorno la demolizione della Roma, la squadra di calcio, in alternativa agli osanna. E della Lazio, la squadra concorrente – con meno animosità, è vero.
Viene il commissario prefettizio a Roma e scopre che il Comune affitta le sue case per niente, e spesso anzi non sa nemmeno di averle. Cosa che si è sempre saputa: è un malaffare al cui sradicamento proprio i precedenti commissari prefettizi, trent’anni fa, si opposero.

Il prefetto commissario di Roma è severo e modesto insieme: la cattiva gestione del patrimonio immobiliare costa al Comune di Roma 100 milioni l’anno, afferma. Sembra molto. Ma per 43 mila immobili e terreni fa 2.325 euro l’anno, 194 al mese.

A fronte della cifra-obiettivo del prefetto-commissario, ipotetica, per la “messa in valore” del patrimonio immobiliare, il Comune di Roma spende 210 milioni ogni anno per immobili. Li spende effettivamente, non li ipotizza: 139 per la manutenzione dei beni di proprietà, 21 milioni di affitti per coprire le “emergenze abitative” (4.800 alloggi), e 51 per ospitare i suoi stessi uffici. 

mercoledì 3 febbraio 2016

La resa dei conti immobiliari nel Pd

È un diversivo dallo scandalo Etruria. E un affondo, all’interno del Pd, del nuovo gruppo dirigente ex Dc contro il vecchio ex Pci. L’indagine del prefetto Tronca sul patrimonio immobiliare del Comune di Roma, dopo un lungo sonno, non ha altro significato.
Hanno riso tutti all’inizio nelle (restanti) sezioni del Pd romano sugli affitti irrisori delle case del Comune. Poi si sono ricordati che non è una novità: la cosa è nota ma non si fa nulla da una trentina d’anni almeno - da quando “il Mondo” pubblicò un primo elenco. E si sono ricordati perché: case, negozi, capannoni e terreni agricoli sono in comodato soprattutto a associazioni, gruppi, onlus sindacali e di partito – anche se le destinazioni d’uso sono cambiate rispetto agli accordi di locazione, spesso pluridecennali..
La questione venne allo scoperto con la giunta Carraro, l’ultima del centro-sinistra prima di Mani Pulite. Fu “incartata” dal Msi di Fini, paladino, anche in anni recenti, degli affittuari. E dal Pci-Pds, che condusse una campagna virulenta contro Carraro, reo di avere avviato un censimento degli immobili comunali, fino allo scioglimento della stessa - come narrato a suo tempo, e richiamato su questo sito ancora cinque anni fa.

Questo censimento non s’ha da fare

Sugli immobili comunali di Roma riproduciamo il testo anti.it di cinque anni fa,
lettissimo all’epoca, ma si vede non abbastanza:

Lo scandalo degli affitti era tipicamente di destra, e implicava gente di sinistra. Ora che al Campidoglio c’è un sindaco di destra, lo scandalo implica gente di destra. È inevitabile: il Comune di Roma è ricchissimo, o potrebbe esserlo, possedendo alcune diecine di migliaia di immobili, in grande parte pregiati, che però non sa o non vuole mettere a frutto. Ma sempre se ne fa uno scandaletto più che uno scandalo, perché poi gli affitti di favore sono legali, se non regolari, e dopo qualche settimana si mette tutto a tacere.
A proposito dell’ultimo, che questo sito ricordava un mese fa,
è utile rileggere quanto se ne poteva scrivere quasi vent’anni fa, a metà ottobre 1993. Si capisce tutto, anche perché Roma non si può amministrare decentemente:
“Un patrimonio immobiliare di almeno 15 mila miliardi, che potrebbe dare un reddito annuo di 600-700 miliardi, invece dei 20 attuali, e mettere le ali al sindaco della capitale che verrà eletto il 21 novembre, è destinato a restare sotterrato, come ogni tesoro che si rispetti. Il Comune di Roma, che con l’ultima giunta eletta, sindaco il socialista Franco Carraro, aveva affidato due anni fa la rilevazione degli immobili al consorzio privato Census, ha sospeso l’appalto. «L’amministrazione comunale possiede le potenzialità per effettuare tale operazione con i propri mezzi, senza pesare sul bilancio comunale», ha scritto venerdì 8 (ottobre 1993) il subcommissario Angelo Canale.
“Census contesterà in tribunale la decisione della giunta commissariale. Ma a questo punto anche il consorzio, composto da Fiat-Fisia (21,5 per cento), Federici (14), Conaco-Lega delle cooperative (10), Fincasa di Renato Bocchi (7,5), Aged (6,) e numerosi altri con quote minori, tra cui Agip, Jacorossi, Ised, ritiene improbabile la ripresa del lavoro interrotto, circa un terzo del programma completo. Non è questa infatti la prima grana nella quale il censimento ha inciampato. Dapprima la contestazione dei concorrenti all’appalto, assegnato per 91,6 miliardi a trattativa privata: i consorzi Italgenco-Unisys e Sogei-Svei-Ras. Il primo sosteneva di poter fare il lavoro per 70 miliardi, il secondo per 45. Mentre il Sipac, il sistema di controllo del patrimonio nell’ambito del Ceu, il catasto elettronico unificato del Comune, affermava di potercela fare esattamente con 38 miliardi e 834 milioni. Poi la magistratura è intervenuta. Il sostituto procuratore Gloria Attanasio, finiana, ha chiesto un anno fa il rinvio a giudizio di Carraro, di nove assessori e del presidente di Census, Luciano Caruso, per abuso d’ufficio, affermando senza mezzi termini che l’appalto era «espressione del regime moribondo». Ma il Gip Antonio Trivellini le ha dato torto. Le argomentazioni del sostituto Attanasio ricalcavano peraltro quelle delle opposizioni di sinistra, che contro l’appalto a Census hanno dato battaglia senza mezzi termini.
“Che cosa resterà del censimento troncato? Non abbastanza per consentire al Sipac di aggiornare la gestione sui valori di mercato. Ma ce n’è più che abbastanza per capire forse perché il tesoro immobiliare è destinato, in una città come Roma, a restare sotterrato.
Anzitutto l’entità del patrimonio stesso. Il Sipac calcola 31 mila unità immobiliari, di cui 27 mila destinate ad alloggio. Census ne ha scoperti 10 mila in più, e ritiene che questa cifra possa raddoppiare. Si tratta di immobili che non sono stati «presi in carico». I comuni, spiega il direttore di Census, Piero Rossetti, «entrano nella proprietà di aree e fabbricati attraverso modalità molto varie, dal lascito della vecchina sola, allo scioglimento di enti di varia natura, all’esproprio per abusivismo». In molti casi gli immobili rimangono semplicemente sconosciuti al Comune proprietario.
“C’è poi, e questo non lo contesta nessuno, una gestione sicuramente inadeguata del patrimonio. Il Comune ricava ogni anno 20 miliardi di lire di affitti, pari a una media di 646 mila lire a unità immobiliare. Una cifra ridicola, considerato che il patrimonio del Comune è ricco sopratutto nel centro storico. In compenso, spende ogni anno 35 miliardi per l'«assistenza alloggiativa», a profughi, immigrati, bisognosi, e 45 miliardi di locazioni passive.
“Caruso calcola che, pur destinando a reddito solo la metà del patrimonio, per conservare all’altra metà un uso sociale, il Comune di Roma intascherebbe sui 300 miliardi, «che darebbero al bilancio un forte attivo e consentirebbero di costruire 3 mila abitazioni popolari l’anno». Né sono da trascurare gli effetti contabili: «Il Comune potrebbe mettere a bilancio un patrimonio di 15 mila miliardi, invece dei 4.750 attuali».
“Un terzo aspetto riguarda le «tipologie fraudolente», che, assicura Rossetti, sono «una miriade»: affitti a persone inesistenti, con conseguente impossibilità di effettuare qualsiasi notifica, subaffitti storici, mancata rivalutazione del canone con gli indici Istat, mancato pagamento delle spese accessorie, sopratutto per l'elettricità e l’acqua, per mancata suddivisione dei millesimi, o per contestazione delle quote millesimali, eccetera. Ma, sopratutto, Census si è imbattuta in situazioni di favore che toccano interessi potenti.
“Il Coni non paga dal 1982 il canone di concessione per l’area demaniale dell’Acqua Acetosa, limitandosi a contestarne il livello. Lo stesso sistema hanno trovato dal 1986, per non pagare, le compagnie petrolifere che occupano il suolo pubblico con le pompe di benzina. Tra gli abusivi e i morosi Caruso denuncia anche gruppi della sinistra che hanno osteggiato il censimento: «I casi di maggiore responsabilità sono stati creati dalle giunte che si sono succedute dal 1975 all'85», cioè dai sindaci comunisti. Un autoparco comprato dal Comune nel 1976 per 35 miliardi, da adibire a rimessa per tutti i propri mezzi, risulta occupato dalla Cooperativa Primo Maggio, che fa capo a un consigliere circoscrizionale dei Verdi, Dante Pomponi, e gestisce, senza licenza, un’autorimessa da 300 posti e un’officina, mentre i mezzi del Comune restano sparsi per 6 o 7 altri autoparchi. A Tor de’ Cenci una tenuta agricola da 600 ettari è occupata per un terzo abusivamente dal 1978 dalla cooperativa di estrema sinistra Agricoltura Nuova.
“Infinita la casistica degli affitti irrisori a vantaggio di singoli privati. Negozi a Via Condotti, a piazza di Trevi, a piazza Navona, dove gli affitti vanno dal milione a metro quadro in su, che pagano sui due milioni l’anno. Appena quattro volte di più paga il ristorante Panzironi, che occupa un lungo pezzo di Piazza Navona. Mentre il ristorante per turisti Ciceruacchio, che fa centinaia di coperti al giorno, risulta accatastato, perlomeno fino a qualche mese fa, come scantinato”.
Della dottoressa Attanasio non si è più saputo nulla. Il commissario Canale è invece entrato poi in politica col Pds-Ds, e si è candidato a Roma.

Letture - 245

letterautore

Autore – L’Autore s’impegna
Per la cuccagna
E un po’ anche per la fregna.

D’Annunzio – Ambiva a essere musicato, e per questo attaccò Mascagni, il principe in quel Fine Scolo dell’opera in musica, bollandolo “velocissimo fabbricatore di melodramma”. Da critico del “Mattino” s’ingegnò di far cadere nella stima il grande successo de “L’amico Fritz” al debutto a Roma, il 31 ottobre 1891, al teatro Costanzi ora dell’Opera, un anno dopo lo strepitoso successo nello stesso teatro della “Cavalleria rusticana”, l’opera del debutto. Vantandosene poi con Barbara Leoni: “Con una propaganda quasi feroce, credo che ebbi una parte non lieve nella caduta di quella grossolana opera”. Una soddisfazione maggiore perché, con le sue mene, “castigo inflitto a un artiere bestiale dallo stesso bestiale pubblico che lo levò agli astri alcuni mesi fa”.
Non riuscì a impedire però la rappresentazione dell’“Amico Fritz” a Napoli un anno dopo, il 2 dicembre 1892, ma recidivò l’attacco, con un articolo intitolato “Il capobanda”.
L’avvicinamento sarà operato per il tramite di Scarfoglio, e sul finire del decennio lo stesso Mascagni, commosso dalle insistenze, proporrà a D’Annunzio un trittico patriottico, “Trilogia Italica”. Che però D’Annunzio, ora impegnato in teatro con la Duse, lascia cadere. Ancora un decennio e la collaborazione si materializza per “La Parisina”, 1.400 versi di D’Annunzio. Un’opera “ineseguibile”, giudica Mascagni, troppo lunga, che comunque ci prova, e anzi si trasferisce vicino Parigi per facilitare i contatti con D’Annunzio. Che però, già musicato da Debussy e in contatto con Stravinskij e Pizzetti, non è più interessato e non si scompone nemmeno quando l’opera crolla alla rappresentazione.

Dante - È europeo, anzi “l’europeo”, altro che islamico. È lui stesso il suo Ulisse un po’ Odisseo, errante per sete di conoscenza. Che la conoscenza – il mondo – racchiude nel libro. Alla fine della “Commedia”, quando vede in Dio l’universo, lo vede in forma di libro: “Nel suo profondo vidi che s’interna,\ Legato con amore in un volume,\ ciò che per l’universo si squaderna”. Volume, legato, quaderno.
Un mondo non chioso in sé, come nell’islam, e compiaciuto, che santifica il facile masochismo (il martirio) ma curioso, e sempre in gioco.

Misasi – Si chiama Nicola, uno dei tanti del secondo Novecento che sopravvivono solo nel censimento di Croce. Fu attivo in gioventù a Napoli e a Roma. In contatto con i nomi blasonati del 1880-1890: Matilde Serao, Scarfoglio, Di Giacomo, Carducci, D’Annunzio, Fogazzaro, Verga, Capuana, con l’editore Sommaruga, con le riviste in voga, “Cronaca bizantina” e “Fanfulla della domenica”.  Fu autore di molte opere, almeno una cinquantina, nessuna che si ricordi.
Ebbe nel 1888, al concorso Sonzogno per un’opera musicale in un atto, l’occasione per diventare celebre. Mascagni, giovane compositore livornese in cerca di gloria (veniva dalla direzione della filarmonica di Cerignola…), chiese un libretto al poeta suo conterraneo Giovanni Targioni Tozzetti, proponendogli “Marito e sacerdote”, una novella di Misasi. Targioni Tozzetti accettò, ma poi suggerì una novella di Verga, “Cavalleria rusticana”.

Novecento – Si potrebbe dire il secolo della barbarie. Per le dittature, gli stermini, le guerre  totali, le rese incondizionate. Per la storia insomma. Ma più per un bizzarra ma non peregrina osservazione di Vitaliano Brancati, lo scrittore,  nel pieno del secondo conflitto mondiale (l’elzeviro “Due viaggi”, pubblicato dal “Corriere della sera” il 15-16 marzo 1943, ora in “Scritti per il «Corriere» 1942-1943!”, a cura di Giulio Ferroni). A proposito del Duecento, secolo invece fertile: “I veri barbari erano più numerosi che nel ‘900, epoca di amori sviscerati per l’uomo primitivo, ma in nessuna testa di europeo si trovava, come nel ‘900, la retorica della barbarie, l’esaltazione della barbarie, etc.. L’uomo di azione sognava di diventare un uomo colto, e l’uomo colto non rimpiangeva mai di non essere un uomo d’azione”.
La retorica della barbarie. Con un codicillo che non lascia dubbi: “(la barbarie medievale ha rinsanguato il nostro continente: nessuno può negarlo. Ma il Medioevo è fatto di barbari che vogliono incivilirsi e non di uomini inciviliti che vogliono diventare barbari!)”.
Già il Colombo di Leopardi è stanco, viaggia per noia – nel Cinquecento forse non, ma sicuramente nell’Ottocento la trasformazione è avvenuta: quel Colombo non ha nulla a che vedere col vero ma così è per il poeta, che è l’uomo per antonomasia del libro – della ricerca, della scoperta.

Omero – Viene letto a ritroso, carico dei valori e le sensibilità successive: romantiche, eroiche, genealogiche (imperiali), occidentali. Per un ruolo di anticipatore che senz’altro ha avuto e ha – l’autore è creatore. Ma eludendo o disperdendo molti manifestazioni di altra sensibilità, che invece lo arricchiscono. L’onore sempre di Troia sopra gli Achei, Ettore e il fratello Paride (la disgrazia), Ulisse e Diomede. Anche le vicende che sembrano più classiche, assestate: Ettore e Achille, Achille e Patroclo. Achille e Patroclo. Achille e Ettore.
Simone Weil lo legge nel contesto, e anche quello è sorprendete, dell’ “Iliade” come poema della forza – non della patria, la libertà, la civiltà, l’Ellade, l’Occidente.

Presenza scenica – Ora è magra. Un tempo era la voce, la gestualità, anche l’imponenza.  Oggi è la silhouette e la statura – la voce ce l’hanno tutti, più o meno educata, il do di petto non va più e quindi nemmeno la cassa toracica, la dizione e il portamento s’imparano in poche lezioni. La soprano americana Lisette Oropesa il “New York Times” al debutto al Metropolitan Opera ha definitori “magnetica presenza scenica”, e cantante di “grazia fresca e incantevole lirismo”. In effetti Lisette sfila sul palco a Santa Cecilia eretta sui tacchi dodici, magra naturale, svettante, e non avrebbe bisogno di cantare Fauré. Dietro a lei, altrettanto magro e altrettanto alto, il baritono Priante. Il maestro Pappano che li segue, e a cui si deve tutto l’incanto di Santa Cecilia, sembra un servo di scena.

letterautore@antiit.eu

Il monaco al bordello

Pasquale Di Palmo resuscita Huysmans. Vecchia gloria poi dimenticata, il creatore di Des Esseintes nell’estenuato “À rebours”, a ritroso o controcorrente (tradotto in inglese “Against Nature”, contro natura): l’esteta decadente, mezzo satiro e mezzo monaco, fra droghe distillate e fantasmi carnali, modello di tre-quattro generazioni di adolescenti, l’ultima ancora vivente - a partire da Oscar Wilde, e incluso D’Annunzio benché già adulto. Dopo essere stato naturalista, membro fondatore del gruppo di Médan, con Zola, Maupassant (cui è dedicato uno degli scritti del volumetto), e in parte i Goncourt (idem).
Huysmans finirà monacale, come era nella natura ambivalente di Des Esseintes, tra una vita di don Bosco e una rivendicazione dei miracoli, “Le folle di Lourdes”. Ma aveva vena complessa di scrittore, attento a un fraseggio sempre in vario modo accattivante. E antenne aperte sulle pieghe della realtà e la sensibilità: il satanismo e l’immaginazione (farà in tempo a essere un’icona del surrealismo prima di finire bigotto), oltre al naturalismo e all’estetismo  Più ironico (distaccato) che impegnato. E con un senso acuto – eccitante e colpevole – del peccato.
Queste prose brevi, tratte dai “Crocquis parisiens”, non tradotti, sono l’altra faccia del minuto quotidiano (“Il mercante di marroni”, “Il parrucchiere”), l’immaginazione in fuga (“L’ossessione”), la deriva lasciva che più spesso lo accompagna: “L’ascella” e “La secca” sugli afrori e i turgori della parigina, “La venditrice ambulante” e “La lavandaia” sull’attrazione-repulsione del puttanesimo, “Damiens” sulla sua propria incapacità di altri amori che mercenari.
Damiens è l’attentatore di Luigi XV – “quell’uomo che aveva così puerilmente tentato di sopprimere con una  punta di temperino un re” -  finito squartato vivo. Lo scrittore si vede riflesso, “spaventoso spettacolo”, sul letto seminudo dopo l’atto, come Damiens in un’incisione intravista in una vetrina, del momento prima dell’esecuzione. Lui stesso, “attraverso quattro diverse riflessioni, squartato in qualche modo”: per la “bassa concupiscenza”, per la “disillusione immediata del desiderio”, per “il rimorso penitenziale dei soldi versati”, per lo “sgomento espiatroe che lasciano, una volta commessi, i fraudolenti misfatti dei sensi”. Il monaco al bordello.
Joris-Karl Huysmans, L’ossessione, Via del Vento, pp. 33 € 4

martedì 2 febbraio 2016

Problemi di base - 263

spock



Ce la farà padre Pio a Roma a risuscitare il Giubileo?

Come farà ora la Turchia, novello paese islamico militante, con tutte quelle statue, greche e romane?

Quanto dobbiamo credere alla Cia e all’MI 5 che fanno di Putin un avvelenatore, un corrotto e un arricchito (manca la prostituzione minorile)?

Perché non si possono fare film sulla giustizia italiana, sui giudici astuti, sulle loro polizie, se non in forma di santini?

Perché in America sì e in Italia no?

Se la popolazione è di 7 milioni e mezzo d’infanti (0-14 anni) e 11 milioni di ultrasettantenni, perché ci sono solo pediatri e non geriatri?

Perché le donne si appassionano per Grey e le sue “sfumature” – anche in tv, sfidando il movimento dei genitori?

spock@antiit.eu

Zitti e mosca, altrimenti Berlino s’arrabbia

“Da Berlino è arrivato il consiglio di lasciar perdere. Se non si volevano evitare nuovi dubbi sulla solidità finanziaria dell’Italia”. Una minaccia? Sì. Di fronte all’obiezione ovvia - per esempio anche su questo sito -
http://www.antiit.com/2016/01/la-patria-della-speculazione.html
- perché la Banca d’Italia si oppone oggi alle norme Ue sul bail-in e non l’ha fatto tre anni fa, quando le norme si precisavano, la risposta arriva ufficiosa sul “Corriere della sera”. Ci siamo opposti, fa dire la Banca d’Italia, ma la Germania ci ha minacciato.
Torna la Germania”lurca”? Non sembra possibile, ma considerata la germanofilia del giornalista (Fubini) e del giornale, non si può mettere in dubbio: la Germania minaccia l’Italia. Minaccia una “nuova” crisi, cioè, dopo quella del 2011. Non con toni forti, come matter-of-fact: zitti, o altrimenti. Toni comunque totalitari: l’Italia proponeva solo la gradualità delle nuove norme, per preparare mentalmente i risparmiatori, e la non retroattività – la non applicazione ai titoli già emessi. Niente da fare, c’è stato solo da obbedire: non si discute e basta.
La prima applicazione delle nuove regole è stata peraltro ristretta alle quattro banche italiane. Non alla tedesca Nordbank, anch’essa praticamente fallita, che invece: 1) ha potuto beneficiare di nuovo capitale pubblico, 2) senza penalità per i correntisti-risparmiatori. Un trattamento speciale anch’esso d’autorità, per motivi che non sono mai stati detti. Il salvataggio Nordbank è più grande del fallimen to di tutt’e quattro le banche italiane insieme.

Stupidario europeo quinquies

Basterebbe aprile la frontiera terrestre tra Turchia e Grecia e molte centinaia di profughi, anche i bambini, avrebbero la vita salva, se non altro. Perché non si fa: per favorire la tratta degli scafisti?

Bruxelles dà tre miliardi di euro alla Turchia per i profughi, ma non vuole riconoscere come spesa straordinaria e necessitata i tre miliardi che l’Italia impegna ogni anno da un paio d’anni per l’accoglienza agli immigrati. Non “dare” tre miliardi all’Italia, ma consentirle di defalcare la spesa dal disavanzo di bilancio.

Parla Renzi, che comunque è un presidente del consiglio, risponde Bruxelles con dei portavoce che sono poco più che impiegati.

I tre miliardi alla Turchia, e così pure il tono e i tempi di portavoce e direttori generali, sono quelli dettati da Berlino. Che non capisce l’autogoal, o lo vuole? Sembrerebbe che  cristiano-democratici di Angela Merkel vogliono erigere un piedistallo solido a Matteo Renzi, che invece è un socialista-progressista.

È stato detto no alla Turchia nella Ue quando si presentava come un paese europeo, nei diritti di libertà e di religione. Si vuole ora la Turchia finanziata a fondo perduto e possibilmente membro della Ue, ora che è soggiogata a un regime illiberale e anzi totalitario, con carcerazione e condanne arbitrarie, a centinaia. Anche questo per volontà di Berlino, prima il no poi il premio e l’invito..

Come poteva essere bella Israele

Una foto della brochure di Oz che accompagna il film mostra Gaza prima della guerra dei Sei Giorni: un giardino con bei palazzi. Una Israele e una Palestina come avrebbero potuto essere? Di cui il film documenta la cancellazione in quella guerra. “A Gerusalemme, dove sono cresciuto, mi sento straniero in una città straniera”: è la confessione più drammatica che il film riporta, di un Amos Oz trentenne subito dopo l’occupazione – uno stato d’animo personale e non politico, non orientato in base a un’appartenenza, in una dialettica.
La “liberazione” della Città Vecchia? No, è un’“occupazione”, si dicono gli amici e conoscenti di Amos Oz poco dopo la guerra. A Gerusalemme c’era la Città Vecchia, si sapeva che c’era, ma senza nessuna urgenza di sapere cos’era, o di appropriarsene. Il monte del Tempio, il Muro Occidentale? Nessun ebraismo ne aveva decretato la sacralità, l’ebraismo non ha luoghi sacri. Questo era Israele prima della grande mutazione successiva ai Sei Giorni: quando il raddoppio del territorio, con Gerusalemme e la Cisgiordania, attirò la diaspora africana e mediorientale, mutandone la natura, mutando la natura del sionismo, che era nazionale e anche socialista.
La “liberazione” è stata peraltro seguita subito dall’evacuazione dei civili, cioè degli arabi. Non per proteggerli dalla guerra, che era finita, ma per privarli delle loro case, della città, della vita. Un piano già particolareggiato, è chiaro, dello Stato maggiore, che rimanda al peggiore Novecento: all’occupazione nazista dell’Europa orientale, e poi a quella sovietica delle stesse zone, già sperimentata da Graziani in Africa, e ripetuta dal generale torturatore Massu dieci anni prima in Algeria.
Amos Oz, richiamato trentenne alla Guerra dei Sei giorni col grado di tenente, ne tornò turbato: “Il 5 giugno combattevamo per le nostre vite, il 10 mi sono ritrovato a occupare la Cisgiordania, Gerusalemme, e il Sinai”. Il blitzkrieg di Dayan, che il film ricorda solo in un’immagine, pochi secondi, un’istantanea, fu uno strepitoso successo militare. Ma proprio per questo turbò i vecchi israeliani, portati a vedersi in difesa e non come conquistatori. Questi israeliani del film, quelli dei kibbutz, un patrimonio sociale e culturale ormai disperso e ininfluente.
Subito dopo la guerra il Movimento socialista dei Kibbutz commissionò a Oz e al coetaneo Avraham Shapira, storico, allievo di Martin Buber e Gershom Scholem, una celebrazione dei caduti. Oz ebbe l’idea di raccogliere le testimonianze di commilitoni e conoscenti, e con Shapira la mise in pratica, realizzando duecento ore di registrazione, con circa quattrocento testimonianze. Raccolte tutte nei kibbutz, e perciò riflessive, anche perplesse, quando non critiche. La censura militare ne bloccò la pubblicazione, limitando la parte utilizzabile a circa un terzo: le testimonianze di vita, senza i dubbi e le critiche, se non per la parte concernente Gerusalemme (l’opportunità dell’occupazione della città Vecchia, e se non era opportuno restituirla agli arabi).
Col materiale disponibile Shapira compilò “Il Settimo Giorno”, un libro di 268 pagine, pronto a ottobre, tre mesi dalla fine della guerra. Che diventò un caso editoriale: 150 mila copie vendute in Israele (tre milioni di abitanti all’epoca), con traduzione in inglese, francese, spagnolo, tedesco, svedese, arabo, yiddisch. Poi fu dimenticato, così come ogni altra voce discorde sulla guerra. Il materiale raccolto da Oz e Shapira restò depositato al Movimento dei Kibbutz.
Caduta la censura, la regista Mor Loushi, 33 anni, all’attivo “Israel Ltd.”, un film sui giovani immigrati finanziati dalla Jewish Agency, ha convinto Shapira a riutilizzare le registrazioni e ci ha montato sopra un docufilm: filmati d’epoca, alcuni inediti, accompagnano le testimonianze sonore.
Un atto di giustizia, non di compassione. Tutto interno a Israele stessa. Rivolto a Israele e alle tre generazioni che si sono succedute dalla guerra lampo e possono non sapere. Che Oz sapeva già, subito dopo la guerra, che avrebbe urtato la “verità nazionale”. E tuttavia è stato proiettato nei cinema commerciali l’estate scorsa: non ha riaperto la questione, ma non è caduto nel nulla.
 “Nessuno è tornato felice dalla guerra”, dice qualcuno, ed è la traccia della ricostruzione. Lo spirito di avventura è finito presto, forse la notte stessa prima dell’attacco. Qualcuno ha visto abusi intollerabili, nel Sinai, nel Golan: soldati disarmati e civili abbattuti senza necessità, a tiro ravvicinato, anche a tiro singolo, con la pistola alla testa. Qualcuno ha subito al primo attacco un trauma non componibile: “Nel mio reparto in pochi minuti erano morti 45 soldati. Non sapevi chi,  come…”. Nessuno ha riportato la sensazione netta di un dovere compiuto, senza turbamenti. Non fosse altro, per lo spaesamento comune al soldato al fronte, faccia al nemico che non conosce.
“Avevo l’impressione che non fossero nemmeno umani” – è il ricordo di chi ha marciato sul Sinai, conquistato in ventiquattro ore, praticamente senza resistenza degli egiziani, che più che altro erano sorpresi, e sopratutto volevano arrendersi.
Il filmato si arricchisce di un “com’eravamo” commovente e esilarante di Oz. Che come sempre celebra nostalgico la sua Gerusalemme, dove è nato nel 1939. Da genitori variamente emigrati, dalla Russia alla Polonia e in Israele. Sempre e comunque indefettibilmente europei. Come tutti i parenti e conoscenti. Anzi, gli unici “europei d’Europa”, mentre gli altri si dividono per etnie. – detto per celia, ma non senza fondamento: tre tribù in Cecoslovacchia, nove in Jugoslavia, tre in Gran Bretagna… Con un padre “in grado di leggere sedici o diciassette lingue”, undici delle quali parlava correntemente, “sebbene con un forte accento russo”, e la madre sei o sette. Oz è deluso, e il ricordo scherzoso conclude amaro: “A dove apparteniamo, dunque? Forse non apparteniamo affatto”.
Criticato e anche osteggiato, Oz non rinuncia a chiedere la pace, “un compromesso”. Prova anche a svelenire l’impasse odierno. Sintomatico vuole l’aneddoto, che racconta lungamente, della notte prima dell’attacco. Una lite continua al campo, tra generali, ufficiali, graduati e soldati semplici del reparto, su ogni insipido argomento: in Israele piace litigare. Ma della sua operosa vita, più lunga di quella di Israele, deriva solo incomprensioni e delusioni. Tra queste quella di aver perduto la sua città. La sua Gerusalemme non riconoscendo più in quella post-1967, abbattuta e accresciuta. Un tempo e una città in cui le tribù e le fedi convivevano, sebbene fossero del tipo esclusivo, che ognuno pensava di averne l’unica: “In ogni quartiere si pregava in modo diverso, si parlava una lingua diversa, e ci si abbigliava diversamente”. Però “comunicavano”: una città a più anime, non in guerra.
Amos Oz-Mor Loushi, Censored voices, film-dvd, Feltrinelli € 13,90

lunedì 1 febbraio 2016

Il mondo com'è (248)

astolfo

Dipartimento di Stato – È in realtà il Pentagono, con l’annessa Cia e i servizi d’informazione militari. Gli Usa sanno solo fare la guerra, e anche quella solo con le armi pesanti, aerei e missili. Impazienti, forse ostili, con la lunga trattativa europea per una composizione politica della guerra civile in Libia, hanno ultimamente proposto un loro piano: militare. In Siria, dove l’intervento militare è – dopo l’Iraq – impraticabile, non hanno idee né proposte per una soluzione negoziata.

Europa – Se ne moltiplicano i ritratti e gli elogi – come sempre fa chi si vede decadere, quando non resta che l’orgoglio dei quattro quarti, o benevolmente di qualcosa che si vede decadere. Brancati poteva ancora celebrarla con verità, nel pieno della guerra che pure volgeva alla sconfitta, nel 1943 (nel racconto “Due viaggi”, ora in “Scritti per il «Corriere»1942-1943”): “La qualità di europeo consiste soprattutto nel desiderio d’incivilirsi e incivilire, di rendersi conto,  di camminare e correre”. Non per sudare ma per scoprire. Già nel Duecento “l’Europa era nel pieno del suo vigore, fedele alla propria indole, ferocissima nel mettere in pratica  il suo maggior compito. Da pochi anni, aveva reso intellettuale perfino Dio (“Luce intellettual piena d’amore”), cambiato i barbari in paladini, il furore in virtù,  e immaginato un paradiso nel quale la massima gioia era il comprendere”.

Grecia – Se ne fa, con argomentazioni levantine, un mondo levantino. Di false rappresentazioni, e insomma di imbrogli. Mentre l’identità tra il discorso e il pensiero è una delle tante novità introdotte dalla cultura greca, anche prima di Socrate – la maggiore anzi. 

Guerra umanitaria – Le guerre intitolate ai diritti umani saranno state il maggior veicolo di disordine e conflitto dacché si propugnano. Alla Somalia, la Serbia (l’irredentismo in Kossovo non avrà mai termine), l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria. Si è attentato anche al Libano, che però, levantinamente, ha resistito, mettendosi coi suoi stessi nemici, interni ed esterni – sempre meglio dell’intervento “umanitario” di Francia, Usa etc. Condotte dagli Usa, seppure per conto dell’Onu, risentono dell’incapacità americana di calarsi nelle situazioni locali. Già dimostrata in Vietnam. Un sola guerra di liberazione gli Usa hanno saputo condurre: in Europa, dove Stati  già solidi esistevano, che in parte si sono liberati da sé medesimi. E in una certa misura anche in Giappone e in Corea, culture antiche e società per lunga tradizione.

Inghilterra – Quando non ha un nemico forte l’inglese è un fascistello: Dresda, Falkland, Serbia, Iraq. Tutto guardando colò metro della superiorità. È buon soldato,  disciplinato, anche se poco combattivo. E ha la fortuna di non aver mai perso una guerra, avendo evitato molte di quelle perse (India, Africa, Suez compresa, Palestina) Ma se il nemico non lo intimorisce, perde il senso del limite – fa anche dei suoi Himmler degli eroi.

Ha predisposizione e quasi amore per lo spionaggio, attivo e passivo. Ha anche i migliori scrittori del genere. Ma contro certi nemici e non altri. Non contro la Germania, malgrado le due guerre. Sì, sempre, contro la Russia. Oggi con gli avvelenamenti, di Yushenko e di Litvinenko, presi pari pari dai suoi romanzieri. E con la corruzione dei suoi plutocrati – che però ospita e protegge. Con la stessa Russia del resto continua a fare affari, più e meglio di qualsiasi altro paese occidentale – non ne fa abbastanza? Paga per questo, investe nello spionaggio, in forma ludica,  viaggi, bevute, mangiate, ma anche in dossier e macchinari.
Da ultimo prende di mira i potentati arabi, su cui ha sempre glissato, per tutto il Novecento e buona parte di questo quindicennio. Ha avuto l’agio di farne i governi fino a recente, a circa il 1970, negli Emirati del Golfo, in Iraq, fino al Al Bakr e poi Saddam Hussein, in Libia con Gheddafi. Gli “indizi” del recente deficit di democrazia di quei potentati vengono dalla City?

Opinione Pubblica – La dittatura del “si”, la diceva Heidegger: “si dice”, Accanto ai trattati classici di Lippmann e Habermas, il contributo maggiore potrebbe essere quello di Heidegger, il “filosofo del secolo”, del Novecento. Non in un trattato apposito ma qui e là nella sua opera principale, “Essere e tempo”. Dove molto fa il caso della Öffentlichkeit di Habermas, l’opinione pubblica - anche “pubblicità”, da distinguere però dalla reclam, puramente commerciale. Ne fa la critica, liquidandola come “la dittatura del si” indeterminato: l’opinione pubblica come una falsa trasparenza, poiché si riduce a pensare e affermare quello che un indistinto “si” pensa e afferma.

Heidegger detestava giornali e tv, che non praticava, ma me ha fatto un uso calcolato. Specie a futura memoria, ha dimostrato molta intelligenza dei media, e la capacità di usarne. Nella tempistica, e nei toni giusti per ogni – anche se rara – uscita pubblica. Soprattutto nella preparazione del lascito. Con l’intervista “postuma” allo “Spiegel” e quella in tv dai toni concilianti per gli ottant’anni nel 1969. La strategia di pubblicazione della sua opera omnia, messa a punto quattro anni prima di morire, e sancita l’anno dopo in una riunione “notarile” con la moglie, i figli e gli editori, è mirata soprattutto sull’effetto glamour. Con la raccolta o la riproposizione, scaglionata nel tempo, di testi in vario modo scandalistici. Da ultimo i “Quaderni neri”, suddivisi in “Riflessioni” e “Note”, un paio di migliaia di pagine da editare secondo criteri pubblicitari, di maggiore impatto sull’opinione.

È la famigerata doxa di Platone, come opposta alla verità, alle idee. Ma “la parola doxa”, attesta Hannah Arendt, che sapeva il greco come il tedesco, “non significa solo «opinione» ma anche «splendore» e «fama». In quanto tale si riferisce al campo politico, la sfera pubblica, in cui ciascuno può apparire e mostrare chi egli sia”. Lo stesso Socrate, volendo filosofare la politica, o meglio politicizzare la filosofia, “si era trasferito nella piazza del mercato, nel bel mezzo delle doxai, le opinioni”.

Terrorismo – È il mondo dei solitari, in quanto “esclusi dal mondo. Effetto dell’abbandono,  della rivolta. Era l’analisi di Hannah Arendt in epoca non terroristica, “Ideologia e terrore”, del 1953 (poi incluso come capitolo finale della seconda  edizione di “Le origini del totalitarismo”. Di fatto è un attività di gruppo, di bande, ma fra “abbandonati dal mondo”, fra lupi solitari.

Velo – Si filosofa (in Francia, dopo il ripudio), si fotografa artisticamente, si estetitzza, si sensualizza (in Iran), e non si dice l’essenziale: che è un obbligo imposto alla donna. Non per evitare le spese del parrucchiere ma per nasconderne il viso e le fattezze. Per farne un oggetto invece di una persona. Una piccola parte dell’obliterazione della donna, n famiglia, in società e nel diritto.

astolfo@antiit.eu

L’impossibilità di essere, a sinistra

Si parla dei socialisti, ma in filigrana emerge il disfacimento del Pci. Protervo. Velenoso. Non per il crollo del Muro ma per la sua propria pervicace opera di distruzione di ogni altra forza progressista. Che approderà infine, con Veltroni, al suo proprio dissolvimento.
Nel 2008 Veltroni liquida quello che resta del partito Socialista. Apparentandosi solo Di Pietro. Ma nello stesso tempo annienta il suo proprio partito nel Pd, di cui ciò che resta non è di sinistra – l’esito è un’altra accezione del “caso Italia”, un paese dove la destra si nega, e la sinistra arde di dissolversi (arrivava al 46 per cento del voto).
Correr fa una ricostruzione minuziosa di questo autoannientamento, elezione per elezione. L’operazione Mani Pulite è remota, e non molto pulita. Ma sempre nuova, rinnovata, è l’impossibilità di essere a sinistra. Campo della faziosità
Il racconto dei socialisti è quello di una deriva. Forse inevitabile. Non solo per il fuoco di sbarramento dei giudici, che fecero pagare al Psi il referendum sulla responsabilità civile. Dopo Craxi, il Psi si è in pratica autodisciolto, anch’esso. Anche perché la politica aveva cambiato natura e segno: dei 5-6 milioni di voti che il Psi raccoglieva, la metà sono andati al centro-destra di Berlusconi, e la metà dell’atra metà nell’astensione.
Ma il titolo non mente, e il sottotitolo: “I socialisti italiani dopo il 1993”. Correr fa una ricostruzione per il futuro storico. Clandestina, dai i tempi, ma prima o poi utile. Una ricerca e una messi in quadro, congresso dopo congresso, elezione dopo elezione, con i (pochi) riflessi nei media, di cosa è stato il partito Socialista dopo Mani Pulite: tante sigle e poche idee. Poco tempo anche per farsele venire, dovendosi per lo più difendere: l’idea socialista della politica ha avuto vita travagliata nel ventennio abbondante della Seconda Repubblica, sotto i colpi dei Pci-Pds e del Msi-Sn coi loro giudici prima, poi del democratismo alla Veltroni, con la cancellazione di ogni caratterizzazione sociale, da ultimo con la rottamazione, generazionale e ideale.
Un racconto, a ripensarci, che si potrebbe rifare di ogni forza politica in Italia, e di ogni politica.
Carlo Correr, Una lunga marcia, Nuova Editrice Mondoperaio, pp. 300 € 14 

domenica 31 gennaio 2016

Stupidario giornalistico

Una dozzina di liste si contende il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’Inpgi, piccolo istituto di previdenza dei giornalisti. Forse perché il presidente si paga una retribuzione di 260 mila euro anno. Superiore a quella del presidente dell’Inps.

Il “Corriere della sera” paga una collaborazione a Roma 10 euro, lorde.
“Il Tempo” la paga 8 euro, lorde.

Non si fanno contratti giornalistici da un quinquennio. Mentre si moltiplicano le testate, cartacee e online, l’Inpgi ha perduto negli ultimi cinque anni  il 15 per cento degli iscritti: tremila contratti giornalistici sono stati cancellati – pensionamenti senza sostituzione, prepensionamenti, licenziamenti, E la cassa integrazione, esaurite la solidarietà, etc, è aumentata del 300 per cento.

Si sono fatti 200 nuovi contratti giornalistici nel 2014 grazie a un fondo speciale della presidenza del consiglio – Luca Lotti. E 500 nel 2015 con gli sgravi fiscali previsti dal jobs act. Ma nel complesso l’Inpgi ha perduto nell’ultimo quinquennio il 15 per cento degli iscritti.

Le innumerevoli facoltà di Scienza dell’Informazione e gli innumerevoli Corsi di formazione epr giornalisti previsti da una legge del 2011 sfornano ogni anno diecine di migliaia di giornalisti senza sbocco. La professione conta poco più di 19 mila attivi. .