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sabato 22 gennaio 2022

Ombre cinesi

Fra i 200 e 300 milioni di cinesi, lavoratori immigrati dalla campagna, non hanno la certificazione “hukou”, la residenza. Senza la quale non hanno diritto a scuola, medico, ospedale, non possono comprare casa, non possono registrare l’automobile. Poco meno della metà, sui 100 milioni, sono giovani, figli o nipoti di contadini migranti, che continuano a non avere la residenza. Ogni anno tra i 6 e gli 8 milioni di cinesi affluiscono in città come sottoproletariato urbano.
L’hukou è un lascito di Mao, che lo istituì nel 1958 per legare i contadini alla terra, la campagna intendendo solo come salvadanaio per il “Grane Balzo” industriale nelle città. Con la liberalizzazione dell’economie e la produzione crescente di massa per il mondo intero, a partire dagli anni 1980, della Cina fabbrica del mondo, il sistema vincolistico non ha più avuto effetto dissuasivo, i contadini sono emigrati lo stesso.
Il rigido sistema maoista, ora sotto revisione, è stato eroso progressivamente, dapprima a livello locale. Nel 1986 la provincia orientale di Anhui, a ovest di Shangai, mise in vendita delle “carte verdi” per i migranti interni. Nel 1993 Shangai regolarizzò i migranti in grado di comprare casa, con il cosiddetto “timbro blu”. Su scala nazionale se ne cominciò a discutere a fine Novecento. Ma solo da pochi anni si è cominciato a regolarizzare i migranti. Dapprima, 2014, nelle città piccole. Dal 2018 nelle città medie. Dal 2019 nelle città fra uno e tre milioni di abitanti – le città maggiori allentavano le restrizioni.
Si calcola che tra il 2014 e il 2020 i migranti senza residenza sono diminuiti da 242 a 210 milioni. L’afflusso resta costante, malgrado la pandemia, di nuovi migranti in città, tra i sei e gli otto milioni l’anno.
 

Cronache dell’altro mondo – presidenziali (166)

Il presidente Biden celebra il primo anno di attività con un video, raccontato da Tom Hanks.
 “In undici mesi Biden ha fatto più con 50 senatori democratici di quanto fece Barack Obama con 57”, cioè con una maggioranza solida al Senato - David Frum, repubblicano, collaboratore del presidente Bush jr.. Ma il suo indice di accettazione o popolarità è fra i più bassi, per un presidente americano a un anno dall’elezione, al 42 per cento. E meno della metà dei Democratici lo vede ricandidato per un secondo mandato.
Nel primo anno di Biden Wall Street ha fatto molto meglio, quasi il doppio, che nel primo anno di Trump: l’indice S&P 500 è cresciuto del 37,4 per cento, contro il 21,3 di Trump. Benché nello stesso anno l’inflazione si sia gonfiata a livelli pericolosi, tali da indurre ad horas a una stretta monetaria.
Biden, vecchio senatore, da quasi cinquant’anni, trova problemi al Senato, pur avendo il suo partito, il partito Democratico, una sorta di maggioranza relativa dei seggi, 50 su 100. Due dei 50 senatori democratici, Manchin e Sinema, votano abitualmente contro di lui.
L’intervento di Biden sulla pandemia da covid, con l’obbligo di vaccinazione sul luogo di lavoro e per i dipendenti federali,  è stato bocciato dalla Corte Suprema in quanto la sanità non è materia federale ma dei singoli Stati.
La proposta di una legge federale, uguale in tutti gli Stati Uniti, sui diritti di voto, anch’essa di origine presidenziale, è stata bloccata dai senatori Manchin e Sinema col sostegno alla pratica del filibustering, l’ostruzionismo parlamentare, che il progetto di legge presidenziale escludeva su questa materia.
Il New Deal di Biden, con cui aveva inaugurato la presidenza, il piano di rifacimento del tessuto infrastrutturale, Build Back Better Act, già dimezzato dal Congresso nei progetti di spesa, è ora soggetto a spezzettamenti, per settori e “priorità”.

Contro i pidocchi dell’animo

Gli ulivi della Puglia, aggrediti dal pidocchio, contro il quale nessun insetticida incide, fanno da controparte, rocciosi, millenari, rinsecchiti, a una ragazza fresca di studi di agronomia, figlia disciplinata, nipote amorevole, e determinata. A trovare l’insetto in grado di aggredire il pidocchio. Quando pensa di averlo trovato, il padre ha dato in affitto i terreni, “sono tre anni che non producono niente”, a “persone che sanno”. Che ne fanno la discarica notturna di rifiuti industriali velenosi.
Una trama semplice per un racconto di atmosfere. Notturne per lo più. Scandite con lentezza. E di un mondo che è molto meridionale – affettuoso ma di nessun civismo, chiuso e cupo per i giovani, passivo più che rassegnato - e molto femminile: di complicità e di volontà, di iniziativa. Di immagini notturne per lo più, grigie, di un mondo che si ritrae e si fa abbandonato. Misteriosamente attraenti: all’ombra delle cimini ere remote, in un mondo di riti ormai spenti, i carri allegorici, i fuochi, le frasi fatte, si consumano le ingenuità, le aspettative, i disegni di pulizia dei giovani.  
Un film che in sala è andato deserto, ripreso da Sky
Danilo Caputo,
Semina il vento, Sky Cinema

venerdì 21 gennaio 2022

Letture - 478

letterautore

Ariosto - È il precursore di Cervantes, del declino della cavalleria – della sazietà di epopee cavalleresche? È un lampo di Ernst Jünger, nelle noterelle del 1951 “Polarisations am Kieselstrand”, sulla spiaggia dei ciottoli, scritte nell’estate del 1951 a Antibes (sulla plage des Galets), dove ricorda che anticipò l’avvento delle armi da fuoco.
È la funzione del poeta, di far accadere il futuro anticipandolo, ma Jünger dice di più nel caso di Ariosto, che il futuro fa anticipare da uno che ne sarà vittima: “È in questo senso che Ariosto fa apparire nel suo poema l’arma da fuoco, prima della sua scoperta, come segno anticipatore del declino della cavalleria”.
 
Borghesia – Sciascia ne fa la classe della virtù – “Fuoco all’anima”, 83: “La borghesia è una classe, così come uscirà dalla Rivoluzione francese, dedita alla virtù. E dedita anche alla moltiplicazione delle ricchezze… Voltaire, ad esempio, sente l’orgoglio della ricchezza. C’è una lettera in cui elenca i suoi beni e dice: «Il mio povero collega Rousseau fa la fame»”.
 
Capro espiatorio – Più semplice dell’antropologo e filosofo Girard, lo fa spiegare Primo Levi in “Se non ora, quando?” a uno dei personaggi, l’orologiaio ebreo Mendel: “Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo cacciavano nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello che si porta via i peccati del mondo”.
 
Doppiezza - È di sinistra, spiega Sciascia (Fuoco all’anima”, 63), lamentando “la doppiezza della vita italiana”, della vita in genere, non solo di quella politica: “È un malcostume da addebitare soprattutto alle sinistre. Si dice una cosa in privato e se ne dice un’altra – l’opposto – in pubblico”. E con l’interlocutore che gli obietta essere le sinistre in via di estinzione (nel 1989….) insiste: “Ormai il danno è fatto, è entrato a far parte del costume italiano”.

Anna Frank – La denuncia dei Frank fu dunque opera del notaio Arnold van den Bergh, ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, anzi della commissione del Consiglio che doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione, in teoria ai lavori forzati.

C’è, in questa denuncia come in altre attività imposte agli ebrei dal nazismo, una sorta di complicità che Primo Levi in qualche modo giustificava, ne “I sommersi e i salvati” - a proposito della “zona grigia”, la nozione elaborata dallo storico olandese Jacob Presser: “È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le sporca, le assimila a sé”. Ma fino a un certo punto. E poi c’è chi si ribella - e lo ha fatto, dentro a fuori della Germania.
Anche nel rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, c’era di mezzo, sia pure marginalmente, una giovane ebrea, Celeste Di Porto, la “Pantera Nera”, fidanzata di un poliziotto, al quale aveva denunciato parecchie famiglie del ghetto. L’etnia non era allora sentita, non in modo eminente, malgrado le leggi razziali del 1938.

Primo Levi – Nel tardo romanzo “Se non ora, quando?”, il suo unico romanzo, 1982, cinque anni prima della morte suicida, Primo Levi fa spiegare a un personaggio incidentale, una Francine francese salvata dal lager, il disagio che traspare in ogni suo scritto, del “salvato”: “In Lager nessuno si uccideva. Non c’era tempo, c’era altro da pensare, al pane, ai foruncoli. Qui c’è tempo, e la gente si uccide. Anche per la vergogna”. “Quale vergogna? - chiese Line: - Si ha vergogna di una colpa e loro non hanno colpa”. “Vergogna di non essere morti – disse Francine. – Ce l’ho anch’io. È stupido ma è così. È difficile spiegarla. È l’impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una colpa, ma noi la sentiamo come una colpa”.
Francine poi scompare, e parla di colpa e suicidi appena salvata dal lager, quindi ancora in cenci e a rischio vita. Per molti aspetti, una copia di Primo Levi. È una dottoressa, anche se “in Lager non aveva potuto esercitare il suo mestiere perché non sapeva bene il tedesco”, “non parlava jiddish, non lo capiva, e quando era a Parigi non sapeva neppure che lingua fosse”, in realtà a Parigi non si sentiva “ebrea”, cioè diversa, un po’ come lo stesso Levi prima della deportazione, e “aveva ancora i capelli, come dottoressa non glieli avevano tagliati, i tedeschi hanno regole precise”.
 
Molière – È dimenticato, non più rappresentato, da anni, ma è, si direbbe, d’attualità più che mai, col “Medico per forza” e anche col “Malato imaginario”: le sue scene sembrano tratte dai talk-show che imperversano, o viceversa. Lo ricorda Marino Niola sul “Venerdì di Repubblica”, per quei suoi “dottori boriosi, paludati, arroganti e saccenti”, che “si affrontano a colpi di citazioni latine”  Per épater le bourgeois, come usava, per sorprendere, tramortire i bravi borghesi. La pandemia è stata mortale, ma è anche molieriana.
“Molière è un monumento d’ironia”, Sciascia, “Fuoco all’anima” 108.
 
Parigi – Non solo Calvino, anche Sciascia si era stabilito a Parigi, nel 1977. Anche Miriam Mafai. Per sfuggire al disordine italiano – rappresentato, paradossalmente, dal compromesso storico, Moro sarà rapito l’anno dopo? Per via di un immobiliarista specialmente abile?
 
E.A.Poe – “Lo straordinario, in questo spirito, è la sua sobrietà” - Jünger, “Trattato del ribelle”, lo vuole esemplare: “Sentiamo il tema prima ancora che il sipario si alzi, e sappiamo dalle, prime  misure che lo spettacolo diventerà soffocante”. Di “austerità matematica”. E di densità: “Le figure sono in lui figure del destino, ciò che le riveste di una magia senza eguali”.
 
Sciascia – Wikipedia lo ascrive al Partito Comunista Italiano.
La polemica di Sciascia col Pci fu continua e anche astiosa – ebbe solo rapporti con Antonello Trombadori, per essere entrambi collezionisti d’arte, e con Emanuele Macaluso, federale atipico del Pci in Sicilia. Nelle conversazioni che ebbe nelle ultime settimane di vita con Domenico Porzio e ora si ripubblicano (“Fuoco all’anima”), è molto negativo, addebitando al Pci la “doppiezza”, e la “confusione” politica. 
 
Settecento – Un teatro, e quindi un tempo di speranza? È l’opinione di Sciascia, “Fuoco all’anima”, 78: “Il Settecento era un’epoca di grande speranza… Anche Manzoni è un figlio del Settecento, come Stendhal”.
E ancora, 79-80: “Il Settecento è un gran secolo anche per questo: perché l’amore è solo un gioco di gioia, nient’altro. I corpi, l’incontro dei corpi. Ci fossero o non delle remore, la cosa era vissuta senza tormentosa passione. Nel Settecento la vita si era costituita in finzione. Una recita, una rappresentazione”.
 
Tucidide – “Un disegnatore, a spese di Erodoto” – Ernst Jünger, “Polarisations Am Kieselstrand”: “In un mondo in cui i daltonici dessero il tono, i grigi prevarrebbero”.
 
Vangelo – È di giovani – per i giovani? Domenico Porzio, scrittore di fede, lo nota in conversazione con Sciascia, nella lunga intervista “Gli anni delle passioni fredde”, pubblicata sul “Corriere della sera” il 19 luglio 1987 (in realtà una serie di considerazioni di Porzio, intervallate da incisi di Sciascia), sul tema della vecchia, “de senectute”: “Il Vangelo è abitato da giovani, con rare eccezioni: Elisabetta, Zaccaria, non necessariamente i Magi; e c’è l’infermo della piscina di Betzata, se era paralitico da trentotto anni. Gesù predilige i bambini”.  
 
Vittorini - Venuto a parlare di Vittorini con Domenico Porzio, in “Fuoco all’anima”, Sciascia dice che non regge la rilettura: “Il Vittorini industriale è finito. Non che sia granché”, aggiunge, “il Vittorini siciliano, bisogna riconoscerlo”. Nemmeno il primo libro?, chiede Porzio. “A me cascano le braccia”. È il Vittorini di “Conversazione in Sicilia”.

letterautore@antiit.eu

Dante millenarista, con juicio

Due mondi diversi, a un secolo di distanza. Gioacchino, benché cistercense e abate, nato probabilmente da famiglia contadina, servo della gleba, in un remoto villaggio pedemontano, portinaio del convento cistercense di Sambucina, poi girovago per varie altre abbazie, prima di fondare il suo proprio ordine, Florense, Dante ipercolto, uno degli ottimati della signorile e democratica Firenze, banchiera d’Europa.
“Una importante componente del misticismo di Gioacchino è greco-orientale, per la cui formazione avevano concorso testi biblici e paleocristiani. Presto corretti dai Normanni in senso latino, nonché dal monachesimo, “dai temi lavoristici dell’ordine benedettino e di quello cistercense”. Il francescanesimo aveva riproposto il misticismo anche in mondi remoti da quello greco-ortodosso, ma presto si era fatto confuso.
Una distanza doppia: “Gioacchino era ancora il Medioevo che tramandava arcaici, orientali, immobili miti in una Calabria lontana “dalla rinascenza”, mentre “in Toscana la rinascenza verdeggiava”.
Distanti anche le concezioni. “Per Gioacchino, monaco di Calabria e nutrito di libri sacri testamentari e profetici, occidentali e orientali, c’è un mondo mistico da preparare, il mondo del contemplante e del santo”. Questo è vero anche per Dante. “Ma in Gioacchino non c’è la filosofia della storia umana che c’è in Dante”.
Fatte le distanze, resta che Dante è onnivoro. Fagocita tutto, e non è sordo “al richiamo delle voci profetiche”. Più che un rapporto da maestro a discepolo, un mondo, per quanto remoto, cui Dante non rinuncia.
Il saggio è soprattutto interessante per la ricostruzione del mondo giaochimita, fisico e culturale.
Antonio Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino, pp. 73 € 4,56

giovedì 20 gennaio 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (480)

Giuseppe Leuzzi

Presentando la riedizione di “Fuoco all’anima”, le conversazioni tra suo padre Domenico Porzio e Sciascia, il musicologo Michele Porzio trova per gli interlocutori questa sintetica definizione: “Entrambi originari del Meridione, sebbene di parti, la Campania e la Sicilia, che più dissimili non potrebbero dirsi, l’una d’impronta gioviale, l’altra saturnina”.


L’autostima è il miglior capitale

Si assiste sbalorditi al primo ministro inglese Boris Johnson, scarmigliato più del solito, che si scusa ai Comuni di avere organizzato un party di cento persone, nella piccola residenza di Downing Street, con l’invito “bring your bottle”, porta la bottiglia, di gin, di whisky, contraddicendo le sue ordinanze anti-assembramento. Un po’ perplessi anche, che i deputati inglesi le accettino per buone, le scuse. Anche perché Johnson, non da ora, sembra un buffone più che un primo ministro – un fool, un buffoncello, che balla ogni ballo, ora europeista ora anti, ora pacifista ora guerriero, ora maschilista ora femminista. Ma è bene il primo ministro della Gran Bretagna, di maggioranza solida, di numeri e di nervi.
Anche i reali d’Inghilterra sembrano strani. La regina piange un marito che le ha mancato in continuazione di rispetto. Dei loro quattro figli, tre sono, usava dire, scapestrati. Uno ha sposato contro la sua volontà una ragazza, salvo tradirla uscendo di notte dal palazzo nascosto nel vano bagagli per andare dal suo amore di sempre, una matura signora sposata. Una si è messa col suo istruttore di equitazione. E uno, benché sposato a una donna, per quanto aristocratica, piuttosto godereccia, preferiva andare a puttane, minorenni.
Ciononostante la nazione, l’Inghilterra perlomeno se non il Regno Unito, è ben solido: nessuno si fa un problema. Il settimanale “The Economist”, testo sacro del liberalismo, che anni fa fece una copertina su Berlusconi, “è quest’uomo adatto a governare l’Italia?”, non ha fatto, nonché una copertina, un articolo su Johnson, “è quest’uomo adatto a governare la Gran Bretagna?”.  L’autostima regge anche il dileggio.  
 
Milano, la giustiziera d’Italia
Il “Financial Times” fa un lungo servizio su Rocco Commisso, l’imprenditore americano di Marina di Gioiosa Jonica che ha rilevato la squadra di calcio Fiorentina. Un personaggio evidentemente di rilievo, per il pubblico internazionale del quotidiano.
Fondatore nel 1996 di una società di telecomunicazioni via cavo, attiva nelle regioni meno popolose degli Stati Uniti e per questo trascurate dalle grandi compagnie (partendo, ricorda, dal deserto del Nevada, dalla Valle della Morte), “oggi Commisso, secondo ‘Forbes’, è la 352ma persona più ricca del pianeta”, questa la presentazione, “con una ricchezza stimata in 7,2 miliardi di dollari”. Ha investito nella Fiorentina in poco più di due anni 340 milioni di dollari: 170 per l’acquisto, 80 per coprire perdite vecchie e nuove, specie causa covid, e 90 per un centro sportivo a Bagno a Ripoli, il Viola Park, 25 ettari di cui 22 disponibili – “sarà il primo bene di proprietà del club”. Ha investito nel calcio, spiega, nei Cosmos di New York e ora nella Fiorentina, per una sorta di debito verso lo sport che gli ha consentito di studiare e farsi imprenditore. Emigrato da Marina di Gioiosa a 12 anni, per raggiungere il padre a New York, si è pagato gli studi, fino alla Columbia University, con le borse in quanto animatore della squadra di calcio dei college. Ha partecipato anche alle selezioni per la squadra olimpica 1972, l’Olimpiade di Monaco di Baviera, ma era fuori forma – “fumavano negli spogliatoi”, ricorda.
Il padre, arruolato nella seconda guerra mondiale, fu prigioniero dopo Alamein delle truppe inglesi per cinque anni. Commisso, nato dopo la liberazione, nel 1949, sarà chiamato Rocco Benito. Ma come ex prigioniero di guerra degli Alleati il padre aveva titolo preferenziale a emigrare negli Stati Uniti, e ne approfittò. Lasciando la moglie e quattro figli a casa, “con un dollaro al giorno”, dice Commisso, “neanche. Dovevi farcela. Ma non mi sono mai sentito povero”. Nel 1961 raggiunse il padre.
Commisso non è contento dell’investimento. Troppi trucchi, lamenta, con i procuratori, e troppa burocrazia. Per il Viola Park gli hanno fatto raddoppiare l’investimento, tra ritardi, varianti, vincoli di vario ordine, storici, architettonici, archeologici, e secondo lui non è finita. Troppe beghe di procure e agenti, con troppi soldi ballerini, insomma, quello che si sa, il calcio è furbo infetto. Ma non è questo il punto.
Una pagina abbondante del “Financial Times”  per raccontare Commisso, assortita di numerose fotografie. Il quotidiano ha incaricato dell’intervista il suo capo della redazione sportiva, Murad Ahmed. Ahmed ha passato due giorni a Firenze, per entrare nei problemi della Fiorentina e nello spirito del personaggio, e ha fatto successivamente l’intervista in “un lungo pranzo”. Commisso chiede di rivedere il testo prima della pubblicazione. Ahmed obietta che questa non è la politica del giornale. E Commisso si dice: “Allora dovrò stare attento”. Ma poi si esprime in libertà.
Per la “Gazzetta dello Sport”, invece, chi è Commisso? Il quotidiano milanese lo ha liquidato mesi fa, con il vice-direttore Andrea Di Caro: “Questo don Rocco più che da un grande gangster movie di Coppola o Scorsese pare uscire da un film «poliziottesco» all’italiana di serie B”. 
Il “Financial Times”? Milano c’incarta il pesce.
 
Il viaggio, tra fratelli
Sollecitato da Domenico Porzio (“Fuoco all’anima”) con lunghi e ripetuti riferimenti al “Viaggio in Sicilia e a Malta” di Patrick Brydone, il reportage in forma di lettere, inviate al cav. William Beckford of Somerley, pubblicato nel 1773, Sciascia risponde infine con una precisazione: “Lo trovo un bel libro, ricco di notizie e molto attendibile anche per i riscontri che si trovano nelle parole di altri viaggiatori. Tutti costoro, secondo me, hanno in comune un elemento che non è stato abbastanza indagato: sono massoni.  Brydone era massone, e chiunque venisse qui, lo faceva con commendatizie massoniche. Si trovavano in un ambiente fraterno. Erano massoni anche i prelati….”
William Beckford of Somerley (da distinguere dallo scrittore gotico) è classificato imprenditore e scrittore giamaicano, pur vivendo il più del tempo in Europa, tra Roma, la Svizzera e Londra. Qui definitivamente, avendovi sposato la cugina Charlotte Hay. Con una lunga parentesi in Giamaica, piantatore di canna da zucchero nei terreni ereditati dal padre Richard – un’esperienza finita col carcere per debiti. Tornato a Londra scrisse due libri sulla Giamaica, “Situations of Negroes in Jamaica”, e “Account of the Island of Jamaica”. Accompagnato da Brydone aveva fatto nel 1767, a 23 anni, il primo viaggio in Europa, Italia compresa. Era nato in Giamaica figlio illegittimo, perché il padre Richard e la madre, Elisabeth Hay, vissero da conviventi.
Brydone, scozzese, scienziato autodidatta come era la moda dopo Benjamin Franklin, con alcuni esperimenti di elettricità, poi militare, col grado di capitano, nella Guerra dei Sette Anni, a partire dal 1763, a 27 anni, s’inventò e praticò la professione di travelling tutor, di accompagnatore dei ricchi visitatori in Europa, dapprima con sede in Francia, poi, dal 1764, a Losanna. Prossimo ai cinquant’anni smise di viaggiare, si ritirò a Londra, si sposò, e fece tre figlie.
Viaggi laici, dunque. Da qui forse il rilievo che danno alle pratiche di devozione.
Ma, con l’inciso “attendibile anche per i riscontri” di altri viaggiatori, Sciascia si lascia sfuggire il dato forse preminente dei tanti libri di viaggio al Sud: che molto è riscrittura, i viaggiatori s’informavano soprattutto da chi li aveva preceduti. Come molti inviati speciali quando c’era ancora questa professione nei giornali: molti partivano con l’archivio (uno, piuttosto famoso, mandò un’intervista – che venne pubblicata - di una pagina con un cardinale morto da un anno, collazionando i ritagli: il lavoro dell’archivio era in arretrato).
  
Mafiologia
Organizzato. “Si dice così, si diceva così nei ghetti, nei Lager, in tutta l’Europa nazista. Una cosa che uno si procura illegalmente si chiama organizzata”, Primo Levi, “Se non ora, quando?”, 32. Questa è sfuggita agli aedi della mafia, farne la vittima, legarla alla Resistenza.
 
“Per me la sociologia è una scienza inesistente”, afferma Porzio in conversazione con Sciascia (“Fuoco all’anima”, 70). Sciascia conviene: “E ne discendono tante cose, perfino la mafiologia!”. “Esiste la mafiologia?” “Esiste. Esistono cattedre”. “Cattedre di mafiologia? E dove sono? “Ce ne sono un po’. Credo che ce ne sia una all’università di Bologna. Insomma, si arriva al punto d’insegnare la mafia quando non c’è un solo documento scritto!”.
La conversazione si svolgeva nell’autunno del 1989, qualche settimana prima della morte dello scrittore. Poi le cattedre di mafia e criminalità si sono moltiplicate.
 
“La paura non si combatte con nuovi preparativi di guerra ma con la scoperta di nuovi accessi alla libertà”.
“La sovranità si trova meno, ai giorni nostri, nelle decisioni generali che nell’uomo che abiura la paura nel suo intimo”.
“Gi avversari finiscono per somigliarsi, al punto che non è più difficile indovinare in essi la mascheratura di un solo e unico potere”.
Ernst Jünger, “Trattato del ribelle”, § XVII. 

leuzzi@antiit.eu 


Misteri massonici, e rivoluzionari

Hegel e Hölderlin, giovani precettori dopo il seminario insieme a Tubinga, il futuro filosofo a Brema, il poeta da varie località, Jena, Stoccarda, Francoforte, dialogano per lettera tra il 1794 e il 1796, incitandosi reciprocamente a “lavorare”, secondo le rispettive ambizioni, e cercando – Hölderlin per Hegel – una migliore sistemazione a Francoforte. Il ritratto di una forte amicizia, estratto dalle lettere di Hölderlin. Delle difficoltà in cui vivevano i giovani universitari che non potevano accontentarsi della borsa di studio da dottorato, con prospettiva di ricerca\insegnamento, – e quindi si impiegavano come istitutori presso le famiglie abbienti – un lavoro ben retribuito ma, in termini odierni, deprimente.
L’ultima fatica probabilmente di Luciano Parinetto, il filosofo e musicologo bresciano. Che il ritratto dei due giovani organizza attorno a una breve scelta dell’epistolario di Hölderlin. In particolare attorno al poema “Eleusi”, che Hegel spedì a Hölderlin nell’agosto del 1796. Un recupero della tradizione misterica, che Parinetto spiega con sicuri riferimenti massonici, comuni a entrambi. Così come entrambi condividevano gli impeti rivoluzionari che venivano dalla Francia. Al coperto, anche questi. 
Parinetto vanta per questa edizione la prima traduzione del carteggio superstite Hegel-Hölderlin, e la prima traduzione del poemetto hegeliano in endecasillabi.
G.W.F. Hegel-J.C.F. Hölderlin, Eleusis, carteggio, Mimesis, pp. 91 € 5,90

mercoledì 19 gennaio 2022

Ombre - 597

Carlos Tavares, ad di Stellantis (Fiat-Peugeot): “Un anno fa ho notato che in Italia il costo di produzione di un’auto era significativamente più alto, a volte il doppio, rispetto alle fabbriche di altri paesi europei, nonostante un costo del lavoro più basso. Questo ha a che fare con l’organizzazione della produzione”. Dopo la cura Marchionne, la Fiat era ancora all’Ottocento.

“Un problema particolare che riguarda l’Italia è il prezzo fuori misura dell’energia”, spiega ancora Tavares. Terreno di pascolo, si sa (ma non si dice), per tutto il sottogoverno. Specie per quello democristiano, l’energia è “bianca”, ma non solo. Senza cuore, bisogna però dire: come si fa a far pagare il kWh il doppio che fuori d’Italia, anche all’industria? Mettendoci dentro perfino degli “oneri di sistema”, il finanziamento, legale, abbondante, che paghiamo in bolletta ai compagnucci della parrocchietta che piantano qualche pala eolica, di seconda mano   

 

Il dentista che si fece vaccinare su un braccio finto, di silicone, per paura di una puntura, riapre lo studio. Ma che dentista è, che deve fare le delicate iniezioni anestetiche in sulle gengive ai pazienti? Si va dal dentista alla cieca?

 

Fanno un po’ pena le Generali preda infine della finanza cattolica – la Fondazione Del Vecchio è scesa a Roma in campo, con la Fondazione Sanità Cattolica del Vaticano, contro i predatori ambrosiani. Fanno pena perché sono preda di un gioco di potere, non di un investimento, di un rilancio, di una prospettiva.

 

Già vent’anni fa Generali furono oggetto di scalata cattolica, a opera di Bazoli. Bloccato da Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, allora grande azionista – un altro cattolico, ma dello stampo sturziano, “popolare”. Che per questo poi finì all’inferno: l’anima cattolica è sempre e solo di potere.

 

È affascinante - romanzesca dopo lo sdegno - la campagna di Berlusconi per farsi presidente della Repubblica. A 85 anni. Malato. Condannato. Tirato in ogni piega del viso, e probabilmente del corpo, fino quasi all’immobilità. Un uomo solo, evidentemente. Senza figli, che pure ci sono, che lo aiutino. Senza amici, che pure ci sono, Confalonieri, Dell’Utri, Verdini.

 

È però strano che i media, che per trent’anni hanno maltrattato quest’uomo, prospettandolo ladro, corruttore, evasore fiscale, stupratore, di minorenni, ne discutano (rispettino) la candidatura al Quirinale. Quanto di più sciocco e ridicolo. Solo il potere conta: il “realismo” del potere, che è ciò che unisce gli (ex) democristiani con gli (ex) comunisti. Tutti persi, come Berlusconi?

 

Singolare anche la mancanza di autonomia, di giudizio politico, degli atri capi del centro-destra, Salvini, Meloni, Toti eccetera. Come se non sapessero che la candidatura Berlusconi è una trappola – alla quarta votazione avranno un presidente che non hanno scelto. Non sapersi regolare nei confronti di un leader vecchio e fuori dal mondo è perfino incomprensibile, più che una mancanza di senso politico, di leadership.

 

Si tace del Kazakistan che è centro di snodo, ferroviario, autostradale, della via della Seta cinese terrestre. E che Putin, ristabilendo l’ordine, ha gettato un ponte più solido con la Cina.

 

Si tace anche che la Lituania, sfidando Pechino col riconoscimento di Taiwan, certifica l’improba difesa di Putin, dell’“assedio” che la Russia subirebbe dai paesi Baltici, oltre che dall’Ucraina. La politica estera non fa notizia? E come se la fa.

  

Non è vero che il sindaco di Roma Gualtieri nei suoi primi cento giorni ha solo promosso i netturbini e i compagnucci della parrocchietta (un centinaio di trombati di partito li ha fatti consulenti): ha anche rimosso tremila cestini della spazzatura, commissionati da Raggi a un architetto non della parrocchia.

Però, sembra di sognare - Gualtieri è anche un professore, di storia.   

 

Il Csm, che pure il presidente Mattarella presiede, continua a varare nomine, a capo della Cassazione dopo la Procura di Roma, che sono regolarmente cassate dal Consiglio di Stato, per la forma e per la sostanza. Nomine irrituali, e anzi illegali, contro le procedure e i titoli, e tutte di parte politica, di Magistratura democratica.    

Positivi negativi al lavoro

“Contagi: si scopre solo il 15-30 per vento dei casi”. Gabanelli e Ravizza sul “Corriere della sera” “scoprono” che “potrebbero esserci fra otto e sedici milioni di italiani che si sono contagiati tra fine dicembre e la prima metà di gennaio”. Milione più milione meno, il contagio sembra universale, ognuno lo vede. In troppi pochi giorni per esere effettivamente un contagio, ma è certificato dai tamponi, anche se inattendibili – non lo sono per legge.
Le proiezioni di Gabanelli e Ravizza sembrano confermate dai certificati di malattia. Dagli assenti al lavoro. Specie nel pubblico impiego, arcipelago vasto, dove quasi tutte le funzioni non sono espletabili a distanza. Nel lavoro domestico. Nei servizi alla persona in genere.
Troppo e confuso abbaiare favorisce il disimpegno, l’allarmismo lo giustifica. È peraltro un fatto che il contagio sembra avere travolto anche il solido Draghi, dopo l’acchittato vagante avvocato Conte.
Le istituzioni non sono state in grado di organizzare una rilevazione efficiente del virus, in due anni? Sembra impossibile. La confusione però è evidente. E le due cose hanno un solo autore: la mano pubblica.

Ecobusiness

“L’elettrificazione (della circolazione auto, n.d.r.) è una tecnologia scelta dai politici. Non dall’industria. C’erano modi più economici e veloci di ridurre le emissioni” nocive.
 “L’auto eletrica costa il 50 per cento in più. Per limitare l’impatto di questi costi bisogna avere in cinque anni aumenti di produttività del 10 per cento medio l’anno, mentre l’industria automobilistica in Europa raggiunge di norma il 2 o il 3 per cento. Vedremo tra qualche anno quali produttori saranno sopravvissuti e quali no”.
“Tra dieci o quindici anni conosceremo anche i risultati reali dell’elettrificazione nella riduzione delle emissioni nocive”.
Il fabbisogno accresciuto di elettricità “rimette l’energia nucleare nell’agenda a opera degli ambientalisti”.
“Dobbiamo anche parlare dell’impronta di CO2 delle batterie. Un veicolo elettrico deve percorrere 70 mila km prima di compensare l’impronta di CO2 creata dalla fabbricazione della batteria”.
Carlos Tavares, amminstratore delegato di Stellantis.

Bernini capobastone

“Gli artisti che lavoravano a Roma dovevano subire la sua «dittatura». Per oltre cinquant’anni dovettero accettare, volenti o nolenti, la supremazia del Bernini…. E furono proprio i suoi più stretti collaboratori a subire talvolta le conseguenze più pesanti”. Primo fra tutti Francesco Borromini. Bernini si fece pagare il Baldacchino di san Pietro e palazzo Barberini senza nulla dare a Borromini – “il Borromini deluso e deriso”, dice il biografo Baldinucci, “lasciò e abbandonò il Bernino, con questo detto: non mi dispiace che abbia avuto li denarii, ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche”.
Un capomafia, pure violento. Quando subodorò che la sua amante se la faceva col suo proprio fratello, si appostò per ucciderlo, e mandò a sfregiare l’amante. Sopravvissuto il fratello all’agguato, con sole due costole rotte, cercò di farlo fuori anche in casa della madre, che lo denunciò, spiegando che, non trovando il fratello Luigi in casa, lo aveva cercato “in S. Maria Maggiore”, la basilica lì vicino, “con la spada in mano, e cercò per tutta la canonica con disprezzo di Dio” – ma a nessun effetto, Bernini rispondeva al papa. Non si ritrovò per questo alla corte di Francia, dove pure Luigi XIV dispose per lui accoglienze regali. Non riuscendo a spadroneggiare,  controllato in ogni minima spesa o progetto di spesa dal ministro Colbert, e contestato dagli architetti locali - il suo progetto per il Louvre fu accantonato – se ne tornò a Roma.
In un mondo da fine del mondo: “Molteplici «segni» apparivano in cielo su Roma e si abbattevano qua e là paurose tempeste”. Le locuste sul Tevere. La grandine a pallettoni. Nel febbraio del 1622 tre soli in cielo. A marzo “una preoccupante moria”. In piazza Giudea una donna partorisce una “creatura con quattro braccia e quattro piedi”. Un’altra, ai Pantani, “partorisce un demonio, o almeno una creatura che del maligno aveva le sembianze”, che il parroco si rifiuta di battezzare. Al tramonto il 12 agosto del 1629 “il cielo fu improvvisamente solcato da frecce, saette, spade lucenti e scintille di fuoco”. Si tornava all’astrologia. Lo stesso papa Urbano VIII Barberini, “che pure varerà nel 1631 a bolla Contra Astrologos, non ne era immune” – ne era attivo praticante: “Nel mese di giugno del 1640una gallina aveva fatto un uovo sul quale era disegnato, sia pure confusamente, lo stemma dei Barberini. La vecchia (e scaltra?) proprietaria della gallina si ebbe un premio di dieci scudi d’oro”,
Era anche la Roma dei processi. “Il Seicento si era aperto con i sinistri bagliori del rogo di Giordano Bruno”, spogliato nudo, legato a un palo. Campanella sopravvisse alla lunga prigionia per saper ragionare di astrologia? Nel 1625 si condannava per eresia Marcantonio De Dominicis, morto l’anno prima – era relapso, si era riconciliato con la Chiesa in punto di morte, ma la sua confessione non fu ritenuta sincera: il cadavere fu esumato, e arso, anch’esso in Campo dei Fiori. Si faceva spettacolo di processi, e abiure o condanne, in piazza della Minerva, al ponte dell’Angelo e altrove: erano gli “spettacoli” più seguiti, si concludessero o no con roghi o squartamenti.
Ma fu un secolo pieno anche di grande pittura e architettura. Non tutti subirono il capestro di Bernini. Qualcuno operò a Roma prima del suo dominio: Caravaggio, Annibale Carracci. Altri vi prosperarono chiamati e protetti da grandi famiglie e cardinali: Velázquez, Rubens, Lorrain, Poussin. Pietro da Cortona pure, “morì ricchissimo”. Ben remunerati, e garantiti in ogni capriccio, dalla divisa di Paolo V Borghese e poi di Urbano VIII Barberini : “Pictoribus atque poetis omnia licent”, agli artisti tutto è permesso. E poi di Clemente IX, “la breve, felice stagione” del papa Rospigliosi, “definita da un anonimo francese «l’età dell’oro del nostro secolo»”.
La città di uomini si illustrò anche per storie e gesta di donne. Madame Mancini, Maria Mancini Colonna, la “connestabilessa” nipote del cardinale Mazzarino, sposata prudentemente a Lorenzo Onofrio Colonna, lontano dagli appetiti del Re Sole, a Roma. Dove, scriverà”, “le persone più eminenti vivevano in un continuo bordello”. Lei vi aprì un salotto più a modo. In concorrenza con la regina di Svezia, neo convertita e romana per scelta. Accolta dalla città con onori anche più trionfali di quelli riservati a Bernini in Francia – Bernini restaurò per lei come arco di trionfo la porta d’ingresso di piazza del Popolo. Della regina Paita dà un ritratto fuori quadro: “Una donna piccola di statura, un po’ gobba, il naso aquilino, occhi grandi e vivaci sotto una fronte piuttosto ampia”. Con “gesti e movenze più da uomo che da donna”. Un secolo come un’avventura.
Almo Paita, La vita quotidiana a Roma ai tempi di Gian Lorenzo Bernini, “Corriere della sera”, pp. 325, gratuito col quotidiano

martedì 18 gennaio 2022

Secondi pensieri - 470

zeulig

Coscienza – È il daimon di Socrate? Luogo remoto, intimo, dell’essere, da cui una voce, più remota, lontana delle parole, lo consigliava per un empito, lo spingeva, lo consigliava e lo guidava.

Esproprio – Si può pensare come esproprio l’appropriazione-distruzione dell’ambiente. “Il sentimento profondo della nostra epoca è ostile alla proprietà”, aveva notato già Jünger, “Trattato del ribelle”, XXXII. Come ostile al rispetto, alla invalicabilità dell’individuo. Vince il prepotente, e alla fine vince il furbo, il ladro.
Non è un esproprio ai fini di una ripartizione della ricchezza in modo diverso, in qualche modo più produttivo, avvertiva Jünger, è una distruzione, “il consumo del patrimonio” – non s’intacca o si spreca la rendita, si assottiglia il capitale, Già Jünger lo vedeva all’opera in campagna, nella distruzione del legno, del bosco.
 
Riso – È più umano del pianto, l’ottimismo è meglio del pessimismo? “È più conforme alla natura umana ridere della vita che piangerne”, annota Seneca, “La tranquillità dell’animo”. Certo, Seneca tranquillo non fu, “consigliori” di personaggi come Caligola e Nerone, infine suicida. Ma vale la notazione a lui cara, sempre nella “Tranquillità dell’animo”, che Democrito, ridendo, conserva ancora qualche speranza, mentre Eraclito piange per cose che dispera di cambiare. E, certo, l’ottimismo non ha mai fatto male a nessuno.
 
Scienza – È misura delle cose. Non nel senso metrico, ma di correlazione. “Scientia Dei est mensura rerum”, nota Vico di passaggio nel “De Antiquissima Italorum Sapientia” – attribuendo, parrebbe, l’osservazione peraltro a letture tomistiche. Ma questo è detto anche per la verità, da Niccolò Cusano: “Veritas igitur, quae est ipsa rerum mensura - o per la mente, come “mensura omnium rerum”.
 
La scienza non è sapienza. Le due parole di senso simile (da una radice comune che significa “tagliare”, con le derivazioni logiche “decidere”. e quindi “distinguere”) sono distinte da sant’Agostino, “De Trinitate”, XII: “Se la scienza è conoscenza delle cose temporali, la sapienza è conoscenza delle cose eterne. Ambedue, però, sono rivelate in pienezza in Cristo, nostra scienza e nostra sapienza. Questa distinzione ci fa comprendere che la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l'azione”.
Sant’Agostino considera la scienza “benefica alla sua maniera, se ciò che in essa gonfia o suole gonfiare è dominato dall'amore delle cose eterne, che non gonfia, ma che, come sappiamo, edifica. Senza la scienza infatti non possono esistere nemmeno le virtù con le quali si possa dirigere questa misera vita in modo da raggiungere quella eterna, che è veramente beata”. Ma conclude che “la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l’azione”. Sulla traccia di san Paolo, “Prima Lettera ai Corinzi”, 8, 1: “Ad uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza secondo lo stesso Spirito”. La differenza concettuale sant’Agostino fa risalire al “Libro di Giobbe”: “«Ecco, la pietà è la sapienza, la fuga dal male è la scienza» (“Giobbe”. 28, 28). Questa distinzione ci fa comprendere che la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l’azione”.
 
Stasis – Lo stato d’assedio di Agamben è anticipato da Ernst Jünger nei tre scritti del dopoguerra, “Oltre la linea”, con Heideger, da reprobi della denazificazione, lo scritto divagante noto in Italia come “Trattato del ribelle”, e “Il nodo di Gordio”. Nel “Trattato del ribelle” si limita a “segnalare per il momento” che è “nell’arte (che) il tema dello stato d’assedio guadagna effettivamente in importanza”. E nell’ arte, specificamente, in E.A.Poe: “Malgrado la loro austerità matematica, le figure sono in lui figure del destino, ciò che le rivesta di una magia senza eguali. Il maëlstrom è l’imbuto, l’abisso dalla corrente irresistibile, nel quale ci attira il vuoto, il niente.  Il pozzo ci offre l’immagine della fossa, dell’accerchiamento che si rinchiude: lo spazio si restringe senza posa e ci spinge verso i topi. Il pendolo è simbolo del tempo morto, oggetto di misura. È la falce tagliente di Cronos, oscilla alla sua estremità e minaccia il prigioniero intrappolato nei suoi lacci, e nello stesso tempo può liberarlo, se sa servirsene”. Su questo intreccio, viluppo di legami, “l’esperienza storica è venuta ad aggiungersi”. Non c’è scampo? Anche solo per raccontarlo. Lo stato d’assedio come stato di necessità?  
 
Stupidità - “Se la stupidità non somigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza e al miglioramento che a malapena possiamo distinguerla, nessuno vorrebbe essere stupido”. Musil esordisce ricordando quanto scriveva nel 1931, una freddura. Ora siamo nella primavera del 1937, c’è Hitler in Germania, Musil ha già dovuto lasciare Berlino per Vienna subito nel 1933, l’Austria è ancora libera. Dovrà riemigrare l’anno dopo, dopo l’Anschluss, avendo moglie ebrea, e alla Federazione Austriaca del Lavoro, che si diletta dell’argomento per una serie di conferenze, ne fa un ghirigoro. Parlare della stupidità, si schermisce, “può essere interpretato come presunzione, arroganza”, etc.
La conferenza si è trasformata in un saggio apprezzato di Musil in Italia, dove ha avuto una dozzina di edizioni – non in lingua tedesca. Ma, concettosa, è singolarmente vuota.
Il tema sarebbe invece fertile. Da Jean Paul in poi. Kant aggiungerà: “La stupidità è frutto di un cuore maligno”. “Ciò non è vero”, obietterà Hannah Arendt, “la malvagità nasce dalla mancanza di pensiero”. Che non è stupidità, “può riscontrarsi in persone di grande intelligenza”. Quanto alla stupidità amorosa, è inattaccabile, dice Barthes. È la più trita, ma è anche un’urgenza, un desiderio, una carne: “La stupidità è l’essere superiori. L’innamorato lo è continuamente”, e se ne fa una ragione: “«È stupido – dice - e tuttavia è vero»”.
O non sarà la condizione umana, tra stupore e stolidità? Da cui cerchiamo di uscire, anche con la stupidità propriamente intesa. La sua negazione è una delle grandi colpe della contemporaneità: ha reso la vita – già gaudiosa – impossibile agli stupidi. La stupidità si vendica contagiando gli abolizionisti: psicologi, analisti, anime buone.
 
Jerphagnon, nell’opera cui ha lavorato una vita senza decidersi a concluderla, pubblicando in vita solo un saggio sugli imbecilli nei “Dialoghi” di Platone e in altre occorrenze classiche (“Au bonheur des sages”), e uno, da cultore di sant’Agostino, sul “numero incredibile di allusioni alla stupidità” nel vescovo di Ippona (“immensa è la fola degli imbecilli”), ma ha voluto pubblicata postuma, “La sottise? (vingt-huit siècles qu’on en parle)”, la stupidità dice “polimorfa e onnipresente”. In realtà sfuggente: l’unica immagine che se ne prospetta, dice, è “la «sfera» di Pascal – e prima di lui di Hermes Trismegisto: la sfera «il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo»”. Il fatto è che “una miriade di essere unici pretende a ogni istante di decidere della stupidità di altri soggetti altrettanto unici”. In un libello pure sveltissimo, l’antichista mette in fila 140, forse 150, scrittori-deprecatori della stupidità. E non cita molti altri riferimenti noti: Jean Paul, Wilde (“Il solo peccato che conosco è la stupidità” – poco prima dio essere condannato in un processo che lui aveva intentato), Musil, Cocteau (“Il dramma della nostra epoca è la stupidità che si è messa a parlare”), Cipolla.
 
La stupidità è contagiosa, non si può sanzionarla - solo riderne. È come dice da ultimo Amélie Nothomb nella “Metafisica dei tubi”: “Non si è trovato niente di meglio che la stupidità per credersi intelligenti”.

zeulig@antiit.eu

Draghi non è stupido

C’è forse un motivo per cui la politica non sa fare a meno di Draghi, eleggendolo al Quirinale (unica soluzione unanime), e sta cercando di tenerselo meglio a capo del governo: perché non può farne a meno, la politica avendo trovato infine in questo governo un ancoraggio. Niente di eccezionale, nessun potere straordinario, solo le cose che a mano a mano si sono presentate da fare. Ma fattuale. Capace di dare indicazioni, e perfino di decidere - benché costituito da partiti in contrasto tra di loro. Senza superlativi, né di unità nazionale, né di salute pubblica. Un governo come i tanti, con ministri anche di poca o nessuna esperienza, che però governa.
A un certo punto delle conversazioni con Domenico Porzio, nelle sue ultime settimane di vita (ora in “Fuoco all’anima”), Leonardo Sciascia dice brusco, come soleva parlare: “I governi italiani, da De Gasperi in poi, sono stati dei governi stupidi”. Alla richiesta di spiegarsi aggiunge: “Stupidi in quanto privi della capacità di semplificare i problemi e quindi di affrontarli dal verso giusto. Perché lo stupido è complicato, è più complicato dell’intelligente”. Si dice bizantino, con eufemismo che non dice niente, per non dire stupido. Tanto più che il tempo passa e le cose comunque accadono.  

Al bar senza lume

“Emo”-Benvenuti, lo spilungone dei quattro vecchietti-quattro amici miei della serie, monta una burla a dei ricchi americani che si rivelano veri gangster, e la cosa rischia di finire male. Cioè finisce male, ma poi qualcosa si salva.
Non il film – Benvenuti stesso camuffato da merlo è una sorta di autosberleffo: un attore che “fa la parte”. Senza una sostanziosa sceneggiatura, le trovate lessicali di Malvaldi da sole non reggono – come avveniva del resto nell’archetipo “Amici miei”. Trame e personaggi esili, malgrado il pittoresco. E situazioni troppo invecchiate senza sviluppo.
L’unica novità della nuova serie non funziona: Filippo Timi al rientro, sbarbato, gonfiato, stinge nel ruolo di padre affettuoso. Lucia Mascini, la commissaria bionda, resta marginale. Delle due parti comiche, Corrado Guzzanti, nel ruolo del taccagno assicuratore veneto, non ha una sola battuta degna. Meglio va a Michele Di Mauro, l’inverosimile Capo della Polizia, la cui sola occupazione è un convegno gastronomico. Ma la sua buona trovata stona nella piattezza generale. I caratteristi, la geniale riscoperta del produttore Degli Esposti, aiutano, ma non bastano.
Roan Jonhson, I delitti del BarLume. Compro oro, Sky

lunedì 17 gennaio 2022

Problemi di base talebani - 680

spock

Si rappresentano gli Afghani alla fame, ma dove vanno i proventi del papavero?
 
Le guerre dell’oppio sono finite, e l’oppio?
 
Sta talebano per studente, ma de che?
 
Un’umanità vogliono senza donne, per improsarsi meglio?
 
Robert Byron, Schwarzenbach, Maillart, Chatwin, Peter Levi, che paradiso era in Afghanistan?
 
Si viaggiava a Kabul nel 1970 per trenta dollari, si potrebbe ricominciare?
 
Si viaggiava fino a Kabul in autostop via Turchia, ora si fa il cammino inverso, a pagamento, per morire sui barconi, che scuola è questa?
 
spock@antiit.eu

Il potere fa male al denaro

Da sessant’anni il “salotto buono”, o “dei poteri forti”, perno del grande e migliore capitale italiano, nell’assiologia di Enrico Cuccia, e dei suoi critici, Scalfari in testa, sul mercato le Generali sono passate da più grande gruppo assicurativo probabilmente d’Europa a quinto. A grande distanza dal quarto classificato, Munich Re, meno di un terzo di Allianz, meno della metà di Axa. E non molto performanti neppure in Italia, dove pure sono state a lungo quasi monopoliste.
È l’influenza di Cuccia, nefasta – non un “suo” gruppo si è salvato, Olivetti, Montecatini, Montedison, Fiat? In sua assenza, i comprimari ora sembrano solo stinti, e i suoi drammi sceneggiate.
È gli affari concepiti in termini di potere, senz’altro: il realismo del potere è infetto, e infettivo. La stessa sorte che stava – sta? – per toccare al gruppo Unicredit, costruito da Profumo con una strategia brillante, performante, la grande banca europea, cross-border, eccetera, primo azionista di Mediobanca, e quindi di mezzo capitale italiano, e disperso nelle brume dei vecchi azionisti vecchi democristiani delle vecchie fondazioni (Palenzona per tutti, che ancora vigila e manda...) – di quelli per i quali il potere è tutto.

Il Nord salvato dal Sud

Una miniserie centrata sulla performance strepitosa di Serena Rossi, un viso semplice ma dai molteplici codici, che dà letteralmente corpo al personaggio: la donna indifesa, anche umiliata, che non indietreggia di fronte a nessuno sbarramento. Una donna meridionale sbalzata dagli affetti protettivi della famiglia in un Veneto brutale e sprezzante.
La storia è di una ragazza calabrese che si ritrova per avversità fortuite sposa per procura, in qualità di “fattrice”, di un contadino-agricoltore veneto che non conosce. Di cui finirà per salvare la famiglia e il destino, s’intuisce, oltre che la sua dignità e felicità, e quella dei suoi congiunti. Tra un Sud lindo e ridente  e un Veneto buio, brutale – “selvatico” lo dice il prete.
La storia  capitalizza sulle ricerche di Nuto Revelli, “L’anello forte – La donna: storie di vita contadina”, sulle 260 testimonianze femminili da lui raccolte nell’agro di Alba in Piemonte negli anni 1970, appena ieri. Di cui sessanta di donne meridionali (trentacinque dalla Calabria): spose procurate al Sud da mezzani per contadini-agricoltori che nessuna in Piemonte voleva più sposare. Che anche nella ricerca di Revelli sono le meno dimesse o indifese, essendo al contrario pugnaci, e intelligenti.
Giacomo Campiotti, La sposa, Rai 1

domenica 16 gennaio 2022

Che fare della Russia

È passata inosservata, tra una lista europea di sanzioni e un’altra, ormai da quasi dieci anni, la posizione reale della Germania nei riguardi della Russia. Che l’onesto cancelliere socialista Scholz e i suoi alleati di governo, Verdi e Liberali, non camuffano. Il “Patto di coalizione” che regge il governo recita preciso, in più punti:
1) “Le relazioni russo-tedesche sono profonde e varie”.
2) “Comprendiamo l’importanza di relazioni sostanziali e stabili, continuiamo a impegnarci in questo senso”.
3) “Vogliamo lavorare a un più stretto contatto con la Russia su questioni future (idrogeno, salute) e per superare le sfide globali (clima, ambiente)”.
 

Il calcio è dei procuratori

Nella lunga intervista del “Financial Times” – di cui i media italiani tacciono -  al patron della Fiorentina Commisso, il quotidiano fornisce questi dati del complesso imbroglio Vlahovic, il centravanti serbo del club toscano, che gioca bene e benissimo e se ne vuole andare, ma non ora. L’agenzia che ha la procura del calciatore, l’International Sports Office di Belgrado, vuole una provvigione di 8 milioni per rinnovare il contratto al calciatore con la Fiorentina. Più il 10 per cento dell’eventuale – probabile - futuro trasferimento di Vlahovic a un altro club. Considerato che Vlahovic è valutato 75 milioni nel mercato dei trasferimenti – “che è quanto la Fiorentina incassa ogni anno”, commenta il giornale, tra sponsor, biglietti e diritti tv – i mediatori se ne prenderebbero 15-16.
Lo stesso quotidiano spiega, nel corso dell’intervista, che “la maggior parte dei club europei spende tra il 70 e l’80 per cento delle entrate negli ingaggi ai calciatori”. E che, “secondo la Fifa, la spesa totale per i trasferimenti di calciatori in Europa è stata nel 2019 di 5,5 miliardi di sterline (6,6 miliardi di euro), “mentre le provvigioni pagate ai mediatori dei trasferimenti sono ammontate a circa 550 milioni di sterline”, 660 milioni di euro.
Di che, si può aggiungere, ungere senza problemi i dirigenti dei club, se le indagini in corso sui trasferimenti a raffica, in larga parte fasulli, andranno a fondo.

La ribellione del proscritto

Il conservatore come ribelle, irriducibile? Rivoluzionario già lo sapevamo - la destra conservatrice, Thomas Mann compreso, ha dominato la Germania rivoluzionaria del primo dopoguerra. Ma ribelle? Jünger lo dice qui, nel 1951 - poi lo dirà anche Hobsbawn, ipocritamente, non volendo sfuggire alle “leggi ferree” di Marx - che quella del latitante è la condizione per eccellenza dell’uomo. Nell’antica Islanda il proscritto vichingo si rifugiava nei boschi - e sarà, scendendo per i meridiani, Robin Hood, folletto e partigiano. Si fa proscritto per libera scelta, un franco tiratore.
Questo proscritto-Robin Hood è il Waldgänger, l’uomo dei boschi. Che è anche, in una parte del mondo teutonico, il proscritto che della sua disgrazia fa una liberazione, il partigiano. Partigiano dunque, più che ribelle. Ma il titolo originario è “Der Waldgang”, come a dire una passeggiata nel bosco. Una serie di riflessioni, anche concatenate, ma non deduttive, o induttive, non una riflessione organica. A volte l’una si innesta nell’altra, ma senza un disegno. Non un “trattato”. E nemmeno, nell’insieme, un “ribelle”: la libertà dell’anarca, qualcosa di simile all’anarchico, ma conservatore, individualista. Sdegnosamente: il collegamento, non esplicito ma evidente, è a Thoreau, “Walden, l’uomo dei boschi”, America metà Ottocento, le divagazioni di un solitario, vagabondo, responsabile anche se, certo, non suddito, meno che mai della pratica quotidiana.
Cosa resta? Gli umori di Jünger, come sempre sorprendenti. Anzi qui più che altrove, in una scorribanda a ruota libera. La sorpresa è in ogni pagina. Non necessariamente l’una coerente con l’altra, come sempre in Jünger.
“Viviamo in un tempo in cui ci interpellano senza posa poteri inquisitoriali”. Sarà stato dunque il marchio del Novecento, se Jünger ha potuto rimarcarlo, pianamente, nel 1951, finite le dittature fasciste? Ma, certo, erano ben vive, anche nel cuore della stessa Germania, quelle comuniste.
Anche il silenzio ci condanna, ci condannava, senza scampo: “Tutto diventa risposta in questa congiuntura, e per conseguenza assunzione di responsabilità” – “a che serve scegliere in situazioni in cui non si ha più scelta?” Come il sodale Heidegger, con il quale condivideva il semi-isolamento della denazificazione nel dopoguerra, scambiandosi pareri infausti (“Oltre la Linea”, con Heidegger, precede di qualche mese questo “Trattato”, “Il nodo di Gordio” lo seguirà due anni dopo), Jünger si sente già vittima, anche lui, di un “pensiero unico”, come sarà poi chiamato – ora, nel Millennio. È in questo senso che il suo “Trattato”, che non è un trattato, si legge.
Molto personale nei giudizi, come sempre, da apprendista scrittore, apprendista pensatore, apprendista entomologo – uno stendhaliano Grande Dilettante. La grande letteratura dice liberatoria. E poi la trova nei diari di Peter Moen, un norvegese marcito nelle prigioni di Hitler, “discendente spirituale di Kierkegaard”. O nelle lettere del conte Moltke… E: “Il ribelle ha per divisa: hic et nunc, perché è l’uomo dei colpi di mano, libero e indipendente”. Ma anche: il Ribelle è l’individuo concreto, che agisce nel caso concreto. Imprevedibile, visibile ma imprendibile. Con note acute, fulmini, sul linguaggio, sullo spirito. Se non che il cap. XXIX sembra il manuale di Gladio, l’organizzazione paramilitare segreta anticomunista in Italia nel dopoguerra. O, in altra temperie, “bisogna essere liberi per diventarlo, perché la libertà è esistenza”.
Oppure: l’obiettivo è “fuggire i deserti dei sistemi tradizionalisti e managerialisti”, benché sempre “prigionieri della loro dialettica”. Come? “È qui che si delinea la possibilità di un nuovo monarchismo”…
Si legge Jünger perché è scrittore: sorprendente, stimolante. Qui è difficile, ma regge anche la proposta editoriale falsata – derivata probabilmente dalla traduzione francese di un decennio prima, di Henri Plard.
Ernst Jünger,
Il trattato del ribelle, Adelphi, pp. 136 € 12