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sabato 9 luglio 2016

Secondi pensieri - 269

zeulig

Accudimento – È tema di recente considerazione, per le indagini di Martha Nussbaum - "Giustizia sociale e dignità umana”, e altri saggi. Ma, contrariamente alle semplificazioni storiche di genere, è sempre stato materia di riflessione, in tutta la poesia e la letteratura sulla vecchiaia e la malattia. In termini contemporanei, di “lavoro domestico”, almeno un secolo fa, nelle polemiche di Chesterston, che lo dice “la missione di una donna laboriosa, ma è tale perché è gigantesca e non perché sarebbe meschina”. Specificando: “Compiangerò la signora Jones per l’enormità del suo compito, non lo dirò mai un impegno piccolo”.

Casualità – Ha sempre un elemento di necessità, anche nella coincidenza-contingenza. Sartre la scopre uscendo dal cinema, dove il film si è svolto per immagini concatenate, guardando la folla sul marciapiedi: “Non c’è necessità nella strada: la gente si spostava, erano anonimi”.  Invece la necessità incombe, come di un disegno più vasto, non dei singoli ma della massa – dell’ora, del business, degli acquisti, dello strolling. Il superfluo, l’occasionale, la “combinazione”, eventi senza causa e spesso senza esiti, sono solo in rapporto a una necessità e a un ordine. La vita stessa è casuale e ordinata – quando si produce,  necessitata.

Dogmatismo – È più duro (inflessibile, insidioso) sotto la forma dell’antidogmatismo. Sartre, per esempio, che i giudizi estetici proferisce come esito di un’argomentazione: il cinema è e deve essere del presente,  e dunque “Citizen Kane”, che è coniugato al passato, lungo flashback, non è un film. O i romanzi di Mauriac non sono romanzi perché il romanzo deve essere… chissaché. Come un burocrate di Kafka che pretendesse dall’utente per servirlo un certificato di vivenza che solo lui, il burocrate, può dargli.

Futuro – “Impossibile da vedere, il futuro è”, è filosofia di Yoda, il Gran Maestro del Consiglio Jedi. E tuttavia retrospettivamente, nelle riletture, si scopre ben disegnato specie nelle buone opere di storia - rare. O anche in scritti occasionali, ma di chi ha la capacità di “vedere” nel presente. Magari in un “a parte” – casualmente, non di proposito. L’imminente declino dell’Occidente in una lettera di Keynes a Virginia Woolf, la violenza del messaggio basico dell’islam in un saggio di Lou Salomé sull’ebraismo della figura di Gesù.

Inadeguatezza – È termine (concetto?) corrente in analisi per caratterizzare il deficit di volontà. Era una riserva che il poeta Michaux consigliava di tesaurizzare: “Sempre tenersi in riserva di inadeguatezza. Ci sono delle malattie che, se si guariscono, all’uomo non resta nulla”.
Salvo rivedere in tarda età, con la lusinga nell’opera omnia nella Pléiade, i suoi stessi primi testi, i più fantasiosi e efficaci, per renderli politicamente corretti al gusto dell’epoca – anni Settanta: maoismo, terzomondismo, perbenismo.

Intelligenza
– Dello scrittore Nabokov Hannah Arendt diceva che era “troppo” intelligente. In un certo senso, che spiegava: “Si direbbe che cerca sempre di definire se stesso come «più intelligente di»”. E aggiungeva: “C’è qualcosa di volgare in questa sua raffinatezza”.
L’intelligenza è misura. Eccede sia contorcendosi, sia mettendosi in concorrenza.

Oblio – È selettivo, senz’altro, la rimozione non è innocente, e tuttavia vitale, come e più dell’alimentazione, materiale e o spirituale. Un soggetto incapace di oblio sarebbe nient’altro che il Funes dell’omonimo racconto di Borges, uno “condannato” a una memoria ipersviluppata, che ricordando tutto non può governare la mente, è sommerso da dettagli, istanti, lampi, sconnessi, insopportabili.

Orgoglio – È la volontà. Il peccato d’orgoglio è peccato di volontà? È tutto qui il “problema” della libertà: se essere se stessi e proteggersi  è – fino a che punto è – peccato o legittima difesa. 

Poesia – Relegata alla prosodia, la metrica, la versificazione, e a una serie di tematiche classificabili, dall’elegia all’epica, non è piuttosto il legame, per quanto tenue, che si stabilisce con l’inafferrabile reale? Per i suoi buoni propositi – la poesia non saprebbe essere cattiva, anche se è versificazione cattiva. Per il suo tentativo o scopo di accesso al reale, o supposto tale: intuitivo e non ragionato, o spirituale.
È forse questo – l’accesso al reale altrimenti che con la poesia - il fondamento alla radice della diffusione, finché c’è stata, del cristianesimo. Che, come si sa da Tommaso d’Aquino, ha “rovesciato” il mondo platonico. Del mondo spirituale buono come opposto al mondo materiale cattivo. No, il Dio del cristianesimo è uno che, dopo aver creato il mondo, lo guarda e ne è contento: è l’uomo che, cogitando, inventa il male, in pensiero e in azioni, spirituale e volontario – l’opera dell’inferno, la sua creazione e il suo dispiegarsi, è spirito e orgoglio (volontà). La poesia non si pone il problema, ma vi agisce dentro, come se.
Così faceva la poesia pre-platonica. Ma anche la poesia postplatonica: la poesia non è si è mai adattata al platonismo. Il fatto è da indagare, ma a un colpo d’occhio non se ne trovano esempi – forse John Donne, che però scartava volentieri.

Professionalità – Come opposta al dilettantismo: è un compimento, e una patente. Di capacità, serietà, efficienza, sicurezza. Mentre è solo certificazione di una capacità tecnica, di medico, avvocato, ingegnere, idraulico, elettrauto. Senza più. Il poeta, il volontario non si richiede che siano professionali, o il santo. Lo sport professionale si riteneva mercimonio fino a non molto tempo fa, prima dei record e delle classifiche – e tuttora, con qualche ipocrisia, all’Olimpiade. Nelle lettere e le arti la professionalità non avvantaggia, e anzi può funzionare da handicap. Nell’amore o nella famiglia non ce ne è in nessuna forma, per compiti pure onerosi e delicati, diventare marito o moglie, genitore o figlio. L’amore professionale è prostituzione.

Verità – È sempre a proposito di qualcosa, mentre la realtà è quello di cui parla la verità - lo dice C.S.Lewis ma si è sempre saputo. È applicata al “fenomeno” religioso, però, che questa semplice verità s’invera - invera il fatto religioso? Nella fede che è un atto di verità, ma non è razionale. Di verità poiché si applica a (nasce da) un fatto reale, di volontà (voglia, desiderio, bisogno) di credere senza alcuna costrizione, e senza allettamenti o premi.

Più che di una serie logica è fatta d’immaginazione. Nella ricerca astratta, filosofica, e nella ricerca scientifica. Qui forse più che in quella, nell’aneddotica ma anche nella pratica scientifica, la formulazione delle ipotesi.

Weltschmerz – È concetto e conio di Jean Paul, per dire la verità impossibile, la pace dello spirito, e il male incontornabile del mondo. Ma origina in letteratura – e in filosofia – con Amleto.
Con Amleto  Shakespeare introduce e impone una nuova forma di infelicità: quella della vita in sé. Che poi sarà detta del Weltschmerz - Jean Paul era anglofilo, ed era noto e apprezzato in Inghilterra, da De Quincey et al..

zeulig@antiit.eu

Chi sa dov’è la Libia alzi la mano

Così vicini, e così lontani. Dalla primissima guerra di Libia, 1911, all’epilogo per più aspetti tragico di questi ultimi anni. Con i fanti italiani alla prima pagina che sbarcano a Tripoli l’11 ottobre 1911 bardati da inverno, proteggendosi dietro cumuli di sacchi di sabbia, per una guerra di trincea. Fino all’intervento militare che si voleva qualche mese per liberare la Libia – la Libia, che misura cinque o sei volte l’Italia?
La guerra stessa del 1911, che si volle di conquista e quindi una passeggiata in terra nullius, portata a termine ufficialmente in un anno, durerà invece venti anni, almeno. Una “conquista” gloriosa peraltro di cui l’Italia si è dimenticata: il centenario, cinque anni fa, è passato inosservato, se non per osannare il disastroso, sotto tutti i punti di vista, rovesciamento di Gheddafi. Una ignoranza di cui facciamo ancora fatica a renderci conto, benché ci sia costata così tanto – grazie da ultimo al bravissimo Satkozy, che invece, col suo personale consigliere Lévy, sapeva bene cosa faceva.
L’Italia è distratta. Il caso è famoso di Ardito Desio, per altri versi geologo e esploratore di meritata fama, che non trovò in Libia il petrolio, dove è quasi di superficie, L’Italia in Libia sarà stata il lungomare Italo Balbo, l’unico ornamento di Tripoli fino a Gheddafi, 1970 e oltre, con la piazza del Duomo e i portici antipioggia che i coloni emiliani non evitarono di costruirsi, anche se a Tripoli piove poco. La “tradizione e modernità” di un fotoreportage del 1965 sono ancora quelle del 1939.
L’occupazione della Libia fu peraltro una mezza catastrofe, per loro e per noi. Una guerra combattuta contro l’occupante turco riuscì a mobilitare contro l’Italia lo spento “nazionalismo” arabo, il ribellismo beduino, tribale. L’Italia di Giolitti vi inventò le deportazioni (almeno cinquemila persone, madri e mogli comprese, con i figli, furono mandate nelle “isole”, Ustica, Favignana, Tremiti, Ponza) e i bombardamenti aerei. Quella di Mussolini e Graziani i campi di concentramento e lo sterminio, per fame e per esecuzioni di massa: trecentomila morti tra le due guerre, su una popolazione di un milione, un milione e mezzo, di persone – che se anche fossero trentamila morti non cambierebbe. 
Varvelli, esperto di terrorismo all’Ispi, l’istituto milanese di Politica Internazionale, e specialista della Libia, si limita a poche didascalie. L’impressione favorendo di aver tralasciato l’essenziale. Per esempio di Gheddafi, su cui metà delle foto convergono. Anche qui, che ne sappiamo noi di Gheddafi? Con cui Moro neghittoso non volle contatti (perché l’America non li voleva), costringendolo quasi, a dieci mesi dalla presa del potere, alla cacciata degli italiani in massa – dieci mesi passati nella vana attesa di un cenno, pure tanto sollecitato, un cenno soltanto, una parola, da Roma. Che Nasser, l’idolo di Gheddafi in quanto leader del panarabismo, prestò chiamò “il Pazzo”. Che, fallita l’utopia panaraba, Gheddafi fu finanziatore e fornitore del terrorismo in tutta Europa, per esempio dell’Ira contro i britannici, e compresi gli attentati a Fiumicino. Che fece guadagnare all’Italia cifre enormi, molto di più di quanto l’Italietta vi aveva investito per la “conquista”. Che ha arricchito tutti i libici, non solo i ricchi e i capitribù, ha creato l’assistenza sanitaria e le pensioni, e a meno della democrazia aveva messo in piedi, caso raro nel mondo arabo, un Stato quasi moderno.
Arturo Varvelli, a cura di, La Libia e l’Italia, Edizioni del Capricorno-Qn-La Nazione,  pp. 141, ill. € 9,90

venerdì 8 luglio 2016

Ombre - 323

“The Italian Job” è la copertina dell’“Economist” per dichiarare e insieme certificare la guerra alle banche italiane. Dopo nove anni di crisi, il giornale della City certifica e dichiara altri dolori per l’Italia. Come niente fosse: è il mercato, bellezza?
E poi si sa che l’Italia non è all’altezza dell’“Economist” – solo Severgnini.

Anche Elkann dev’essere all’altezza dell’“Economist”, giacché ne è il padrone, con la sua Exxor. Ma lui chi è nell’Italian Job, quello che tira il coltello?   

Tra i mobilissimi competentissimi assessori di Roma, Raggi si fregia di “una giovane ricercatrice italiana”. Una “giovane ricercatrice italiana” fa fino, i cronisti sono estasiati. La”giovane ricercatrice italiana” è dell’università Uninettuno. Di Nettuno, vicino Anzio.
I paesi al potere? Però, a prova del ridicolo, viva la stampa.

Fra tutti i motivi di propaganda contro Obama, i repubblicani prediligono il suo “islam nascosto”. È un terreno in effetti insidioso, perché Obama non si può spingere oltre contro gli islamici, oltre a negare di essere o essere stato islamico. Ma è evidente che il fattore religioso è discriminante in politica, più del colore per esempio (Obama), più dei soldi (Clinton).

Un “processo” che termina come era cominciato, quello delle carte vaticane. Con la condanna di Vallejo e Chaouqui, due truffatori, e due anzi incalliti. Ma non si dice come mai fossero persone di fiducia del papa. Una storia molto argentina – di massonerie?

Il 56 per cento dei crediti incagliati del Monte dei Paschi è di “grandi prenditori”, grandi clienti, con cifre da un milione in su, anche di molti milioni. L’ex Pci ha molto da farsi perdonare. Anche la favole della banca del territorio, per le piccole e medie imprese.

Un ex socialista, ex ministro della Giustizia, peraltro mai distinto per coraggio politico, fa sulla “Nazione” una lista interminabile delle illegalità della giustizia: tremila arrestati nel 1992 e trentamila indagati, “in buona parte poi assolti”, 45 suicidi, “più i feriti e gli invalidi”, la campagna ventennale contro Berlusconi, che “alla fine partorì un’iniqua condanna per evasione fiscale” come “arma retroattiva per defenestrarlo”,  le “inchieste petardo dell’impareggiabile Woodcock”, quelle “del rivoluzionario Ingroia, baciolemani di Crocetta”… Tanto da mandare ar gabbio mezza giustizia, che invece ci governa.  

L’ultima tornata dei processi per intercettazione mette in scena un onorevole, o è senatore?, Marotta, ex di un po' tutti, Mastella, Berlusconi e Monti. Indagato per mazzette, l’onorevole o senatore era scontento: rimpiangeva gli anni in cui era stato al Csm, membro laico nominato da Mastella, invece che in Parlamento: “Lì sì che c’è il potere”, è famoso per dire - scopertamente, non al telefono a uso del brigadiere.

Di tutti i talk-show Rai l’unico che non funziona è quello di Porro, che viene dal “Foglio” e dal “Giornale” – non per esempio “Ballarò”. Senza vergogna dei democratici che si sono insediati, contro il sistema delle spoglie naturalmente, in tutti i gangli di potere Rai, dalla presidente senza titoli Maggioni all’ineffabile Freccero.
E che dice Fazio? Che ne dice Giannini, feroce censore delle fortune di Berlusconi (Berlusconi si arricchiva con la Rai?)?

È però vero che Fazio e Giannini compattano il pubblico come ai vecchi tempi di Telekabul, quando c’era il Partito, e il Partito dava la linea. Non si perdono una puntata, che magari non seguono (ogni sera la Littizzetto...), ma applaudono infaticabili se chiamati.

Johnson e Farage hanno vinto il referendum, hanno portato la Gran Bretagna fuori dalla Ue, e a un futuro di povertà, e subito dopo si dichiarano “inadeguati”: “Lascio la politica”. C’è del marcio in Inghilterra.

Farage non rinuncia però, antieuropeo e tutto, a Strasburgo, al parlamento europeo. Ancora un paio d’anni di viaggetti gratis, per il week-end ci vogliono? O ci avrà a Strasburgo la fidanzata, oltre al vitalizio da maturare? Poi dice che l’Europa non serve a niente.  

Salah Abdeslam ha un intero piano del carcere per sé a Parigi, per goderselo in isolamento. Mentre altri carcerati, anche solo in attesa di giudizio, condividono celle a due, a tre e anche a quattro. È, non percepito, il primo movente del disprezzo arabo: mostrarsi deboli. Magari per il rispetto delle regole.

Il rispetto delle regole, nel mondo transmediterraneo tema di ridicolo,  è il motore dell’immigrazione di massa: molta immigrazione è organizzata sulla base delle procedure legali europee, per eludere i divieti tramite le stesse leggi europee. Questo abbatte le fondamenta del  razzismo: l’immigrato non è stupido, e anzi è più informato e abile di noi. Ma a scapito del rispetto, presso gli arabi, e presso gli africani.

Raggi vuole un selfie col papa. Insiste. Il papa accondiscende. Raggi si fa attendere. Il papa aspetta. È la nuova dignità dei ruoli?

Il terreno di coltura di Hitler

“Il nucleo fattuale del presente libro è costituito da venti pagine del mio diario di guerra, pubblicato alcuni anni fa sotto il titolo di Nelle tempeste di acciaio. Quel che attiene meramente ai fatti è perciò ad alcuni già noto. L’essenziale è invece quel che nel frattempo si è sviluppato su quel terreno oggettivo, in una versione e in una direzione prettamente spirituali, e che di quell’esperienza dispiega – come, spero, secondo una necessità – un nuovo risvolto. Gli uomini per i quali io scrivo sanno che non si parla qui di un destino personale bensì generale, e non di cose passate bensì future. Al moderno nazionalismo, a dispetto del gran numero dei suoi oppositori, auguriamo altri sette anni come quelli che si è lasciato alle spalle. Allora potrà rendere chiaro a se stesso la potenza dei propri mezzi. Questo libretto è pensato come contributo alla preparazione”. Sette anni di revanscismo, dopo al sconfitta.
Jünger è stato in combattimento per la prima volta a diciannove anni, a fine dicembre del 1914. Farà tutta la guerra al fronte, pur avendo subito quattordici ferite. E nel 1920, a venticinque anni, pubblica “Nelle tempeste d’acciaio” che lo impone grande scrittore della guerra. Ma già l’anno prima della guerra, nel 1913, era fuggito di casa per arruolarsi in Nord Africa nella Legione Straniera. È il tipo che Karl Marlantes, lo scrittore americano della guerra del Vietnam, dei reduci della guerra perduta, dice il “guerriero nato” nella prefazione a “Tempeste d’acciaio” ora riedito nei Penguin.
“Tempeste d’acciaio” è la guerra, pura e dura, senza ragioni né torti, senza filosofia e senza politica. Il seguito, questo “Fuoco e sangue”, benché derivato anch’esso dai diari di guerra, è un programma politico. È un testo che Jünger pubblica cinque anni dopo “Tempeste d’acciaio”, con la prefazione di cui sopra, ripubblicherà pochi mesi dopo con una nuova e più chiara prefazione, e rivedrà nel 1973 – nel rifacimento che ora di traduce. L’edizione italiana non riporta le due prefazioni, che però sono utili a capirne il senso.
La  seconda prefazione è anzi esplicita: “Le opere preliminari sono compiute, le alleanze sono concluse, l’essenza del nuovo Stato, cui conduce una strada che non passa attraverso compromessi, si presenta con chiarezza. Amore della patria, cameratismo, coraggio e disciplina vi trovano la loro espressione. O, in altre parole, esso dovrà essere articolato in modo nazionale, sociale, militare e autoritario. Su questi quattro punti si regge il programma nazionalistico”. Con l’auspicio: “Possa la conversione di tutte le forze che già si sono raccolte sul grande fronte comune di battaglia, del quale la forma sarà anche quella del nuovo Stato, presto trasformarsi in un evento reale, nel primo passo verso la vittoria che si è resa possibile nella sua piena nettezza solo tramite la prova estrema affrontata dalla nostra forza vitale”.
Parole, linguaggi e concetti erano stati tre anni prima il monumento nazionale a Schlageter, il giovane eroe eponimo della resistenza alla nemica Francia. Che sarà commemorato anche da Heidegger, futuro compagno di strada di Jünger nella fede inalterabile per il suolo e il sangue – ma Schlageter fu commemorato, quando nel 1923 i francesi lo catturarono e lo fucilarono, il 13 maggio 1926, anche da Radek, all’esecutivo dell’Internazionale comunista il 20 giugno: “Durante il discorso della compagna Zetkin ero ossessionato dal nome di Schlageter e dal suo tragico destino. Egli molte cose ha da insegnarci, a noi e al popolo tedesco. Non siamo dei  sentimentali che dimenticano l’odio di fronte a un cadavere, e neppure dei diplomatici. Schlageter, il valoroso soldato della controrivoluzione, merita da parte nostra, soldati della rivoluzione, un omaggio sincero. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino Pellegrini del Nulla” (Schlageter piacerà pure a Giaime Pintor: aveva formato un gruppo d’assalto nei paesi baltici ai primi del ‘19, contro russi e polacchi, e contro la Novemberrevolution, l’abbozzo di rivoluzione socialista, in patria).
Della prima edizione esiste una copia, anticipata dall’editore prima dell’uscita in libreria, con dedica a Hitler il 9 gennaio 1926. “Breve episodio di una grande battaglia è il sottotitolo”, e s’intende il racconto di un piccolo episodio della Grande Guerra. Ma il pensiero Jünger voleva corresse alla “necessaria” rivincita.
La pubblicazione si era fatta con le edizioni Stahlhelm, fondate nel 1919 per dare voce alla Federazione dei soldati del Fronte. Cioè, a guerra finita, ai reduci che non accettavano la sconfitta.
Ernst Jünger, Fuoco e sangue, Guanda, pp. 160 € 16

giovedì 7 luglio 2016

Per chi lavora Draghi

Sarà stato il salvatore dell’euro, ma quando e come ha fatto comodo a chi l’ha messo lì: le grandi banche angloamericane (“la City”) e, su loro consiglio, Angela Merkel. Ha affodnato invece l’Italia quando ha potuto. Nell’estate del 2011 con la famosa lettera contro i bilanci italiani, Da un anno circa con le violente offensive contro il Monte dei Paschi di Siena: non è mai successo, e non è altrimenti pensabile, che una banca centrale affondi una banca. Un brutto anticipo della crisi che la City proclama di nuovo italiana,  delle banche invece del debito.
Il riacquisto dei titoli pubblici va bene, salva l’euro, forse, ma soprattutto salva i conti delle banche angloamericane, della “City”. Il “whatever it takes” di cui si celebra sì, è a favore delle banche. Ma non di tutte. Con la storia dei non performing loans sta scrivendo una pagina nera, del credito e delle banche. Gli npl non sono un problema solo italiano, ma lui lo ha fatto diventare tale. Mettendoci del suo.
Bisogna che le banche italiane si spoglino degli npl per favorire “la City”, cedendoli gratuitamente? Perché non dirlo, perché affondare i risparmiatori (azionisti e obbligazionisti) e in qualche modo, sicuramente, anche i correntisti, che in Mps sono cinque milioni, nei servizi se non nella disponibilità? È come si dice, che il diavolo fa le pentole senza coperchi.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (292)

Giuseppe Leuzzi

 “Se devo sposare un terrone\ che almeno sia un barone”. Non è stato detto? Pensato sicuramente sì. Adesso non usano più, ma per decenni abbiamo avuto libri di memorie di gentildonne del Nord che hanno sposato meridionali – adesso non usa più sposare meridionali, gli immigrati subentrano (oppure non usa più sposare)? Memorie sempre generose, ma: è così che i baroni si sono moltiplicati nel Meridione?.  

“De Reditu”, film di forte impatto emotivo e storico, è girato per il lungo pellegrinaggio in barca  sul litorale jonico della Calabria. Poiché il ritorno di cui al titolo è da Roma verso l’Aquitania, la vecchia Gallia, con la costa tirrenica quindi a destra, se ne deduce che in Calabria si girava il film con l’imbarcazione in discesa verso capo Spartivento. C’è dunque un Sud che può essere Nord, e viceversa.

Grandi controversie dinastiche per il titolo di Duca di Calabria, tra  Borboni. I Borbone di Napoli si sono sposati un paio di generazioni fa con un ramo collaterale dei Borbone di Spagna, facendo espresso atto di rinuncia al trono di Napoli. Ma ora che Carlo di Borbone delle Due Sicilie ha stabilito, in base alla regola della “primogenitura assoluta”, che la sua erede sarà la figlia primogenita, Maria Carolina, i cugini di Spagna rivendicano il diritto, in quanto hanno l’erede maschio. Però. Cioè: una sua centralità il Sud ce l’ha.

La marginalità come privilegio
Simone Leys fa il caso, a proposito del poeta Henri Michaux, suo conterraneo belga, del privilegio della marginalità. Nel caso di Michaux (e, sottinteso, dello stesso Leys) di essere belga nella lingua - e forzatamente la cultura – francese: “Michaux era belga. Non soltanto era belga, ma per di più di Namur – la provincia di una provincia (i Francesi raccontano barzellette belghe, i belgi raccontano barzellette namuresi)”. È da qui, da questa estrema “insularità”, che non è isolamento, che il poeta ha preso l’avvio per la sua incomparabile esperienza di poeta multitudinario, e viaggiatore.
Lo stesso si può dire di Borges. Letterato cosmopolita se mai ce n’è stato uno, solidamente impiantato nella coscienza del mondo perché radicato in una realtà che amava e in cui si riconosceva, si riconosceva provinciale. E ne faceva vanto: “Uno scrittore nato in un grande paese corre il rischio di presupporre che la cultura della sua patria gli basta. Paradossalmente, è lui che tende a essere così provinciale”.
Lo stesso Cioran – e come lui altri Balcanici emigrati a Parigi o in Germania: “A 20 anni i Balcani non potevano offrirmi più nulla. È il dramma, e anche il vantaggio, di essere nato in uno spazio culturale minore, qualunque. Lo straniero era divenuto il mio dio”.
È quello che qualsiasi intellettuale meridionale sperimenta: il vuoto attorno a sé, e l’automatica elezione dello straniero, del settentrionale, a dio, sia esso stupido, violento, razzista, analfabeta.
È la chiave del “mistero” Alvaro. Che fu italiano frequentando l’Europa più grande, Parigi, Berlino, Mosca. Non da esterno, da corrispondente o inviato di giornali tanto “per fare fatture”, ma in vario modo partecipe e corrivo – le sue corrispondenze si leggono ancora con interesse. E in Italia era un meridionale, e anzi un calabrese, anzi uno d San Luca – marchiato dai racconti che gli diedero fama, “Gente in Aspromonte”.
Una chiave che funziona ben prima dei vent’anni, non ci sono esperienze al Sud che si possano tesaurizzare. La riserva di creatività resta allora intatta, oltre che acuita?
Come può funzionare in positivo la marginalità? “Al fondo della marginalità c’è la coscienza diffusa di una mancanza”, nota Leys. A partire dalla lingua – “nell’uso del francese i belgi sono tarlati dall’incertezza”, figurarsi i meridionali con l’italiano.

Milano
Esterofila, tedeschizzante, antitaliana. Si legge il “Corriere della sera” chiedendosi a ogni pagina: ma dove siamo? Cje si tratti di economia, cioè di sopravvivenza, di progetti politici, di sport, di automobili.
Ma perché Milano si vuole la capitale d’Italia, che disprezza, e ogni giorno abbatte?

La mafia aggredisce Milano, come no, Anzi, naturalmente, si era impadronita dell’Expo. Spedendo in Sicilia nientedimeno che mezzo milione di euro, in contanti, esentasse quindi, opera magari di sovrafatturazioni, che trasferiva in un camion. Questo la città annuncia in pompa magna e vuole credere.
Senza colpa dei dirigenti Expo naturalmente, si sa che la mafia è traditrice. Dice che non è mafia, al punto che le autorità ci credono, quelle che danno  i certificati antimafia.
Senza senso del ridicolo nemmeno. Si tratta di 500 mila euro, non di 500 milioni, ma si sa che i meridionali, la mafia è meridionali, non sanno il valore del denaro.
Questo non c’è bisogno di dirlo, si sa.

Non vi si può passeggiare. Anche solo per l’igiene. Prendere l’aria. Figurarsi oziare. Non s’incontra nessuno e comunque siete guardato male.

Dentro, però, l’attività langue. Operosa, affaccendata, ma inerte, la produttività è prossima a zero – efficienti sono solo le segretarie. Avendo lavorato in tre distinte aziende con sedi a Milano e a Roma, la differenza di produttività si può dire abissale.
 .
Il governo progetta due no tax area, di libero scambio, una a Milano nell’area, e una a Bagnoli. Per attrarre i capitali in deflusso da Londra dopo il Brexit  precisa. In realtà per far passare il progetto, che era stato individuato per Bagnoli. Milano non dà nulla, vuole tutto per sé.

Come può candidarsi Milano a sostituire Londra cime centro direzionale europeo per le multinazionali extraeuropee, banche e aziende, a fronte di Dublino, dove si parla anche inglese, e non si pagano tasse, o di Berlino e Parigi, tanto più centrali? Ma basta dirlo, e ci dobbiamo credere.

Berlusconi si sarebbe  tenuto Brocchi, taccagno. Arrivano i cinesi e impongono Montella almeno un po’ di spettacolo. E magari il Milan farà meglio: la capitale economica e morale dell’Italia a scuola dei cinesi.

Per alcuni mesi la più grande Banca milanese e d’Italia, o la seconda più grande, Unicredit, non ha un management. Senza scandalo. Fosse capitato alla banca dell’Irpinia, se ne c’è ancora una dopo il domino ambrosiano?

Milano non sarà invidiosa? Si voleva frou-frou, la Milano di Camilla Cederna che pii si fece “da bere”. Ma è visibilmente incapace di guidare l’Italia, come pretende da un trentina d’anni. Avendo liquidato Torino, e l’industria, ci tenta da allora con Roma. Ma non ha dato né suggerito niente di meglio, solo astio: il terrorismo, il leghismo (che è razzismo, il localismo è di tutti, per primo dei meridionali), e Berlusconi pure, che ha tentato di arginare i guasti del leghismo e dell’ (inutile) neo fascismo.

Superficialità? No, invidia. Un evento minimo del più remoto paesello della Calabria, ci scatena sopra il “Corrierone” coi suoi pezzi da novanta. La più minuta stupidaggine comunale di Sardegna? La più futile alzata d’ingegno napoletana? Non lascia passare nulla. Chiudendo un occhio e anzi tutt’e due sulla capitale del latrocinio, dell’inquinamento, delle esondazioni, della droga, che è Milano stessa. Dove si rubano i patrimoni e anche gli interessi. E non si depurano le acque.

leuzzi@antiit.eu 

Il profeta dell’irrealtà reale

Uno scrittore di assoluto rilievo -  “il Dostoevskij del nostro tempo”, lo dice altrove. Finora trascurato perché “scriveva male”, veloce e per un pubblico di genere. I romanzi mainstream rifiutati, di qualità o comunque di ambizione letteraria, alla fine saranno otto – forse undici. Scriveva vorticosamente, quando scrveva. Ma è solido alla rilettura, e quasi filosofico: il romanziere dell’epoca, degli “anni ruggenti” postbellici. Il tempo disarticolato è il suo topos. Invece di un futuro ipotetico, un altro passato – un modo originale di “vedere” la storia. La realtà si sottrae, si trasforma, si maschera – inafferrabile. Con singolari anticipazioni nei romanzi di tutta le tematiche commerciali relative oggi alla rete: intrusioni, furto dei dati, affare privacy. Profeta anzi dell’iperrealtà. E inventore del falso falsificatore. Dick si può anche leggere come un fenomenologo, il più coerente e approfondito anzi tra i fenomenologi, con i continui piani sommersi che porta in superficie, dei fenomeni spirituali e anche fisici – giunse a diagnosticare al figlioletto Christopher un’ernia strozzata che i medici non vedevano, dai sintomi.
Una vita problematica. Per scrivere si aiutava con ogni sorta di supporto, dalla anfetamine “in su”. Al costo di un ricorrente sentimento di inadeguatezza negli intervalli, e quasi di depressione, E sempre ricaricato a scrivere da donne impietose, la madre, le tante mogli, relazioni che da monogamo riteneva di dover subito santificare, e da un paio di amiche determinanti, anche loro conviventi ma senza rapporti intimi – una lo convertì al cattolicesimo, un’altra alle droghe pesanti. E “come sempre quando si sentiva colpevole, s’inteneriva sul suo proprio conto”, si ricaricava e ripartiva. Con attacchi peraltro ricorrenti di paranoia, in cui tutte le sue debolezze erano colpa di qualcuno, l’Fbi al tempo del maccarthysmo, la Cia al tempo della guerra fredda, o la Russia, e un paio delle mogli - una la fece ricoverare in manicomio. O di schizofrenia. Questa anzi costante, nel sottofondo, nella scissione costante della realtà – informazione, visione, persone, anche vicine, futuro, presente, passato.
I dati di fatto di un’esistenza breve e complicata non mancano. La gemellina morta di pochi giorni per l’inettitudine della madre, la madre solitaria, avventurosa e castratrice, il padre ridotto alla maschera antigas degli arruolati della prima guerra mondiale e poi perduto – sarà quello che lo seppellisce. Il maccarthysmo, con l’Fbi alle calcagna, Nixon e il Watergate, la Cia e i Russi. E l’incredibile era dell’Lsd, gli anni Sessanta. Dopo un’adolescenza tutta musicale – al punto che, con la madre, fu in grado di riconoscere qualsiasi brano di musica classica dalle prime note. A Oakland, già negli anni 1950 “il centro del mondo” delle libertà”, a partire dall’abbigliamento, e dal fumo. Scrittore per caso, ma subito furioso: subito all’esordio, prima delle anfetamine, l’Lsd, l’eroina, l’alcol, e altri corroboranti. Carrère censisce un’ottantina di racconti, sette romanzi di fantascienza, e almeno undici otto romanzi “seri”, mainstreaeam  - tutti rifiutati (un giorno arrivarono quindici rifiuti), fino che Dick non ne coltivò più l’ambizione. Sposato già da ragazzo, “monogamo compulsivo”, lo sarà un’altra mezza dozzina di volte, talvolta con un figlio. Sopravvissuto a vari suicidi. Finché in ultimo, benché diviso tra furori e cliniche psichiatriche, diventa amministratore del condominio dove ha comperato casa.
Questa di Dick è il genere di biografia che affascina Carrère, narratore dei destini altrui, che nella bionotizia si dichiara “nipote d’immigrati russi”. Una biografia da romanzo. Ma questo non basta al biografo, che la deve fare opera sua, con centinaia di pagine, almeno un paio di mondi immaginari, rileggendo le opere di Dick. Una sorta di alter-biografia: Carrère sente Dick suo “eguale”, da cultore del genere, da ragazzo e poi da scrittore, autore di almeno un remake da Mattheson, “La Moustache”. Con una scrittura mimetica per larghi tratti, che disorienta.
Paranoie
Il biografo non lesina sule debolezze del personaggio: le paranoie, i deliri, anche artificiali, le derive violente (contro un paio di mogli, madri peraltro di un suo figlio) e\o autolesionistiche, e da un certo punto  l’invasamento religioso, paolino. Dopo la conversione Dick visse nella “atmosfera dei libri sacri”, da profeta - Carrère arriva a farne un novello san Paolo, senza blasfemia, anzi, posto che “Ubik” è Dio. Ma nella sua redazione-narrazion,e molto più sottilmente che in quella di Dick, a tratti grottesca, tutto appare più realistico del reale. Compresi i deliri di varia natura che lo stesso Dick a tratti si riconosceva.
Visse febbrile gli ultimi otto anni, immerso nella redazione di quello che chiama non una diario ma una “esegesi” e intitola “Apologia pro vita mea”: ottomila pagine che attendono di essere messe in chiaro: “Dio, che periodicamente chiama Siva”, sintetizza Carrère, “gli parlava come aveva parato a Mosè”. Fino al furto, un 7 novembre, di tutte le sue carte custodite in cassaforte. Di cui la polizia sospettò che fosse stato l’autore, in amnesia. Uno statuto borderline che sembra un privilegio, di creatività – l’incidenza della follia nella creatività resta da decifrare. Carrère si limita a rilevare che dalle sue narrazioni è derivata tanta filmografia di successo, con un che quindi di inconscio collettivo: “Blade Runner”, “Minority Report”. “Total Recall” – ma anche “The Truman Show” e  “Matrix”. E che la sua irrealtà è diventata la nostra realtà con l’avvento del virtuale.“L’idea che la rappresentazione della realtà si sovrapponga alla realtà e la rimpiazzi, la abolisca completamente”, spiega a Stefano Montefiori su “La Lettura”: “Si è formata una visione dickiana del mondo, che è una delle griglie di lettura più giuste, pertinenti e vertiginose che esistano”.
.Una scrittura a tratti mimetica. Non tanto nelle parafrasi delle narrazioni dickiane, quanto proprio del dato biografico: tutto di Dick appare più realistico del reale, come le è nei suoi romanzi, compresi i deliri, i deragliamenti, le paranoie, anche se insistite. Per addict. Carrère ne è un, che a sedici-diciotto anni andava in giro, dive, occhialetti tondi sul naso, a ripetere “Dick è il nostro Dostoevskij, ha capito tutto”.
Soprattutto si deve a Carrère l’aspetto “paolino”, per quanto bizzarro o blasfemo ciò possa sembrare, della personalità – dopo la conversione – e l’opera di Dick: “San Paolo non era così diverso da un agitato geniale come Dick. E Dick era cosciente di questo: se aveste ascoltato san Paolo all’epoca, diceva, non gli avreste creduto più di quanto non crediate a me”. Che non vuole dire niente, la fantascienza non è la rivelazione. Ma Dick ci credeva, e lo fa credere. È un dato di fatto che molte sue fantasie si sono inverate. E chissà se il tempo esiste ancora, sommerso com’è dall’istantaneo, come la verità è sommersa dal  falso. Inquietanti, Dick e Carrère.
Se ne esce un po’ ammaccati: 400 pagine di paranoie non sono senza conseguenza, resta arduo distinguere quelle fondate o con qualche fondamento. L’esercizio è ammirevole, di bravura. Del resto erano anni diversi, ammirevoli?, dai Beatles a Regan al potere. Ma anche per gli amatori, una metà delle pagine non sarebbe stata meglio?
Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi, pp. 351 € 19

mercoledì 6 luglio 2016

La forza sia con voi – la misericordia è veleno

 “Per una razza di giganti l’amore sarebbe stato un delizioso cuscino su cui sognare voluttuosamente nuove imprese. Ma per i deboli è una rovina”. Non l’amore dei sensi: “All’amore del prossimo mi riferisco, alla compassione e alla pietà, alla grazia e all’indulgenza. Nel nostro animo non potrebbe instillarsi veleno peggiore!” Inetti siamo e indifesi, per questa falsa pietà: “Ci hanno limato le zanne e gli artigli, predicandoci amore. Ci hanno tolto dalle spalle la ferrea con voi”.
Non è “Guerre stellari” ma il fragile Rilke, all’esordio letterario, tra i 18 e i 24 anni. Che all’“Apostolo” incognito di questo antivangelo – o è il vero? - fa fare una rapida apparizione alla tavola comune di un albergo opimo. Una diecina di brevi prose di cerebrale elegia, su fondo di ironia – malgrado tutto compassionevole (se non altro con se stesso, nell’autobiografico “Pierre Dumont”. Scene intimistiche, di personaggi borghesi, anche se si vogliono gente “vicina alla terra, alla creta, alla materia grezza” – sono racconti di un Fine Secolo mitteleuropeo già cecoviano, ma non bisogna pensarci (Rilke sarà migliore poeta).
Rainer Maria Rilke, Racconti scelti, Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50


martedì 5 luglio 2016

Problemi di base - 283

spock

Invece che ti faccio nero, scorretto, diremo ora ti faccio francese?

Un squadra con due centravanti che dal dischetto del rigore non centrano la porta?

Ma Ferrari corre per (non) far vincere Vettel?

Dopo Alonso?

Dove si ferma l’autodeterminazione dei popoli? In Spagna sì, in Gran Bretagna sì, in Ucraina no?

Non a che ma a chi servono le sanzioni?

Che altra funzione hanno?

Animiamo il pet perché abbiamo disanimato le persone?

C’erano i giganti, ora tutti digitanti?

Perché i gay vogliono sposarsi e gli etero no?

spock@antiit.eu

Il privilegio di essere Vw

È nata creatura privilegiata di Hitler, e tale si è mantenuta anche dopo – grazie all’America, al mito americano del Maggiolino, macchina impossibile. Ora la condanna americana ne sanziona brutalmente le pretese, pronunciata nei termini in cui si condannano i delitti di mafia. La condanna Usa colpisce peraltro una parte minima dei diesel venduti col trucco da Volkswagen nei sette anni dal 2009 al 2015: meno di mezzo milione su un totale di dodici milioni – la condanna è una vittoria, l’ennesima, dell’auto hitleriana del popolo?
La condanna di Volkswagen negli Usa, sottaciuta, anche perché formalmente si presenta come patteggiamento, con un riconoscimento di colpa quindi solo implicito, è enorme non solo nella misura finanziaria. Che pure è senza precedenti: 14,7 miliardi di dollari, con cui ricomprare il mezzo milione di diesel truccati messi in commercio. I precedenti di class-action di grande rilievo hanno avuto esiti molto più contenuti: un milione contro Enron nel 2008, 1,1 contro Toyota nel 2012, e 2 milioni contro General Motors nel 2015. Il vice-ministro della Giustizia Sally Yates ha potuto apparentare Volkswagen a una mafia: “Volkswagen ha ridotto quasi mezzo milione di automobilisti americani a complici stolidi di un assalto senza precedenti al nostro ambiente”. Sono 470 mila le vetture diesel vendite tra il 2009 e il 2015 equipaggiate con un software in grado di mascherare, nelle prove, emissioni inquinanti superiori quaranta volte ai livelli legalmente tollerati.
L’origine dello scandalo viene riportata all’assunzione della guida di Vw da parte di Martin Winterkom nel 2007, con l’ambizioso programma di farne la prima casa automobilistica in un dozzina d’anni, “Strategia 2018”. Come? Col vecchio imperativo tayloristico degli obiettivi di vendita prefissati, o “top down”: ogni livello deve raggiungere obiettivi di produzione e vendita ogni anno incrementati. È una strategia aziendale diffusa in Germania, per esempio nella Deutsche Bank di Josef Ackermann, che portò a vari suicidi. E negli Usa – Apple è così organizzata, e anche la General Motors. Un’inchiesta di Jeffrey Rothfeder per il “New Yorker” riassume l’organizzazione top down in una pressione insopportabile, alimentata dall’intimidazione, a ogni livello, che crea una cultura aziendale borderline, ai limiti dell’etica, e se necessario più che borderline”.

Mps ai/alle Popolari

Monte dei Paschi alle Popolari? È il disegno di Renzi. Ma perché non dirlo, perché alienarsi ancora tanti risparmiatori?
È indubbio che c’è un attacco sul Monte dei Paschi di Siena.
È indubbio che la Bce lo favorisca. Non è mai successo, e non è altrimenti pensabile, che una banca centrale affondi una banca.
È indubbio che il governo non fa nulla per difendere la terza banca italiana.
È indubbio che gli organismi di controllo, Banca d’Italia e Consob, non fanno nulla per difendere la terza banca italiana, e anzi la vogliono indebolita.
Sono quattro certezze gravi e gravissime. Abbastanza in altra temperie per un rivolgimento, contro il governo e la Bce. Matter-of-fact invece per l’Italia 2016, i suoi media, i suoi partiti. Naturalmente Mps non fallirà. Anche perché è la banca italiana con l’avviamento più produttivo, e con una gestione ottima, se si fa la tara dei crediti incagliati disposti prima della crisi. Ma non per questo la vicenda andrebbe sotto silenzio, come sta andando: ci sono più aspetti sgradevoli, e anche illegali, che vanno messi in chiaro.
La Bce è quella che è, e non c’è da chiedersi perché – se ci sarà una Norimberga della crisi sarà la prima imputata. Forse incapacità, forse subordinazione alle banche d’affari, alla speculazione. La crisi degli npl, dei crediti a rischio, è solo italiana, mentre il problema è europeo: l’Italia ha 51 miliardi di crediti incagliati su un totale europeo che il Fondo Monetario stima in 900 miliardi. Perché il problema è solo italiano? E perché da Francoforte arrivano allarmi solo su Mps - un grimaldello per scassinare tutto il sistema?
Le altre tre certezze hanno un motore. L’attacco è opera di speculatori al ribasso che si ricoprono  a termine, nonché delle finanziarie del recupero crediti che assolutamente vogliono i crediti incagliati di Mps a prezzi di realizzo, non al 30-35 per cento del valore facciale, come sa, ma al 20-22. Il businesa dei crediti incagliati, non performing loans, è ernome: il governo americano, che li ha rilevati dalla banche in crisi e poi riscossi o rivenduti, ci ha guadagnato 16 miliardi di dollari.
Ma il disegno è unico – ci concorre il recupero crediti nella persona di Serra, fiduciario di Renzi, e altri uomini di mano non dichiarati. La corrispondenza del “Financial Times” che ha reso pubblici i rilievi Bce a Mps è stata concordata a palazzo Chigi. Mps è preda designata del sistema delle popolari che Renzi con Visco stanno consolidando. O la vecchia-nuova Dc – i Popolari, l’ala marciante del compromesso di Berlinguer. Che con Mps avrà il controllo di tutto il sistema del credito.

Il mercato globale è di Marx

Vacca, ora a capo della Fondazione Gramsci, “salva” Marx attraverso Gramsci. Che per la verità non è marxiano, non nella tipologia della ricerca. A meno che entrambi non siano recuperati nella personalità. Che è liberale. Non cioè ideologico e ideologizzante. Del resto, quello che Vacca propone è di recuperare con Marx una migliore lettura della globalizzazione. Questo è ambizioso, ma di Marx bisogna riparlare, è vero.
Marx è seppellito sotto il marxismo-leninismo, settant’anni non sono passati invano. Tutto Marx vi è seppellito, compresa l’edizione italiana delle opere, che ripete quella sovietica. Nessuna rilettura dopo la caduta del sovietismo (che si diceva marx-leninismo, per chi non lo ricordasse), ormai sono quasi trent’anni. Anche se il vero Marx non c’entrava nulla con l’Urss.
Marx è molte cose. Filosofo, storico, scrittore, polemista, uomo di partito soprattutto, molto attivo e fazioso, che ogni avversario, com’è caratteristico della vita dei partiti, puntava a liquidare. Politicamente era un liberale socialista. Che per distinguersi elaborò un socialismo “scientifico” al posto di quello “utopistico”, il comunismo. Ma indagava i fenomeni, economici e politici, compresi l’imperialismo e lo sfruttamento del lavoro, con animo sgombro.
Rileggendolo attraverso molti scritti, le corrispondenze giornalistiche, le opere storiche, le prime opere filosofiche, e in parte lo stesso “Capitale”, sarebbe un ottimo pensatore libero del mercato. Libero cioè dal pregiudizio mercatista, che tanti danni ci sta infliggendo, grazie a un’opinione miserabilmente corriva – tanto più se non assoldata: nell’impresa, che nessuno ha celebrato più di lui, pulsa la vita.
In un certo senso Vacca ha torto, molto Marx si cita ancora. Ma, è vero, senza leggerlo. Una colonna emergerebbe – tralasciando la sua attività politica dopo la delusione del Quarantotto – liberale. Non del tipo romantico, di quello realista, dopo Machiavelli e Hobbes, che si occupano delle condizioni reali della libertà.
Marx era e rimase un borghese, il diavolo ne avrà preso possesso, anche quando dalla rivoluzione passò al materialismo e al proletariato. Fu protagonista del Quarantotto, col suo giornale, la “Neue Rheinische Zeitung”, sostenendo la guerra tedesca contro la Russia, la Danimarca, e i polacchi austriaci. Compagno e mallevadore, già autore a ragione celebrato del “Lohengrin”, quel Wagner che proclamava “il tedesco è conservatore”, e “solo l’assolutismo è”, grazie a Dio, “tedesco”. Marx  nasce romantico, e per questo, per farsi perdonare, esagererà nella critica: il suo borghese sta tra il romantico e il filisteo, che è  il borghese non romantico. Poi fu un emigrato. Arrivò al socialismo critico non dai bisogni del proletariato, che non conosceva, ma da se stesso, giovane, tedesco, intellettuale del Marzo ’48, eretico per esigenze di ruolo, il condottiero che, aperto un varco, ci erige sopra il suo castello, da hegeliano. E da hegeliano rovesciato il castello lo fa al quadrato. Che non è apostasia, non c’era il marxismo all’epoca, ma un modo d’essere, non antipatico.
Marx sarebbe stato in guerra coi suoi esegeti - li avrebbe spernacchiati, usava così: lui non ha colpa del chiacchiericcio che lo ha seppellito, parlava e scriveva diretto. È Cristo, anche se non lo sapeva, con la barba, evangelico – se era ebreo, s’è convertito: per il dovere del paradiso in terra, della giustizia. Un Cristo laico, per la fregnaccia del Diamat. La classe resta vaga, su cui ha scritto migliaia di pagine, ma non sarà una goliardata? Marx non ha una teoria politica.
Molta politica del resto è retorica, un bel dire: Marx lo scoprì di Machiavelli, che riscriveva Sallustio, “La congiura di Catilina”, o Tacito, che rifece Sallustio.
Si vuole Marx economista e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il primo marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione antiliberale. Marx fu economista fantasioso, essendo autodidatta, mentre fu politico mediocre - litigioso, invidioso, e inefficace. Marx del resto è Napoleone, seppure con la ghigliottina di Robespierre. Pensa come Napoleone più che come Hegel: semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista napoleonica. La Rivoluzione fu episodica, si sa, e frammentata: mozioni confuse, assemblee vaganti, strane peripezie dei protagonisti, che sono tanti e nessuno, la violenza della plebe a Parigi, il silenzio del popolo in Francia, le restaurazioni. Ci furono semmai tante rivoluzioni, insieme e in successione. Napoleone ne fissò il nome, che non vuole dire nulla.
I Marx erano, e sono, una famiglia nobile dell’ortodossia ebraica. Nel ’48 Marx ebbe a compagna di rivoluzione, con Wagner, Malwida von Meysenburg, benché già matura. Nei gironi di Dante starebbe a uno superiore, grande la barba, segno di saggezza, e il carico di gloria, ma assiderato nel cuore e le membra per l’errore di giudizio. Per avere congelato il lavoro, la più democratica delle passioni. Mentre l’economia che realizza le condizioni da lui poste per il comunismo, quella yankee, ne è immune, e anzi vaccinata.
Sarà come dice Berlin, che “Marx ha diviso l’eredità, il capitale ha lasciato all’Ovest, all’Est il Manifesto”. È vero che il lavoro è semplice, pochi  moduli ricorrenti, la competizione, la fede, la cura, la stanchezza, più frequente che non. È la vita al suo minimo, la sopravvivenza trasferita dalla savana all’aria condizionata, con la busta paga e la pensione, per questo il lavoro non ha buona fama. Ma è il proprio dell’uomo, un atto di fede, ogni mattina, oggi che l’economia è monetaria e bisogna fare soldi, e anche prima, ogni mattina l’applicazione costante a qualcosa di nuovo, sia pure ripetitivo senza residui come il moto perpetuo, un’eterna pedalata. Si è sempre autocritici, quindi anche del lavoro. Ma è parte del lavoro.
Marx è simpatico. Benché abbia scelto Hegel. Non aveva alternativa, l’altra essendo Fichte  - cattivo carattere, l’inventore della nazione, dei primati e dello Stato nazionale chiuso, anzi dello “Stato economico chiuso”, l’opera che modellò il socialismo e più non si pubblica: la libertà è la sicurezza fisica e materiale, la concorrenza fa male. Hegel è altra razza. Marx non parlava con Dio, oppure sì ma non da beghino: beveva, s’infatuava, s’indebitava. Hegel è un pietista rifatto illuminista. Che incrocio, la ricerca di Dio, o anima del mondo, calata nella filosofia per despoti.
Se Hegel fosse stato poeta sarebbe diventato un piccolo Hölderlin, pazzo. Avendo incontrato Napoleone per strada, ne assunse invece la ragione pensando di domarla. Marx è caduto nella rete, lui che non aveva anima né corpo metafisico. Era fatale: la filosofia illuminista, per quanto laica e scientifica, non può non affascinare i duri della storia. Ma non nutre la rivoluzione - anche in Francia, nutrì Napoleone. Oppure sì, nutre la rivoluzione ma nel senso del trickstar beffardo, per frantumarla.
C’era questo antefatto quando lo storia idealista sancì i primati, confondendo la tradizione e ridicolizzando la ragione. C’è ancora chi imputa le guerre ai capitalisti avidi di mercati e materie prime, e le rivoluzioni alla classe operaia, ma per un difetto di vista. Marx è comunque morto cadendo nel bolscevismo, lui che non s’era mai nascosto le formidabili capacità mimetiche della borghesia. Marx non se n’intende, il denaro lo concepì da nobiluomo estenuato, sprezzante - Marx è uno snob, da vero liberale, incorreggibile. E c’è questa cosa da rivedere, anche se la storia latita, gli studi storici: del nazismo che si voleva comunismo, non fosse stato per i “sottouomini mongolici”, gli slavi, che gli avevano rubato l’idea.
Giuseppe Vacca, Quel che resta di Marx, Salerno, pp. 89 € 8,90

lunedì 4 luglio 2016

La Colpa non è del nazismo

Un sergente Ss condannato in Italia all’ergastolo per le stragi di Marzabotto, Vinca e San Terenzo Monti, è premiato novantenne dal paese in Germania dove vive come “cittadino esemplare”. Dopo che il tribunale di Stoccarda si è rifiutato di delibare la sentenza italiana. Un aneddoto da poco, ma di triplice significato.
Il nazismo non era così brutto – a parte lo sterminio, certo.
La Colpa storica ha sgravato i tedeschi e non li ha vaccinati. Li ha anzi confermati nelle buone ragioni, che sono una: c’era la guerra e bisognava vincerla. Chi l’ha preparata e dichiarata, e a che fine, e con che mezzi, con quali accordi e tradimenti, questo non conta e  non se ne fa nemmeno la storia: in guerra si combatte.
Le stragi di Vinca e San Terenzo, anche in parte quella di Stazzema, e quelle dell’Aretino, sono opera della Wehrmacht, dell’esercito regolare cioè, più che delle Ss. L’esercito contò per questo numerose defezioni tra Garfagnana e aretino, qualche migliaio. Ma questo non è materia di autoanalisi o critica: alla guerra come alla guerra.
Del resto – questo si è già detto, ma non abbastanza: perché la Germania non vuole un giorno della Memoria? della Liberazione? della Resistenza? Che pure ebbe rigogliosa: la più numerosa, determinata e perseguitata, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di carcerazioni, dell’Europa fascista?



Il calcio è una squadra

Si ride dei due centravanti che, tra balletti e sarcasmi, sono riusciti a non centrare la rete avversaria dal dischetto del rigore. Ma sono la coda di un errore più grande: la squadra dell’allenatore. Dell’allenatore demiurgo, di cui i calciatori sono pedine. Mentre il calcio si gioca in gruppo, è gioco di squadra, e un buon club, come una buona Nazionale, è una squadra. Un gruppo di atleti che giocano da tempo insieme, e più che altro a memoria, di istinto.
Va molto ora allenatore risolutivo, anche a caro prezzo – anzi si paga l’allenatore più di qualsiasi atleta. Il piccolo capolavoro di Mourinho all’Inter, benché in parte effetto del caso, ha creato un mito e un culto perniciosi. Ma in Italia era vizio antico: l’allenatore demiurgo risale a Bernardini, che quando ebbe in mano la Nazionale in augurò quelli che ora si chiamano stage. Convocando questo e quello, tra i quali si riservava di scegliere i  migliori.
Bernardini fallì. Poi vennero uomini di buonsenso. Ma poi venne Sacchi e il demiurgo s’impose: convocati a valanga, per prove di nessun valore, e tecnico tanto autoritario quanto confuso.
Conte ha moltiplicato questa tendenza, prendendo per buono il messaggi pubblicitario che la Juventus aveva costruito attorno al suo operato – una squadra che in realtà operava bene prima, e ancora meglio dopo di lui. Della sua squadra all’Europepo hanno funzionato bene solo i quattro juventini là dietro, che giocano da una vita insieme. Con l’ausilio dei due romanisti, quando hanno potuto giocare dove sanno giocare. I ballerini che si sono succeduti avanti hanno solo ballato, e più per il peggio, anche se qualche volta con fortuna.

Letture - 264

letterautore

Autore – Non può essere che un dilettante, a giudizio di Rousseau: “Ho sempre sentito che la condizione di autore non era, non poteva essere, illustre e rispettabile se non in quanto non era un mestiere. È troppo difficile pensare nobilmente quando non si pensa che per vivere”. È il suo tratto più attraente: visse di poco. I suoi libri erano lettissimi in tutta Europa, ma non essendoci diritto d’autore non ne guadagnava niente. Negli ultimi tempi rifiutò anche le offerte di illustri mecenati, organizzandosi per vivere come copista di musica: calcolò il numero di pagine di musica da copiare che gli era necessario ogni giorno per sovvenire al suo modesto ménage, e una volta raggiunta quella quota si riteneva libero per il resto della giornata, per riflettere, scrivere e passeggiare.
All’altro estremo Voltaire, che invece investì giudiziosamente, ebbe fortuna, e si creò una rendita cospicua, che lo lasciò libero di scrivere a piacimento, senza dover mendicare favori o protezioni.
È nell’Ottocento che nasce il diritto d’autore. Che sembra liberare lo scrittore e invece ne modifica la figura. Per l’ambiguo rapporto che l’autore sarà obbligato a intrattenere con l’industria editoriale. Che moltiplica e migliora la stampa e la circolazione (distribuzione ), ma non la qualità.
La pubblicazione libera, online o autoprodotta, può mutare l’industria editoriale ma non migliora le cose (la qualità), giacché sconfina nei social, vi si confonde.

Céline – Costernante nelle interviste - superficiale, ripetitivo. Genere di cui era goloso, se ne fanno corposi repertori, pur giocando all’eremita misantropo e un po’ barbone, col maglione sdrucito in mezzo ai gatti, e cercando di imitare nelle risposte la scrittura. Mentre rimesta continuamente, per anni, per decenni, gli stessi argomenti, il collaborazionista-perseguitato – una sorta di polemista professionale al talk-show, si direbbe, un ruolo prefissato.

Conrad – Viene proposto come scrittore di avventure, mentre ha tipi – Lord Jim, Kuntz – piuttosto disorientati. Sognatori e irresoluti più che uomini d’azione, rifiuti anche della storia, Non eroi ma falliti, ossessionati dal fallimento. 

U. Eco – Gli si imputa lo scadimento della semiologia nello scadimento dei soggetti e dei valori: Mike Bongiorno, il “feuilleton”, etc. Mentre era il contrario: perfino rigido (dogmatico) nell’analisi dei segni, e dei limiti\illimiti dell’interpretazione. Nonché sui valori, sempre per lui “classici”, benché fosse un pre-digitale, proiettato su tutte le innovazioni dellelettronica, e come editore portato a considerare il mercato.
Come scrittore tenta un difficile raccordo, e si può anche dire che ha fallito – alla rilettura i romanzi sono intollerabili.

Giallo – Quello mediterraneo è consolatorio - un  po’ melenso. Con i morti, con le mafia anche, ma senza tanta cattiveria. Non punta all’effetto horror (paura) quanto a quello consolatorio, del bello e buono che tuttavia il Mediterraneo offre: Pepe Carvalho il cibo, Montalbano le donne, Charitos la famiglia e il vocabolario. Tutt’e tre  i giallisti mediterranei, Montalbàn, Camilleri, Markaris fanno grande spazio alla convivialità. E benché di maniera i loro racconti sono reali – forse per i nordici, per chi frequenta i loro posti in vacanza (anche per i nordici italiani).

Holden – Il “New Yorker” rifiutò l’estratto che Salinger aveva mandato in anteprima, da apprezzato collaboratore – il settimanale ricorda il rifiuto nel’edizione domenicale online. Salinger era collaboratore assiduo del “New Yorker”, che ne aveva pubblicato sei racconti, tra essi “Un giorno ideale per i pescibanana” e “Per Esmé – con amore e squallore”. Ma quando in redazione arrivò l’estratto, chi lo lesse concordò che la precocità dei quattro Caulfield non era credibile, e che la scrittura era “showoffy”, pretenziosa.
Lo stesso fece l’editore di Salinger, che ne aveva sollecitato il racconto lungo, Harcourt Brace. Dove un altrimenti ignoto dirigente, Eugene Reynal, “raggiunse l’immortalità nel modo sbagliato, lamentando che non riusciva a capire se Holden Caulfield era supposto essere pazzo oppure no”. Subentrò la casa editrice Little, Brown, che lo pubblicò l’anno dopo, luglio del 1951, e ne ha venduto finora oltre 60 milioni di copie”.

Incostanza – Il tradimento è svanito, dopo tre secoli di letteratura. Di letteratura femminile quasi femminista, benché maschile, a opera di  uomini – anche se a partire da madame de Lafayette. (o dalle “Preziose” di qualche decennio prima?). Di migliaia (milioni?) di romanzi, col vertice in Laclos. Fino ai tanti romanzetti “di costume” francesi. Molti opere di donne – da noi li rifà Camilleri.

Intelligenza – Proust (“Contro Sainte-.Beuve” e altrove) la dice secondaria rispetto alla creatività. Ma lui la coltiva molto, egregiamente. E Gadda, Calvino, Soldati? Manzoni? Il Settecento francese? Borges sa fare dell’intelligenza racconto. Anche Sciascia.

D.H.Lawrence – Scriveva per una forma di compensazione. Di ciò che non poteva o non riusciva a provare? Per esempio da ultimo il sesso. O in tanti racconti la disinvoltura italiana – oggi è di moda dirla sprezzatura? In un certo senso, è come ne diceva Orwell, che gli attribuisce “la straordinaria  capacità di vedere con l’immaginazione ciò che non può conoscere con l’osservazione”, con l’esperienza.

Lettori – Keynes ne stimava quattromila per un’opera prima, tra parenti, amici e conoscenti. Era un cattivo economista? Anche quattrocento, dove li trovava – acquirenti, anche se non lettori? Anche gli happy few di Stendhal o i venticinque di Manzoni sembrano troppi.
La lettura è casuale – ora è funzione del marketing. Anche la critica: pochi scrittori si sono riconosciuti nella critica, e i più di questi pochi in un solo critico, al più due.

Thomas Mann – “Dove sono i miei occhiali” sono le sue ultime parole. Che si comparano, si direbbe, non favorevolmente col “Mehr Licht”, più luce, che si attribuisce a Goethe. Ma Thomas Mann ha probabilmente in Germania più followers di Goethe – in patria non molto apprezzato.

Nichilista . È creatura russa, si sa, ma anche un puppet? È quello che sosteneva Oscar Wilde: “Il mondo è triste perché un pupazzo divenne  un giorno malinconico. Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va all’assalto senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. È stato inventato da Turghenev, e completato da Dostoevskij”.

Ninfee – Quelle di Monet sono un culto. Se ne fanno mostre, se ne scrivono libri, anche gialli, se ne producono docufilm a larga distribuzione. Senza dire che sono un soggetto quasi unico della pittura di Monet negli ultimi anni perché la cataratta gli aveva alterato gravemente la vista.

Ombra – È materia di elogio costante, da ultimo con Borges, Tanizaki, Corbin. Ma anche di contestazione, non solo al Nord, dove non ne conoscono le virtù. Troppi vicini e sindaci tagliano gli alberi, anche se secolari, “perché fanno ombra”. Oltre agli immobiliaristi, per cui meno ombra si fa è più si guadagna –basterebbe questo valore aggiunto per renderla necessaria.

Proust – Snob fino alla dissoluzione dello snobismo – all’annullamento, al massacro. I suoi Guermantes sono dei Verdurin, ingiuria suprema – Proust è “vissuto” Verdurin, sebbene con ironia. Solo che non ne hanno i mezzi mentali: libertà, elasticità. Le reazioni sdegnate dei modelli dal vivo del partito nobiliare lo prova: nella “Ricerca” sentivano un’intrusione e un’offesa, non un omaggio – solo i Verdurin lo pensano un omaggio, che sono i lettori di Proust.

Sartre – Fece pipì, racconta Simone de Beauvoir, “La cerimonia degli addii”, sulla tomba marina di Chateaubriand. Di cui ammirava la qualità della scrittura. Un guasto dell’ideologia? L’invidia?

Non avendo pagato le tasse per un buon numero di anni, quando arrivò l’accertamento, in età matura, corse dalla mamma, Anne-Marie Schweitzer, della famiglia alsaziana di industriali e professionisti (Albert Schweitzer, il Nobel per la pace 1952, era suo zio), che ne coprì l’esborso. Ha avuto una vita di fatto completamente disgiunta dall’immagine che gli fu costruita – si costruì? – intorno.

Vanità  - Nella lettura alla Milanesiana (“Corriere della sera” dell’altra domenica) Magris trascura,  pur dettagliando la vanità sul Battaglia, il fondamento del repertorio: l’“Ecclesiaste” – almeno l’“Ecclesiaste” nella traduzione di san Girolamo, che Ceronetti vuole falsata. Vi manca anche il culto di sé, specie tra gli artisti. Si dice delle donne, ma è prevalente negli artisti, fino alla stizza – nelle donne non è offensiva.

Wagner – Rimproverando a Mozart la “mancanza di serietà”, si definisce pedante (programmatico) e anche un trombone – la creazione è applicazione e scaletta dei lavori, ma anche lievità di spirito. Sulle orme di Berlioz, altrettanto programmatico e serioso.

C’è qualcosa di malsano nel wagnerismo, a partire da Baudelaire. Non in Wagner, che è personaggio, ma nel suo culto. Considerati i limiti – evidenti, dichiarati, vantati – del personaggio.
Senza contare il fanatismo, il culto della personalità. O quello che ne diceva Mark Twain, che la sua musica perde molto a essere ascoltata.

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Le leggerezza del pensiero libero

Piccole prose sparse del sinologo, e storico del mare, belga Pierre Ryckmans – prese lo pseudonimo nel 1971 per denunciare il maoismo delle Guardie Rosse, mentre col nome vero poteva  continuare a entrare e uscire dalla Cina. Divagazioni, sugli argomenti più diversi: il blocco dello scrittore, lo scrittore e il denaro, le ultime parole famose, la pittura “cosa mentale” di Leonardo, Wagner e Mozart, il contingente (casualità), l’elogio del tabacco, il mistero dell’editoria… Con molta Cina, la pittura soprattutto, e qualche lepidezza su Sartre.
Leys è autore di ricerche importanti, sulla Cina e sulla storia del mare, e scrittore pieno di umori. Un incorretto, come altri scrittori belgi di solida stoffa, Michaux, Simenon, Yourcenar naturalmente, Nothomb, altrettanto leggibile. È ignoto in Italia perché non in linea, un orwelliano. Ma per ciò stesso di lettura liberatoria: non ha temuto il conformismo cominformista, il comunismo, una coltre di censura di cui non si misura la portata, quando non si poteva, ma non lo fa pesare, resta lieve nella profondità.
Col suo nome vero riuscì a tornare in Cina più volte, anche dopo aver denunciato “Gli abiti nuovi del presidente Mao” nel 1971, e anzi fu per alcuni mesi addetto culturale belga a Pechino. Ma fu presto denunciato, “Leys è Rycksman”, dagli intellettuali francesi maoisti. Ed ebbe poi la carriera universitaria troncata dai “cattomaoisti” (sembra storia remota…) – emigrerà per insegnare sinologia in Australia, fino alla morte due anni fa.
L’anatema divenne definitivo in Italia nel 1883, quando stroncò “Dalla Cina”, il libro di Maria Antonietta Macciocchi, a “Apostrophes”, la trasmissione di Bernard Pivot sui libri, contestando numerosi errori di fatto e definendo la pubblicazione di “una stupidità totale”, e anzi una “furfanteria”. A riaprire il volume non senza ragione - ma già allora le seicento pagine erano fittissime solo di fanatismo, burocratico..   
Simon Leys, Le bonheur des petits poissons, Livre de Poche, pp. 151 € 5,30