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venerdì 2 maggio 2008

Moro vittima del compromesso storico

A trent’anni dalla “prova assurda e incomprensibile” di Aldo Moro molte pubblicazioni celebrano la vicenda, almeno una trentina in questo scorcio del 2008. Alcune sono riedizioni. Adelphi ripubblica “L’affaire Moro” di Sciascia, Feltrinelli “Il prigioniero” della brigatista Anna Laura Braghetti, Garzanti "In questo Stato", il libello di Arbasino. Moltissime pubblicazioni sono nuove: memorie, ricordi, ricostruzioni, romanzi. E ora un primo libro di storia, a cura di Miguel Gotor, ricercatore all'università di Torino, già segnalatosi nel 2004 con "Chiesa e santità nell’Italia moderna".
Nessuno dei misteri che circondarono l’assassinio di Moro è stato svelato. E forse non ce ne sono: Moretti, Morucci e i loro compagni erano quello che sono, balordi politici. Ma comune alla trasbordante pubblicistica è la riduzione di Moro al compromesso storico. Si usa dire che il compromesso storico è finito con la morte di Moro. In realtà essa lo cementa, questo è il solo significato del suo sacrificio, del “sappia che non faremo nulla” di Berlinguer alla futura vedova. Moro è il santino del compromesso, lo sconcio monumento dell’uomo di fede con “l’Unità” in tasca. Martire di quella che poi è stata ed è la politica nei quarant’anni successivi - anche con i governi Berlusconi, benché portati da un travolgente voto anticompromesso, più che di destra. Una persistenza di cui l’ottica comune di questi libri è una conferma.
Singolarmente assente in questa ricorrenza la figura umana di Moro: nessuna biografia, nessun ritratto. Molti libri, tutti con ambizioni storiografiche, anche se la storia invece non si può fare, senza gli archivi e con fonti documentarie di parte o lacunose. Roland Barthes ne afferrò il ruolo subito, nella primavera-estate del 1978, in un frammento non datato ma riportabile a quell’epoca di una serie redatta negli anni 1977-1979 (nel lutto per la mamma morte): “Affare Aldo Moro: meglio che un martire e non un eroe: sperduto”.

La storia unica
Bianconi usa i materiali documentari per una narrazione libera. Nel presupposto che i personaggi rapitori, cui dà i nomi di battaglia, come nei racconti della Resistenza, e i personaggi politici, se lasciati liberi di interagire secondo le loro pulsioni (Bildung, condizioni di vita, obbiettivi, tutto ciò che fa la personalità), costruiscano una buona parte della verità. Ma con l’effetto di magnificare gesta e persone che erano e restano mediocri. Lo stesso “effetto gelatina”, abbellitore e freddo insieme, del filone mafia reso popolare da Biagi, il giornalista-scrittore per eccellenza, che di killer e estortori, gente senza orizzonte, ha fatto dei personaggi – lo stesso effetto ha il libro di Amara, una serie di interviste con i terroristi, per conto della tv francese per cui Amara lavorava. Il linguaggio piano alla Biagi si vuole attestato di onestà, ma la violenza ne esce magnificata: i cattivi non sono gli assassini. L’episodio del Lago della Duchessa, la falsa comunicazione della morte di Moro, è centrale nel “romanzo” di Bianconi, come un ordine venuto dall’alto di “eseguire la sentenza”, un Cattivo Esterno che si sovrappone alla Grande Umanità degli assassini e dei politici. Mentre resta l’assunto che Moro si scontri con la Ragione di Stato. E questo è il compromesso.
Questo tipo di pubblicistica è affascinante in quanto testimonia come siano i politici a magnificare il terrorismo, a sopravvalutarlo, per essere razionali e progettuali, fino a escludere la stupidità, che invece comanda molte azioni. Il terrorismo che il secondo Ottocento ha confuso con l’anarchia, con la lotta alla tirannide, è oggi quello che si legge e si vede nei suoi attori, ora che non c’è più la pena di morte: confuso, incolto, folle. Ha prosperato in un campo pieno d
’intelligenze: l’anarchismo violento ha sempre servito l’intellettuale brado. Ma la cattiva coscienza della borghesia è finita col Muro, per il bene o per il male. Il terrorista è ora il “perdente radicale”, la nuova figura dell’ex radicale Enzensberger, uno gravato dal risentimento. E non ha più spessore di fronte alla sua vittima. Questo può non essere una colpa, è il martirio che dà l’aura, e il martire è oggi la vittima del terrorismo e non il terrorista. Che però è solo un violento, non ha altra umanità. Il terrorismo è in tutto e per tutto la “prova assurda e incomprensibile” di cui parla Moro nella sua ultima lettera.
Il 1968 era stato la rivolta della sinistra contro il Pci. La Ragione di Stato, inevitabile contro i terroristi, chiude dieci anni dopo definitivamente, con l’assassinio di Moro, la rivolta. A opera delle stesse forze, in parte delle stesse persone, che avevano movimentato il Sessantotto, ma di quelle più vicine alla cultura del Pci, dell’odio e della rivolta armata. Mentre la Dc recupera, al coperto della Ragione di Stato, l’onorabilità che una violenta campagna del Pci di Berlinguer aveva compromesso. Con tutte le batterie di cui disponeva, dal “Corriere della sera” di Ottone a Pasolini, dai compagni di strada, cioè, ai fedeli intellettuali di partito. Compreso “Todo Modo”, il film tratto nel 1976 dal romanzo di Sciascia, in cui Elio Petri fa impersonare il capo dei cattivi politici a Gian Maria Volontè dichiaratamente per la somiglianza con Moro, non dissenziente lo stesso Sciascia. Contro di essa Moro aveva avuto nello stesso 1976, prima di cedere al compromesso, l’ultima reazione politica in linea con le “Lettere dal carcere” e con la sua personalità, urlando alla Camera: “Non ci processerete nelle piazze!” Le brigate del terrorismo, scompaginate, si rivelano fragili, ma il compromesso che esse hanno innestato è solido. Massari, nel suo grosso volume autopubblicato, in una collana di Erestici e\o sovversivi, è quello che sfiora la verità, nell’apparante banalità dell’assunto da vecchia sinistra: Moro morto è la vittima sacrificale della nuova politica, che s'imporrà come un regime, univoco e dominante anche nella storia.
Andrea Colombo coraggiosamente dice la metà della verità: la morte di Moro fu la fine delle Brigate rosse e della sinistra, e insieme dello Stato. Si avvicina a questa verità ricostruendo gli eventi nella logica della Ragione di Partito. Senza dare peso al Lago della Duchessa, che poi è un pantano. “Un affare di Stato” è quanto di più storico si sia finora ricostruito sui 55 giorni. Fu la ricostituzione della Dc e una “guerra civile” a sinistra. Ma, dice Colombo, senza vinti né vincitori, e questo non è vero, vinse Berlinguer. Una vittoria senza benefici, il 1979 avvierà il crollo anche elettorale del Partito, ma con la rimozione o la denigrazione di ogni apporto liberatore del Sessantotto. Il Partito si riduce nella sue varie trasformazioni a comitato d’affari, con lo schermo di anime grigie di sacrestia, e questo è tutto. Ma la normalizzazione che esso impone è potente e totale. E tuttora domina e comprime la società italiana, senza verità e senza progetto.


Moro era un diverso
Non c’è opera di storia, e non ci può essere, mancando gli archivi di Stato e quelli vaticani, degli Stati Uniti, dell’ex Urss, le memorie vere dei protagonisti della vicenda, che non possono non esserci, nonché il ruolo dei socialisti, nel frattempo scomparsi, dei magistrati, degli inquirenti, dei tanti comprimari. Miguel Gotor, ricercatore all’università di Torino, tenta un primo approccio non condizionato dalla politica. Dando nella premessa, nella nota conclusiva e nei riferimenti contestuali, una rappresentazione diversa del personaggio e della vicenda: il rapporto interno\interno, fra il rapito e i rapitori, il dentro\fuori, con la famiglia, i giornali, i partiti, e l’interno\esterno fra i gruppi terroristici. Tre reti che prefigurano fecondi sviluppi.
Di più, l’epistolario, “forse il più importante del Novecento italiano”, accerta nella lettura di Gotor la diversa dimensione di Moro rispetto alla politica del tempo e successiva. Del potere costruito col lavoro politico rispetto a quello ereditario. Dei “cavalli di razza” rispetto alla scialba trimurti del patto di San Ginesio, Andreotti, De Mita, Forlani. Della generazione della costituzione rispetto alla politica di potere di Andreotti e Berlinguer. Fino all’eliminazione di tutti gli altri partiti di governo, compresa la Dc non allineata al compromesso. Belpoliti, che in “Settanta”, una passeggiata tra i boschi letterari di quella decade, si era imbattuto in Moro con Sciascia, si avvicina da scrittore a questa verità, la stessa rappresentazione ricostruendo sulle polaroid di Moro dal carcere. Una personalità politica che egli identifica nello spessore fisico, usando il suggestivo mito del corpo, il corpo del re, del taumaturgo, del Cristo, nelle tante sottolineature del viso. Già Sciascia era rimasto colpito dalla foto (nell’intervista a Stabile, nell’atlante di “Repubblica”), su cui peraltro “Time” aveva centrato una copertina – l’immagine significa, altro che “messaggio senza codice” quale Barthes la voleva: l’America ha perso la guerra in Vietnam con la foto di Mailai Quattro.
Lo storico peraltro trascura personaggi e cose non trascurabili. Manca pure lui di spiegare l’altra forte indicazione di Moro nell’ultima lettera: “Io ci sarà ancora come punto irriducibile di contestazione e alternativa”. Glielo fa dire in copertina ma non ne spiega il senso. Trascura anche – ragioni di parrocchia? - il dato più macroscopico della vasta corrispondenza di Moro: mai si indirizzò a qualcuno del Pci. E il generale Miceli, per esempio, che era stato a capo dei servizi segreti godendo della fiducia di Moro. O Mino Pecorelli. Ci fa ampio riferimento ma per fatti successivi al rapimento di Moro. Mentre Pecorelli organizzava convegni, ancora negli anniSettanta, nel nome di Moro. E diede battaglia, nell’offensiva di Andreotti contro Moro nel 1974, in difesa di Miceli contro Maletti. Poi passò nella P2 e contro il Moro del compromesso storico – anche se, ambiguamente come tutto l’universo gelliano, in favore dello “zio Giulio”. Né va trascurato che Pecorelli “previde” la morte di Moro. Non il sequestro ma l’assassinio, poco prima della strage di via Fani: “È proprio il solo Moro il ministro che deve morire alle 13?”. Moro che chiamava sempre più spesso “Moro-bondo”. Di cui poi pubblicò, durante la prigionia, lettere di cui nessuno sapeva. E trascura, tra le altre cose, per esempio l’incongruo riferimento in una lettera drammatica di Moro all’onorevole Misasi, “che tutto sa”, facile anagramma per Sismi. È singolare che la prima opera di uno storico sul rapimento e l’assassinio di Moro si segnali soprattutto per le lacune - oppure no, anche gli studi sono lottizzati, le mancanze volute (bisognerà fare un giorno la storia di questa storia).
La rilettura delle “Lettere dal carcere” fa emergere l’opposto del politico neghittoso cui i suoi amici e i nemici avevano astretto Moro: uno contrario alla politica ridotta a una partita a scacchi esasperante, senza tempo, senza mosse, senza scopo, come un campo di battaglia unitario tra due trincee opposte, che per l’unico loro scopo residuo, il mantenimento del potere sul resto della nazione, evitano di darsi battaglia. Qual è stato, ed è, nei fatti il compromesso storico. Moro è stato assassinato dalle Br. Ma è vittima politica del compromesso. Allora e dopo.
C’è chi lo vuole morto per mano del Kgb, di cui Moretti con le sue Br di seconda generazione sarebbe stato l’uomo di mano. Per impedire il compromesso storico. Per impedire al Pci, accedendo a un governo occidentale, di staccarsi dal blocco sovietico. Non è da escludere, la figura scialba di Moretti è bene quella della spia. Ma la morte di Moro ha suggellato l’alleanza innaturale Dc-Pci, la sua sopravvivenza alla caduta del Muro, del Pci e della Dc, la sua trasformazione in un sistema di potere chiuso e rigido, qual è l’Italia attuale.
Al fondo delle “Lettere” emerge pure netta la politica dell’odio che ha isterilito la sinistra. Lo storico non la rileva, ma essa emerge dal modo come egli ne istruisce la lettura: Moro ne era conscio. Erano tempi brutti. La scienza nazionale si mobilitava per fare l’ermeneutica dei testi brigatisti. Moro prigioniero e Moro assassinato era “meschino” e “cavilloso” nei giornali della buona borghesia – i nuovi benpensanti da allora si ergono a belli-e-buoni. La campagna del “popolo diverso” e della “questione morale” parte subito con la caccia a Leone, alimentata dai servizi compiacenti (Camilla Cederna, che ebbe molte carte, disse in una riunione di redazione a “Repubblica” che ne faceva un uso non entusiasta e anzi dichiaratamente perplesso). Sarà anche questo un dato costante di questi anni del compromesso, l’odio anzi assorbirà e sostituirà ogni altro progetto. Ogni esigenza dei lavoratori, perfino il salario, e dei ceti deboli è ormai in Italia materia della destra, di quello che si chiama il populismo, mentre la sinistra è irretita nell’ottica berlingueriana della superiorità morale, e della politica del disprezzo. Una sorta di autocertificazione di superiorità, che non si esime dalla sopraffazione e anzi vi si crogiola, con la mano lesta della sbiraglia, ancorché in toga e ermellino.
Tra i collaboratori la percezione sembra diversa, ma con prudenza. Galloni celebra il “segno compiuto” di Moro nell’alternanza di governo. Sembra molto ma è ambiguo: l’alternanza è il nocciolo dell’intervista postuma che Scalfari pubblicò il 14 ottobre, quando “Repubblica” passò al compromesso storico. Forse in questo senso Galloni l’alternanza intende: al monopolismo Dc far succedere un monopolismo Pci, ma sempre totalitario e inalterabile – lui per lo meno, moroteo orgoglioso, così l’ha inteso. Galloni evita anche di ricordare che Moro non ha mai creduto possibile la scomparsa della Dc. E lo fa dossettiano, mentre Moro aveva tutt’altra cultura politica, non ideologica ma giuridica e di equilibri di potere. Sarà stato giolittiano, ma nel senso di sdoganare alle funzioni governative tutti i partiti in Parlamento.
Corrado Guerzoni, il giornalista che per vent’anni fu vicino ogni giorno a Moro, ha dato in un ciclo di rievocazioni su Radio Due una diversa lettura dell’intervista postuma di Scalfari, di cui è il testimone: un Moro pragmatico, conscio dei compromessi necessari in politica, ma per ciò stesso alieno da alleanze cementate nel ricatto. Della famiglia, che oggi accetta il bronzo con “l’Unità”, Guerzoni ricorda allora tutt’altra posizione, fino al rifiuto di partecipare alla cerimonia funebre di Paolo VI a San Giovanni, per protesta contro l’inerzia imposta all’imbelle papa dal governo, e di un Berlinguer che a casa della futura vedova disse: “Sappia che non faremo nulla per salvarlo”.
Guerzoni, in questa e in altre pubblicazioni (una si segnala in uscita da Sellerio) è dell'idea, senza compromessi, che Moro è stato "assassinato" dai suoi amici, dalla Dc. Per ultimo col "tradimento" a favore del Pci. Ci crede, e non pretende che altri ci credano, non spiega, non porta pezze d'appoggio. Alcune verità tuttavia sono evidenti. Il compromesso storico è la vittoria dell’ex Pci non solo sui socialisti e sull’Italia laica, ma anche sulla Dc. A essa Moro inequivocabilmente si sarebbe opposto. Ma la sua fine l’ha favorita: ha imbalsamato la politica nella non politica, nella riduzione della politica a un assetto di potere. Stabile malgrado le alternanze, tra Prodi e D’Alema, e tra Prodi e Berlusconi: nei giornali, nei media e nell’editoria, nella scuola e all’università, nei tribunali, fino al presidente della Cassazione e al Csm, nella dirigenza dei ministeri e delle commissioni parlamentari, nelle cosiddette Autorità di mercato, alla presidenza della Repubblica. Una politica di potere. Senza idee. Senza politica. Senza appeal. Che occupa con ferocia, seppure opacamente, il potere là dove i suoi simulacri occultano la realtà del paese. Ma che il potere tiene in ostaggio in realtà, marionette di un teatrino senza contatto con la realtà del mondo e dell’Italia.

Chi ha messo le bombe?
“Cinque processi e anni d’inchiesta parlamentare non sono il saldo finale di quella vicenda, e tantomeno la giustizia che la famiglia chiese all’epilogo”, all’assassinio di Aldo Moro: Ezio Mauro pone bene l’assunto nell’introduzione all’atlante di “Repubblica”. Che titola “L’11 settembre della nostra democrazia”. Ma bisogna anche dire che se la democrazia ha continuato il suo tran-tran, eliminando anche il terrorismo, la Repubblica non si è più ripresa. Lo Stato. La libertà e il progresso dell’Italia, che da allora deve fare a meno della politica e compensarne l’inconsistenza, la corruzione, delle istituzioni peggio ancora che degli affari, l’ipocrisia, il controllo rigido del potere in ogni forma.
La Repubblica langue da allora per due motivi. Per il compromesso che l’attanaglia. E perché, se qualche luce è stata fatta sul terrorismo, sui terroristi, niente si sa delle bombe. Che hanno innescato il terrorismo. Da Milano in poi, dalla Fiera e poi da piazza Fontana, dal 1969 al 1975: almeno tremila, forse cinquemila, attentati che non hanno mai avuto un colpevole - se si eccettuano quelli, i pochi, compiuti da singoli maldestri, Tuti, Concutelli. E il motivo è uno solo: c’era una copertura istituzionale, se non un’organizzazione, che comunque forniva soldi, esplosivi, logistica, e l’immunità giudiziaria. Di cui non sapremo la verità, è ovvia scommessa, neppure ora che cominciano ad aprirsi gli archivi. I documenti segreti, ammesso che ce ne fossero, sono stati distrutti negli anni 1980. E la colpa si imputa agli stracci di comodo, Sindona, Gelli, i servizi deviati, la massoneria deviata. Con piena soddisfazione e anzi plauso delle commissioni parlamentari e dei giudici, che all’epoca beneficiavano del doppio status di potere (surrettizio) e di opposizione.
Moro è come le bombe: nessuno l’ha cercato. È l’unico ostaggio dei terroristi che non sia stato liberato, malgrado la lunga prigionia. Tutto si è detto sulla morte di Moro. Che era la Cia, o il Kgb. Che era la ‘ndrangheta. Che preparava il dopo-Tito in Jugoslavia (Sciascia a Alberto Stabile… ), poi risolto con le guerra civili. Che era detenuto a palazzo Caetani. Da un nobile Caetani maestro d’orchestra. O da un maestro imparentato con i Caetani, il musicista ucraino naturalizzato italiano Igor Markevitch, autore nel 1948 di un lusinghiero
“Made in Italy”, uno dei “Saggi” Einaudi - ma Markevitch non aveva sposato la ballerina Nijinskj, figlia del coreografo (tale ci appare in “Amici” di Romano Bilenchi, nonché protettore dei giovani fascisti in procinto di diventare comunisti)?Si dice pure che Prodi ci ha parlato – insomma, quasi – in una seduta spiritica. Ma non si dice la verità. La verità sulle bombe, che hanno provocato il terrorismo Questo è il grande nodo irrisolto della Repubblica. Che non si vuole risolvere. Quelli che sapevano tutto sono morti, D’Amato, Della Chiesa, Bonaventura. Sono ancora in vita però Maletti e La Bruna. E alcuni dei protagonisti sicuramente informati. Non parlano però – neppure Maletti e La Bruna, che per quelle vicende sono stati condannati e, in teoria, ci hanno pure rimesso la pensione - e nessuno gliene chiede conto. La strategia delle bombe, divisata per bloccare la contestazione, compreso l’autunno caldo, un servizio reso ai partiti, ha innescato il terrorismo. Forse non innocentemente. Ma sicuramente l’ha alimentato. Questo è un fatto. Tremendo, ma che volentieri si copre con le divagazioni e i romanzi.
Quanto per caso questo fatto fa il paio con l’altro? Che la morte di Moro ha ingessato il compromesso storico.
Il dizionario di Grassi dà dell’affare, a chi già ne possiede la chiave di lettura, una mappa completa. L’atlante dei giorni, dei mesi, dell’anno di Moro è forse la lettura più istruttiva: l’antologia di “Repubblica” presenta dal vivo tutti i nodi dell’affare – compresa la conformistica lettura successiva, se non obbligata, con una bibliografia ragionata di una trentina di titoli. Sofri vi ritrova il suo colonnello Bonaventura, che spiega alla Commissione d'inchiesta sull'affare, e in Commissione nessuno se ne scandalizza, come i verbali della prigionia di Moro, ritrovati nel covo milanese di via Monte Nevoso, furono portati a Roma dal generale Dalla Chiesa, letti da chi di dovere, espurgati, quindi rimessi in via Monte Nevoso e agli inquirenti. Singolare concezione della legalità di un carabiniere eccellente, lo stesso che dieci anni dopo si apparterà con Marino, l’accusatore di Sofri, per istruirne il pentimento, ma non limitata evidentemente a lui. Nell’atlante di "Repubblica" questo è documentato: il covo di Monte Nevoso è scoperto l’1 ottobre, il 3 ottobre si sa che vi alloggiavano brigatisti importanti, il 6 che conteneva le carte del “processo” Moro. Nel 1990 una parte delle carte espurgate saranno fatte ritrovare nello stesso covo, per colpire altri personaggi politici.

Alternanza, di regimi
L’atlante di "Repubblica" ripesca onesto anche l’indimenticata intervista postuma a Moro, con la quale Scalfari schiera il giornale dichiaratamente per il compromesso storico. Inaugurando la stagione degli anticomunisti che si possono dire impegnati. Seppure con la formula sbilenca che ha poi governato il mercato del giornale: per Andreotti e De Mita con i lettori di Berlinguer (per Prodi con i lettori di D’Alema, o di Veltroni).
L'intervista è l'origine degli equivoci: Moro vi si produce nel patrocinio dell'alternanza come forma compiuta della democrazia. Di un partito rispetto a un altro, probabilmente intendeva, non di un regime rispetto a un altro come invece è stato. Altrettanto massiccio, totalitario nell'occupazione del potere: banche, tribunali, carabinieri, servizi (delle intercettazioni, le indiscrezioni, i verbali secretati, le note di servizio). Nel velinismo politico, il conformismo e le caste di partito che soffocano la Rai e i media. Che i Comuni ha rempito di disadattati "socialmente utili", se col giusto patrocinio politico. Con la macchietta Berlusconi nel ruolo di cache-sex.
Atlante de “la Repubblica”, I giorni di Moro, pp.194 ill., €4,90
Giovanni Bianconi, Eseguendo la sentenza, Einaudi, pp.419, €17
Andrea Colombo, Un affare di Stato, Cairo, pp.287, €16
Miguel Gotor, a cura di, Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, Einaudi, pp. XLVI-400, €17,5
Marco Belpoliti, La foto di Moro, Nottetempo, pp.41, € 3
Giovanni Galloni, 30 anni con Moro, Editori Riuniti, pp.319, € 16
Corrado Guerzoni, Aldo Moro, Radio Due “Ore venti”, 24 marzo-18aprile, in uscita da Sellerio
Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro, Cooper, pp.205, €12.
Roberto Massari, Rapimento di Moro e declino della sinistra, pp. 592, €17.
Stefano Grassi, Il caso Moro, Mondadori, pp.830 €20.

Il Sessantotto? Ma è Berlusconi

In clima di rievocazioni del Sessantotto c’eravamo scordati l’essenziale: il Sessantotto è Berlusconi! Da destra, ma l’effetto, l’attesa, è la stessa: che ci liberi dal Pci, dai resti del Pci che, per quanto ammuffiti, sono catene ferree nel compromesso storico con le sacrestie. Catene delle coscienze, e anche delle tasche. Per mantenere le quarte file dell’ex Partito e delle anime del Purgatorio. Che altrimenti non avrebbero ragione d’essere, non a sinistra.
C’è letizia nelle strade in attesa dell’abolizione dell’Ici la prossima settimana. Sproporzionata al risparmio atteso, un centinaio di euro, ma il governo esordisce con un gesto di libertà. Teatrale, nel Palazzo Reale di Napoli dove il governo si trasferirà in limousine, con le sirene della Polizia stradale. Contro gli speculatori che nell’infernale 1992 inflissero questa e altre “tasse sul macinato” agli italiani per fare liberamente i loro turpi interessi, anche politici – c’era una letteratura sull’iniqua Italia che imponeva “imposte sul sale” e “tasse sul macinato”, dimenticata? “Silvio ci toglierà questo e quello”, si dice. Che è follia. Appunto. Se è lecito sognare.

Rumore di carte su Visco, ladro di bambini

C’è maretta all’Agenzia delle entrate sul costo della messa in rete dei venti e passa milioni di dichiarazioni dei redditi. L’improvvida iniziativa, all’ultimo giorno di Visco al governo, costerà il posto al direttore dell’Agenzia. Ma questo è l’esito minimo dell’agitazione: si fanno ora i conti di tutti gli appalti senza gara dell’ex vice-ministro a società di informatica per modelli poco o nulla improduttivi. Costosi per la Pubblica Amministrazione ma di poco o nessun effetto nel contrasto all’evasione, e quindi dannosi. Sui redditi a parametro, sugli studi di settore (i famosi fruttivendoli di Viareggio o di Portofino, che pagano per dodici mesi il reddito di agosto…), dsull'accessibilità dei dati. Con un contenzioso moltiplicato, e produttivo solo per le inutili commissioni comunali e provinciali, per i gettoni di presenza.
L'uscita di Massimo Romano, il direttore nominato da Visco, nelle prossime ore non sarà la sola novità dell'Agenzia delle entrate, l'ex ministero delle Finanze. Né il prevedibile ritorno dell'avvocato Raffaele Ferrara. Molte carte hanno già preso a circolare su Visco, di cui non è apprezzabile l’attendibilità. Ma è certo che l’ex vice-ministro, che non era amato all’ex ministero delle Finanze per il suo brusco autoritarismo, non avrà vita facile ora che non è più in controllo. D'altronde, fra le cause promosse contro i dipendenti che erano andati a curiosare tra i redditi di Prodi e la pubblicazione inopinata dei redditi di tutti i dichiaranti è evidente la sproporzione di trattamento da parte di Visco: lo "scandalo" è semmai peggiore, la materia per gli avvocaticchi ampia. Tanto più che gli elenchi, espunti dal sito dell'Agenzia, rimangono in rete. A disposizione di qualunque malintenzionato voglia rapire un bambino per un riscatto lampo.

La Borsa è materia della Dda

Si fa carne di porco liberamente sui giornali di Alitalia e As Roma. Come in una qualsiasi repubblica delle Banane. S’inventano compratori inesistenti per la squadra romana. S’inventano lettere di Unicredit ai clienti Sensi, proprietari della squadra. S’inventano acquisti e cessioni inesistenti. E da Bruxelles il portavoce del commissario Barrot, un italiano, parla ogni giorno a ruota libera di Alitalia. A che titolo? E parla di fatti sostanziosi: di veti della Commissione, che non ne sa nulla, e di ricorsi di altre compagnie, che non li hanno presentati.
Non c’è accuratezza nei giornali, si scrive senza indicare le fonti, si passano le dritte per notizie. Un’abitudine invalsa col predominio delle cronache politiche: i politici anch’essi non si fanno scrupolo, basta che si parli di loro. La stessa spensieratezza si applica agli spettacoli, lo sport e la cultura. Ma lo stesso non può darsi con la Borsa, dove si vincono e si perdono somme enormi. E tuttavia l'unica verità viene, tra le tante bufale, dai giornali. Eugenio Occorsio ha fatto lunedì su “la Repubblica Affari & Finanza” un esilarante resoconto della vicenda della Roma, “La strana opa su Totti & Co.”, spiegando che basta un avvocato romano di Monte Mario che usa infilarsi a New York nelle cause importanti, il quale contatta una società specialista di transazioni sportive, con la bella idea di coinvolgere Soros, notoriamente amante del calcio e dell’Italia, e l’affare è fatto: George Soros compra la Roma.
I calciatori sono contenti della nuova proprietà – finalmente saranno pagati. Si fanno manifestazioni a Roma pro e contro l’americano. Rutelli ha detto sì, qualcun altro ha detto no, il governo è probabilmente indeciso se assicurare l’italianità della squadra, anche se per ora governo non c’è… Insomma, la solita Italia virtuale. Diverso il discorso per Soros, che pur essendo molto considerato nel Bel Paese, per avere finanziato la caduta del comunismo, la resistenza in Polonia e in Cecoslovacchia, è anche l’uomo che ha affossato la lira nel 1992, buttando l’Italia in un solo giorno nel baratro da cui non riesce a emergere: se anche gli piacciono il calcio e l’Italia ci penserà prima di metterci un piede stabile.
Soros è però uno che compra per guadagnare, Ora, nel calcio in Italia non ci sono profitti, ma si può con esso guadagnare in Borsa. Ecco, la Roma è in Borsa. Come l’Alitalia. E la Consob che fa?
La Consob dice che non ci può fare nulla, anche se è stata creata, ed è superfetata, per controllare la speculazione: non ci sono casi in letteratura di giornali accusati o criticati di aggiotaggio da parte degli organismi di controllo. La giustizia ordinaria però potrebbe intervenire: questa è una forma di mercato clandestino delle scommesse. Dove gli allibratori sono noti, e anzi ufficiali, i giornali e le banche d’affari, ma il mercato è regolato in regime monopolistico dalle false notizie, e gli scommettitori jugulati. Probabilmente è materia delle Dda, le Procura antimafia.

lunedì 28 aprile 2008

Nove miliardi di debiti per Alemanno

Potrebbe dunque essere di nove punti anche il distacco di Alemanno su Rutelli. Un vantaggio tanto più sensibile rispetto al voto politico, considerato che il vincitore sfidava il sindaco emerito. E che partiva con nove punti di svantaggio – ma certo non poteva sperare, probabilmente nemmeno immaginare, la fanfaronesca campagna di Rutelli, arrivata all’“indiscrezione” che l’avversario aveva prezzolato un rumeno perché accoltellasse e stuprasse una giovane africana…, nessun politico decente alza palle così favorevoli.
Ma il numero nove è soprattutto importante per il debito che il nuovo sindaco erediterà: sette miliardi con le banche e due con la Cassa depositi e prestiti. Con l’onere quindi di pagare ogni anno un miliardo di soli interessi. Con un bilancio in deficit di ben due miliardi, e non potrebbe, la legge non lo consente. Pur essendo dal lato entrate sopravvalutato di uno-due miliardi. Per i due milioni di cartelle pazze che Veltroni ha fatto emettere alla compiacente Equitalia, l’esattore del ministero dell’Economia. Che comunque non sono entrate fiscali, trattandosi di multe e more. Ed essendo finite perlopiù in contestazione, costringeranno il Campidoglio a risarcire gli anticipi di Equitalia.
Questo senza contare il buco dei derivati, la panace inventata dalle banche d'affari per sfruttare i Comuni, che per Roma sarà via via necessariamente più alta che per gli altri Comuni dov'è stato già accertato. Altro mezzo milione di oneri per quattro-cinque anni?

domenica 27 aprile 2008

La scoperta del prete

Si ripubblica Soldati come un classico. Salvatore Silvano Nigro, che de “L’amico gesuita” firma una prefazione e una storia del testo, sta ricostituendo con le sue note editoriali per Sellerio il Soldati dei racconti. Mondadori ora lo segue, con vari studiosi. Soldati è una delle ombre che fanno rimorso alla letteratura. È presente – noto, ristampato, letto – ma cavo. Al più è un po’ “fantastico”, per via del personaggio televisivo che s’era costruito.
Si ripubblica, in questa che è a tutti gli effetti una “riabilitazione” di sovietica memoria, tutto. Anche il non necessario. “L’amico gesuita” è una raccolta inconsistente. Si tratta di elzeviri, non memorabili. Qualcuno documentaristico, “Pronto soccorso” per esempio (quello di Soldati, cinquant’anni fa, è umanitaristico e idiosincratico, verso la malattia, quello odierno di Tullio Avoledo, sul “Sole 24 Ore” del 13 aprile, è sociale e tribale, sulla tribù perduta). Ma non di più. Compreso lo stesso racconto del titolo. Si legge con curiosità “Fioretto” seguendo la traccia di Nigro, che il narratore Foà sia Giacomo Debenedetti, e per le ricostruzioni del curatore. “La messa dei villeggianti” è invece soldatiana in pieno: densa di umori, di tagli a sorpresa, nella realtà quotidiana e le occorrenze di ognuno. È il libro d’esordio di Soldati con Mondadori nel 1958, curato personalmente dall’editore, e conferma che l’industria editoriale aveva allora un sostrato caratteristico, di qualità durevole.
Uno dei primi recensori di Soldati nel 1929, Eugenio Montale, ne denunciò preoccupato “l’indifferentismo”. Il giudizio riguardava la raccolta “Salmace”, racconti di spostati. Un termine desueto, ma nel 1929 la raccolta era ben più deviante dell’“Anonimo Lombardo”, che segnerà nel 1959 l’avvio della scrittura à scandale o trasgressiva. Per l’epoca, e per i temi dei racconti. Ma di uno scrittore hanté dal vizio morale, sempre, anche negli articoli sul vino, e sempre naturalmente moralista, non artificiosamente alla Piovene. Gesuita per sempre, direbbe. Le due uscite contemporanee evidenziano un’altra peculiarità: Soldati è quello che ha fatto la scoperta del prete. L’unico scrittore italiano, compresi quelli che usava dire cattolici, in cui il prete e la pratica religiosa hanno diritto di presenza, costante. Una scoperta che è stata subito ricoperta, ma ora, a distanza, infine riemerge.
Cesare Garboli, ripresentando “Salmace” dopo sessantacinque anni, ne ha rilevato la “serenità dello stile”, che Soldati ha poi mantenuto. Quello che nel racconto “Il fioretto” chiamerà “lo stile del non avere stile”, attribuendolo a Cocteau, il secret professionnel di Cocteau, che sarebbe stato mediato dall’amico-narratore del racconto Foà-Debenedetti, secondo la ricostruzione di Nigro. I suoi racconti sono calati nella quotidianità, incontri, funerali, gite, amorazzi, amici. Per quanto l’aneddoto sia a volte sorprendente, Soldati non lo carica di stranezze. E tuttavia respirano. Si rileggono perché sono ancora la finestra aperta, nel “racconto unico” di cui sono vittime editori e lettori, ieri della terra incognita proletaria, appiattita sul neo realismo della provvidenza, oggi dell’incognita globalizzazione, di un mondo remoto.
Mario Soldati, L’amico gesuita, con intr. e nota al testo di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio, pp.193, €10
La messa dei villeggianti, con un’introduzione di Stefano Verdino e una nota al testo di Stefano Ghidinelli, Oscar Mondadori, pp. XL + 226, € 9,80

"Le rivoluzioni sono probite"

“Le rivoluzioni sono proibite”, dice la guida turistica Bertoloni in questo giallo messicano di Norbert Harrison Davis, lo scrittore che piaceva a Wittgenstein. Il patrocinio illustre non è bastato alla fortuna di Davis, che ora si vende ai remainders di Ibs. Ma Einaudi ci ritenta, ribattezzando in “Rendez-vous” l’“Appuntamento”, a cura della stessa traduttrice O. (Ornella?)De Zordo.
Il terrore dell’appuntamento è il terremoto, altro evento imprevedibile nei gialli, che caratterizza Davis come un irregolare del genere. Per gli amanti dei cani (dei due investigatori, Doan e Carstairs, il secondo è un "danese gigante di colore fulvo"). E di Achille Campanile, che Davis aveva già imitato qualche anno prima.
Il giallista di Wittgenstein era Campanile
Noto per l’humour facile, Davis è uno degli scrittori più costruiti, non solo del genere – tutti gli americani lo sono, ma alcuni di più. Si sentiva sissy per via del nome, e questo soprattutto può averlo avvicinato a Wittgenstein, che peraltro era un divoratore delle riviste pulp – ma Davis si sposò, un paio di volte. Finocchio si sentiva perché sui genitori incombeva l’avo Robert Burns, il poeta, ricordato dai tanti Robert in famiglia, per liberarsi dei quali il nome dello scrittore fu invertito in Norbert. La storiella non è credibile, ma è vero che Davis, scrittore tipicamente di Los Angeles, frequentò ventenne il circolo dei Fictioners’, creato da Willis Todhunter Ballard, frequentato da Chandler. Con Ballard, scrittore dai molti pseudonimi di sceriffi e cercatori d’oro, o del genere western (nessun legame con James Graham Ballard, lo scrittore britannico della seconda metà del Novecento, famoso catastrofista, ora critico sociale molto “davisiano”), Davis scriverà, con lo pseudonimo Harrison Hunt, i rispettivi middle names, il giallo “Murder picks the Jury”, il suo ultimo romanzo. Scrisse anche racconti di vario genere, d’amore, avventura, guerra e western, anche lui. Nel 1949 si suicidò con lo scappamento della macchina, a quarant’anni, per il mal di vivere che ucciderà poi Hemingway, uno spleen o dannunzianesimo esistenziale che è diffuso tra i letterari americani, malgrado il riconoscimento sociale di cui godono – altri finiscono nell’alcol o la droga.
“Sally, spie e coltelli”, il secondo romanzo di Davis, racconta un’operazione avventurosa di spionaggio minerario, tra duri, donne fatali e sparatorie. “Mio caro assassino”, l’ultimo romanzo di Doan e Carstairs, è una satira del mondo universitario, ma con vicende e personaggi meno derisi, seppure giocosamente, e meglio sbalzati, con evidenti ambizioni alla letteratura alta. “Doan and Carstairs investigatori” raccoglie due romanzi brevi, “La casa dell’olocausto” e “All’assassino!”. Il primo è chandleriano: Doan protegge la bella Sheila, ereditiera perseguitata da cacciatori di dote e criminali. Il secondo è sherlockholmesiano: un banchiere-colonnello incarica Doan di spiegare un delitto di due anni prima, che coinvolge un ex fidanzato della figlia.
Malgrado la modestia delle ambizioni, e la vita breve, Davis ha una sua figura nella scena ormai incatalogabile del genere. La grazia dei suoi romanzi è bogartiana, un misto di durezza e stravaganza. Anche se non sempre: "Sally" e "Doan e Carstairs" sono parodie, e il romanzo non regge la parodia, meno che mai il romanzo giallo. John Apostolou, il ricercatore della biografia che poi non si pubblicò, e anzi non si scrisse, di Davis, dice whimsical i romanzi di Doan e Carstairs, un po’ troppo fantasiosi, e neri, spesso brutali, i racconti non più ripubblicati, sparsi tra le riviste pulp. La serie in quattro volumi dell’investigatore Doan con Laird Carstairs di Dougal, "un cane, un danese fulvo grosso come un vitello di un anno", fu il suo tentativo, tra il 1940 e il 1947, di entrate nella letteratura lasciando le riviste pulp, da quattro soldi. Le note di Stefano Martinelli alle quattro edizioni Le Lettere spiegano questo e altri eventi della vita di Davis.
Nobert Davis, Rendez-vous col terrore, Einaudi, pp.181, € 9,80
Appuntamento col terrore, Le Lettere, pp. 191 € 5,75
Sally, spie e coltelli, Le Lettere, pp. 151, € 6,25
Doan and Carstairs investigatori, Le Lettere, pp.125, € 6
Mio caro assassino, Le Lettere, pp.137, € 4,75