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sabato 6 marzo 2010

Dopo un terremoto, un altro

Ora che il terremoto è notizia quotidiana merita una scorsa questo volutone. È la ristampa anastatica della edizione del 1962, preparata per il cinquantenario del sisma dai giuristi Salvatore Pugliatti, rettore a Messina, e Francesco Mercadante, che s’illustrerà alla Sapienza, studioso di Carl Schmitt e di La Pira (il volume è già stato ripubblicato qualche anno fa, in vista del centenario, dall’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini di Messina). Ma è come nuovo. Ccon il meglio del giornalismo italiano: Goffredo Bellonci, Barzini, Civinini. Molta letteratura: Gor’kij, Borgese, Pascoli, De Roberto, Ada Negri, Serao, Cena, Vernon Lee, Papini, Prezzolini. Gli economisti: Luzzatti, Loria, un primo Augusto Graziani. E la politica naturalmente: Nitti, Bissolati, Salvemini, Treves.
Si dice che il terremoto è “rivelatore”. Francesco Mercadante, lo storico che ha curato la raccolta, ricorda che “Giolitti era all’apogeo della sua parabola politica”. Ma l’unico suo provvedimento fu lo stato d’assedio. Confidato a un generale piemontese. Con il compito di dedicarsi alla ricerca della cassaforte della Banca d’Italia. Molti giorni dopo il terremoto, e buoni ultimi rispetto ai soccorsi dei russi, dei francesi e di chi altro si trovava a passare per lo Stretto. Senza una linea di comunicazione con l’esterno. In lite peraltro con gli altri corpi dello Stato. Nessuno aveva cercato i superstiti, se non i messinesi, scavando con le mani.
Ma, poi, Domenico Russo del “Corriere d’Italia” va a Parigi a intervistare Camillo Flammarion, “il più popolare dei geologi del mondo”. Il quale inorridisce all’idea che la città sia ricostruita: “No, no! Appena appena consentirei a che si elevino lungi dal mare, sulle alture, semplici abitazioni di un sol piano, in cemento armato…” E dunque, che fare? Flammarion lo dice: “Non c’è bisogno di essere profeti per dare un annuncio: il suolo di Messina tremerà, tremerà ancora”.
Il Terremoto di Messina. Corrispondenze, testimonianze e polemiche giornalistiche, Città de Sole, pp. 882, € 30

Il mondo com'è - 34

astolfo

Andreotti – Il quinquennale processo di Palermo lo ha eretto a protagonista assoluto della storia degli ultimi quaranta o cinquant’anni – si piega che vi abbia partecipato di buon grado. I soliti piemontesi Violante e Caselli hanno semplificato la storia in un drammone in cui solo comunisti e democristiani esistono: i democristiani erano i cattivi, la mafia, i comunisti sono i buoni. È uno scandalo, per la giustizia e per la storia. Che Andreotti facesse affidamento su Lima, e che Lima fosse stato da tempo catturato dalla mafia, non c’era bisogno di cinque o sei anni di indiagini, con foto che ci sono e non ci sono, e dibattimenti per saperlo. Ma è una soperchieria ingegnosa: Andreotti, il più piatto dei leader Dc, ne è nel suo intimo commosso, ne hanno fatto un gigante.
E la mafia? Se la mafia è una protesi del potere, a cosa la attacchiamo oggi?

Antipolitica - Come l'antimafia, è specchio del suo oggetto. Deformante, anche se sembra impossibile: è la passione eccessiva, invadente, opportunistica, violenta, applicata alla politica. È una politica, deteriore.

Clinton – È l’uomo, oltre che il presidente, del passaggio dalla storia viva alla storia a fumetti. Alle idee che fluiscono con appropriato software, inelastiche e insensibili. E ai soggetti senza giro di vita, senza articolazioni nervose, senza colore. Impensabile alla storia. Già Reagan era insensibile. Ma riteneva ancora che bisognasse parlare con gli altri, fingere un dialogo, con Gorbaciov, con Kohl, con la Thatcher. I Clinton no: sono l’espressione umana, oltre che politica, di una vita programmabile e programmata. Misurano in centimetri la penetrazione, e fanno la tipologia del coitus interruptus anche negli amori ancillari. È pura fumettistica di fantascienza la guerra alla Serbia: l’invenzione della resistenza, la guerra dall’oggi all’indomani, già programmata, i bombardamenti notturni, la vita ordinaria di giorno. Con alleati dalle lontane province che sono echi, come le bombe – che non fanno più bum ma lampi. O il negoziato di Seattle: un film della resistenza urbana, del genere brutti, sporchi e cattivi.
Anche figurativamente, se ci fossero cloni umani uno li immagina come i Clinton: stirati, colorito uniforme, aitanti, un po’ rigidi, con una figlie e un cane su cui prospettare belle pagine di home web. Il cinema, arte popolare che ha quindi antenne sensibilissime per la realtà, è sempre più giocato su questa Oggettività Regolata: gli scarti dei personaggi – ribellione, diserzione - sono malfunzionamenti, non c’è in essi desiderio o odio. Il rapporto più ravvicinato, il coito, si misura quantitativamente: lunghezza, spessore, numero di colpi, durata.

Comunismo – È una vocazione più che un’ideologia, da ortopedia: piega la vita e tutte le sue terminazioni, le copre abbondantemente di gesso, e aspetta che si secchi.

Europa – Non a due velocità ma a due società: una è quella degli interessi, controllati con durezza, l’altra sono le nuove leve desideranti, giovanili, femminili, cioè stupide – l’utopia è infantile, quindi stupida. Da qui l’irrilevanza della politica, del buon governo: il danaro ha sopravanzato la politica, lasciando tutto ciò che non dà guadagno agli enfantillages dei buoni propositi, meglio se estremisti. Giovani e donne danno l’illusione di fare, di realizzare le loro illusioni, e la politica perde la forza della mediazione e dell’iniziativa.

Potere - L’Urss dopo l’Iran – e la Cina? – dimostrano che la teoria novecentesca del potere, ipostatizzato, assolutizzato, è vacua. La triade partito-polizia-esercito non è se non a sua volta una funzione – ignobile come triade e oscena per il partito, che per definizione è politico, ma funzionale. A ideologia, tradizioni, mode, generazionali e propagandistiche. Con un di più negli interessi, che però sono saprofiti, si adattano alle schiene che tirano.
Il potere è nella carne degli uomini. È la suggestione dei rituali, del “Trionfo della volontà”, della “Corazzata Potiomkin”, se e finché esse non diventano manifestazioni ridicole. In un certo senso è opportuno non far vedere “Il trionfo della volontà”, che evidentemente suggestiona ancora: i governanti hanno il dovere della pedagogia. I governanti sono pedagoghi.
Nella vecchia analisi del potere il comunismo non poteva crollare in Urss – e in Cina – né lo scià poteva scomparire senza residui. Secondo l’analisi “classica” – fino a Hannah Arendt - del totalitarismo. Meglio aveva fatto Adorno, prima di Foucault: meglio aveva indagato, meglio di H.Arendt, il totalitarismo nelle sue radici, le pulsioni. Il potere è nel cuore degli uomini: imprinting, riflessi, abitudini.

Sindacato – L’organizzazione è il suo limite, l’inadattabilità. Liberato dal classismo avrebbe dovuto trovare nuovi spazi e più coraggio: erano vive le associazioni libere di mutuo soccorso prima della lotta di classe.

Sviluppo - È un fatto nuovo: il perseguimento della ricchezza è un fatto nuovo. Si può immaginare un paese ricco di oro e diamanti, e di manodopera a buon mercato, di schiavi perfino, e tuttavia povero, anzi impoverito: è il Sud Africa. Si può immaginare in Calabria, nella piana di Gioia Tauro oppure a Lamezia, una base Nissan o Toyota per l’Europa, con gli incentivi europei e italiani, e la trasformazione di un’economia agricola e mafiosa a centro innovativo e propulsore per tutta l’Italia. Ma, se anche fosse possibile, se il liberismo europeo fosse reale, in Italia non sarebbe avvenuto: il comune, la provincia, la regione, lo Stato, il prefetto, il giudice e ogni autorità burocratica sarebbe contro. E questo è il secondo punto: lo sviluppo libera.
Un parallelo Usa-Europa in materia d’incentivi, fisco, regolamenti ambientali, per la sicurezza, sanitari, sindacali, ne dà ampia testimonianza, con tutti i limiti della libertà negli Usa. Che la ricchezza sia libertà è paradosso solo apparente: ogni libertà è ricchezza, anche in senso materiale.

Tecnologia - È un fatto sociale, prima che tecnico. Non è un fiore sull’immondizia, si forma per concrezione.

astolfo@antiit.eu

venerdì 5 marzo 2010

La marcia degli Invisibili

Quattro milioni di piccole imprese e otto milioni di partite Iva sono “un patrimonio vitale” ma non rappresentano niente. Non da ora, dalla Costituente. Dove a Fanfani riuscì di fondare la Repubblica sul lavoro (sua la formulazione dell’art.1, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). Ma sul lavoro artigiano, per il quale chiedeva una menzione speciale, ricevette solo compatimenti: il lavoro era la Fiat, la Montecatini, e il sindacato.
Dario Di Vico, che dedica ai pro.pro il suo blog sul “Corriere della sera” (li diremo professionisti proletari?), e li ha seguiti per un anno ovunque al Nord, a Varese, Como, Cuneo, Torino, Mantova, Milano, Treviso, sul Piave, e anche a Roma, lo dice alla prima riga di questo resoconto dei loro sfoghi: i Piccoli sono anche Invisibili. Se ne parla. C’è ora un sociologia consolidata della microimpresa, De Rita, De Masi, Becattini, Diamanti. La politica li corteggia: gli spezzoni della Dc, la Lega, Berlusconi (con una o due eccezioni, nei distretti industriali, comprese le cittadelle rosse, Sassuolo, Carpi, Lumezzane, si vota centro-destra). Sono un mondo anche affascinante da raccontare, da Meneghello a Edoardo Nesi. E sono alla moda: “L’uomo artigiano” è l’ultimo grido nell’area anglo-americana, a opera di Richard Sennett, già teorico de “L’uomo flessibile”. Ma non hanno status, a sessanta e passa anni dalla Costituente. Il solo capitolo leggibile di “Gomorra”, quello dell’asta al ribasso per le forniture ai grandi couturier, li fa perfino camorristi: nel libro più letto dagli italiani il lavoro à façon, rapido e inappuntabile, che è il vanto della tradizione sartoriale napoletana, è presentato come un’organizzazione di camorra. E potrebbero non avere futuro.
Sono una società aperta ma in un mercato ancora post-sovietico, ingessato nei privilegi. Di cui le Autorità di garanzia del mercato sono il suggello, che garantiscono solo tariffe crescenti alle utilities, con servizi per lo più scadenti. Mentre è diventata monopolista la banca. L’Italia ha la più alta concentrazione del credito in Europa: poco meno del 60 per cento degli attivi fa capo a cinque gruppi. È finito o minoritario il ruolo delle casse di risparmio, delle banche popolari e del credito cooperativo, interfaccia classici della microimpresa. La Cariplo di Giordano Dell’Amore vantava la creazione di 350 mila aziende, in trent’anni nel dopoguerra. La medio-grande impresa resta privilegiata. Si dice che è tempo di “rompere il dualismo del mercato del lavoro” (Pietro Ichino), ma senza convinzione. Il dualismo è già rotto, il mercato del lavoro è individuale e privatistico, ma i privilegi restano ai garantiti.
I Piccoli non hanno leggi, se non vessatorie, non hanno pensione né cassa mutua. E nella crisi sono i primi “tagliati”. Stretti fra incassi sempre più ritardati e l’obbligo di ridurre ogni anno il costo unitario del prodotto fornito. Migliorandone la tecnologia, cioè con investimenti continui. Il ritardo medio degli incassi è di sei-otto mesi, a Napoli anche di due anni e mezzo. Detto così, sembra un miracolo che sopravvivano. Ma è così, ed è anzi questa “pancia” operosamente ruminante che tiene a galla l’Italia.
Il mercato è d’altra parte globale anche per i Piccoli. I distretti industriali sono superati: le economie sui servizi non bastano più. E la globalizzazione è nella fase più dura: Asia e America Latina hanno standard produttivi di qualità, e costi ancora dimezzati. Mentre la crisi finanziaria colpisce di più l’Euro-America. I Bric d’altra parte, Brasile, Russia, India, Cina, sono già un grande mercato. E fra dieci anni, quando anche il costo della vita in Asia e America Latina si sarà livellato verso l’alto, si potrà competere senza intaccare il capitale. Ma bisogna sopravvivere.
Il rischio è qui la confusione. La percezione del mercato globale non manca. Ma se è quella che Di Vico registra è il solito teatro di grande combattività e di velleità. È come se i Piccoli non sapessero uscire dal complesso della Maggioranza Silenziosa, della rivalsa. Da una realtà bozzettistica quando è simpatetica. Ma grigia o nera sul versante del fisco, col quale non riescono a venire a patti, dei salari minimi, dei contributi sociali. Si discute molto di rappresentanza, com’è giusto, ma nel senso di “chi va a Roma”.
Dario Di Vico, Piccoli. La pancia del Paese, Marsilio, pp. 175, € 15

Calvino a una dimensione

Libro di straordinaria chiusura mentale. Calvino vi è molto più mobile che nella scrittura “autoriale”, ma quanto unidimensionale. Per mancanza di curiosità? Per togliattismo (omeopatico, certo)? Dichiara a Sciascia (p. 538) “l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. E dove allora? O gli rimprovera la Sicilia “senza segreti”. Senza attrattive. La Sicilia?Molte condanne sono perfino censure (a Seminara, sul flusso di coscienza). Si capisce l’imbarazzata presentazione di Fruttero: “Di Calvino editor non ricordo in pratica nulla”.
Italo Calvino, I libri degli altri

giovedì 4 marzo 2010

I listini scacciascandali

Alla fine, saranno le stelle, anche l’incapacità di presentare una lista elettorale giocherà a favore di Berlusconi. Intanto la questione ha scacciato gli scandali. Sapevano di patetico “Repubblica” e il “Corriere della sera” che ieri facevano ancora a gara a pubblicare le (lacrimevoli) intercettazioni di Quattrocchi. Non ci vorrà molto per sapere che i magistrati romani Maurizio Durante e Fausto Severini sono radicali. Insomma, sono passati da Radio radicale, che è la stessa cosa. E che i giudici di Milano che hanno fatto la grafologia alle firme di Formigoni sono amici (amici, non compagni) di Penati, o chi altro il Pd ha scelto per le regionali. Nel mentre ci sarà l’offensiva sull’opposizione per una soluzione politica: non si possono lasciare senza scelta dodici milioni di elettori, o quattordici, o sedici. Di Pietro è già d’accordo, Bersani non potrà non seguirlo. Ma allora i radicali scarteranno, pur essendo già stati beneficiari di una sanatoria a opera dell’allora alleato Berlusconi - e magari Emma Bonino si arrabbierà e non farà più campagna, chissà. Poi ci sarà il Tar, che come suole riammetterà le liste sotto condizione. E quindi la cosa si trascinerà fino a Pasqua, nei tribunali e alla Rai, o fino al prossimo scandalo, i radicali non mollano. Anche perché ci saranno numerosi ricorsi radicali contro gli elettori di periferia, quelli dei portavoti, che dovranno entrare in cabina con schede multiple ben sottolineate – la sinistra invece non bara: prende i voti di Roma 1, dei Parioli e della Balduina.
Tutto, certo, si può voltare in bene, anche il terremoto. E la continua agitazione, quasi una sovversione, in cui Berlusconi tiene il suo elettorato, tutto il contrario della forza tranquilla e rassicurante che dice di voler essere e a cui il suo elettorato ambisce. Ma questo sviluppo dell’indigenza dei berlusconiani antiberlusconiani (Formigoni, Fini, perfino Polverini è antiberlusconiana…) è solo probabile. Intanto, si sa che la destra ha bisogno di drammatizzare le elezioni amministrative, per mobilitare i suoi elettori, evitare il week-end in villa. Quanto agli esclusi di Roma, l'unico non vero della farsa listini, i portavoti non potranno che raddoppiare i loro sforzi perché vinca Polverini: non hanno altrimenti nessuna possibilità di rientrare delle spese con cui giornalmente si comprano i voti. Ora più che mai devono anzi dimostrare all’inaffidabile Polverini che sono indispensabili. E alla fine sarà come doveva essere. Come si fa a pensare Emma Bonino a capo della sanità a Roma, accanto al Vaticano? Tutti sono d'accordo che, listini o non listini, è una commedia che si gioca, non una tragedia politica - quale invece alla fine è.

Hammett ammazzasindacalisti

“Enigmatico” è l’aggettivo che Layman usa per Dashiell Hammett, ed è l’aggettivo giusto: lo era da ragazzo, e lo è stato fino alla fine. Anche se nei trent’anni dacché questa biografia è stata scritta, con l’aiuto allora in particolare di Jo Hammett (la moglie? la figlia? talvolta la moglie, talvolta la figlia: l'edizione del libro è sciatta, c'è perfino una "isola di Tripoli" con le tre assegnate nel 1530 all'Ordine di Malta, insieme con Malta appunto, Gozo e Comino), molto si è saputo che non si dice. In particolare sull’esperienza alla Pinkerton e l’etica professionale dell’agenzia, che Layman dice “Hammett abbracciò entusiasticamente, aderendovi per il resto della sua vita con devozione quasi religiosa”. Questa etica, spiega Layman, era imperniata sulla riservatezza.
Era anche un dandy, Hammett, uno che costruiva il suo personaggio, dal taglio dei capelli a quello degli abiti. E mai fu innamorato, se non forse della moglie poi abbandonata e non divorziata, con la quale ebbe due figlie. Anche questo Layman dice, seppure distrattamente, qua e là, in una o due righe. Layman è diventato biografo di Hammett lavorando alla bibliografia dello scrittore. La sua curiosità è soprattutto letteraria, una metà di questa biografia è un repertorio delle opere, anche delle note di poche righe purché stampate, con sintesi e valutazioni - tutte singolarmente dettagliate e revulsive, come e forse più delle sinossi dei programmi di sala all'opera o al balletto.
Il libro reca in appendice il processo del 1951, il primo dei tre che Hammett subì per essere un comunista, concluso con l'arresto in aula per reticenza, e sei mesi di prigione (uno poi condonato per buona condotta), benché fosse un patriota, volontario in entrambe le guerre, e un invalido ufficialmente riconosciuto. E questo riconcilia col personaggio, l’infamia della giustizia inquisitoriale. Del giudice quasi più che del pubblico ministero, che pure era un ammazzacomunisti professo: il giudice Sylvester Ryan è determinato a condannare Hammett e arrestarlo fin dall'inizio, proprio per essere uno che si ritiene nel giusto. Bisognerà riscrivere la storia della Inquisizione alla luce, recente e così ben documentata, del maccarthysmo, o della verità del giudice. Ma questa è un'altra storia.
Nel testo Layman riporta , quasi come un pezzo della narrativa, il secondo interrogatorio di Hammett alla Sottocommissione del Senato sulle attività antiamericane, la commissione McCarthy, condotto quest’ultimo dallo stesso McCarthy. Il primo interrogatorio alla stessa Sottocomissiione, presieduta dal vice Karl E.Mundt, è stato reso in seduta segreta e pubblicato solo nel 2003. Questo interrogatorio è disponibile nella piccola brochure dedicata in Francia ai tre processi subiti da Hammett.
Layman mette anche in giusta luce che la condanna a sei mesi fu una sorta di condanna a morte: Hammett uscì di prigione malato per sempre (non c'era organo vitale che non fosse in pessime condizioni quando morì dieci anni dopo), senza possibilità di lavorare a causa della condanna, e senza reddito, il fisco pretendendo da lui più di quanto avesse guadagnato. Mette anche nela giusta luce, questa biografia, la straordinaria forza morale dell'uomo. Sia nei rapporti umani, e di lavoro con i dipendenti, sia in guerra. Quando l'America entrò in guerra contro Hitler tentò più volte di arruolarsi. E quando infine fu preso lavorò instancabile, anche in posti difficili come l'Alaska e le Aleutine. Qui progettò e fece uscire per quindici mesi un giornale quotidiano per le truppe. Ma sempre col lato oscuro in agguato, che la biografia non tenta di scalfire. Manifesto nell'uso smodato dell'alcol e del sesso, una compulsione senza una ragione che si veda o si sappia. Il titolo della biografia dice più di quanto Layman poi si spinge a documentare - la riservatezza e il dandysmo non prendono più di una pagina.
Il biografo stesso lo sa, che spiega alla prima pagina: Lillian Hellman, "l'amica più fidata di Hammett negli ultimi anni della sua vita, sebbene i due non fossero affatto compagni stabili", sua erede, in parte, ed esecutrice testamentaria, si appropriò con una abile manovra avvocatesca tutti i diritti sull'opera, a danno dei familiari, con una spesa di appena duemila dollari, e si arrogò, nello stesso giudizio, il diritto esclusivo a scriverne la biografia. Salvo rinunciarvi subito dopo, e poi a scoraggiare ogni tentativo di scriverla. Dunque, la biografia non è si è potuta in realtà scrivere, finora. E il motivo è forse uno solo.
Della personalità dello scrittore Layman mette anche in luce, alla solita maniera, di passaggio, la solitudine. Alla moglie cattolica e al prete cattolico del matrimonio Hammett nasconde di essere nato anche lui in una famiglia cattolica. Vive fumando e leggendo, agli inizi a San Francisco "tutto quello che era possibile leggere" della Public Library, come il personaggio della "Nausea" di Sartre. A Hollywood è condannato, senza una reazione da parte sua, per aver aggredito un'attrice, Elise de Vianne. A New York passa un'estate all'hotel Pierre, e se ne va senza pagare il conto. Ma forse c'era di più, nel lato oscuro dello scrittore. La Pinkerton National Detective Agency aveva cambiato natura a fine Ottocento, divenendo una forza privata antisciopero e antisindacato. Layman lo dice, ma tace sul ruolo di Hammett, se non nella forma dell’“aneddoto”, cose da poco e bonarie. La probabile commistione di Hammett con le attività antisciopero della Pinkerton è invece così ricostruita nel romanzo “Non c’è anarchico felice” di recente pubblicazione, p. 567 (Astolfo, “Non c’è anarchico felice”, Lampi di Stampa, pp. 676, € 21):
“La mattina dell’undici Henry Kissinger arriva a Mosca per gli accordi finali sul Vietnam, che i Vietcong accettano. Otto ore dopo il Cile e Allende sono sotto le armi. Unidad Popular non reagisce, le elezioni per il Parlamento erano state del resto perdute, lo stadio si riempie di politici prontamente arrestati. Il palazzo della Moneda e il presidente Allende, che fanno paura ai fascisti, sono bombardati, con carri armati, bazooka, aerei e bombe incendiarie. Il dottor Kissinger non l’avrà fatto ma l’ha fatto fare. Non per il rame dell’Anaconda, chi se ne frega, per la democrazia. Il dottore persegue la norma, la democrazia per gradi come l’insegnamento a scuola, insegna la democrazia. Con e contro i generali, in Brasile, Pakistan, Indonesia, Grecia. Quest’anno in programma è il Cile.
“L’Anaconda Copper già nel ‘17, a Butte, Montana, Usa, commissionava un assassinio, nella persona di Frank Little, guercio, sindacalista, mezzo indiano. Che fu linciato, appeso a un palo della ferrovia, dopo essere stato rapito a casa sua e castrato, da un commando di sei uomini, di cui uno somigliante al futuro scrittore Dashiell Hammett. Upton Sinclair tre anni dopo, in Soluzione 100 per cento, raccontò il linciaggio di un wobbly a opera di un Hammett. Per cinquemila dollari, che sono ancora una cifra rilevante. Ora wobbly è un problema, Vivian Gornick ne ha fatto il Romance, ma nessuno sa nemmeno che cosa la parola voglia dire. Di certo indica un compagno, uno dell’Iww, Industrial Workers of the World – forse è il double-you pronunciato da un cinese, la doppia w. Hammett fu guardia antisciopero all’agenzia Pinkerton nel ‘15, a ventun’anni, fino al 1918, e di nuovo, dopo una breve parentesi nel servizio ambulanze dell’esercito, fino alla decisione nel ‘22 di scrivere. Ha lavorato per Pinkerton anche a Butte, Montana. Un anno prima a Everett, nello stato di Washington, quaranta wobblies erano stati imprigionati, e nella notte lasciati nudi a centinaia di poliziotti privati armati di fucili, bastoni, fruste, catene. I wobblies protestarono. Ma mentre risalivano il Puget Sound in barca, furono affrontati con carabine a ripetizione, lasciando venti morti e cinquantuno feriti”.
Nello stato di Washington Hammett lavorerà per la Pinkerton dopo la guerra, nel 1921. Dal Washington opererà quell’anno per l’agenzia anche in Idaho e Montana, dove la Anaconda era sempre in guerra contro i minatori, che avevano ingaggiato un altro braccio di ferro con l’azienda per formare un sindacato – e nuovamente lo perdettero. Quindi lavorò ancora alcuni mesi a Seattle, altra città di guerre al sindacato. Gli “aneddoti” cui Layman si riferisce sono raccontati dallo stesso Hammett nelle sue prime autobiografie di scrittore esordiente, nel 1923. E sono il tema, come è noto, del suo primo romanzo, "Raccolto rosso", che è retrospettivamente piuttosto esplicito, pur nel garbuglio di personaggi e situazioni che lo ingombrano: la città di Butte, Montana, in lotta contro il gruppo minerario che non vuole dare e non darà diritti sindacali, e contro il sindacato ingaggia la Continental-Pinkerton - il sindacato comunista Iww è nel romanzo una banda di mafiosi ma la situazione è quella.
La commediografa Lillian Hellman, che sarà la compagna di Hammett e lo introdurrà al partito Comunista, ricorda in “Tempo di furfanti”, del 1976, che lo scrittore-detective le confidò di avere ricevuto la proposta di assassinare Frank Little, e di averla rifiutata. Che può anche non essere vero – che la proposta sia stata fatta a Hammett, che Hammett l’abbia rifiutata – ma conferma che la Pinkerton ammazzava i sindacalisti, in forma non aneddotica. La moglie di Hammett, Josephine, veniva da Anaconda, Montana.
Richard Layman, Shadow Man, vita di Dashiell Hammett, Oscar Mondadori, pp. 329, € 10,50
Dashiell Hammett, Interrogatoires, Allia, pp.95, € 3

mercoledì 3 marzo 2010

Letture - 27

letterautore

Confessione - È fra i generi letterari più in voga. Se è vero che negli ultimi trent’anni si sono scritte più autobiografie che nell’intero corso della storia. Va in genere col pentimento, ma questa è un’altra storia – il perdono è facile, i vescovi si lamentano sul loro giornale, “Avvenire”, che è inflazionato, “facile e vuoto”, come nota Claudio Magris. Senza contare l’inverosimile, sconfinata, letteratura dell’infanzia, con nonne e zie, alla ricerca del tempo perduto. Più i blog, che sono un confessionale aperto, diarroico, con le chat e i forum, fiere dove esibirsi. E dove la ritrattazione è sempre possibile, fa parte del gioco – confessarci è come pentirsi. Freud, che non ha mai voluto autobiogarasi, dice già perché.
La verità e la storia hanno vinto il peccato.

È la confessione ripetuta in confessionale. Diversa da quella dell’analista, che a un certo punto deve lasciare il paziente, guarito o malato che sia. La confessione definitiva, l’assoluzione insomma, non è nella pratica cattolica: renderebbe il penitente libero.

Domestiche – Non ce ne sono nei romanzi e nei film americani. Non ci sono più le nere ma nemmeno le immigrate. Anche nel lusso: non c’è più la tata né la cuoca, nemmeno chicana a ore. Il lusso è una villona a due piani, con mare privato, quadri si suppone d’autore, e la Porsche. Ma vuota: come si tiene su la cosa? Il politicamente corretto si tiene sul vuoto.

Giallo – Un’indagine non può non dare risultati. L’eccezione è rara, il delitto perfetto. La suspense è quindi, dovrebbe essere, anch’essa eccezionale. Ma per il lettore vale di più il timore-speranza del delitto impunito.

Incipit – È una bella apparenza, una bella ragazza che appare e passa, ma non ha senso proprio. Lo prende dal seguito, dalla tenuta della narrazione. “A lungo mi sono coricato di buon’ora” è più ridicolo che evocativo.

Manzoni – Maestro della lingua, più di Shakespeare per l’inglese, ben più di Dante, e anzi padrone.
E per questo lascia perplessi, padrone tra i padroni, che dai popolani, Renzo, Lucia, don Abbondio, et al., sono tediati.

Metafora - È ricca perché crea significato. Introdotta dal “come”, in similitudine, sembrerebbe un riconoscimento, la chiusura delle porte. E invece è il gesto mattutino dell’apertura. Sia pure nel senso di Benjamin, del non inventare analogie ma scoprirle. Che però non è vero: i nessi sono scoperte, accidentali. Come nei sogni, così disarticolati nelle lro evidenze, e stringenti.

Minimalismo - È arte del ritaglio, dei contorni, lascia fuori le cose, sfruttando lo hint: allude. Non in Salinger, che le cose ha espresso col ritmo, l’insistenza, la fissazione – adeguati peraltro all’oggetto: le fantasie puberali (il che spiega perché non ha scritto più). L’allusione dovrebbe far partecipare l’autore all’opera, è una forma modesta di opera aperta, in realtà lo titilla e nulla più.
È arte del ricamo. Tecnica derivata dall’analisi? Dall’abitudine di dilettarsi nelle minuzie, nelle circostanze, girando attorno agli scogli. E di concentrare tempo e luogo sull’infanzia-adolescenza.
È narrativa puberale: non ci sino persone fatte, o sfatte, nel minimalismo. E quando ci somno è per tornare nell’età dello sviluppo.
È stato preparato da Sarraute e Butor, dall’école du regard. A sua insaputa, e addolcita: è l’artigianato, la pratica, contro la durezza del verbo, della scienza.

Mozart – Il suo mistero è quello della storia a posteriori. La storia a posteriori di Vienna e dell’Austria Felix, piena di musicalità e mecenatismo. Dove invece Mozart fu lasciato alla porta e all’indigenza. Anche Parigi lo tenne, con durezza, alla porta. Quando era già stato apprezzato nelle città musicali d’Italia, benché giovanissimo, e pagato: Roma, Bologna, Milano. Ma l’Italia già più non esisteva.

Poesia - È scomparsa. Non la voglia di farne o di leggerne, se ne pubblica e se ne compra sempre tanta. Ne è scomparsa l’essenza: la creazione (riproduzione) dell’emozione. Forse perché il mondo è senza sorprese? Sorprese effettive, non artefatte, in questa epoca di abbondanza e di pace. Le sue parole sanno di mistificato, come la costruzione-decostruzione del verso, di manieristico, di acuto. Tanto più in quanto sono simili, senza sorprese. I tanti premi Nobel, Brodskij, Symborska, Walcott, non dicono nulla, se non la bravura.
Se la poesia è “l’essenza della cultura del mondo” (Brodskij), è possibile che questo mondo non abbia più cultura. Ma non è possibile. E allora è la cultura della poesia che non è più la cultura del mondo. C’è, e non solo nella poesia, una cesura tra il pensiero-sentimento del mondo, ridotto a giornalismo, e il mondo.

Proust – L’insensibilità di Albertine-Alfred, un amore che non decolla, dopo centinaia di pagine di veglia trepida, gelosie coltivate e bugie impossibili, se non nel ridicolo, è la sterilità dell’amor omosessuale? L’omosessualità è sorda in letteratura, rileggendone la ormai vasta produzione, maschile e femminile: non si ascende e non si scende con le sue storie d’amore, e le gelosie sono posticce: Albertine-Alfred per questo resta un marchettaro – mentre la dama delle camelie invece ha charme? O è Proust incapace di amore?
Tutto il sesso per Proust è degradante, in tutte le forme. I ricordi vanno bene asessuati, l’infanzia quindi e la vecchiaia (la mamma, madame Straus, le duchesse) che per definizione lo sono. Potrebbe essere una chiave unificante e reattiva dell’inafferrabile Marcellino: la sua vocazione angelica.
Ingeborg Bachmann ne fa una lettura tutta e solo omosessuale: la “Ricerca” è una tragedia e non una memoria, almeno nel primo disegno, prima della guerra, per il clash con la diversità sessuale, che è culturale e personale, poiché Proust non la accetta. È una lettura brillante, la Bachmann nasce geniale, ma insostenibile: il sesso non ha nella ricerca un peso specifico rilevante.

In Italia sarebbe stato un crepuscolare?

La madeleine inzuppata nella tisana di tiglio è da vomitare.

Scrittura - Era in origine la tassa romana sul pascolo, scriptura.

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L'autore (meridionale) vittima dell'editore

Un raptus linguistico, con utilizzazione libera di gerghi anche privati ma significanti, che ha molto di “Morte a credito”. È uno dei pochi prodotti del neo realismo applicato alla letteratura che ancora reggono, con Meneghello e poco altro. Benché confinato dall’editore ai franchi narratori, autori casuali di un’opera. E tagliato nella sua prevedibile fluvialità, che è ingrediente base di questa forma. Per ragioni editoriali, di costo, maneggevolezza e lettura. Ma forse c’è il dispetto del Sud: l’autore è un prete di paese, colto (professore al seminario) ma di Oppido Mamertina.
Il romanzo è uscito in un momento in cui il Pci liquidava il meridionalismo. Ma la diffidenza è più profonda: “Asprea” ha girato per quindici anni a vuoto col suo manoscritto. Cordero parla, nell’agnostica presentazione, di opera “mediterranea”, per non dire “meridionale”. Ma la stanchezza si vede uguale, l’insofferenza, l’irritazione: è una pubblicazione che è quasi una purga. E fastidio ne viene al lettore. Perché l’editore (Feltrinelli) automaticamente associa a un’editoria populista. E perché l’opra di un prete di provincia meridionale non può valere per la felicità (gaudio) espressiva, come è il caso del “Previtocciolo”, ma per le tematiche trite dei vinti. Nemmeno la “mediterraneità” peraltro viene sfruttata: Savinio le aveva trovato tanti attraenti connotati, nella “Vita di Vincenzo Gemito”.
Luca Asprea, Il previtocciolo

martedì 2 marzo 2010

Banche più grandi dopo la crisi

Obama negozia, ma per venire incontro alle banche. Il discorso di sfida di un mese e mezzo fa si starebbe risolvendo in un compromesso. La situazione è sempre quella che il capo dei suoi consiglieri economici, Larry Summers, descriveva a Davos nelle stesse ora: “Ripresa statistica, recessione umana”. La constatazione dell’ultimo ministro del Tesoro di Clinton, nonché rettore per molti anni di Harvard, nipote dei Nobel Samuelson e Arrow, è sempre vera: i disoccupati continuano ad aumentare. Ma il tono belligerante del presidente contro le banche ha lasciato subito il posto al compromesso. Chiedendo una tassa sui superprofitti delle stesse banche, e un limite ai supernobus dei banchieri, Obama aveva prospettato un duplice divieto: alla banca universale, e alla monopolizzazione in atto del credito, ponendo un tetto agli attivi di ogni gruppo bancario. Questo tetto ci sarà, ormai la stagione del consolidamento dei maggiori gruppi è conclusa, e comunque sarà elevato e non rigido (sarà variamente parametrato). La banca universale invece resterà, commerciale e d’investimento.
Ha prevalso il “troppo grandi per fallire” del presidente di Deutsche Bank, Josef Ackermann, e dell’Institute of International Finance, che rappredenta i 380 maggiori gruppi bancari, assicurativi e finanziari del mondo. Era la massima di Cefis, con cui Montedison è andata al fallimento, trascinando nel gorgo anche la politica. Ma è su questa base che Obama avrebbe accettato di discutere. Accontentandosi di una tassa sui superprofitti, che una tantum non disturba. E di nuovi codici etici sui bonus degli amministratori. Il 21 gennaio il presidente Obama aveva detto alla televisione, con modi bruschi facendo il viso dell’arme: “Allora. Se questa gente vuole la guerra, è una guerra a cui sono pronto. E la mia determinazione è solo rafforzata quando vedo un ritorno ai vecchi vizi in alcune delle stesse banche che combattono la riforma. E quando vedo superprofitti e osceni superbonus…”. Ma il Congresso non lo ha seguito, e Obama si appresterebbe a scendere a patti.
Dalla crisi bancaria esce dunque un maggior grado di monopolizzazione del credito negli Stati Uniti. L’ex economista del Fmi Simon Johnson, ora alla Slogane School of Management del Mit, ha calcolato sul “New York Times” a metà febbraio che le grandi banche si sono allargate nella crisi, “avvicinandosi pericolosamente a una situazione di tipo europeo, dove singole banche possono essere grandi come l’intiera economia”. Non è un’iperbole. Johnson, che ha in uscita un libro su “The Wall Street takeover”, calcola che le sei maggiori banche sono arrivate nel 2009 a controllare il 63 per cento del pil, dal 17 per cento del 1995. Le prime tre controllano due collocamenti in Borsa su cinque. Le prime quattro controllano la metà del mercato ipotecario e due terzi delle carte di credito. Le prime cinque controllano quasi tutto il mercato dei derivati che si trattano fuori Borsa.

La felice lingua del dialetto

Il traino del ciclista non è possibile da parte dell’ammiraglia, troppo grande, poco agile, o anche di una semplice berlina. Non in salita, quando i polmoni sono spalancati. Non in discesa, quando il corridore non ne ha bisogno, la bici essendo peraltro più agile della quattro ruote nei tratti a molte curve. E neppure in piano: “Lo scappamento sparge un tossico potente e invisibile, che scende nel petto mescolato coll’odore acre delle gomme, dell’olio e della polvere; questo tossico si combina rapidamente cogli altri che sgorgano copiosi da ogni muscolo, e produce nell’intossicato un acuto sentimento di disgusto”. È vero, anche se qui il traino è una corriera e non una decappottabile. La polvere c’è sempre, anche sulla strada meglio asfaltata. E i polmoni si sono adattati: i gas di scarico sono molto più puliti di ottant’anni fa, ma anche noi lo siamo, l‘igiene ci ha resi più sensibili - l’evoluzione della specie dopo l’igiene è nel senso della minore resistenza, il virus meno crudele ci abbatte.
È in questa memoria onesta la tenuta di Meneghello, che parla solo d’infanzia, naturalmente perduta, e di e zii, e non ha storia se non quella di un paese da secoli addormentato e immutabile. L’essenza cioè del bozzettismo. Per di più con l’uso di una lingua che si vuole esclusiva, di Malo Centro, o Malo Alto, o Malo Basso, non si capisce bene, insomma del paese natale dell’autore, seppure rispettabile – la Garzantina gli assegna ancora 11 mila abitanti.
Il saggio di Cesare Segre, “L’ora del dialetto”, che introduce l’edizione della Bur da solo vale peraltro la lettura. Anche se non considera D’Arrigo e “Horcynus Orca”, che di quell’ora è l’esito migliore. Meneghello entra a metà del ventennio del dialetto o questione della lingua, tra “La malora” di Fenoglio e “Il dio di Roserio” di Testori, 1954, e la lunga gestazione di “Horcynus Orca”, pubblicato nel 1975. Una questione anticipata e imposta negli anni della guerra da Gadda, radicato nell’espressionismo lombardo. Ma curiosamente sparita in questa Italia lombarda e leghista.
L’arcaismo è venuto dal cinema, dove aveva lampi caravaggeschi, seppure mai altrettanto coraggiosi come in pittura – il neo realismo, che prescriveva il soggetto povero, lo limitava. Ma sulla carte resta invariabilmente freddo. Anche in Gadda, a rileggerlo, e certo in Pasolini. Un esercizio di testa. Falsamente cordiale, perché falso (artificioso, opportunista, riduttivo più che moltiplicativo) e politicante – il neo realismo era una politica e non una poetica, Togliatti lo sapeva per primo, che se ne serviva ma non lo prezzava, non c’è uno dei suoi innumerevoli scritti che lo elogi. Quello di Meneghello, che al dialetto assegna “accesso immediato e quasi automatico a una sfera della realtà che per qualche motivo gli adulti volevano mettere in parentesi”, è un approccio professorale, e quasi accademico. Un filino snob: non sa chi è Mike Bongiorno, o Claudia Cardinale. Ma da linguista, che si esercita in richiami, persistenze, stratificazioni, etimologie. Anche se gli adulti in realtà non si privano del dialetto e non lo censurano, e anzi sono quelli che lo dettano.
Il dialetto e l’infanzia si legano in Meneghello come nota Segre: “L’impressione infantile lega parola e cosa”. È così che restano entrambi spigliati e sempre vivi – “il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia”, dice poi Menghello. E si tengono fuori dal cul-de-sac di mezzo secolo di linguaggio dei linguaggi, esercitazioni solo apparentemente libere, in realtà didattiche. Ciò che ne risulta non è la “questione dialettale” ma l’illimitata felicità narrativa, la svagata profondità del viaggiatore Sterne. E di quando in Italia c’era la felicità del narrare – fino al “Pentamerone”? Con l’uso, certo, del dialetto, di una lingua che non respinge il parlato.
Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Secondi pensieri (38)

zeulig

Dio - È il padre nel senso umano, storico e metastorico, del termine: amoroso e violento, intelligente e stupido, provveditore e dissipatore. È la legge e il crimine, nella storia. È nella metastoria la realtà irrealizzabile del desiderio, una tensione, anche convulsa.

Donna – La liberazione della donna ha fatto emergere molte parti oscure della libertà. Di attitudini mentali e fisiche: tradizione, ruoli, psicologia. E di sofismi non tanto lievi. Specie di quelli che pretendono la disintegrazione del sé come il segno maggiore di libertà

Ebraismo – È curiosamente agiografico, anche quello italiano che era sempre stato laico: non solo la creazione ma tutta la storia, quella buona, è ebraica, da Riccardo di Segni, “Il vangelo del ghetto”, a Anna Foa, “Ebrei in Europa”. Per un’anacronistica reviviscenza dell’ideologia ottocentesca dei primati nazionali, in una col nazionalismo d’Israele. Per l’orgoglio anche, che è la cifra caratteriale della cultura ebraica – c’è qualcosa come il carattere di una cultura. Non mitigata dall’Olocausto, stranamente, ma rafforzata e anche acuita. In contrasto con l’altra cifra caratteriale storica, la prudenza.

Giudice – Incute istintivo timore, impersonando la giustizia. Che è il fondamento dell’umanità, l’ambizione della filosofia, l’oggetto del socialismo. Ma i giudici sono altra cosa: sono funzionari litigiosi. L’orizzonte hanno limitato alla giurisprudenza e al proprio sé.

Mito – La mitologia è moderna, se nn contemporanea. Le sterminate raccolte, di Greaves, Kerényi, che sono folklore anchilosato. Per i greci, per restare alla nostra cultura, il mito non restava fuori né veniva prima del logos, la filosofia, e della vita pratica, la métis.

Natura - È coltivata. È un modo d’essere – dei minerali, vegetali, animali, dei fenomeni. Durevole ma mutevole: adattabile, flessibile, conservativo.

Opinione - È cura. E può essere tutto: il discorso della cosa che sempre più finisce per essere la cosa, non mondo dell’informazione.

Parola - È il bene comune, cheap più di una goccia d’acqua. Il più libero anche. E il più nocivo.

Passato - È più difficile da scoprire dell’avvenire. A questo porta una sola traccia, mentre verso il passato le tracce sono tante e nessuna mai s’invera, se non per la presunzione dello storico – senza sua colpa, lo storico sa quello che sa.

Pensare - È ordinare le parole, inventare un senso. Con o senza legame con la verità, se non quello dell’esistente, del reale.

Perfezione - È l’idea della vita: non si è per essere perfetti.

Progresso - È romantico in Schlegel (“Dialogo sulla poesia”, piani per “Athenäneum”). E quindi è tradizionalista.

Psicanalisi – Decolpevolizza e dà un senso alla vita, come la confessione. Ma è anche la prima terapia che esiga tempo, molto e non poco. E per prima, e sola, dà l’illusione dell’autoguarigione. Si può anche dire che per prima, e sola, porta il paziente al livello del terapeuta, gliene dà gli strumenti. È la democrazia della terapia.

Ragione - È la madre del dubbio. Una madre ostile, presuntuosa. Che non protegge e non salva.

Resurrezione – Ricorre più volte nella vita. Dove dunque si registrano più morti.

Storico – Il buon storico è un buon retore: rende evidente – necessaria – la sua verità, e ciò che non vi rientra dissolve.
Se è sanguigno, alla Machiavelli, si divertirà all’osteria tra una seduta aulica e l’altra con i grandi della terra.

Verità - È l’essere, che è tensione all’essere.
Quella non detta non è.

Viaggiatore – Torna estraneo, avendo visto più cose. E più spesso non è atteso, anche se non ha lasciato cattiva memoria.

zeulig@antiit.eu