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sabato 16 maggio 2020

Ombre - 513

C’è (forse) un abuso edilizio in largo santa Susanna, Roma, che Vittorio Emiliani denuncia “la Repubblica”. Per dire che la colpa è di Berlusconi, avendo “Berlusconi e Bertolaso accorpato alla Protezione civile il Servizio Geologico e Sismico nazionale”, che aveva gli uffici nel palazzo: “Coi risultati negativi che sappiamo (vedi l’Aquila)”. Dove il terremoto, si sa, non fu previsto né da Berlusconi né da Bertolaso.
Il mondo è molto cambiato, ma dopo Berlusconi per questa sinistra non c’è stato più niente. 

Non esiste la sinistra non da ora, da tempo. Che non sapendo come va il mondo, orfana del Pci, e non molto vispa, come si vede, si aggrappa a Berlusconi, come già ai tedeschi e a Mussolini. Sinistre vecchie glorie.

Ritorna l’Amazzonia, sempre grande, in prima su “la Repubblica”, ed è come dire: non c’è la peste, tranquilli, siamo sempre all’Amazzonia come da cinquant’anni a questa parte, con i Bororo, i Xavantes, se ancora ci sono, e i preti sposati, rarissimi anche quelli – chi si prende due croci invece di una? Come dire: beh, muoiono i padani, e chi se ne frega.

Gramellini ironizza sull’azienda dei rifiuti che, in ossequio alla delibera che riduce la Tari alle aziende in lockdown, invia una formulario per rimodulare la tassa di venti pagine. Pieno di riferimenti a leggi, decreti, regolamenti, ordinanze, si conclude con un invito al ricalcolo su parametri che solo uno specialista di apposita formazione può decifrare – a un costo evidentemente per l’azienda, per piccola che sia. Una satira. Ma è tutto vero.

La Marina iraniana tira missili contro una propria fregata, nel mare di Oman. Una non notizia in Italia: siamo per gli ayatollah. Per il presidente Xi. Per tutti quelli che menano.

Non è la prima volta che i pasdaran iraniani, una sorta di armata Brancaleone, sparano missili a vanvera. A gennaio hanno anche abbattuto un aereo di linea ucraino, 176 morti. Ma c’è una zona di rispetto attorno agli ayatollah. In nome di quale loggia? Dei petrodollari?

Rientra la cooperante rapita in Kenya dai terroristi  somali. Col presidente del consiglio e il ministro degli Esteri in paziente attesa, per farsi vedere in tv. La cooperante scende dall’aereo speciale come un’attricetta sul tappeto rosso, dentro la gualdrappa verde islam invece che in decolleté, ma ugualmente serafica e sorridente. Una farsa, non c’entra la solidarietà umana, ma rischiosa e costosa. Che cosa ha da offrire agli africani una persona del genere, che gli africani non hanno?

La stessa passerella si ripete a Milano, con saluti e baci. E assembramenti, in teoria proibitissimi. Tutto in gloria. Di una banda terrorista, alla quale è stato pagato un riscatto sicuramente milionario, se non in forniture di armi. Quanto di più illegale.

Silvia Romano non capisce che fa il gioco dei suoi rapitori, che le avrebbero fatto passare un anno e  mezzo terribile. Esibisce teatrale la conversione, che si penserebbe cosa intima, il paludamento, e il sorriso felice. Uno spot per i terroristi, che vengono supposti buoni e bravi, mentre sono sanguinari, molto: che di meglio per Al Shabaab? uno spot gratuito,e anzi pagato dallo Stato italiano? E questo fa parte della psicologia della giovane. Ma possibile che la sua famiglia, la città di Milano, le Autorità, non sappiano quanto questo è offensivo per i più?

Peggio per il presidente del consiglio e il ministro degli Esteri Italiani che hanno onorato la giovane neocatecumenale dell’islam. Uno spot formidabile per tutti i mussulmani, i buoni e i terroristi, in Italia  nel mondo.

Ancora a proposito di Silvia Romano: come e perché si manda una persona evidentemente sprovveduta in un posto a così elevato rischio. Si può capire lei, la rapita: l’avventura, il rischio, il sogno di una vita. Ma la sua organizzazione? La Cooperazione italiana che finanzia: perché tanti rischi ?

Si dice politico il pontificato Bergoglio, nota Galli della Loggia sul “Corriere della sera”, mentre non lo è, è ideologico. È vero, papa Francesco è impolitico. Ma anche l’ideologia è debole: è confusa, isolata, non suscita militanza, nemmeno simpatia. Sembra un uomo solo.


Cronache dell'altro mondo - spionistiche, poliziesche

Trentuno o trentadue specialisti dell’Fbi e della Cia, coordinati dal vice-presidente Biden, lavoravano nel 2016 per creare il Russiagate. Puntando a incastrare una personalità dello staff del candidato Trump, benché non temibile come candidato – il generale Fynn.  Cosa proibitissima dalle leggi, dopo il Watergate ma anche prima. Ma soprattutto sinistra poiché vi è coinvolta la Cia, in un’operazione interna, cioè in attività cospirativa. E l’Fbi, che è la polizia federale. Contro un candidato, peraltro, che si presentava il più debole di tutte le elezioni presidenziali del dopoguerra.
Il dossier del Russiagate fu confezionato  da un’ex spia inglese, e fu comprato dal dipartimento di Stato di Hillary Clinton.

Il 13 marzo la polizia di Louisville, Kentucky, ha fatto irruzione senza preavviso in casa di una giovane, e l’ha uccisa, con sette colpi. L’assassinio è stato fato passare come un atto di autodifesa da parte di poliziotti minacciati da trafficanti di droga. Ma non c’era droga in casa, e l’assassinata, Breonna Taylor, 26 anni, era stimata operatrice sanitaria, volontaria anti-coronavirus. La famiglia ci ha messo due mesi per ristabilire la verità, pagando un costoso avvocato.
La famiglia dell’assassinata non potrà però rivalersi sullo stato del Kentucky per un risarcimento contro il cosiddetto “errore” della polizia. Tre anni fa la Corte Suprema ha dichiarato che le leggi per il risarcimento di “errori” giudiziari o “provocazioni” sono una “interpretazione incostituzionale della protezione che il Quarto Emendamento dispone contro perquisizioni e carcerazioni illegali”.


Le rimesse degli immigrati

Le rimesse degli immigrati sono il più sostanzioso e continuativo flusso di sostegno allo sviluppo dell’ex Terzo Mondo - e dei paesi, anche europei, meno ricchi. Con una controindicazione – già rilevata dal sociologo Ulrich Beck dodici anni fa in “Conditio umana”: che l’immigrazione, specie nei paesi a bassa crescita demografica e a forte sviluppo dei servizi, come la Germania, la Gran Bretagna, i paesi scandinavi, impoverisce i paesi poveri, favorendo l’integrazione di larghe fasce di professionalità più qualificate (medici, operatori sanitari, ingegneri). Che tendono per di più, si può aggiungere, a troncare i rapporti col paese di origine, per un’integrazione piena con quello di accoglienza (matrimoni misti, nuova identità)..
La Banca d’Italia calcola per il 2019 un efflusso di 6,1 miliardi di euro per rimesse all’estero dei lavoratori immigrati. Tramite money transfer, banche o Posta, per un ammontare pro capite, su un parterre di 5,2 milioni di cittadini stranieri registrati, di 1.157 euro pro capite. A questa cifra bisogna aggiungere l’esportazione di valuta in specie, diretta, per vaiggi o attraverso intermediari personali. Che si valuta sul 15-20 per cento dei trasferimenti contabilizzati.
I flussi monetari degli emigranti sono una parte consistente delle bilance dei pagamenti internazionali. La Banca Mondiale calcola le rimesse degli emigranti verso i paesi in via di sviluppo in aumento del 10,8 per cento nel 2018 – dopo un più 7,8 nel 2017. Per un ammontare di 529 miliardi di dollari.
Le rimesse totali, compresi i flussi verso paesi ad alto reddito, compresi i paesi dell’Europa orientale, sono aumentate anch'esse del 10,3 per cento, arrivando a 689 miliardi. Per 274 miliardi  indirizzati verso l’Asia e il Pacifico (Filippine), per 87 miliardi verso l’America Latina, per 65 verso l’Europa orientale, per 59 verso il Medio Oriente e il Nord Africa, e per 45 miliardi verso l’Africa sud-sahariana.
L’India è al primo posto come beneficiari, per 80 miliardi. Seguita dalla Cina (67 miliardi), dal Messico e dalle Filippine (34 miliardi l’uno) e dall’Egitto (28 miliardi).
Nel 2017 le rimesse sono ammontate a 632 miliardi di dollari. Dei quali 42 verso l’Africa sub-sahariana. I flussi sono stabili, ma nel 2016 l’Africa ha registrato un calo del 9 percento. I conteggi per l’Africa sono però in difetto: nella regione solo un 40 per cento della popolazione utilizza i servizi finanziari, le rimesse si fanno per lo più in contanti, come ogni altro pagamento.
Sulle rimesse si pagano costi per il 6-7 per cento. Che per l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana arrivano al 9 per cento.


Draghi shakespeariano.

Il primo messaggio che vorrei mandare è che l’euro è molto, molto più forte, l’area euro è molto, molto più forte di quanto le gente riconosce oggi… Il secondo messaggio è che c’è più progresso di quanto si riconosca. Il terzo punto che voglio sappiate è in un senso più politico: quando parlano delle fragilità dell’euro e della crescente fragilità dell’euro, e forse della crisi dell’euro, molto spesso Stati membri o leader non dell’area euro sottostimano l’ammontare di capitale politico che si sta investendo nell’euro”… (pausa, sguardo sulla platea, rallentando la dizione) “Noi riteniamo l’euro irreversibile. Non è una parola vuota”… (pausa, sguardo a destra e a sinistra) “E un altro messaggio voglio darvi: sulla base del suo mandato, la Banca centrale europea è pronta a fare quanto è necessario per preservare l’euro. E  credetemi, sarà abbastanza”.

Fa senso vedere, sentire Draghi shakespeariano che dice no all’attacco contro l’euro, a luglio del 2012. In inglese piano e fermo. Lo sguardo chiaro dietro gli occhiali a montatura sottile d’acciaio. Vederlo e ascoltarlo per la prima volta, in uno sceneggiato tv, nella platea ristretta degli abbonati alla costosissima Sky. Perché i media italiani che se ne riempiono la bocca non hanno mai avuto la sensibilità di metterlo in scena. Non con la stessa maestria, con la quale l’altolà alla speculazione contro l’Italia è stato presentato a una Global Investment Conference a Londra il 26 luglio, ed è stato montato dai registi dei “I diavoli”. Al culmine dei due episodi della serie che mette in scena  l’attacco concentrato sull’Italia perno dell’euro, per far saltare l’euro.
Entrambi gli episodi che hanno sceneggiato la crisi del 2011-2012 sono dei capolavori, d’informazione e di drammaturgia. Il duetto Sarkozy-Merkel alla Stanlio e Ollio contro l’Italia a Bruxelles a fine ottobre – specialmente ridicolo per chi sa che la cancelliera rideva del tronfio francese, mimandolo come un burattino al bicchiere della staffa la notte con i collaboratori (il barman era germanofono). E il buiding-up dei piigs, i paesi da abbattere, che gli sceneggiatori crudeli confidano a un giovane senza difese e senza scrupoli, un africano. Tutto per il resto storicamente attendibile, anzi perfetto. Il ministro del Tesoro di Obama che non ci sta. I referenti al Tesoro tedesco che invece giocano al peggio. Il via libera tedesco a Draghi, alla Bce, quando la speculazione punta pure Commerzbank e Deutsche Bank.
Jan Maria Michelini- Nick Hurran, I diavoli


venerdì 15 maggio 2020

Cronache virali

Si riprende il calcio, gioco di squadra e di contatto, per abolire di fatto tutte le regole imposte, e sempre in vigore, contro il virus: il distanziamento, le maschere, la disinfestazione. Tutto questo rivisto e previsto dalle “autorità scientifiche”.
Trenta-quaranta persone in corsa forsennata per novanta-cento minuti su 7 mila mq. a cercare scontri ravvicinati, sudando, urlando, sputando. Mentre al bar si deve stare, composti e tranquilli, a due metri di distanza,. E in spiaggia a 4. 
La pandemia resta sempre padana – con code nelle seconde case padane, in Liguria, Versilia, e la costa romagnolo-marchigiana. Il coronavirus ha contagiato fino a ieri 223.096 persone, delle quali 31.368 ne sono morte. Un tasso di letalità fra i più elevati al mondo, il 14,1 per cento. Che diventa il 18,2 in Lombardia, dove è morto uno su cinque contagiati.
I morti stagionali in Lombardia sono stati fino a metà aprile quasi tre volte quelli medi dei precedenti cinque anni – un aumento del 189 per cento. L’Emilia-Romagna segna un più 70 per cento, il Piemonte il 52. In 312 Comuni delle tre regioni, compresi una mezza dozzina del Veneto e delle Marche, l’incremento della mortalità è stato “superiore al 500 per cento”, secondo i calcoli dell’Ispi, l’istituto milanese di studi politici.






Il mondo com'è (403)

astolfo

Crociate – La storia ne è oggi riduttiva, del tipo Armata Brancaleone. Sulla scia di Runciman, che lo ha detto il più grande delitto contro l’umanità,  e dell’antipapismo inglese. Runciman, che nella guerra fu professore a Istanbul di Arte e Storia bizantina, era stato a Cambridge l’allievo prediletto, “il primo e solo studente”, del libero pensatore John Bagnel Bury.
Bernardo di Chiaravalle, promotore dei Cistercensi, che fu predicatore della seconda Crociata, era amico di Pietro il Venerabile, che a Cluny per primo fece tradurre il “Corano”. Le Crociate vennero a seguito degli interventi sempre più pressanti del turchi contro l’impero indebolito di Bisanzio. La seconda fu chiamata dopo i massacri dei cristiani a Edessa.
Ma è vero che, fallendo per le discordie dei capi e capetti cristiani, perpetrarono come dice Runciman la più grande follia politica del Medioevo: la distruzione per loro mano dell’impero di Bisanzio, di quel che ne restava, mentre pretendevano di salvarlo. Aprendo di fatto la strada dell’Europa ai turchi. Quando Saladino riconquistò Gerusalemme, nel 1187, non vi furono i saccheggi e i massacri di quando i cristiani l’avevano occupata, ottantotto anni prima.
L’ultima crociata, chiamata dallo stesso papa, Pio II, il papa umanista, andò deserta. In Ancona, dove il papa aveva chiamato a raccolta nel 1464 le forze promesse, da Venezia, la Germania, la Francia, eccetera, non ci trovò niente – eccetto la morte, per la peste. Alla crociata aveva lavorato a lungo, dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, per prevenire l’espansione mussulmana. Di fronte allo scarso interesse, aveva minacciato perfino di intronizzare Maometto II imperatore romano, facendo circolare una falsa lettera, in cui lo invitava al battesimo, per favorire l’incoronazione.

Menabrea – Oggi marca nota di birra, è stato nell’Ottocento, nella persona di Luigi Federico, “uno dei più grandi scienziati italiani del secolo XIX”, savoiardo di Chambéry, ingegnere, generale, uomo politico e diplomatico, il quarto o quinto presidente del consiglio del neonato Stato italiano, uomo di fiducia del re Vittorio Emanuele II, quando la capitale era a Firenze. Dopo essere stato ministro della Marina e ministro dei Lavori Pubblici. Infine a lungo ambasciatore a Londra e a Parigi – e da sempre senatore a vita, per 36 anni, primo conte Menabrea, primo marchese di Valdora.

Fu bravo ingegnere e matematico. A lui si deve la spinta probabilmente decisiva al computer. Trentatreenne, si era laureato ingegnere a Torino, con dottorato in matematica applicata. In questa veste Menabrea si ricorda anche come benemerito iniziatore della scienza dei computer. Avendo per primo capito e sistematizzato le idee di “macchina analitica” di Charles Babbage, il matematico londinese, da lui appositamente invitato a esporle a Torino nel 1842. A essa ispirando poi in via risolutiva lady Augusta Byron, “Ada Lovelace”, che pure era collaboratrice di Babbage: dalle discussioni con Babbage, Menabrea aveva ricavato un saggio, pubblicato in francese a Ginevra, che si considera il primo lavoro scientifico nel campo dell’informatica, “Notions sur la machine analytique de Charles Babbage”. Il saggio fu tradotto in inglese e arricchito da Ada Lovelace.

Ma Menabrea fu anche quello che impaludò l’Italia unita nell’orrido di Assab, e due questioni sociali aprì poi rimaste più o meno irrisolte: la questione meridionale e quella sociale – l’Italia riducendo alla dubbia aristocrazia sabauda e agli affaristi profittatori della manomorta ecclesiastica . Esponente della Destra storica, presiedette governi di destra incondizionata, uno di essi tutto settentrionale – con il quale progettò di confinare in Patagonia i “briganti” postunitari, convinto che “il sano terrorismo di Minghetti”, uno dei suoi predecessori, andasse rafforzato. Impose la tassa sul macinato, per colmare il debito contratto con l’infelice guerra del 1866 – nei tumulti popolari che ne seguirono si esercitò alla repressione, con 250 morti e un migliaio di feriti, il giovane generale Raffaele Cadorna. Si deve a lui anche Assab: il colonialismo sterile, e la rovina – una delle rovine – dell’Italia ai suoi primi passi come nazione.
La storia del colonialismo impervio – più che straccione (l’Italia spese molto nelle colonie) – avviato da Menabrea è così sintetizzata in  Astolfo, “Non c’è anarchico felice”:
“La prima volta avvenne a opera di Giuseppe Sapeto di Carcare, in provincia di Savona, che prima a Cavour, inascoltato, poi a Vittorio Emanuele II propose i calanchi roventi di Assab, avamposto di Adua. Per gli etiopici indifferentemente gesuita, cappuccino, spia, Sapeto era stato lazzarista,  membro cioè della Congregazione delle missioni apostoliche, fondata da san Vincenzo de’ Paoli nel 1625, prima di spretarsi nella foia climaterica dei cinquant’anni, e diventare via via agente francese in Dancalia, curatore dei manoscritti orientali alla Biblioteca Nazionale di Parigi, successore di Michele Amari, professore di arabo a Firenze, in forza di un «Viaggio e missione cattolica fra i Mensa, i Bogos e gli Habab», col quale, missionario a Cheren, aveva tramandato minuziose annotazioni etnografiche, agente di Rubattino nel mar Rosso. In tre settimane in Siria nel 1837 si era fatto ordinare dal vicario apostolico Jean-Baptiste Auvergne suddiacono, diacono, prete. Nel 1838 aveva già fondato una missione a Massaua, a ventisette anni. Precursore e mentore di Giustino de Jacobis di San Fele di Avellino, il santo vincenziano che aprì la religione e la chiesa al clero africano. Ma la sua passione era geopolitica, per la quale importunava i potenti, “con pertinacia sovrumana” dicono i biografi: la regina Vittoria, Gregorio XVI, Luigi Filippo, Pio IX, Napoleone III. Papa Gregorio mandò una campana. Erano anni di sede vacante, l’ultimo abuna, Cirillo, era morto nel 1828 avvelenato dal re del Tigré Sabagadis, e non si trovavano i diecimila talleri da pagarsi al patriarca d’Alessandria per l’unzione del nuovo abuna. Finché gli inglesi fecero nominare Abba Andreas, un sensale di schiavi della suburra del Cairo, battezzato, ma di scuola coranica, e infine monaco copto, che si chiamò abuna Salama.
“Sapeto puntò sulla Francia, oltre che su Torino, alla quale fece promettere dallo sbandato Negussié la baia di Adulis e l’isola di Dissee. Negussié, nipote ventiseienne di Ubié, il ras del Tigré spodestato dal famoso Kassai, il Napoleone d’Abissinia, che si era fatto incoronare Teodoro II, si aspettava dalla Francia un esercito, e sparì quando arrivò una nave senza armamento. I francesi non si persero d’animo, e comprarono Obok, che sarà Gibuti, per diecimila talleri di Maria Teresa da un altro capo locale. Che sparì pure lui, ma questa volta il capitano di fregata conte Stanislas Russel, l’inviato di Napoleone III, piantò la bandiera.
“Al giovane Negussiè già Sapeto aveva portato nel 1859 da parte del re di Sardegna un trattato commerciale e il riconoscimento di re dell’Etiopia – di cui non c’è traccia nelle carte di Cavour, ma il re potrebbe aver supplito. Cavour l’Africa la discuteva con Antonio Rizzo, un palermitano che con la sua gentile signora Santina si era installato comodo sull’altopiano dell’Asmara, da dove scriveva al conte invoglianti missive – ma il paradiso, intervallato da carcerazioni e riscatti, durò solo sette anni, nel 1861 Rizzo morì a Torino poco dopo il conte. Dopo l’acquisto francese della costa pietrificata e le ambe impervie di Obok, Sapeto non ebbe requie finché non portò l’Italia a Assab, calcinata dal sole e dall’umidità. 
“Successe all’inaugurazione del canale di Suez il 16 novembre 1869. Per la quale del resto anche Verdi immagina il paradiso in Etiopia, attorno alla principessa Aida. Una delle tante missive dell’ex missionario ebbe risposta: il presidente del consiglio Luigi Federico Menabrea lo incaricò di acquistare uno scalo sul mar Rosso, preferibilmente all’ingresso meridionale, lo stretto di Bab El Mandeb, pur chiamandolo Sepeto, e affiancandogli il contrammiraglio Guglielmo Acton, ex napoletano, con uno stanziamento di centomila lire, quattordicimila talleri. Era il 12 ottobre 1869. Lo stretto era già preso, Aden era britannica e Gibuti francese. Sapeto e Acton risalirono la costa della Dancalia e, dove nessuno poteva vederli, comprarono un pezzo di costa dai fratelli Ibrahim e Hassan ben Ahmed per cinquemila talleri. La metà dei francesi, un affare. Era il fatidico 16 novembre. Al ritorno Acton trovò a Alessandria la nomina a ministro della Marina nel gabinetto Lanza, che si formava a Firenze.
“Sapeto invece dovette giustificarsi, non molti nel nuovo governo apprezzarono, e s’inventò che Assab era la porta del Tigré, cioè dell’Etiopia, dov’erano stipati e disponibili “avori e pelli, zibetto, muschio, oro, incenso”, cioè i tesori dei Magi e della regina di Saba, nonché “caffè, sale, droghe, granaglie”. Nacque la favola delle ricchezze dell’Etiopia, gli esploratori hanno sempre dovuto inventarsele. Dopo il Perù, dopo l’oro e l’argento, i tesori non si trovavano, e i selvaggi dei gesuiti potevano giustamente ribattere nelle loro lettere: “Se siamo così poveri e selvaggi come dicono, che vengono a cercare da noi?”. Il papa a un certo punto aveva bloccato queste lettere – i gesuiti paragonavano le storie dei selvaggi canadesi a quelle di Tito Livio - ma non aveva fatto trovare più oro.
“Il casalese Giovanni Lanza, capo delle destra, preparava l’occupazione di Roma, e non voleva indisporre l’Europa con imprese esotiche. A marzo inviò Sapeto, col marchese Orazio Antinori in abito da esploratore, sulla «Vedetta», un avviso militare, a piantare il tricolore a Assab a titolo privato, a nome dell’armatore Rubattino. Una cautela che non bastò: il khedivé d’Egitto, informato dai francesi, e invidioso dei talleri che i capi dancali s’intascavano vendendo le sue terre, ancorché aride, mandò a rimuovere le insegne italiane. Sapeto allertò Bixio, che alla Camera chiese l’occupazione militare di Assab. Il governo se la cavò con una commissione di studio, e l’incarico al conte Ottavio Lovera di Maria, che farà carriera come prefetto di Catania, e al generale Ezio De Vecchi di visitare Assab e sondare il khedivé. Gli inviati ne fecero un quadro orrido, e gli esperti poterono sconsigliare la creazione di colonie, fossero pure penali – Sapeto aveva ripiegato su “qualcosa tipo Cajenna”. Ma non finì lì.
“Per un decennio Assab fu dimenticata. Poi il Parlamento abolì la sovvenzione alla linea Genova-Alessandria per la tratta fino ai porti siriani, e Sapeto riemerse con la proposta di ristabilirla per la tratta fino a Assab. Fino al nulla cioè, ma si trattava solo di passare dei soldi a Raffaele Rubattino, benemerito di Garibaldi. L’Italia seppe, per la facondia di Ferdinando Martini, di un’Affrica toscaneggiante, liberale, manzoniana. Il garibaldino Giuseppe Maria Giulietti, esploratore, convinse il ministro degli Esteri Agostino Depretis. E sotto il governo di Benedetto Cairoli, altrimenti attendista, si diede pronto avvio alla fine. Sapeto riemerge in Africa in qualità di agente di Rubattino e il 15 marzo 1880 acquista tutta la baia di Assab, 36 miglia di lunghezza per 2-6 di profondità, 630 km. quadrati, per 23.600 talleri. Un paio di tenenti di vascello diranno con Giulietti che Assab è la leva per la conquista del Tigrè, e il più è fatto: l’Etiopia, un paese che parla ottanta lingue, si penserà di conquistarla con un battaglione. Al comando di Oreste Barattieri, un altro garibaldino.
“Sapeto, il 25 agosto 1895, avendo apprestato il necessario per la fine dell’Italia qualche mese dopo a Adua, morirà contento. Il prezzo di Assab rappresenta il più grosso boom immobiliare della storia: solo quarant’anni prima i britannici si erano presi Aden, che vale molto di più, per dieci sacchi di riso. L’infausta Assab conta ancora oggi, dopo tutto il colonialismo, diciassette abitanti”

Pola – Aveva nell’inverno 1946-1947, quando gli italiani ne furono espulsi, 35 mila abitanti. Di cui trentamila erano italiani.

L’Istria nell’insieme aveva la metà della popolazione, esattamente il 50 per cento, italiana. Nella costa, italiana all’80 per cento, e nell’area retrostante. I croati, e la piccola minoranza slovena, abitavano le aree interne.

Ruggero Zangrandi – Da tempo dimenticato, fu l’autore nel 1962 del “Lungo viaggio attraverso il fascismo”, bestseller Feltrinelli. Un’opera anch’essa dimenticata benché utile. Da comunista, scrittore de “l’Unità” e “Paese sera”, Zangrandi vi ricordava come tutti gli intellettuali della sua generazione, praticamente tutti gli intellettuali del dopoguerra, erano stati fascisti negli anni 1930.

Zangrandi nei primi anni Trenta era stato compagno di scuola di Vittorio Mussolini, pur essendo di quasi un anno maggiore. La stessa che frequentarono Carlo Cassola e Mario Alicata, di tre anni più giovani. Col quindicenne Cassola e con Vittorio Mussolini fondò nel 1933 il movimento Novismo, antifuturista. Che pubblicò anche un “Manifesto”, cui seguirono polemiche. “Ci proponevamo di affrontare problemi filosofici e ideologici di ogni sorta, discettavamo intorno alla pace, all'ordine sociale e internazionale, alla questione religiosa (eravamo ferocemente anticlericali), a quella sessuale, ecc.”, racconterà nella sua ricostruzione. Le riunioni si tenevano a casa dei genitori di Cassola: “Dalle prime adunate tenute in casa mia si era passati alle riunioni semiclandestine nella cantina di Carlo Cassola, in via Clitunno a Roma: un simbolo o, forse, la suggestione delle società carbonare, cui cominciavamo a ispirarci”. Il gruppo evolvette presto senza volerlo su posizioni antifasciste, avendo deciso di “avvicinarsi alla classe operaia”, come ricorda ancora lo stesso Zangrandi: “Avevamo sedici o diciassette anni quando una inconscia smania di conoscere da vicino «i fratelli oppressi», di legarci con loro per una «rivolta sociale» che non aveva ancora, per noi, definizione politica ci spingeva ad andarli a cercare. Pietro Gadola, Carlo Cassola, Enzo Molajoni (non più Vittorio Mussolini, che si era ritirato dal gruppo, n.d.r.) e io ci vestivamo a quel tempo dei nostri abiti più malandati e, con la barba incolta e i capelli in disordine, ci avventuravamo per i quartieri popolari di Roma, a tarda sera. Entravamo nelle osterie, nei luoghi più abbietti, timorosi e schifati. Ci capitava di imbatterci in gente strana, che la nostra fantasia, nutrita di letture russe, coloriva subito di nichilismo”.


astofo@antiit.eu

Due donne per un uomo, il ménage à trois alluzza Goethe

Curioso dramma, di un ménage à trois, ma invertito: un uomo con due donne – solitamente è la donna a volere due amanti. Una delle prime opere di Goethe, 1775, subito dopo “I dolori del giovane Werther” e il suo straordinario successo.
Forse un tentativo di bissare il successo scandalistico del “Werther”. Ma il rapporto multiplo è uno schema caro a Goethe, che lo riprenderà nella maturità, nelle “Affinità elettive”, 1809. E non va a finire bene. Per Goethe è, più che un gioco letterario, la materializzazione di un sogno antico, anche maschilista?
Lucie, una ragazza abbandonata dal padre, va, accompagnata dalla madre Cäcilie, a servizio dalla baronessa Stella, che l’innamorato ha abbandonata. Nell’albergo dove Lucie alloggia in attesa di prendere servizio, arriva Fernando, l’uomo di cui la baronessa è innamorata, che vuole riconciliarsi. E intanto ha una simpatia per Lucie. Ma Fernando è anche il padre di Lucie, come la madre, Cäcilie le spiega. La baronessa non è permalosa, accetta Fernando e anche Cäcilie, e la commedia-drmma si innesca.
Il finale è incerto: un ménage à trois o la morte? L’originaria “Stella” era un dramma giocoso, definito “commedia per amanti”. Una commediola di costumi o boulevardière, di spirito francese – Goethe era già stato in Francia, per gli studi a Strasburgo. Nel 1803-1806 Goethe riprende la trama e la fa finire male. Questa è quella che si legge. Ma alcune messe in scena, delle poche che se ne fanno, privilegiano l’originale commedia degli equivoci.
Wolfgang Goethe, Stella, Einaudi, pp. IX-53 € 6,20


giovedì 14 maggio 2020

Problemi di base esistenziali - 566

spock

“Tutto ciò che si può immaginare esiste davvero”, Robert Nozick?

 

“Ciò che esiste è identico a se stesso”, Socrate?

 

Qualunque cosa non è identica a se stessa?

 

It from bit, l’informazione è sufficiente all’esistenza”, Archibal Wheeler?

 

“La sostanza del mondo è mentale”. Sir Arthur Eddington?                                                        

 

“Il mondo è cominciato senza l’uomo, e finirà senza di lui”, Claude Lévi-Strauss?

 

“L’io non è soltanto odioso: non ha posto tra un noi  e un niente”, id.?

 

“E tuttavia, io esisto”, id.?


spock@antiit.eu

L’Europa non è un mercato

Dopo Fincantieri, Exor: non c’è spazio per gli interessi italiani in Francia. Autostrade per gli interessi francesi in Italia, nelle banche sopratutto, in Parmalat e altrove, con una tentata incursione perfino su Mediaset, ma la reciprocità è bloccata.
Si suole dire che l’Europa è, comunque, un grande mercato. Ma proprio questo non è: ognuno si chiude a piacimento, sotto i più vari pretesti.
Exxor ha potuto comprare Chrysler in America, Fincantieri ha commesse in America dalla Marina militare, Salini Impregilo vi realizza infrastrutture multimiliardarie. In Europa questo non solo non è possibile, non è nemmeno immaginabile.
Non c’è peraltro Europa, come giustamnte ha rimarcato la Corte costituzionale tedesca a proposito della Banca centrale, che è un ente di diritto privato. Non c’è una costituzione, non c’è un governo, non c’è un Parlamento. Di che parliamo quando parliamo di Europa?
Exxor dovrebbe saperlo, dai tempi in cui l’Avvocato Agnelli si offerse di salvare Citroën. Era il 1968, la Fiat era ancora quella di Valletta, numero 1 in Europa, Citroën perdeva quote di mercato, la famiglia Michelin provava a disfarsene. Ma il generale De Gaulle disse no. Lo stesso per ogni altra iniziativa italiana in Francia: la Cinq - la prima tv commerciale - di Berlusconi (con Freccero…), la Beghin-Say rilevata da Gardini, l’offerta De Benedetti per Société Générale.
Il compromesso Exor con Covéa, l’acquirente francese di PartnerRe, è di metà marzo, col virus da un pezzo manifesto. Non c’era ragione per pretendere un conto di un terzo del prezzo dopo 50 se non la sopraffazione – e una speculazioncella in Borsa. La fusione con Peugeot potrebbe invece farsi, perché al gruppo francese servono Jeep e un piede in America. Ma non c’è molta etica degli affari in Francia.
In Francia come in Germania, dove nessuna azienda italiana osa avventurarsi, dopo le bastonature ricevute da Pirelli (affare Continental), Generali (Commerzbank), e la stessa Fiat (Opel): si gioca a gabbare il prossimo. Fincantieri ora gioca a fare gruppo con Thyssenkrupp per la cantieristica militare, ma “se c’è trippa” Thysenkrupp il gruppo lo farà in Germania, non c’è da scommettere.


L’allegria della morte, nell’anima

Non proprio allegro, come si ricordava.
Il soggetto è in Berto, “Il male oscuro”, e la sceneggiatura, e lo humour nero chiaro. Ma la mano è morettiana: lo humour più marcato, e anche più nero.
La minaccia non è un’ubbia, per quanto ansiogena-depressiva, ma la morte concreta, con falce in pugno. Sotto il vulcano come nelle peripezie del cancro. Nella solitudine.
Nanni Moretti, Caro diario


mercoledì 13 maggio 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (425)

Giuseppe Leuzzi

L’ennesima riproposta su Rai 1 del “Campo del vasaio”, scontate le curve della dark lady Dolores-Belen, ha l’effetto di un’apparizione. Si tratta per Montalbano, onesto servitore dello Stato,  di sventare un complotto contro la mafia. Niente di meno. Con l’aiuto del consigliori del capomafia.

Cioè: non tutto è mafia. È la chiave dell’attrattiva perdurante di Camilleri, siciliano fuori norma.

La regione Calabria decreta l’apertura di bar e ristoranti lunedì 4 maggio. Il governo impugna l’ordinanza regionale e il Tar calabrese gli dà ragione. Fin qui una normale “dialettica politica”: il Tar dem boccia la giunta regionale di destra. Lunedì 11 riapre l’Alto Adige: non solo bar e ristoranti, ma tutto. E non succede nulla. Il governo ha impugnato anche questa ordinanza locale ma forse no, non si sa, nessun Tar è adito. In Alto Adige si respira meglio.

Fa un po’ pena, oltre la simpatia, l’imprenditore Commisso che ha voluto coccolarsi la Fiorentina, rivitalizzandola, tenendosi a un costo i gioielli, Chiesa, Castrovilli, dopo l’ostentato lungo abbandono dei Della Valle. Ora che la Fiorentina, insieme con la Sampdoria, è colpita dal coronavirus, l’unanimità si è fatta in serie A per riprendere il campionato: tanto, due delle tre da retrocedere sono già scritte. Sicuramente capace in America, dove ha creato tanto dal nulla, il calabrese Commisso non ha capito che in Italia bisogna essere mafiosi.

Un  giudice accusa in diretta tv il ministro della Giustizia di intendersela con le mafie. Il ministro replica che non è vero. E tutto finisce lì. Non solo i media, che forse non capiscono e comunque non contano, nemmeno un giudice a Roma, dove il reato si è consumato, perché di un reato si tratta, a carico del ministro o a carico del giudice, si è alzato per aprire un procedimento penale. Perché è così: l’antimafia non è una cosa seria.

Il senso profondo della legge condanna a una vita infelice, per la sua vertiginosa assenza. È Kafka,  la sua esperienza e la sua opera, se non una sua riflessione - un, diciamo, disadattato. Ma l’esperienza è comune al Sud, pratica, fattuale, sociale, non psicologica o metafisica.

Al Sud, secondo Eurispes, l’agricoltura è infiltrata al 60 per cento dalle mafie. Se anche fosse severo al 6 per cento, sarebbe lo steso terribile. Ma è pure vero che le aziende mafiose, che s’incontrano per esempio nella piana di Gioia Tauro, sono le meglio accudite, più avanti con le tecniche, più capaci di accedere ai fondi europei per l’ammodernamento, la sperimentazione, la commercializzazione.

Ci sono stati momenti, nella piana di Gioia Tauro, dall’agro di Pami a quello di Rosarno, apice Cinquefrondi-Cittanova, in cui le aziende agricole mafiose erano all’apparenza derelitte: alberazione malaticcia, terreni non ripuliti e non dissodati, recinzioni spoglie o rotte. Eccetto quelle recuperate da Libera, il cartello di associazioni di don Ciotti. Era l’epoca , venticinque-venti anni fa, dei pentimenti dei capi mafiosi – in cambio di rendite non visibili? Ora si vede invece il contrario. I terreni delle mafie, passati evidentemente di mano, a congiunti o prestanome, prosperano, quelli assegnati a Libera languono: recinzioni dissestate, alberi non potati, terreni infestati.

Il regista torinese Livermore programma a Genova in autunno, con grande clamore pubblicitario su “La Lettura”, la tragedia “Elena” di Euripide. Una messa in scena originale prodotta dal Teatro Greco di Siracusa nel 2019. Con la stessa Elena di Siracusa, Laura Marinoni. Senza mai citare Siracusa, dei tanti teatri con i quali vanta di avere lavorato. Che ci sia stato lo ricorda, in mezza riga, Emilia Costantini, l’intervisatrice. 

Si leggono con sgomento le bio dei mafiosi scarcerati per malattia. Tutta gente che è stata libera di trafficare per decenni, partite anche complesse come la droga, e di grande visibilità (contatti  transoceanici, spostamenti, carichi e scarichi, immagazzinamento), pur essendo noti alle polizie. Che li ricercavano, ma non tanto, evidentemente – quasi tutte le donne non erano nemmeno latitanti.

Sudismi\sadismi - Il Sud non fa statistica

Il “Corriere della sera”pubblica i dati Istat sull’evoluzione del coronavirus al Nord, con una crescita media delle morti del 50 per cento a marzo rispetto al marzo 2019. Ma non dice niente del Centro-Sud, che invece ha avuto meno morti rispetto all’anno prima.

Una dimenticanza? No, c’è mezza riga: “L’eccezione di Roma, meno 9,4 per cento”. Anzi, due mezze righe: “In 1.817 Comuni per lo più del Centro-Sud, i decessi sono stati inferiori dell’1,8 per cento”.

Silenzio totale sul dato principale dei conti Istat: che il 91 per cento dell’eccesso di mortalità a marzo sulle medie stagionali, cioè nove morti in più su dieci, si concentra in 3.271 comuni, di 37 province, del Nord – più Pesaro-Urbino.

Un’informazione provinciale? Il leghismo non è solo.

 I briganti in Patagonia

Del quinto presidente del consiglio dell’Italia unita, Menabrea, estimatore professo del “sano terrorismo di Minghetti” e Cialdini al Sud dopo l’unità, non si ricorda il progetto romanzesco di deportare i “briganti” in Patagonia. Pure il fatto è narrato in dettaglio nelle bio wikipedia del savoiardo di Chambéry Luigi Federico Menabrea, matematico, generale, deputato di plurime legislature, senatore a vita, ministro della Marina e del’lAgricoltura, presidente del consiglio, ambasciatore.

Da presidente del consiglio, il 16 settembre 1866 Menabrea scrisse all’ambasciatore in Argentina, Enrico della Croce di Dojola, di sondare il governo di Buenos Aires su una concessione di terre “totalmente disabitate” del Sud della Patagonia, al fine di deportarvi i “ribelli” del brigantaggio meridionale, che, seppure in via di decimazione, affollavano le carceri. E anche per rinverdire “il sano terrorismo di Minghetti”, il primo ministro dell’Interno dell’Italia unita, poi presidente del consiglio. L’idea era di stroncare il ribellismo “col mezzo di stabilimenti penali in lontane contrade e colla deportazione dei rei”. Senza secondi propositi di crearsi colonie: “Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l’occupazione territoriale non avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquisire una vasta importanza politica”. Una sorta di Guantánamo, di Cajenna italiana. Menabrea si rivolgeva all’Argentina perché l’Italia non aveva colonie – anche se lui stesso ne aveva avviato la non felice storia con l’acquisto infausto di Assab. La risposta argentina fu breve, rispose l’ambasciatore: il governo nega “la vendita, l’ospitalità, l’affitto e il comodato”, ogni ipotesi di cessione del territorio.

Del progetto Menabrea si sono occupati Fulvio Izzo, “I lager dei Savoia”, pp. 173-178, e Lorenzo Del Boca, “Indietro Savoia!”, p. 235-236.  

Le delocalizzazioni in massa, un’idea romana per avere ragione dei riottosi (scambiarono per esempio gli Apuani con gli Irpini, per cui si trovano adesso residui irpini di varia natura a Massa e Carrara, e apuani in Irpinia), ritornarono nel secondo Ottocento, seppure solo allo stato di progetto. Il più celebre sarà la deportazione-concentrazione degli ebrei europei nel Madagascar.

La donna assente

Non ci sono donne nella letteratura del Sud, né in poesia né in prosa. Non nei siciliani, De Roberto, Verga, Pirandello, Brancati, Lampedusa, Sciascia, Bufalino. Se non nella forma della “dolicocefala bionda” – Verga delle novelle milanesi. Giusto la “Baronessa di Carini”, di ignoto. E “Giacinta” di Capuana.

Non c’è la madre divorante, la sognatrice, la tentatrice, la cinica, la monaca di casa, l’imprenditrice, la vamp, tutto ciò che la letteratura associa – ha associato – alle figure femminili. C’è nei racconti di Camilleri, anche questa del tipo dolicocefala bionda, ma ben impiantata nella vita, ninfa, amante, agra, cinica, dark lady, calcolatrice, devota, risolutrice, nella provincia, che è il proprio del Sud, privo di corti e di metropoli.

La donna non c’è nemmeno nei napoletani. Eccetto che in Domenico Rea, “Ninfa plebea”, “Gesù, fate luce”, e in un paio di figure tragiche di Eduardo.

Corrado Alvaro, che ha saputo leggere il potere della “mamma” mediterranea, la dea madre,  ci ha provato più volte, con esiti non memorabili.


leuzzi@antiit.eu

Giulietta e Romeo vittime della quarantena

Al momento del piccolo trucco che deve fare la felicità dei giovani amanti contro gli odi di famiglia, una pozione che mette in stato di morte apparente per 42 ore, lo stesso frate Lorenzo erborista con cui Giulietta si è confidata incarica frate Giovanni di recarsi a Mantova, dove Romeo si trova, per informarlo segretamente. Frate Giovanni, francescano scalzo, che la regola obbliga ad accompagnarsi a un confratello in ogni trasferta, ne trova infine uno in un lazzaretto. Se non che i controllori della salute pubblica lo rinchiudono in quarantena col suo nuovo compagno – lo rinchiudono fisicamente, inchiodando le porte. Romeo non è avvertito, e la storia d’amore finisce in tragedia.   
Greenblatt, italianista specialista del Rinascimento, e ora di Shakespeare, nota che la peste accompagnò il Bardo fin dalla nascita e per tutta la vita. Qualche mese dopo la sua nascita nel 1564, il registro parrocchiale di Stratford-on-Avon registra un decesso per peste. Che si ripeterà cronicamente: nel 1582, 1592-93, 1603-04, 1606, e 1608-09. Ognuna con conseguenze nefaste, se non sulla salute di Shakespeare, sulla sua attività, d’impresario, autore, e occasionalmente attore: i teatri erano la prima cosa che a ogni infezione veniva chiusa, per sei, sette, otto mesi. E tuttavia, nota Greenblatt, la peste non è mai un suo tema. La parola ricorre con frequenza, nei modi di dire, ma non il fatto.
Il concetto però c’è: la vera “peste”, argomenta Greenblatt, è figurativa, morale. È Macbeth, il tiranno, e l’ambiente che il tiranno determina: “Ahimé, povero paese”, lamenta un personaggio. Lamenta Macbeth descrivendo l’effetto della peste che aveva appena colpito l’Inghilterra nel 1603-1604, quando Elisabetta I moriva: “Ha quasi paura di sapere di sé. E non può\ più chiamarsi nostra madre, ma la nostra tomba, dove niente\ se non chi non sa niente si vede una volta sorridere”. 
Stephen Greenblatt, What Shakespeare actually wrote about the Plague, “The New Yorker”, 7 maggio 2020, free online


martedì 12 maggio 2020

Problemi di base germanici ter - 565

spock

Tanti imperatori tedeschi in Italia e non un solo monumento, una statua, una pietra?

 

Una legge tedesca in Italia, in tanti secoli di Sacro Romano Impero, dal 962 al 1806, a parte  il guidrigildo?

 

C’è un paese europeo che debba qualcosa alla Germania?

 

Bach, Kant, Goethe, tutta gente che studiava all’estero, e che altro?


“Una Germania divisa impedisce qualsiasi autentica unità europea”, Claudio Magris: e la Germania unita no?

  

C’è l’Europa senza la Russia, perché non ci sarebbe senza la Germania – è dai tempi di Arminio che tira calci a tutti?


spock@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (170)

È rimasto solo Mustier, l’ad di Uncredit, ad aprire un buco pronfondo nei conti del gruppo, con ben 2,7 miliardi di rosso nel primo trimestre. Le altre principali banche si sono attestate su valori aderenti all’effettivo andamento del trimestre: Monte dei Paschi anch’esso in perdita, per 244 milioni, gli altri in attivo, Bper di soli 6,1 milioni, Ubi di 93,6 milioni, Bpm di 152, Intesa di ben 1,5 miliardi.

Tutte le banche hanno accantonato solide extra coperture per il rischio credito in conseguenza del virus e del blocco delle attività economiche, per un totale di 2,7 miliardi - quanto la sola Unicredit ha iscritto al passivo per i primi tre mesi. Ma anche qui Unicredit si è distinta, con 900 milioni di accantonamenti previdenziali. Intesa segue con 300 milioni, Mps con 112 milioni, Bpm 70, Ubi e Bper 50.

Intesa si mostra ancora il gruppo più solido. All’accantonamento di 300 milioni per coperture supplementari nel secondo trimestre, il gruppo fa valere la disponibilità di un buffer fino a 1,5 miliardi per ulteriori effetti del blocco produttivo. Un muro protettivo uguale all’utile dichiarato nel primo trimestre, che però dovrebbe essere più robusto: un beneficio netto consolidato negli anni.

Nel passaggio a fibra, Windtre fornisce alle utenze domestiche un modem che non deve essere acceso prima di quarantottore. Agli incauti che non lo sanno (non viene comunicato) e lo accendono, fattura internet a consumo per € 410,42 euro. Al netto dell’Iva. In totale 500,71 euro, per un modem acceso 48 ore, su cui si sarà navigato un paio d’ore. La sindrome Soru, “Esci i soldi, subito!”? – “esci” è siciliano, ma Soru è poliglotta. 
“A Roma la migliore rete internet è windtre”, dice la pubblicità.  Giustamente, l’affare del secolo.  

Ma “Il caimano” è berlusconiano

Curiosi significati emergono dal film berlusconiano di Moretti rivisto in chiave di isolamento - berlusconiano in senso proprio, non fosse per la invincibile ironia morettiana. Finanziato obliquamente dalla Rai, che ne comprò i diritti tv senza dirlo per un milione e mezzo, nel 2006, sembra un film sovietico. Come tale fu proposto in novecento copie, praticamente tutti i cinema italiani, alla vigilia delle elezioni del 9 aprile lo stesso anno. Un’operazione politica, dunque. Di un sovietismo duro a morire in Italia – la condanna a sette anni che al Caimano è inflitta nel film è stata quella che i giudici di Milano hanno inflitto a Berlusconi per le elezioni del 2013. 

Un filmaccio. Si salva giusto perché Moretti ha indubbie qualità profetiche, con Berlusconi come col papa. Ma sembra proprio, rivedendolo, il film come Moretti malizioso lo presentava all’uscita: un film autobiografico. Dell’azienda in crisi, e della famiglia in crisi, la coppia con figli. Anche per le sbandate politiche del regista-produttore. Quella lettura appare oggi non più canzonatoria ma verosimile alla luce del ritorno di Moretti alla leggerezza con “Mia madre”: come una resurrezione, dopo il tellurismo aggressivo della “Stanza del figlio” e di questo stesso “Caimano”.
Silvio Orlando è un produttore in crisi finanziaria e matrimoniale che decide di tentare il tutto per tutto con un film contro Berlusconi. Non molti gli credono, ma alla fine ci riesce. A girare almeno il finale del film: Berlusconi condannato, l’abbandono dei politici, la gente in piazza, il palazzo di giustizia bombardato di molotov.
Non verosimile, questo Orlando, come alter ego di Moretti, che invece fa vita modesta e timorata - o è al fondo egli stesso partecipe della stessa vacuità, della pusillanime ipocrisia? Mentre è vero che la vena beffarda non abbandona Moretti neppure qui. Sottotraccia, ma è la realtà della sceneggiatura: più che i berlusconiani, di cui quasi non c’è traccia, e giusto del nome, non dei delitti, uno è portato a diffidare degli antiberlusconiani. Orlando è un personaggio infido, e così il mondo che gli gira attorno. 
Indirettamente, nel suono della parola, il titolo rimanda al caimand (mendicante) del romanzo “Novantatré “ di Victor Hugo, di nome Tellmarch - da cui il coniatore del nomignolo, il giudice antiberlusconiano Cordero, potrebbe averlo mediato. Il personaggio forse più personalizzato dei tanti che popolano i romanzi di Hugo. Uno che vive proteggendosi nelle radici di un albero, resistendo alla lotte violente tra rivoluzionari e vandeani. Anche lui, dice Hugo, “incarnazione di forze oscure”, ma indifferente alle ricchezze, e di bontà naturale. Come se Moretti pagasse un omaggio a Berlusconi.
Con una (dubbia) morale, gravemente involontaria. Berlusconi è stato sì condannato come nel “Caimano”, ma non ci sono state le bombe. Moretti cioè non capisce con chi ha a che fare, lui come una certa sinistra. Che la povera gente assetata di lavoro e di piccole retribuzioni vuole consumista, reazionaria, violenta. Una prova di violenza, da parte di chi si sente e vive speciale, tutto gourmet,  a 100 euro a coperto, ed ecologia, villa a Capalbio, palazzetto in Umbria, molti titoli di libri, e molte compagne  invece che amanti - magari non pagate, è vero.
In “Ecce bombo”, il suo primo film per le sale, Moretti attaccò Alberto Sordi direttamente perché non prendeva posizione politica. Non gliene chiese mai scusa. Ma se l’accusa è doverosa, Moretti dovrebbe rispondere di aver fatto troppa politica. L’ha usata per riempire dei vuoti, ma la politica dei troppo pieni di sé è invadente, passione cancerosa – anti-morettiana, si dovrebbe dire.   
Oppure, “Il Caimano” dopo “Il portaborse”, Moretti ha preso l’aria del filosofo della storia, del contemporanei sta – come con i “girotondi”, con Di Pietro, senza senso del ridicolo. Serioso. Mentre non fa che indossare l’abito di “la Repubblica”. Di cavalcarne, sincero?, l’astio artificioso contro ogni cambiamento. Del doppio gioco scalfariano di mantenere al potere il potere – la “Dc”: il governo, il sottogoverno, le polizie, le banche, quindi la corruzione. Anche di Moretti, come di Sofri, Deaglio et similia l’ambizione massima sarà stata di entrare nel grembo di “Repubblica” – che pure non porta bene? Ma Moretti, certo, ha più estri.
Nanni Moretti, Il caimano


lunedì 11 maggio 2020

Gli aiuti non aiutano – meglio un consolato di cento ong

La vicenda di Silvia Romano, l’ultima di una serie che ha visto cooperanti ostaggio di bande armate, conferma l’irrilevanza degli aiuti allo sviluppo, anche nella forma umanitaria. Se non come “aiuti” alle stesse ong e alle altre organizzazioni che se ne occupano – che “trattano” la cooperazione.
Con un terzo della spesa, lo Stato farebbe di più e meglio, molto di più e molto meglio, attivando in un congruo numero di paesi africani uffici consolari in grado di gestire i ricongiungimenti familiari, e mediare le domande d’immigrazione con le offerte di lavoro in Italia. Evitando agli africani il tragico e costosissimo nuovo mercato degli schiavi. Ed evitandosi la periodica invasione di clandestini – oggi 600 mila.
La cooperazione è un’ubbia, forse generosa, certo perniciosa, di Pannella, che nella finanziaria 1983, governo Spadolini, ottenne dal Parlamento lo stanziamento di duemila miliardi di lire, oggi raddoppiati, a due miliardi di euro, per la cooperazione allo sviluppo - altri fondi, di ammontare più o meno pari, provengono dalla Unione Europea e dalle agenzie Onu.
Gli aiuti allo svilupo sono un equivoco che si trascina dagli anni 1960, decretati dalle Nazioni Unite Decade dello Sviluppo. Ma da tempo si sa, per ampia letteratura, di destra e di sinistra, che di essa beneficiano i paesi donatori, per merci, servizi e personale.
Beneficiari sono le stesse ong, per indennità, retribuzioni, spese, viaggi, mantenimento. Sono loro i percettori reali degli aiuti, non le popolazioni presso cui operano. Per molti giovani, del tutto impreparati, gli aiuti sono una vacanza esotica, avventurosa - la notazione sembra volgare e lo è, ma è la verità della cosa.
Eccetto Emergency nelle zone disastrate e di guerra, e qualche istituzione missionaria con più cognizione di causa e meno improvvisazione, che peraltro non fanno capo ai fondi della cooperazione, poco o niente si salva.
Le minirealizzazioni all’insegna del volontariato, comunque retribuito, ambulatori, scuola, mensa, non creano né inducono sviluppo. Rispondono forse all’ego dei cooperanti, alle loro fantasie e ai loro fondi o problemi psicologici, ma non rispondono a bisogni e non incidono.  Con minore spesa, del resto, gli stessi bambini o infermi potrebbero essere assistiti in strutture nazionali, anche italiane.
In Africa la cooperazione è anche risentita come un’intromissione, seppure compassionevole. Il rapporto che si instaura è di questo tipo: nel cooperante, anche di esperienza, c’è sotto la francescana solidarietà la concezione dell’africano alla “Via col vento”, mentre si confronta, in ogni caso e condizione, con persone più elastiche, mobili, rapide, reattive, intuitive, intelligenti, aggiornatissime, e quasi sempre più colte. È in uso la retorica della dedizione e la generosità, ma bisogna aprire gli occhi: i buoni sentimenti vanno rispettati, ma anche l’africano. 



Problemi di base germanici bis - 564

spock

 

Su 1.900 miliardi Ue di aiuti statali anti-crisi alle imprese autorizzati da Bruxelles, mille sono andati alla Germania: non c’è distorsione della concorrenza?

 

La Germania spende 50 miliardi a fondo perduto per coprire le perdite delle imprese, la Francia sette, l’Italia zero: non c’è distorsione della concorrenza?

 

E perché la Germania si prende sempre tutti i soldi che la Ue mette a disposizione?

 

Sono più furbi o più forti i tedeschi, o sono più sciocchi e più deboli gli altri?

 

Sono anche più intelligenti?


spock@antiit.eu

Letture - 420

letterautore

Bravi – Imperversano già nel primo Cinquecento, nelle rime di Berni. La magistratura fiorentina degli Otto prevedeva pene speciali contro i “bravi” nel 1533-1534.

Devoto deriva “bravo” dal latino, un incrocio tra “pravus” e “barbarus”. 

Dante – Nel 1373 la Signoria promuove a Firenze pubbliche letture della “Divina Commedia”, per alleviare i disagi del peste. La lettura inaugurale fu tenuta da Boccaccio, settantenne. Già affermano dantista; dieci ani prima aveva licenziato il “Trattatello in laude di Dante”, redatto in più versioni a partire dal 1357 – è ancora il testo di riferimento per la biografia di Dante. Aveva anche preparato  un’edizione manoscritta della “Divina Commedia”, un sorta di edizione critica, seppure non documentaria, non basata sugli autografi.

Schopenhauer e Nietzsche, che non amavano il poema, lo dicono un sogno. Schopenhauer, che nei “Parerga e Paralipomena” ne tratta distesamente, nel quadro dei “poeti italiani”, fra i quali apprezza soprattutto Petrarca e Ariosto, dice l’“Inferno” “un poema della crudeltà”, e lo apprezza a suo modo: “Donde ha preso Dante la materia del suo inferno, se non da questo nostro mondo reale?” Concludendo: “Il titolo dell'opera di Dante è assai originale e appropriato ed è difficile mettere in dubbio che esso abbia un senso ironico. Una commedia! Davvero, ciò sarebbe il mondo”.

Di Nietzsche basti l’apprezzamento che spesso si cita, dal tardo “Crepuscolo degli idoli”, al § 1 delle “Oziosità inattuali”, o “Le mie impossibilità” – che sono gli autori per lui indigeribili: Seneca, Rousseau, Kant, Victor Hugo, Liszt, etc. . Dante è “una iena che fa versi sulle tombe”.

Maldel’stam e Rimbaud vogliono Dante musicale, Borges poeta d’amore, T.S.Eliot un autore drammatico, e uno sul quale si può imparare a scrivere versi meglio che con qualsiasi poeta inglese contemporaneo, Shakespeare prima di Shakespeare, per tanti registri, storico, tragico, lirico, comico.

Balzac, che aveva letture italiane, volle il suo ciclo “La Comédie humaine” in riferimento a Dante.

Il poema è anche “a cassetti”. Ci sono molti narratori dentro: Sordello, Bertran de Born, Arnaut Daniel, il vescovo trovatore Folquet di Marsiglia, Cunice de Romain. Oltre a Virgilio e Beatrice, naturalmente . Ma molti hanno da dire, in una sorta di rappresentazione teatrale: Orazio, Stazio, Giustiniano, la principessa Matelda, Carlo Martello, san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura, san Piero Damiani, san Benedetto, san Bernardo, i tanti nomi classici, i tanti fiorentini e toscani.

“Nel XIV canto del «Paradiso», (strofa 118) Dante ci dà al più alta definizione della musica, che è (secondo le sue parole) rapimento e non comprensione”, Riccardo Muti.

Femminismo – Smaschera la donna? Delle innumerevoli concioni che imbottiscono “La scuola cattolica” questa è la più ritornante. Al § “Vergeltungswaffe”, arma di rappresaglia – l’“arma finale” di Goebbels e Hitler - lo stupro “funziona come il contrappasso nell’«Inferno» di Dante”. Anche perché “una volta sessualizzata, la violenza diventa attraente”. Al modo di Robbe-Grillet, si direbbe, di Madame Robbe-Grillet. Ma non eccezionalmente in Albinati, matter-of-fact.  Su questo presupposto: “Con la cosiddetta liberazione sessuale, si scoprì che i poeti avevano mentito. Per secoli. Tutti o quasi tutti. Le donne vogliono il sentimento? Vogliono l’amore, l’amore puro, eterno? No, le donne vogliono godere. Vogliono scopare a sangue”.

LetteraturaUna “truffa”, benché “salutare”, la vuole R. Barthes, per liberarsi dall’emprise del linguaggio, del potere: “Questa truffa salutare, questa finezza, questa magnifica ilusione, che permette di concepire la lingua al di fuori del potere, nello splendore di una rivoluzione permanente del linguaggio, io la chiamo: letteratura”. Una festa secentesca, barocca.

Lingua – Fascista la dichiara Barthes nella “Lezione” inaugurale al Collège de France nel 1978: “La lingua non è né reazionaria né fascista; essa è semplicemente fascista”. Giustificandosi col dire: “Il fascismo, infatti, non è impedire di dire, ma obbligare a dire”. E così: “Non appena viene proferita, fosse anche nel più profondo intimo del soggetto, la lingua entra al servizio di un potere”. Difendendosi con Saussure: “Parlare, egli scrive,… non è, come si ripete tropo spesso, comunicare: è sottomettere: tutta la lingua è una predeterminazione generalizzata”. Per finire: “Può esservi libertà solo al di fuori del linguaggio”.

Moravia – È un saggista. Lo scrittore che ha rinnovato il romanzo con “Gli indifferenti”, è uno dalle idee chiare. Procede nei saggi a passi militari, destr-sinistr, marsc. Tranciante: conseguente, definitivo. Chiaro, semplice: un capoverso concatenato al precedente. Logico, assennato – infastidito che la “critica” bisogna farla - tanto, assume, è evidente. Scrittore di mente naturalmente critica, e quindi ordinato. Va per concatenazioni, una casella aprendo la successiva senza possibilità di errore o deviazione – non di dubbio. Si direbbe come un bulldozer. Naturalmente intelligente, molto – è scrittore critico anche nella narrazione

Musica – È la vera parola di Dio, secondo Cassiodoro, “De Musica”: “Se continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica” – la punizione, l’inferno, è il silenzio. Un segnale derivato dai profeti della Bibbia, di cui l’ex governatore della Calabria era diventato in vecchiaia familiare: il segno del disdegno di Dio è nella Bibbia il “silenzio nero”, un mondo cioè senza più suoni armoniosi, di canto o di strumento. 

Prussia – “La Prussia non è uno Stato con un esercito ma un esercito con uno Stato” - Friedrich von Schrötter, ministro della Prussia orientale, 1806. Magris, “L’infinito viaggiare”, attribuisce il detto a Fontane, “uno degli scrittori più grandi e più malinconicamente innamorati della vecchia Prussia” – “un asciutto cantore della vecchia Marca del Brandeburgo, commosso dalle sue tradizioni e dal suo ethos ed insieme consapevole del tramonto e dell’involgarimento del suo mondo”. Trovandolo appeso con questa paternità a un vessillo di una delle trenta mostre che nel 1981 celebrarono la nascita della Prussia - “il madornale Centenario Prussiano” di Arbasino, “Marescialle e libertini”. Gerhard Ritter, “I militari nella politica della Germania moderna”, ne dà la paternità allo junker barone Schrötter, ministro liberista dopo la morte di Federico il Grande – liberalizzò il commercio del grano, la Prussia era allora nazione agricola.

Satira – È fredda. Spietata anche: smisurata al possibile. L’ironia o lo scherzo possono lenirla, ma l’intenzione è cattiva.

Scrittura – Ernesto Sabato la divideva in “diurna” e “notturna”, spiega Claudio Magris nelle tante celebrazioni che dello scrittore argentino, di cui fu amico ed è ammiratore, viene tenendo. In quella diurna lo scrittore, pur inventando, parla del mondo che conosce nel modo in cu lo condivide: cerca di capire, e spiega il mondo per spiegarselo. Quella notturna è, si direbbe, tutto il rimosso, e qualcosa di più: anche le verità, di sé e del mondo, che sono o ritiene vergognose, “indegne o detestabili”, demoniache perfino - forme e eventi “tenebrosi”, “visioni”, “che mi hanno tradito, andando aldilà di ciò che la mia coscienza mi consente”. Che in effetti è il proprio del Sabato scrittore, al di là dell’impegno civile e politico contro il regime militare argentino degli anni 1970.

Tabarchino – O “genois d’outremer”: abitante di Carloforte, nell’isola di San Pietro, in Sardegna. In ricordo di Tabarka in Tunisia, da cui i genovesi (propriamente di Pegli) ivi emigrati nel 1542, al seguito dei Lomellini, mercanti che avevano ottenuto da Caro V concessioni in Tnisia, sono stati di ritorno nel 1738, approdando casualmente nell’isola, allora abbandonata. “Ligure tabarchino” è anche il dialetto. Carloforte è per questo anche “Comune onorario” della città metropolitana (l’ex provincia) di Genova.

Viaggio – Una promessa, un’attesa lo dice Magris, scrittore di viaggi, nel saggio che premette a “L’infinito viaggiare”, in memoria di Marisa Madieri: “Un continuo preambolo,un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo”. È la vita, dice ancora, “per itinerari che si vogliono nuovi anche se noti, ripetuti. È anche un benevola noia, una protettrice insignificanza”.

O anche. “Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio, che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo”.


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Lo scudo di Dio

Di tutto e di più. Si può anche rimodellare, a piacimento. “L’Antico Uno è nascosto e mascherato; il Microposopus è manifesto, e non è manifesto”. E “la barba della verità”? E lo zimzum? Il ritrarsi di Dio per permtere la creazione: Dio, Luce infinita, si ritrae per creare lo spazio. E la trasmigarzione delle anime, il gilgul? Attraverso la quale Isaac Luria pretendeva di conoscere le vite passate di ogni persona? E la gimatreya, il criterio di permutazione linguistica basato sui numeri? O la temura, la permutazione delle lettere? Si sostituisce una lettera con quella che la precede o la segue nell’alfabeto, e così un’altra parola d’ortografia totalmemte differente viene formulata – magari senza senso. Il più noto è il tetragrammaton, sul quale fiumi d’inchiostro si versano: IHVH è “perfettamente scritto” dai due lati, in quanto Adni, Adonai, denota l’H inferiore da un lato, e i punti del nome Alhim, Elohim, denotano l’H superiore dall’altro lato. Chiaro.

È l’ebraismo Chassidico, che considera la Cabala sacra e autorevole, l’ortodossia propagandata a partire dal Settecento, tra gli ebrei ashkenaziti polacchi, da Ba’al Shem Tov, rabbino e mistico, guaritore itinerante. Difficile orientarsi, per non cultori. A meno del rifiuto.Che è dentro la Qabbalah stessa, che più che altro sembra invitare i distingiuo, una dislocazione-reinvenzione costante. Di scuola, ma soprattutto di maestri, di sacerdoti della conoscenza, e quasi santi, in perenne, si direbbe violento, dissidio tra di loro: maestro non sopporta maestro. Non sistematizzabili, del resto, non criticamente, ma non rifiutabili, a meno di scomunica. Una lettura nell’evanescente. Non sgradevole, potendosela modellare come i primi racconti fantasy.

Busi, ottimo mediatore della cultura ebraica sulla “Domenica” del “Sole 24 Ore”, tenta qui l’impossibile: sbrogliare una mistica, che invece si vuole ghiommero, inestricabile.

Giulio Busi, La Qabbalah, Laterza, pp. 157 € 10


domenica 10 maggio 2020

Il miracolo tedesco

Spock si chiedeva ieri su questo sito se il governo tedesco non fa propaganda sul coronavirus. No, è tutto vero, ci sono le statistiche.
A metà aprile, tutti i conti fatti (le statistiche demografiche), la Germania ha avuto quest’anno meno morti, nei primi tre mesi e mezzo, della media storica stagionale. Malgrado cioè i morti per coronavirus. La mobilitazione sanitaria per il virus ha migliorato il trattamento delle altre patologie.
Continua il record positivo della Germania, in tema di contagi e decessi da coronavirus, infinitamente minore dei paesi europei a popolazione comparabile, Gran Bretagna, Francia, Italia, Spagna – ma la Germania ha un 20-25 per cento di popolazione in più. Senza speciali accorgimenti, la giusta tutela sanitaria. Ha isolato gli anziani, invece d’infettarli con  ricoveri forzati: l’età media dei contagi in Germania è attorno ai 50 anni, in Italia e altrove supera i 60. A gennaio, alle prime avvisaglie del virus, ha messo a punto un test, ha attrezzato tutti i laboratori pubblici e privati a riprodurlo, ha organizzato le unite sanitarie locali in modo da applicarlo a tappeto – 350 mila test sono svolti a settimana. Inoltre, ha attrezzato ospedali e terapie intensive in previsione del contagio. 
Da inizio mese, test anticorpali sono anche avviati su vasta scala. Circa 100 mila campioni casuali a settimana vengono testati, per valutare se si sta creando un’immunità al virus.
Tempestivi, pagati subito, e molto elevati, da dieci a quindici volte quelli italiani, i sussidi ai senza lavoro per lo stop obbligato delle attività. Ai lavoratori dipendenti e alle partite Iva (novemila euro, subito).
Organizzata da una settimana anche la ripresa di alcune attività: i genitori di cui è previsto il rientro  al lavoro, sia dipendenti che autonomi, sono stati contattati dagli asili e dalle scuole per organizzare l’intrattenimento dei figli, nella sede scolastica o a domicilio.   

Le isole felici

Tutto quello che ci si aspetta di trovare nei luoghi dove Magris è stato, parliamo degli anni 1980-1990, in compagnia, con la moglie Marisa Madieri, o con gli amici, e da solo, nella vedovanza, con la seconda moglie J.(ole), per curiosità, per turismo, per mestiere (università, festival, premi, presentazioni), e molto di più, ovunque. Nella Mancha, alle Canarie, a Londra, alle Isole Fortunate, in Germania naturalmente tra mille aneddoti, e a Vienna e dintorni. Nell’Istria e viciniori, con i Sorbi, o Sorabi, Cici e i Bisiachi – il rapporto forse più curioso, per lui stesso, è di Magris con gli slavi. In Russia, col Muro pendente. Tra i cechi-slovacchi, anche senza trattino, ma allora separati, subito dopo il Muro. Nel Vietnam dopo il diluvio. In Cina, nel comunismo affarista – o nella naturalezza della civiltà, dell’accumulatore tradizione. Lo stesso nella invisibile, profonda, cultura persiana. Nel “grande Sud”, che è quello australe.
Prose sapide, come Magris ne scriveva a ridosso di “Danubio”: dappertutto ha, trova e trasmette un motivo di interesse, almeno uno. Una curiosità, una notazione, un riferimento, una storia, la vita degli altri come nostra, anche se lontana o paradossale. “Non ci sono molti bambini – bambini credibili, non insopportabili e falsi pupi – tra i grandi personaggi della letteratura universale”. La Germania ricca è “asettica, come certe donne perfette, bellissime e indesiderabili”. Jünger ricordando in Cina per “le nuove forme di organizzazione dei conflitti, del lavoro e dell’esistenza”. L’inspiegabile islam disumano: “L’islam, al tempo della dominazione araba in Spagna, era più tollerante e liberale del Cristianesimo. Il volto della civiltà cambia talora in modo menzognero”. La Persia barbuta dei khomenisti vista nella sua leggerezza, nella curiosità delle donne sfrontata, nel gorgoglio delle acque, nelle “sue improvvise dolci oasi di verde, fiori e specchi d’acqua”.
In fondo, il viaggio è questo, la curiosità: un travaso secondo il principio dei vasi comunicanti – del vasto sistema persiano dei qanat, per portare l’aqua in superficie. Curiosa la stessa scoperta della Persia nel 2004, l’Italia è proprio provinciale. L’anno prima tocca a Magris scoprirsi il primo scrittore italiano ad Hanoi dopo la guerra, finita da trent’anni: la caduta del Muro ha dissolto l’megno.
Un libro a cui Magris ha messo mano più volte. Nella edizione italiana del 2005 rispetto alla prima edizione, in francese, per la collezione “Voyager avec”, della Quinzaine Littéraire, e in questa seconda edizione. Preceduta da un saggio da manuale sul viaggiare e sui libri di viaggio. Con Weininger (“viaggiare è immorale, diceva l’inflessibile Weininger, ma lo diceva durante un viaggio”), Canetti, Kafka, Karl Rahner, Michelstaedter, J. Roth, Novalis, il romanzo tedesco di formazione, Musil, Breton, Borges, “gli ebrei orientali che escono dal ghetto o dallo shtetl”, Camōes, Conrad, Eichendorff, Dante naturalmente, Marisa Madieri, e soprattutto don Chisciotte. Con Kant: “«Legga letteratura di viaggio», diceva a un teologo Kant, che pure non voleva muoversi da Königsberg”.
Viaggiare è “immorale”, è “crudele”, etc., ma poi “è la vita”, è il “continuo premabolo, un preludio a qualcosa che deve ancora sempre avvenire”. O anche: “Il viaggiatore è un anarchico conservatore; un conservatore che scopre il caos del mondo perché lo commisura con un metro assoluto  che ne svela la fragilità, la provvisorietà, l’ambiguità e la miseria”. Ma il viaggio è letteratura, o viceversa: “Fin dall’«Odissea» viaggio e letteratura appaiono strettamente legati: un’analoga esplorazione, decostruzione e ricostruzione del mondo e dell’io”. Incidentalmente, alle Canarie, in breve, rileva il punto chiave del “mosaico danubiano” – Germania naturalmente inclusa: la “ossessiva fissazione sulla propria identità”. Ogni suo luogo finisce per essere, anche nell’angustia, un’isola felice.
Magris sarà stato il solo scrittore di viaggi del secondo Novecento, considerando Praz espressione ancora del primo Novecento – specialmente fertile invece di letteratura di viaggio: Soldati, Cecchi, Alvaro, Borgese, Rossi, anche Flaiano, Vergani, Bacchelli. I libri di viaggio di Moravia e Calvino non tengono, Pasolini è Pasolini anche in Africa e in India, come a Napoli o in Calabria, Piovene è autore di un solo viaggio (quello in America è spento), comandato. Magris sa viaggiare, cioè scrivere di viaggi, forse per l’origine e l’identità triestina – che si perpetua nel millennio con Rumiz: di radicamento forte, in quanto città di frontiera, e insieme di estrema apertura, curiosità, sensibilità  - come lui stesso spiega in “Trieste. Un’identità di frontiera”. I suoi libri di viaggio sono numerosi, a partire dal fulminante “Danubio”, e tutti più o meno sempre vivi: “Itaca e oltre”, “Microcosmi”, e anche il romanzo “Un altro mare”. 
Con una incongrua vindicatio della Prussia, aggirandosi a Berlino fra le trenta mostre celebrative del 1981. Che Magris non vuole quella del chiodo sull’elmo ma della tolleranza religiosa, dell’imperativo categrico di Kant, della resistenza a Hitler, della “più salda fedeltà socialdemocratica e di maggiore apertura socialista” nella infelice repubblica di Weimar. A Berlino, forse. Che però non è “Prussia”. E non fosse, certo, per il Kulturkampf, la guerra ai cattolici, per le guerre in continuo di espansione, per la flotta dell’ultimo Kaiser. Con una vindicatio, comunque, ancora più sorprendente, del cristianesimo nella polemica anticlericale: il laicismo dissecca. E il ricordo reverente, più volte, di Angelus Silesius, il mistico di Breslavia, “sacerdote cattolico”. Straordinario lo sfogo contro la Mitteleuropa, appena evocata per la “fedeltà toccante”, da parte di un aedo della stessa, musliano fervente – Musil non è la Mitteleuropa, critico nostalgico? L’Europa centrale così piena di division e “finisce talora per diventare ossessiva e insopportabile, una gabbia da manicomio, un caffè in cui ristagnano il fumo e il tanfo”. Eccetera: “Talvolta non si vede l’ora di scappar via, di andare su una spiaggia libera e aperta, di mettersi in mare”. 
Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Oscar, pp. 262 € 13,50