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sabato 7 dicembre 2013

La prima della Seconda Repubblica

Entra la Seconda Repubblica, vent’anni fa, alla Scala:
“Ed eccoli, sono subito alla prima della scala, i Caronte del nuovo, sfidando la protesta di disoccupati, ambientalistici, lavoratori. Nei servizi fotografici primeggiano Borrelli, il figlio di Di Pietro, e ufficialoni dei Carabinieri, con signore. Hanno pagato il biglietto?
“Nessun giornale ha nulla da ridire.
“Mani Pulite è quello che era: il peggio del vecchio regime che si ricicla massacrando il meno peggio – meno criminale, con meno pelo sullo stomaco”.

La Cina a occhi chiusi

Cronache del solito viaggio organizzato e controllato, nel 1967. Inutili quindi, non fossero d’autore. In questo, però, travolgenti: come si fa, si faceva nel 1967, a non vedere nelle Guardie Rosse di Mao una massa militarizzata? E dirla invece spontanea. Moravia l’ha fatto, prima dei maoisti del ’68, dei nazimaoisti, e di Dario Fo.  Sul “Corriere della sera”.  E poi ne ha fatto un libro, che Luca Clerici, imbarazzato, ripropone per “I Libri di Alberto Moravia” – “la Cina”, dice, “sembra sottrarsi allo sguardo di Moravia”.
La rivoluzione lo scrittore mette in coppa agli stereotipi: “Un tratto molto cinese è la nessuna curiosità per l’estero”, i cinesi sono tutti uguali, i cinesi sono poveri e contenti di esserlo, i cinesi sono liberi. O scemenze camuffate da agudezas:  la Rivoluzione Culturale è un’altra Passione, ha “lo stesso fervore, lo stesso stile, la stessa ingenuità”, “la Grande Muraglia ha, ovviamente, due facce: l’una, interna, che guarda la Cina; l’altra esterna che guarda la Mongolia”, al di qua della grande Muraglia, “la Cina ha scoperto di essere vuota”… Non senza un po’ di Pasolini - censure e passatismo: la povertà ricca, la castità ferace (“l’amore non porta al rapporto sessuale, porta alla castità”, “il piacere che l’uomo e la donna si procurano l’un l’altra non differisce che in apparenza dalla prostituzione”, l’erotismo era creativo nel “passato arcaico, primitivo, magico”). C’è anche “il carattere religioso”, di nuovo, “della Rivoluzione Culturale”, e “l’origine contadina di questo carattere”, e siamo solo alla pagina 33 – detto da chi non è mai stato in una campagna cinese, e non ha letto nei sinologi quanto impervio sia penetrarla.
Moravia non si spreca insomma, disimpegnato come sempre, si sa che non si commuove mai e nulla lo turba, ma qui con l’ansia di dispiacere: “l’uomo occidentale” è “un budello che si riempie di sterco”, la produzione si fa per il consumo, ignobiltà suprema, “come nelle case moderne la cucina è spesso adiacente al cesso” – questo non è vero: bisogna economizzare negli scarichi, ma i due restano distinti (e comunque, nelle case antiche il cesso non c’era e bisognava andare fuori, si faceva anche senza la produzione e il consumo), la guerra “serve ad alleviare le costipazioni periodiche”, la bomba H “è legata alla sovrapproduzione” – non agli Usa? Ma anche l’esame di coscienza occidentale (borghese, cristiano) fa scontato.
Si rileggono queste corrispondenze come un ritratto d’autore. Che non era opportunista. Della Rivoluzione Culturale annotava contemporaneamente “la follia” nel diario, che pubblicherà vent’anni dopo, nel 1986, ma più che altro era abulico, un bambino che, di fronte alla novità, strizza gli occhi come per escluderla. E, tutto sommato, poco curioso: disappetente. Tutto sommato perché fu viaggiatore quasi compulsivo, da sempre. Pure in Cina nel 1937, con soggiorni in posti remoti anche di mesi e anni. Qui fa molti apologhi: la ricchezza della povertà, il complesso occidentale di don Giovanni, Mao confuciano e quasi mandarino… Ma - candido come sempre, altra sua caratteristica - dicendo infine di non avere visto bene: “Il più delle volte l’occhio non distingue niente di preciso, nessun aneddoto, nessun evento particolare”.
Chiude la raccolta con un articolo sulla Corea del Sud. Che nello stesso 1967 non ha nulla (“tutte le industrie e le materie prime si trovano nella Corea del Nord”, il reddito pro capite al Sud è 108 dollari, contro i 120 dei cinesi poveri di Mao), ma “pretende” di diventare ricca.
Alberto Moravia, La rivoluzione culturale in Cina. Ovvero il convitato di pietra, Bompiani, pp. LXX-201 €10

venerdì 6 dicembre 2013

Il buonsenso è nello studio, dei classici

Riediti in originale col titolo “Le bon sens ou l’esprit français” (Mille-et-une-nuit, pp. 79 € 3,50), queste tre conferenze di Bergson raccolte nel 1996 da Armando Editore davano già la migliore giustificazione dell’uso dei classici che ora si contesta. “Ci si domanda con inquietudine crescente”, nel 1895, data della prima conferenza, alla Sorbona, “se gli studi disinteressati hanno efficacia pratica, e in particolare se il buonsenso, che è una virtù civica nei paesi liberi, varii in ragione della cultura intellettuale”. La cultura intellettuale come distinta, allora, dalla cultura materiale, artigianale. Il sì è molto argomentato. Il buonsenso Bergson preciserà in altra occasione come “la forza interiore che rende possibile la concentrazione di ogni nostra vita passata in un solo punto; forza che è anzitutto un potere d’inibizione”. Di selezione, effetto della capacità critica. Effetto a sua volta dell’esercizio.
Oggi Bergson avrebbe avuto prova netta, a contrariis, del suo argomentare. Tra i tifosi allo stadio, come tra i genitori a scuola, in ogni raccolta di popolo, e così probabilmente nel decadimento del voto politico, la protervia cresce di pari passo con l’incultura. È sempre stato così, non si può pretendere il “buonsenso”, la ragione temperata, da chi non l’ha esercitata. Ma prima c’erano dei ruoli, che trascinavano dei vincoli, più spesso in forma di autocoscienza. Ora i ruoli sono invertiti: il diritto di non sapere si vuole superiore. Politicamente, per il numero, ma anche socialmente e moralmente. Sancito due generazioni fa dal diritto di non imparare, nella scuola del’obbligo.
Henri Bergson, Educazione, cultura, scuola

Secondi pensieri - 158

zeulig

Critica – Fu nel Settecento la filosofia, non solo nel criticismo di Kant, della ragione che ragiona con se stessa. Si posero nel Settecento le basi critiche dei saperi umanistici: l’attendibilità delle fonti, il valore della testimonianza (miracoli), la critica testuale.
Il criticismo è stato fertile della più proficua ricerca, gnoseologica, fenomenologica, linguistica, fino alla destrutturazione. Cioè a un impasse, della stessa ragione critica. Da cui i tentativi di fuga-apertura del secondo Novecento a nuovi-vecchi indirizzi di ricerca: ontologia, ermeneutica, pensiero debole compreso, realismo.

Povertà - Molta apologetica del primo cristianesimo ne celebra le virtù e la propone. Come liberazione dall’assillo dell’accumulo, e come spoliazione di se stessi, del superfluo e finanche del necessario – come forma di sacrificio. È il sostrato su cui la figura di san Francesco, santo della povertà benché figura bizzarra, si è costruita in epoca posteriore. Ma ha significato diverso nelle società contemporanee del benessere, strutturate cioè ad assicurare risorse spendibili per tutti. In questo assetto sottrae e non aggiunge alla giustizia sociale, l’accrescimento delle risorse necessitando di più organizzazione, più affinata, più “concorrenziale”, e non del rifiuto della produzione stessa.
È il paradosso della povertà contemporanea, vista come isola nel benessere. Meglio espresso da Moravia nel 1968, nell’introduzione al suo libro di viaggio nella Rivoluzione Culturale cinese (ora in “La rivoluzione culturale in Cina. Ovvero il convitato di pietra”), in forma di “dialogo filosofico” con se stesso. “Che impressione ti ha fatto la loro povertà?” “Di sollievo”. Perché non c’è povero senza ricco, perché l’arricchimento è “disumano”, e perché, “giunta al massimo della disumanità, l’umanità desidererà e otterrà di diventare povera”. La povertà è anche malthusiana, che per Moravia è un merito. Ma l’esito è diverso in una società “primitiva” (naturale, di sopravvivenza), che vive di abbondanza o penuria,  e una strutturata, all’ordine del mondo contemporaneo che sa trasformare la debolezza in forza: “L’abbondanza è un dono della natura che non costa né fatica, né denaro, né tempo. Essa non è destinata al consumo ma all’immaginazione. Invece la produzione costa fatica, tempo e denaro e perciò non è mai abbondante”, cioè sufficiente.

Spirito – Potrebbe essere il motore dell’universo, quando i fisici accederanno alla materia. In forma di pneuma gli stoici lo intendevano “anima del mondo”: l’energia che dà vita alla materia – che è la materia. La scissione dello Spirito dalla Materia è recente, e si appiattisce storicamente sul fascismo.

È l’epitome della generosità nella definizione che Bergson, “L’energia spirituale”, privilegia: “Una forza che può estrarre da se stessa più di quanto contiene, rendere più di quanto riceve, dare più di quanto ha”. In termini elettrotecnici, un condensatore.

È Santo per la Chiesa. Ma è confuso con il corpo da molta patristica - con le recezioni e le espressioni dei sensi. In quanto, più propriamente, spirito corporeus  o animalis. In questo senso è però anche unificatore del mondo: dell’umano con l’animale e l’inanimato.

Il tardo Medio Evo ebbe culto profondo dello Spirito, invocato nei suoi sette doni, primo di tutti l’intelligenza. Analoga presenza ebbe dopo la “Fenomenologia dello spirito”: Hegel “approfondì” Kant, in forma, anche lui, trinitaria, di spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. Una costruzione mentale come un’altra, che però ne fece il filosofo quasi unico di tutto l’Ottocento


Suicidio - Chi ha detto che il suicidio è atto supremo di libertà? Schiller lo suggerisce a Guglielmo Tell: è scelta che anche il più debole ha - il che è vero. Anche il più forte? Montaigne esordisce pimpante in argomento: “La morte volontaria è la più bella”. Il tardigrado aveva questa pulsione segreta, attesta Fausta Garavini, il taedium vitae, dietro i viaggi, la politica, la magistratura, e l’infaticabile scrittura, perfino in italiano.
Mandel’štam lo disse, nel caso di Skrjabin, “l’atto supremo della sua creazione”. E in tal senso egli stesso procedette, come ultimamente Celan, suo gemello tardivo. Ma è “passione vile” per Porfirio, che pure ne fu tentato, scoraggiato in tempo dal maestro Plotino. Aristotele lo ritiene un’ingiustizia contro lo Stato. O non dello Stato? Celan non ha retto all’impossibilità di essere ebreo e tedesco, prigioniero della lingua madre: quando tentò il ritorno nel 1952 il Gruppo 47, Grass e Bachmann inclusi, lo disse patetico (anche se Bachmann poi se ne innamorò), solo Heidegger lo riconobbe, di cui non poteva fidarsi.

Anche per i primi cristiani il martirio ricercato non era onorevole. Tuttora turba gli esegeti il martire cristiano che abbraccia il boia, le belve, il fuoco, l’acqua: Germano, Ignazio, le donne di Edessa, la legione dei 6666 uomini, e Pelagia, di cui Baronio, lo storico dei santi, dirà: “Quia ad hoc dicamus, non habemus”, non so che dirne. Ma Gesù, insinua Donne, affrettò la sua morte sulla croce rispetto ai ladroni, portando a testimone san Tommaso d’Aquino: “Cristo fu causa della sua propria morte, come lo è del suo bagnarsi colui che potrebbe ma non chiude le finestre, quando piove”. Ma c’è anche da dire che l’indifferenza dei martiri alla tortura, alla croce, ai leoni faceva impazzire Nerone, come più tardi il Grande Inquisitore. Maometto ergerà il suicidio a prova della fede, rimproverando agli ebrei la scarsa propensione: “Se la vostra religione è così buona, perché non morite per essa?” Ma l’argomento è meno solido dopo Hitler.

zeulig@antiit.eu

giovedì 5 dicembre 2013

L’archistar cura solo la parcella

Non si finisce, e ormai sono sei o sette anni, di sentirsi a disagio nel’Ara Pacis di Meier. La vecchia teca era così semplice, graziosa, e visibile, un monumento en plein air. Quella dell’architetto Usa è ingombrante e insignificante. Sbagliata anche,  nei volumi nella disposizione, nell’orientamento, rispetto al luogo a alla luce. Solo pretenziosa. Forse buona per le scuole, ma ai ragazzi non piace l’atmosfera di gesso – vi si respira il gesso, anche se il materiale è il travertino. Per non dire dell’ingombro. Un angolo di Roma e una piazza tutto sommato ancora importante, col mausoleo di Augusto e due belle chiese, è stata tranciata dal cubone bianco, un ecomostro.
Non è un caso unico. Meier è autore anche di un altro monumento a Roma, la chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste. Voluta dal Vicariato per riqualificare l’ex borgata, è anche monumento d’ingegneria, con tre alte vele affiancate  – la sfida di tutti è da qualche tempo la vela, l’architettura aerea, la nuvola, etc. Ma non ha niente di Dio, né del Padre, né della Misericordia. Meier dà netta l’impressone dell’archistar che scarica progetti senza nemmeno una vista lampo ai luoghi. Fa monumenti invece che edifici, che situa in ambienti estranei. Con la sola ambizione, evidentemente, di tenere alto il cachet.
Sono, queste, due di un buon numero ormai di opere faraoniche. Roma si può dire una galleria di queste opere avulse. Da quando, da circa vent’anni, decise col sindaco Rutelli di svecchiarsi. Purtroppo non di riempire i tanti buchi, che lascia ai topi e ai centri sociali, per tutti l’enorme ex Mattatoio, mezzo quartiere Testaccio. Ma di innestare il nuovo nell’esistente. Come il Meier di piazza Augusto Imperatore, anche se meno stridente, è il celebratissimo Maxxi di Zara Hadid. La struttura più fredda che sia concepibile. Brutto di fuori, si entra non si sa dove, non fosse per i fascioni che annunciano le mostre, poco funzionale dentro, con hangar altissimi sproporzionati, difficile termoregolarli, impossibile suddividerli, afono palarci.
Anche come monumenti, queste strutture sono inutili, perché fredde. Né si possono dire un investimento nel turismo: sono una carta da visita di ridottissimo apprezzamento. Per non dire dei soldi che fagocitano. Perché le archistar non si curano dei numeri, a parte la parcella.E sempre sbagliano i conti: l’opera non viene a costare mai meno di tre volte il progetto. Andando a prendere l’autostrada per Napoli, s’incontra da anni nell’agro fuori del Raccordo Anulare lo scheletro di una gigantesca vela bianca. Un monumnto che si chiama proprio “la Vela”, ed è dell’archistar Calatrava. Doveva servire per il Mondiale di Nuoto a Roma nel 2009 ma è stato abbandonato nel 2007. Il costo era lievitato da 120 a 650 milioni.
Calatrava non si scusa per questo. E d’altronde la sua lievitazione è nulla al confronto con quella del Parco della Musica, sempre a Roma, di Renzo piano. Dove i lavori sono stati infine chiusi forzosamente, per bloccare l’emorragia finanziaria, a scapito della funzionalità. I tre enormi scarabei sui colli sono quello che rimane del progetto di Piano, la parte bella del progetto. La realizzazione, poco curata dall’archistar, e infine lasciata ai costruttori, ha anch’essa, sebbene non del tutto freddi, spazi altissimi e inutilizzabili. Che si succedono a scale altissime e anguste – i primi anni i vigili del Fuoco hanno dovuto assicurarne l’agibilità con una presenza costante durante le esecuzioni nelle tre grandi sale in alto. Uno spreco di cubature nel quale erano stati dimenticati gli elevatori, per disabili, obesi e pigri. Che sono stati ricavati successivamente, di ripiego, in modesti angoli della megastruttura, pochi, piccoli e lenti.

Calabria nobilissima

Bisognerà rivalutare il tribalismo. Gli Usa del resto, sotto la cui bandiera prospera l’era globale, non sono cosmopoliti, nient’affatto: sono superetnici. Il padre del Grande Amico d’adolescenza del padre dello scrittore, quindi siamo attorno al 1938, un irlandese, non sedeva a tavola se l’“italiano” era invitato a mangiare. Ma ci sono anche effetti benefici del tribalismo, e questo “Stolen figs”, la riscoperta di Gimigliano, il paese dei nonni in Calabria, ne è celebrazione. Semplice, graziosa, golosa. Trecento fittissime pagine di un modo diverso. Un mondo a parte anche, la “parte misteriosa” della gloriosa Italia – i “fichi rubati” del titolo sono più dolci, e per questo si rubano, non per bisogno ma per modo di essere, perché gustati con lo scherzo o la beffa.
La scoperta è ritracciata attraverso la memoria femminile, che sola assicura la persistenza, mentre il nonno e il padre la rifiutano. Quindi attraverso il cibo, la devozione, la parentela – l’unico ingolfato nel “tutto è mafia” è lo studente, il “novissimo”, che all’università “segue” teatro e danza (teatro e danza si studiano o non si praticano?). Ma niente di bozzettistico. Niente neanche di eccezionale, ma sì il miracolo della scrittura – Rotella è anche (ri)traduttore di Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”..
Un miracolo pure di precisione, con pochissimi errori nei toponimi o termini italiani, “Delianovo, “capicola”, roba del genere (ma ha un “cazzo americano” invece di cazzone), e solo uno o due errori di fatto. Uno forse non per colpa dello scrittore: un’addetta del consolato italiano a New York lo convince che non può avere la cittadinanza italiana via nonna, perché le donne fino al 1935 “non avevano diritti civili”. L’altro è l’uso costante di ocean per i miti mari mediterranei, il Tirreno, lo Ionio (il Roget’s se ne meraviglierebbe, che solo registra di assimilabile le Oceanidi, le ninfe marine) – eredità forse della Florida, dove l’autore è nato e cresciuto. Anche “affumicare la carne” è sbagliato: il maiale in Calabria si bolle o si secca all’aria, facendolo poi “rinvenire” nell’olio – ma può darsi che negli Usa, dove i nonni e i prozii dello scrittore ne continuarono il rito invernale, abbiano dovuto ricorrere all’affumicatura, altri climi.
Il pregio di questa riscoperta è che per una volta si evita la nostalgia vacua - di che? È la novità, seppure delle piccole cose, che Rotella fa gustare, giorno dopo giorno. Partendo dalla casualità: in vacanza a Perugia col padre, lo convince a tornare, benché di malavoglia, al paese per un week-end. In realtà per poche, svogliate, ore, ma sufficienti a sorprendere il figlio. Ogni piccolo evento, gesto, saluto, atteggiamento, smorfia, locuzione nei soggiorni successivi del figlio si racconta con effetto di sorpresa, nella sua diversità, nelle radici se ce ne sono, nei significati reconditi, storici, mitici, o solo di adattamento.
Non è un libro nuovo. Fa dieci anni questo piccolo capolavoro della letteratura di viaggio, ma non trova editore in Italia. La novità è questa. È un libro di scoperta, ma di scoperta della Calabria, dove non si legge – è per questo che non si traduce? Ma costa poco in originale, e si legge difilato, benché semplice, perché semplice – non bisogna sapere molte parole d’inglese.
Mark Rotella, Stolen figs (and other adventures in Calabria), Farrar, Strauss and Giroux, pp. 320 $ 16

mercoledì 4 dicembre 2013

Ombre - 200

Crozza s’inventa Berlusconi bulgaro – che diventa deputato bulgaro. Pronto il corrispondente da Bruxelles del “Corriere della sera” si attiva per trovare che Berlusconi non può candidarsi in Bulgaria. Il “Corriere di Crozza”?

L’avvocato Dotti scrive ai giornali per assicurare che lui non ha mai fatto jogging “accodato a Berlusconi”. Sarà vero. Con Berlusconi ha solo corso per Forza Italia e la quasi presidenza della Camera. E per i ricchi onorari da avvocato, benché fedifrago. Etica lombarda?

Accattoli ha nel suo “Due parole in croce” su “Lettura” “l’indaffarato papa Francesco”. Populista? Esibizionista? Il papa è indaffarato..

Unicredit tratta per vendere la Roma Calcio, un credito inesigibile, a un affarista cinese. E lo fa sapere. Sapendo che i cinesi non fanno mai un affar di cui si chiacchiera.

Ibrahimovic, Kakà, Llorente: la Spagna non sarà un cimitero del bel calcio? Compra tutto il comprabile, e poi lo fa scadere.

I Vigili in via della Croce che parlano romanesco indignano una “lettera firmata”, che ne scrive a Paolo Conti, “Corriere della sera-Roma”. Otto di mattina di sabato, un furgone imbocca contromano via della Croce, dove s’imbatte nella Polizia Municipale. Il conducente viene così interpellato: “Ahò! Che te sei detto: annamo ‘n bocca ai viggili contromano?” Un romanzo.
Ma Conti è indignato veramente.

Un anno fa la Guardia di Finanza denunciò abusi nei rimborsi spese alla Regione Lazio. La Procura di Roma perseguì quelli della destra e cestinò quelli Pd. La Guardia di Finanza ha dovuto cercare un’altra Procura per completare la denuncia, e ora l’ha trovata a Rieti. Poi dice che le Procure non sono postriboli politici.
Si conferma pure il dossieraggio delle varie polizie, che cercano dopo, quando decidono, la Procura che ci metta il cappello.

Il “Corriere della sera” non pubblica la notizia dell’incriminazione della sinistra al Consiglio regionale del Lazio. Non ha più i rapporti noti con la Guardia di Finanza?

Il “Corriere della sera” pubblicherà la notizia degli abusi Pd sei giorni dopo, annegata in un paginone sui misfatti della destra alla Regione Lazio, già celebrati un anno prima per molte settimane. Due giustizie, informazione unica?

Due “enormi” plichi di firme per i referendum sulla giustizia, almeno due, quelli della Calabria, inviati per corriere alla Cassazione entro le scadenze prescritte, sono stati respinti al mittente. Dopo una giacenza di dieci giorni per far scadere i termini. Non si sarebbe mai pensato la Cassazione legata alla ‘ndrangheta dei trasporti.

Il sindaco di Roma Marino rifà la giunta quattro mesi dopo averla nominata. Una giunta che aveva faticato due mesi a comporre.

Marino, per essere precisi, pensa di rifare la giunta. Un’offa al consiglio comunale perché eviti di sciogliersi per andare al commissariamento e a nuove elezioni. Un’assemblea eletta che preferisce sciogliersi dopo sei mesi era ancora da vedere.

 La Juventus vince 3-1, ma per “Repubblica” si merita tra insufficienze e sette 6. Poi dice che il giornalismo è accomodante.

Piano e Rubbia scoprono di essere senatori a vita per votare la decadenza di Berlusconi. Non vogliono che si dica poi che non hanno fatto la resistenza? Poi dice che la sinistra perde le elezioni perché gli italiani sono coglioni. Evidentemente.

Il senatore manager (immobiliarista, se ne vergogna) Stefàno, ex Dc (indipendente) ora vendoliano (indipendente), resterà negli annali come colui che impedì a Berlusconi di difendersi alla Giunta per le immunità. Cioè per una prepotenza – in realtà un’illegalità. Per dare ragione a Berlusconi?

Il senatore Grasso si ricorderà per il voto palese contro Berlusconi. Uno sberleffo al regolamento – in realtà un’illegalità – per fare del Senato una gogna. Aveva paura che Berlusconi non decadesse? 

Dove va Franco Baldini, l’antijuventino, crolla tutto: la Nazionale inglese, la Roma, il Tottenham. Porterà male?

Anche Zeman ha lo stesso record. Più modesto perché ha allenato molto in serie B. Anche Zeman è implacabile con la Juventus – lui scoprì che Del Piero e Zidane si drogavano. E allora è una nemesi? O la Juve porta male a chi le vuole male?

Alla carne non si comanda, di giorno

Il titolo è legato al film di Buñuel, che però è del 1967, quando Buñuel aveva perduto l’odore di zolfo – lo vira alla “critica della borghesia” (Leone d’Oro a Venezia, presidente Moravia). Come De Oliveira, che l’ha rifatto sette anni fa, “Bella sempre”, e ci voleva gli stessi protagonisti (Piccoli partecipò, Catherine Deneuve no) di quarant’anni prima, nei loro settant’anni invece che nei trenta. Il racconto è un crescendo di tensioni. Con un finale sbilenco, d’azione, ma ogni pagina è una degradazione, passiva, non si può dire nemmeno subita. Non una storia di masochismo, è il romanzo dell’animalità, contro ogni ragione e sentimento. Insostenibile, ma levigato: Kessel, che lo scrisse nel 1926, nato nel 1898 in Argentina, da padre ebreo lituano, cresciuto in Russia, volontario nell’aviazione francese a 18 anni, croce di guerra, commendatore, grand’ufficiale, Legione d’Onore, sarà nel 1962 accademico, con alamari e spadino. Nel titolo del resto evoca “Le belle della notte”, film ncora celebre di René Clair, 1952, con Gérard Philippe e Gina Lollobrigida.
Il risvolto vuole Sévérine, che si prostituisce per nessuna ragione, dalle tre alle cinque del pomeriggio, vittima di una trauma infantile, ma nel racconto non ce n’è traccia. Né Kessel è dell’opinione disidratata di Moravia - “il piacere che l’uomo e la donna si procurano l’un l’atra Non differisce che in apparenza dalla prostituzione”. No, Sévérine è donna di sentimenti forti, legatissima al marito benché frigida con lui. In realtà è tutto detto all’inizio: l’urgenza del corpo. Lo dice lui, chirurgo, a lei, che ne è invece la ministressa: “Il gusto della carne fino alla follia e alla morte – e non c’è arte più contagiosa della carnale”. Per cui lei, che prova disgusto la notte col marito amato, fa quello che gli rifiuta, senza traumi, nella casa d’appuntamenti, seppure solo per due ore, il pomeriggio.
È un prolungamento del Secondo Ottocento francese, poi Belle Epoque e Fine Secolo – che durerà a  Parigi negli Anni Folli fino alla guerra, la seconda, fin dentro l’Occupazione. Pieno di romanzi sulla donna-carne. Carne più che corpo. E quindi di prostitute, le “orizzontali” – è strano, ma non ci sono altre “eroine” in un secolo di romanzi francesi pure buoni, in Proust per esempio. Anche qui: non c’è la Storia, né la psicologia, c’è questa donna animale non domestico, non domesticabile. Implausibile? Kessel aggira la psicologia col diciottesimo secolo, la frase gira come nei “Legami pericolosi”, il genere è Laclos. Anzi diciassettesimo: da “preziose”, frigide e curiose. Con la “carta del tenero” non più dei sentimenti ma degli istinti.
Joseph Kessel, Bella di giorno, e\o, pp. 164 € 14

martedì 3 dicembre 2013

Letta mette gli affitti fuorilegge

Monti ha messo all’inferno le case, Letta mette fuorilegge gli affitti. Il costo dell’affitto il suo buonuomo Saccomanni ha portato al 70 per cento del canone, fra imposte dirette e indirette. Col rischio della morosità, che con la crisi dilaga: varia a Nord (dove ancora è possibile ottenere una fidejussione bancaria sugli affitti a venire) e al Centro-Sud, dall’Appennino in giù, Firenze compresa, mediamente va sul 50 per cento, un affittuario su due non paga.
Il mercato immobiliare già asfittico potrebbe chiudere i battenti. Trascinandosi ineluttabilmente le banche – il precedente spagnolo. Il problema dell’Italia era finora il debito pubblico. Ora è duplice: il debito pubblico e la bolla immobiliare.
È l’eredita del dracula Monti, che tante rovine ha portato. Ma Letta e Saccomanni l’hanno peggiorata: paga le tasse ora anche l’inquilino (sembra impossibile, ma è così). Col bisogno di affitti che si moltiplica, parallelamente alla rinuncia all’acquisto: la domanda di affitti supera abbondantemente l’offerta.
È l’incapacità del sistema fiscale. Prova ne è la messa rapidamente fuori mercato, con una serie di adempimenti astrusi, della cedolare secca. Che avrebbe migliorato gli incassi dell’erario e facilitato gli affitti..
È un’opinione pubblica assurdamente becera. Che dà addosso al ceto medio, lavoratori compresi, che pure la esprime, e senza del quale non c’è economia. E moltiplica i fantasmi dove non ci sono: Monti, caratteristicamente, fece degli affitti uno snodo dell’evasione fiscale, mentre è vero il contrario – l’affitto non può che essere in chiaro, l’inquilino ha tutto l’interesse a denunciare un contratto non registrato, venendo a pagare un affitto minimo e perfino a legalizzare la morosità.  

Silvio no, Barbara sì

È cominciato lo sciacallaggio degli altri pescicani, Bazoli, De Benedetti, Caltagirone, Murdoch, e questo è forse tutto ciò che c’è da dire - non c’è giornalismo non padronale. Ma c’è, in filigrana, qualcosa di diverso. La vicenda è quella degli odi per il padre e degli amori per la figlia, Silvio e Barbara Berlusconi.
Barbara voleva la Mondadori, come ogni buon figlio di famiglia cui spetta l’eredità. Ha avuto un posticino al Milan. L’ha occupato per farsi il più fico della squadra, benché soprannominato Papero. Glielo hanno venduto. S’è rifatta scassando la squadra, non si può dire che Barbara Berlusconi non sia volitiva. Per evitare il peggio ha ottenuto il grado di amministratore delegato, sperando che si stanchi. Ma farà di peggio, questo è certo.
Il curriculum di Barbara Berlusconi è tutto qui. In aggiunta a una cittadinanza svizzera, il padrinaggio di Craxi al battesimo, un paio di figli e un ex marito-compagno a 25 anni, una laurea a 26, e da allora una serie di interviste minatorie contro il padre, nello stile della madre Veronica Lario, di cui è peraltro la copia. Quella che ha un assegno alimentare di un milione e quattro al mese, e ne vuole tre.
Non c’è da indignarsi, robe da Berlusconi: la (ex) moglie è sua e la figlia pure. Ma Barbara ha i media ai piedi. Forse perché ci vedono la carta falsa che farà saltare il banco Berlusconi, ma non è detto. Anzi, non c’è tanto calcolo: è la fregola per la bella guagliona. Una prova generale di glamour BB l’aveva fatta nel 2010 laureandosi col massimo dei voti in Filosofia sotto l’occhio integerrimo di Cacciari e De Monticelli.
Il capitalismo familiare è difficile. Non sempre per colpa dei padri. Che se non altro hanno il merito di avere creato o mantenuto viva l’azienda. E spesso hanno figli buoni accanto agli incontinenti. Ma il rispetto di cui Barbara gode è dubbio.
Al netto dei protervi interessi in agguato, molto altro si intravvede. La vacuità dei media. Nell’uno e nell’altro caso, del padre e della figlia. La volgarità di Milano – la duplice vicenda si svolge a Milano. Una chiave, anche, del successo politico di Berlusconi. Cui non può non andare la simpatia, ancorché recondita, del 45 per cento degli italiani maschi, per l’uomo e per il padre. Di quelli di destra e anche degli altri. Quelli che hanno sempre torto nelle separazioni, negli alimenti, per i figli, per la casa. Nonché della parte che lavora del 55 per cento che è la popolazione femminile. 

Perché l’Ucraina non si satellizza

Un paese che ha detto no agli accordi con la Ue, non si era mai visto. Ci vuole un colpevole, e questo non può essere che la Russia, l’Ucraina da sola non conta niente. È il modo di essere della Ue, e spiega molte cose.
L’Ucraina è l’ultimo tassello della politica di allargamento indiscriminato della Ue voluto quindici anni fa da Prodi, quando era al vertice a Bruxelles. Ma l’allargamento si è fatto come si è fatta la riunificazione tedesca, per annessione, al benvolere dell’Unione. Per acquisire mercati e forza lavoro “cinese” – che consenta di competere con la Cina, per il basso costo e la scarsa protezione sociale.  
Poi c’è la Russia, certo. Che però da sola non può aver bloccato all’ultimo negoziati in corso ormai da cinque anni. Dopo una rivoluzione arancione pagata, letteralmente, da Soros, lo specualtore: non si può pensare la Russia molto potente.
Si dice comunque l’Ucraina di Yanushcenko satellite di Putin. È possibile. Ma è vero che l’Ucraina è stata sempre cercata e voluta a Bruxelles in termini antirussi – già quando se ne voleva l’adesione alla Nato, dell’Ucraina come della Georgia, quando la Nato ancora esisteva.

Letture - 155

letterautore

Amore – Un ossimoro? Karoline von Günderode, “Liebe”, ne fa in due brevi strofe una serie di ossimori: ricco e povero, donatore e postulante, valente e timido, prigionia e libertà, parola e mutismo, notturno di giorno, trionfante e timoroso, morto di vita, euforico e misero, resistente nell’abbandono, gioioso e languido, vita nel sogno, una vita doppia.

Dante - Nel 2004 è stata pubblicata un’edizione della “Divina Commedia” in milanese. In tre volumi. Con illustrazioni originali di Alberto Schavi. Effetto Lega? O reimpossessamento della lingua?
Carlo Porta aveva tradotto in meneghino alcuni canti dell’“Inferno” nel 1803-1805, liberamente, in sestine e in ottave: il primo integralmente e parti dei canti secondo, terzo, quinto (Paolo e Francescaa, settimo. La traduzione pubblicata nel 2004, in terza rima, è opera di Ambrogio Maria Antonini, avvocato di suo – morto nel 1987.

Percepied – Si può dire Proust autore di “mancanze”. Di un migliaio di pagine su Albertine ci resta giusto il nome. In coppa, certo, all’interminabile ondulazione di umori dell’osservatore. I personaggi non si caratterizzano ma sono caratterizzati – non fanno o dicono cose che li distinguano, ma vengono ogni tanto sbalzati, poco, dalla tessitura dell’occhio di pesce dell’autore. Una dilettazione onastisica, in questo notevole. 

Fra i tanti personaggi, nessuno si distingue. Più di tutti Mlle Percepied, che è così centrale a Proust all’inizio dei “Guermantes” (p.12, vol.II), e poi si perde – e sarà trascurata, del tutto, nel dettagliatissimo indice dei nomi dell’edizione Pléiade del 1954, di Pierre Clarac e André Ferré. È “il giorno del matrimonio di Mlle Percepied” che per il narratore, “per una creazione originale, in un’armonia unica”, si composero “questo malva così dolce, troppo brillante, troppo nuovo, di cui si vellutava la cravatta gonfia della giovane duchessa, e, come una pervinca cogliere incoglibile e rifiorita, i suoi occhi soleggiati da un sorriso blu”.
Una Mme Percepid ricorreva già all’inizio dei “Swann” (p.124, vol. I), ma è solo una delle tante donne che vanno in chiesa. Sposa forse del dottor Percepied, il medico di Combray, che sapendo tutto del paese si prende gioco dei Vinteuil? È sua figlia che si sposa alla presenza della duchessa di Guermantes nel primo libro di Swann, regalando al Narratore la visione di se stessa – della duchessa. Questo matrimonio ritorna in parecchi punti, benché senza nominare Mlle, ritorna la duchessa al matrimonio, dando perciò agli analisti molta materia di lavoro: a p. 209 dello stesso primo libro dei Guermantes, alla p. 397 e alla 548, e nel primo di “Sodoma e Gomorra III”, p. 13, quando, sdraiato “nella carriola” del dottore,  il narratore ha “visto dipingersi al tramonto le campane di Martinville”. Salvo confondere nello stesso libro il matrimonio per quello del dottor Percepied stesso, p. 971. Confessando da ultimo, p. 1008 di Sodoma e Gomorra III, di avervi assistito andando a messa, da “piccolo borghese di Combray”.

Stroncature – Si fanno ma non si dicono? È Simona Vinci che “Lettura” e Alessandra Farkas hanno nel mirino nelle due pagine che dedicano domenica a Gary Fisketjon, “leggendario editor”? La scrittrice ha solo due parole nelle due pagine, il suo nome e cognome, ma al termine della frase: “A volte ovviamente ci si sbaglia e oggi mi pento di aver creduto in una scrittrice come Simona Vinci”.
L’intervistona nomina come pilastri della letteratura mondiale diecine di nomi che al lettore non dicono nulla, con l’eccezione delle cime del colonnato, il solito Philip Roth, con Carver e McIverney.
Una seconda cattiveria, questa ancora meno esplicita, è chi consiglio Vinci a Fisketjon? Poiché il “leggendario editor” dice che, come tutti, si fa dire dai colleghi a Francoforte “chi in Italia o in Francia merita di essere tradotto in America”.

Traviata – Paolo Isotta ha sul “Corriere” un inedito appaiamento della “Traviata” (quella di Verdi, beninteso, così diversa dall’originaria “Signora delle camelie”, commedia e romanzo di Dumas jr.) all’“L’educazione sentimentale”. Per dire la “superiorità” di Verdi rispetto a Flaubert. Tanto viva Violetta, e ardimentoso Verdi, che la fa morire in scena, con agonia, dopo essere stata picchiata nell’atto precedente, tanto sordidi a calcolati gli amori di Rosanette, e Flaubert cupamente realistico.

È così. Violetta  è romantica, sebbene posteriore a Rosanette, 1853 e 1843-45. Soprattutto se a Verdi si appaiano le immagini del film con Greta Garbo - amor vincit omnia, per noi del pubblico è così. Mentre Flaubert sfida la realtà dei sentimenti, più spesso sordidi, nell’“Educazione sentimentale” come poi, 1857, con “Madame Bovary”. Ma è vero che Flaubert è un moralista e Verdi un drammaturgo. In tutte le opere. Un forte drammaturgo – fosse stato inglese o americano sarebbe un altro Shakespeare. Perché, poi, alla fine Verdi compone con “La Traviata” il famoso unicum: aver saputo estrarre un dramma vero da una piccola storia borghese, di infatuazioni e convenienze.

lettrautore@antiit.eu

Voleva ridere, la mandarono a Auschwitz

Una rilettura ferma in Francia da ormai un lustro, e più, che invece trova in Italia fervida attenzione, e anche ottima cura. Qui a opera della direttrice Cristina Guarnieri. Gli Editori Internazionali Riuniti precedono Passigli - che aveva avviato l’edizione dei racconti a tappe - con tre volumi. In questi primi due sono raccolti 32 dei 50 racconti finora pubblicati, i primi e gli ultimi.
Il primo volume si distingue perché raccoglie, unico fra le tante edizioni in concorrenza, anche  quattro dei cinque “Nonoche” che Irène scrisse sui 18-19 anni, quando, approdata infine a Parigi attraverso mille peripezie dalla Russia rivoluzionaria, frequentava la Sorbona: “Dalla chiaroveggente”, “Al Louvre”, “In vacanza”, “Al cinema” (il quinto episodio s’intitola “Al potere“). È una vena originaria e diversa dalla Némirovsky nota, sottovalutata purtroppo anche dai suoi biografi, Philipponnat e Lienhardt, la figlia Denise, ed è importante per definirne la personalità. I racconti, in forma di “dialoghi comici” tra Nonoche e l’amica Louloute, altrettanto sgallettata, furono pubblicati sulle riviste satiriche “Fantasio” e “Le rire”. Un personaggio alla Colette ma con qualcosa in anticipo su dadaismo e surrealismo, e molto in anticipo su Queneau e Boris Vian.
Fanno parte del primo volume anche i trattamenti per il cinema (più lunghi del soggetto, meno dettagliati della sceneggiatura) che Irène scrisse sull’onda del successo di “David Golder” al cinema, nel film realizzato da Duvivier, il primo film parlato francese. “I fumi del vino” è un malloppone purtroppo confuso contro la rivoluzione d’Ottobre, “Film parlato” sceneggia la sua orribile madre, “Ida” la fine delle illusioni con l’età, “La commedia borghese” quello che dice, la falsità della condizione borghese, amori, affari, famiglie. Nel mezzo i vagheggiamenti domestici,  per un’attenzione e una pedagogia sempre vive nella scrittrice: il padre egoista (“Echo”), le liti fraterne (“Domenica”), il matrimonio senza amore (“Rive felici” – ma il matrimonio è più spesso senza amore), la malinconia (“Un pranzo in settembre”, salutato alla prima pubblicazione come un “capolavoro”, o anche “perfetto come una novella di Cechov”), la Russia impoverita, di servi e emigrati (“Nianja”), l’inverno al confine con la  Finlandia tra il 1917 e il 1918, al buio tra i ghiacci (“Natività”).
Il secondo volume raccoglie i racconti degli anni di guerra, quando Irène, proscritta in quanto ebrea, poté continuare a pubblicare, per sopravvivere, grazie alla compiacenza di alcuni direttori, sotto pseudonimo. Tra vincoli sempre più restrittivi che l’avevano convinta del peggio – la deportazione e la morte arrivarono a metà luglio 1942, a 39 anni. Sembrano divagazioni, ma non lo sono: la scrittrice sapeva e, come diceva, si teneva “occupata nell’intervallo”, aspettando la deportazione. Ritornano l’amore, la guerra, le famiglie, gli alti e bassi della fortuna, la Francia bottegaia (“Il galantuomo”, “L’incendio”), con un più di disincanto. Alcuni, i più vivaci, sono i racconti della vecchia Russia, “Il sortilegio”, come già “Nianja”. Compreso  l’inverno trascorso alla frontiera con la Finlandia dopo la fuga da Pietroburgo scossa dalla rivoluzione: “Aino”, ”Gli spettri”. “Il signor Rose” anticipa uno dei migliori Céline, quello dello sfollamento della Francia sconfitta – è il tema di “Suite francese”, che però verrà pubblicata dopo oltre mezzo secolo. “Fraternità” tratteggia la condizione dell’ebreo che si nega – serpeggia anche in “Ida”. Senza più lo scandalo che accolse “David Golder”, senza cioè il realismo: qui c’è compassione. Ma sempre da parte di un’ebrea sorpresa di sentirsi incolpata per questo – Irène era una che credeva alla Francia, all’Europa, all’Occidente.
Per chi comincia a leggere questa scrittrice, è l’edizione più corretta. Irène Némirovsky non  organizzò i racconti in raccolte – anche perché la buona metà della sua produzione breve è quella degli anni di semiclandestinità. L’esito è che oggi le varie raccolte si sovrappongono, tanto più da un anno, da quando, a settant’anni da Auschwitz, è cessato il copyright. Tutti insieme, i racconti hanno anche un altro pregio, in riguardo dell’autore, e del rapporto tra il lettore e l’autore: ne sintagmatizzano i tempi e il tono. L’ordine cronologico è per questo significativo.
Il tono è lieve, è vero. A volte ironico, scherzoso, e sempre con l’impressione di futile. Anche il secondo volume, quello dei racconti clandestini. Ma apparente. Un po’ perché la fine si proietta sull’opera. Ma molto per la scrittura – per quanto diseguale, variatissima: ripetitiva e secca, teatrale e attardata, spedita e compiaciuta: Némirovsky sa scrivere il quotidiano.
Irène Némirovsky, Tutti i racconti. Vol. 1 (1921-1934), Editori Internazionali Riuniti, pp. 341 € 17,50
Tutti i racconti. Vol. 2 (1940-42), Editori Internazionali Riuniti, pp. 300 € 17,50 

lunedì 2 dicembre 2013

Problemi di base - 161

spock

Silvio no, Barbara sì?

Tutti maschi con Alfano?

E perché Renzi tira la volata a Berlusconi?

Ora che ha lasciato Berlusconi, Formigoni non ha più rubato a Milano?

Abbiamo liberato l’Afghanistan per legalizzare la lapidazione?

Dio vivente, lo vuole la chiesa: c’è un Dio morto?

I calciatori si fanno tutti il segno della croce entrando in campo, ma Dio con chi deve stare?

Ma Diderot avrebbe scritto al papa?

spock@antiit.eu

L’odio politico è vecchio, anche a sinistra

Già negli anni 1890 ci fu, all’interno della divisione sempre feroce tra destra e sinistra, un’ulteriore divisione in uno degli schieramenti, contro Crispi. Uno dei devotissimi dello statista siciliano, ritornato al potere dopo un periodo di disgrazia, chiamato dal re per supplire al momentaneo disimpegno di Giolitti per lo scandalo della Banca Romana, si schierò alla fine contro di lui: Cavallotti, milanese, garibaldino, poeta, storico, drammaturgo, deputato, radicale di sinistra, “il bardo della democrazia” – la divisione nella divisione avvenne allora a sinistra. Per rimproverare a Crispi tutto, dalla bigamia a una raccomandazione alla Banca Romana. Cioè niente, e non solo perché il libello è precisino tanto quanto pretestuoso, noioso – nulla al confronto col “J’accuse” che Zola scriverà tre anni dopo, nel 1898. Ma allora di grande effetto: la “Lettera” fu pubblicata nel giugno del 1895 come supplemento speciale al “Secolo” di Milano e sul “Don Chisciotte” di Roma.
Si può dire Cavallotti, oggi noto solo a coloro che abitano nelle tante strade a lui intitolate, e nemmeno a loro, un precursore di Grillo: nei giornali se ne parlava moltissimo. Fece erigere il monumento a Giordano Bruno al Campo dei Fiori a Roma nel 1889 e sostenne 33 duelli, nell’ultimo dei quali rimase ucciso. Siccome questo avvenne qualche tempo dopo la pubblicazione del libello, se ne parlò per qualche tempo anche dopo morto. Il duello mortale col conte Macola, veneziano, avvenne alla vigilia della svolta reazionaria di casa Savoia, che culminerà due mesi dopo nella strage milanese di Bava Beccaris. Fu il conte un sicario di re Umberto? Ferruccio Macola era stato autore, quattro anni prima, “L’Europa alla conquista dell’America Latina”, della maledizione dei “sudici”, la gente del Sud (“degenerati che aborrono l’acqua in terra e in mare” etc., dalla “immensa sporcizia”). Lorenzo Stecchetti sosterrà che mandante non fu il re ma Crispi. Con Crispi invece si schierò, impetuoso e fantasioso, Carducci.
Il nucleo della lunga “Lettera” è una decorazione concessa nel 1891 a un affarista, Cornelio Herz, presentato dal banchiere parigino di origine tedesca, Jacques de Reinach nato Jacob, che i Savoia, per obbedienza massonica o per servizi resi, avevano nobilitato nel 1866, a 26 anni, col titolo di barone – poi riconosciuto a Berlino da Guglielmo I. Herz fu però segnalato come persona inaffidabile e, pochi giorni dopo la concessione, l’onorificenza venne revocata. Crispi c’entrava in quanto fautore di una politica di avvicinamento alla Francia nei quattro anni in cui fu presidente del consiglio, fino al 6 febbraio 1891. Reinach gli aveva raccomandato Herz, e Crispi risultò avere comunicato a Reinach il 7 febbraio 1891 l’onorificenza, e il 7 marzo la revoca. Ma risultò avere ricevuto successivamente da Reinach, il 21 marzo, un accredito di 50 mila lire, che Cavallotti dice il “prezzo” dell’onorificenza – non concessa.
Nella lunga argomentazione, curiosamente, Cavallotti non attacca Reinach, suicida un anno e mezzo dopo la vicenda, uno dei profittatori dello scandalo finanziario legato alla realizzazione del Canale di Panama. La questione morale è sempre torbida.  
Felice Cavallotti, Lettera agli onesti di tutti i partiti

domenica 1 dicembre 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (190)

Giuseppe Leuzzi

La mafia liberatrice
Manoela Prati, siciliana e storica, demolisce con documenti (con l’assenza di documenti) il mito della liberazione della Sicilia nel 1943 a opera della mafia. Fa molto di più (il libro s’intitola “La Sicilia e gli alleati. Tra occupazione e liberazione”): ricostruisce alcuni dei “vuoti” che si sono creati attorno all’impresa. La “scomparsa” degli inglesi. Le resistenze alla “liberazione”. Ma più di tutto ridimensiona il colonnello Charles Poletti, ex governatore dello stato di New York, attorno a cui si è costruito il mito della liberazione a opera della mafia. Che è una delle forme politiche di resistenza alla liberazione. Ma questo è argomento per gli specialisti.
La liberazione attraverso la mafia è però anche un’irrisione, e in questa forma è comune alla migliore Sicilia. Sembrerebbe una cattiveria appiccicata ai siciliani. E invece è mito propriamente siciliano: di grandi scrittori, Sciascia e Camilleri compresi, storici della mafia (Lupo compreso, che introduce Prati) e non, e delle conversazioni da treno, sotto l’ombrellone, al ristorante. Della Sicilia, un paradiso “sprecato”, si può ben dire “chi è causa del suo mal”? L’odio-di-sé è diabolico.
Ma quando cominciò la maledizione? Dev’essere intervenuta a un certo punto, perché per molti secoli la Sicilia fu creativa - eccezionalmente, come ancora si vede.

La questione nasce a Napoli
L’H a Roma passa raramente, è un mezzo veloce, con poche fermate, attraversa per linee rette la città, ed è sempre pieno. A maggior ragione oggi che c’è un mezzo sciopero dei tramvieri. È uno degli autobus dei borseggi - l’altro è il “64”, che va a San Pietro. Un uomo di mezza età, che ingombra l’uscita e mai scende, e impreca a ogni fermata contro coloro che ingombrano l’uscita, è la maschera del borsaiolo. È anche napoletano. Accanto a lui due giganti muti, uno bianco, uno nero, e inamovibili. Un piccolo trambusto si crea alla discesa: l’“H” salta la fermata del Palazzo delle Esposizioni, pare che ci sia una manifestazione, pare che il percorso verrà deviato, è infatti deviato, e quando infine si aprono le porte, la ressa è forte per uscire. Per ritrovarsi infine a terra, mentre le porte si chiudono e il mezzo riparte, con le tasche vuote, di soldi e documenti. Una novità - c’è sempre una novità nella vita. Impensabile anche, fino a un attimo prima le tasche si tastavano piene. Proprio per l’ombra dell’imprecatore, napoletano, “il borsaiolo”.
Una novità difficile da ingoiare. Essere derubati è come essere aggrediti, anche se la cosa poi è rimediabile, il danno in sé è poche centinaia di euro: è avvilente. Di più, il massimo, per un calabrese che un napoletano frega. Che si disprezzano vicendevolmente, ma il napoletano, a questo punto, con più ragione. Tutti i calabresi temono i napoletani, tutti i napoletani, anche i più miserabili, disprezzano i calabresi. Che sempre stanno in guardia contro i napoletani, e sempre ne sono fatti fessi.
Il cavallo
Questa del resto non è la prima volta. Molto peggio succedette per il ponte di Ognissanti all’indomani dell’11 settembre. Quanto l’automobile fu assaltata con tutti i familiari dentro, poi buttati fuori a qualche centinaio di metri. Proprio. Per terra, in mezzo alla strada. Nell’indifferenza generale, durante l’assalto e poi, nella feroce espulsione. Nel tranquillo sobborgo di Bàcoli nei Campi Flegrei, il paradiso alle porte di Napoli. Mentre il giornalaio, forse non complice, intratteneva del più e del meno nella sua chiusa bottega – mentre si faceva l’assalto. A poche centinaia di metri dal garage dell’albergo. Dopo una vacanza passata a sviare i tanti malintenzionati, apparentemente inesauribili, parcheggiando nelle aree guardate. Una pratica collaudata in innumerevoli visite, fino ad allora, a Napoli - consacrata quello stesso giorno dalla sfida certa, e infatti riuscita, di lasciare la macchina in un posto remoto, segnato come parcheggio del ristorante X, da raggiungere poi con una lunga scarpinata giù per un versante invisibile al parcheggio, certi che comunque la macchina era “guardata”.
Allora non ci fu il contraccolpo psicologico. Non ci fu tempo. Tra il soccorso da prestare, la ricerca di un posto dove effettuare la denuncia, per strade subito deserte, i più zoppicando, l’attesa di un’ora in  un ufficio dei Vigili Urbani vuoto, in piedi, mentre il comandante Maggiolini si sollazzava al telefono, la cacciata dai Vigili Urbani a opera dello stesso Maggiolini, “andate dai Carabinieri”, e il maresciallo dei Carabinieri Napolitano soprattutto sollecito a ritardare la denuncia – “perché siete qui? perché siete in macchina? è il vostro cavallo?”. Il maresciallo Napolitano si sciolse solo quando il comandante Maggiolini gli telefonò per congratularsi che il ladro dell’automobile aveva abbandonato una moto rubata nel pomeriggio. Ci portò in albergo, parlottò con gli albergatori, e gli albergatori non trovarono nemmeno un po’ di ghiaccio in cucina per lenire le sbucciature. L’indomani mattina il taxi per la stazione di Napoli volle 50 mila lire – quanto costava allora il percorso doppio Roma-Fiumicino. L’albergo non fornì nemmeno la prescritta prima colazione.
Non c’è Sud senza
Si direbbe la barbarie. Ma questo si sapeva: Napoli è così, prendere o lasciare. Gli esposti al Comune di Bagnoli, al Comando dei carabinieri e alla Procura della Repubblica non hanno avuto nessun riscontro. Che peraltro non era atteso: che ci fa giustamente uno a Napoli? Anche con tutte le cautele, della macchina sempre custodita, senza borse a tracolla, eccetera. Soprattutto: che ci fa un calabrese a Napoli?
Qui è più difficile rispondere. Perché un calabrese non può evitare Napoli? È così. Può volarci sopra, ma ne resta comunque jugulato. In treno, in automobile, e pure senza viaggiare, per la subordinazione geografica. Ora anche per un’improvvida politica di seconde case che ha consegnato mezza Calabria ai napoletani più ignoranti e insolenti. Non c’è modo per un calabrese di aggirare Napoli. In coppa, direbbe un napoletano, agli otto secoli di regno politico – si fa per dire. La stessa ‘ndrangheta si è fatta tentacolare per i legami con la camorra, da cui ha imparato le pratiche finanziarie e quelle spicciative, le “gomorre” che furbamente evitava.

Si potrebbe farne il perno della questione. Senza se anzi, lo è: della questione meridionale. Spiega le diverse risposte agli stimoli della questione meridionale, con la Calabria più indietro di tutti, subito dopo la Campania. Il Sud soprattutto per questo non è uno solo. La Sardegna non ha avuto mai nulla da spartire con Napoli. La Sicilia si, ma solo nominalmente, era un  vice-regno a parte. Deve mandare le sue merci ai mercati via Napoli, ma non ha smesso di cercare vie d’uscita: ora sperimenta il trasporto quotidiano di frutta e verdura via mare. L’Abruzzo, appena si è sganciato da Napoli per gravitare su Roma, è diventato una regione sviluppata. La Puglia idem – con la Basilicata, che si è aggregata al carro pugliese. Quando è stata fatta la Milano-Bari, la Puglia si è subito emancipata: è ricca, operosa, e perfino, a suo modo, civile. In tutte le sue regioni, dal Gargano e il foggiano al Salento. Celentano è diventato milanese, con profitto, invece di finire nelle sabbie di Napoli. Da Milano decretando – con Gaber, Jannacci e altri milanesi, è vero – la fine della canzone napoletana. Per la Calabria non c’è rimedio.

leuzzi@antiit.eu

Pigmalione non fa l’amore

Le sottigliezze dell’amore mescolate al pigmalionismo. Che non può mutare le nature: l’ambizione, la bruttezza acuta, acuminata, la bellezza sciocca. Un altro contributo di Antonio Castronuovo alla scrittrice di cui ha già curato la raccolta “L’incendio” per la collana Fiabesca.
Irène Némirovsky, La confidenza, Via del Vento, pp. 35 € 4

Recessione – 11

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
Il patto di stabilità, la Legge finanziaria 2014, aggrava il prelievo fiscale, di 0,3-0,5 punti.
Il fisco è all’origine della recessione italiana.

Cresce il rapporto debito-pil perché il pil diminuisce. Ma cresce pure il debito, ogni anno e ogni mese, malgrado l’aumento delle tasse. E malgrado le supposte spending review.

La Spagna è uscita dalla recessione, anche se le sue banche restano a rischio, l’Italia no. Schiacciata da un debito che aumenta con le tasse.

Non un solo posto di lavoro è stato creato con la riforma del diritto del lavoro di Monti e della ministra Fornero. La cassa integrazione è raddoppiata da fine 2011.

I prezzi scendono in Italia. Non è una buona notizia: si vende sottocosto per realizzare qualcosa, ma chi produce  non ha margine per gli investimenti.

Scendono con i prezzi anche i salari, mediamente di 500 euro l’anno.