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sabato 7 giugno 2014

Ombre - 223

Scioperano i dipendenti comunali a Roma, che il sindaco Marino vorrebbe rimettere al lavoro. Solo nell’occasione le cronache romane scoprono il numero chiuso per le pratiche, le file all’alba per prendere il numeretto, l’assenteismo agli sportelli, malgrado l’assenteismo ufficiale sia basso, la lentezza programmatica della burocrazia comunale, e la sua tecnica del rinvio. I giornalisti non fanno le pratiche?

E la macchinetta mangiabancomat? Deve succedere ad Alesina, illustre economista di Harvard per lavoro a Milano suo collaboratore perché un giornale ne parli, nelle lettere al direttore.
Provare a “perdere” il bancomat in una qualsiasi banca, anche la vostra, per sperimentare il delirio di “non è possibile”: è un’esperienza inverosimile.

Peggio dei giornali fa la carissima Autorità per la Privacy: scopre che siamo tutti liberamente intercettati perché Vodafone pubblica i numeri delle intercettazioni. Prima che ci faceva l’Autorità, che paghiamo profumatamente E dopo? Non farà niente, quella delle intercettazioni è una prassi normale, non è una verità rivelata.

Sarà per la diffusione della rete Vodafone in Italia, ma certo le cifre delle intercettazioni sulla sua rete sono stupefacenti: 606mila intercettazioni nel 2013. Niente di comparabile altrove, eccetto che in Tanzania, 99 mila, e in Ungheria, 76 mila.

Il governo assicura sdegnato che queste intercettazioni “sono sempre autorizzate dall’autorità giudiziaria” e non abusive. Ma è meglio o non peggio? Il “Corriere della sera” spiega che “ogni richiesta può anche riguardare centinaia di persone o dispositivi”.

Lech Walesa mette in guardia contro la guerra alla Russia. Consiglia anche agli ucraini, cioè agli avventurosi polacchi suoi connazionali, di non esagerare. Ci salverà di nuovo Walesa?

Il presidente francese Hollande  costretto a due cene separate, la stessa sera, perché Onama non vuole incontrare Putin. Col quale celebra – separatamente – la vittoria su Hitler. E non è una commedia.

Nello scandalo del Mose, i giudici hanno scoperto la corruttela confrontando le entrate degli accusati con le uscite. Ma un generale in pensione della Guardia di Finanza aveva due milioni di entrate. Quelle erano buone?

Come un’inchiesta romana sul malaffare di Unipol si trasforma a Milano in una a carico di Berlusconi, cioè di Tremonti? Sul “Corriere della sera”, 5 giugno, “Le microspie di Roma e la fuga di notizie sull’inchiesta Unipol”. A opera della Procura di Milano.

È perplesso Renzi nella foto di gruppo al G 7 di Parigi – non sarà di furbi o di scemi, sembra chiedersi? Spingono alla guerra contro la Russia. Auspice la Polonia. Niente di meno.

Obama va a Varsavia e promette più basi militari: un investimento da un miliardo di dollari. Creerà occupazione, è il commento unanime. O: difenderà l’Europa Orientale. Da chi?

Il piano Delors che portò al Trattato di Maastricht  prospettava una crescita economica del 4-6 per cento annuo per effetto dell’unione monetaria. Mentre siamo a più tasse, meno pensioni, sanità e servizi sociali, e disoccupazione a valanga, rileva mesto Paolo Savona su “Panorama”. Ma il voto che ha censurato questo disastro è accantonato come populismo. E dopo una settimana è già dimenticato.

C’è un complotto quasi a ogni riga nel lungo pezzo del “Sole 24 Ore” domenica 1, a firma Riccardo Antoniani, “Misteri d’un capitano”, su Eugenio Cefis. Quasi tutti denunciati da testimoni dubbi: anonimi, pseudonimi, prezzolati, di parte politica. Con l’effetto di fare di Cefis una vittima, che pure qualche colpa ce l’aveva.

Massimo Teodori non ama i complotti. Lo ha ribadito con Bordin in “Complotto! Come i politici ci ingannano”. E da ultimo lunedì sul “Corriere della sera”, contro gli sprechi di energie, risorse, e tempi parlamentari sulla morte di Moro. Ma è l’autore di un Cefis complottista da levare il respiro: è Cefis il vero capo della P 2.

La natura muore allo stato di natura

Occhio fotografico stroboscopico, introspettivo, esorcistico – di cui molte immagini di ideale bellezza ornano l’aureo libriccino. Camminatore compulsivo, flâneur d’altura. Conoscitore di ogni piega dei terreni, di ogni rivolo d’acqua, di ogni volo piumato, stagionale e estemporaneo. Insomma naturalista, benché avvocato come dicono le note biografiche, Bevilacqua s’interroga: non sarà lo stupore, la capacità di stupirsi di fronte al creato, uno stato di follia, nel senso di Erasmo?
Si deve pur fare una ragione di se stesso, evidentemente. E con una prosa arguta, nonché informata dei fatti, si interroga interrogandoci. Come a dire: siete, siamo, o no capaci di stare bene nello “spettacolo” della natura? Il sottotitolo è “Estetica, sacralità, etica della natura”, corrispondenti ai tre capitoletti che compongono la raccolta, più uno “Stupore e coscienza”. In compagnia di Pound tra i tanti, il poeta folle de “L’albero”, della raccolta definitiva “Personae”, 1929: “Sono stato un albero nel bosco\ Ed ho compreso molte cose nuove\ Che prima erano follia per la mia mente”. La religione della natura è così: è semplice, e non lo è – le religioni si vogliono paludate e rituali.
Fulco Pratesi scrive alla fine a Bevilacqua per contestargli l’innocenza dello stupore: se stupore è amore e rispetto della natura, beh, ci vogliono alcuni anni e molti strati di cultura per arrivarci. La cosa infatti, oltre che non semplice, non è nemmeno naturale come vuole l’illuminismo di scuola. Lo stesso Bevilacqua aveva convenuto che “non è affatto facile portare con sé la bellezza e percepirla in un fiore o in un paesaggio”. E si era interrogato: “È saggio o folle dilapidare le risorse naturali della Terra”? Certamente non è saggio, ma ci vuole una buona dose di stupore.
Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore, Rubbettino, pp. 93 € 5

venerdì 6 giugno 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (208)

Giuseppe Leuzzi

Viaggiando per Reggio Calabria i grandi cantieri dell’ammodernamento si notano più spesso per essere fermi, o lavorare al minimo. La cosa è strana perché ogni giorno di fermo è una perdita grossa di denaro. Ma si spiega: sarà in atto un ricorso al Tar o comunque un contenzioso, che sono entrambi molto più remunerativi che far lavorare i cantieri.

Nel 1921, tutto ciò che oggi viene detto mafia veniva indicato con nome di camorra, a Palermo, a D.H.Lawrence. La mafia era da venire – la mafia onnipresente è degli ultimi cinquant’anni. Sempre nel 1921 i Beati Paoli si rappresentavano a Palermo al teatro dei pupi come i nemici della “camorra”.  Lo scrittore ne riferisce in calce a “Mare e Sardegna” in tutta innocenza. Le storie della mafia sono da rifare – o sono apologie?

Angelo Mellone, “Meridione a rotaia”, tarantino, non ama la Calabria. Lo Ionio si può capire, i treni ci mettono ore invece di minuti, quando passano. Ma non ama neanche il Tirreno. Racconta di un Roma-Reggio di notte in treno che è un suk: “Il bazar organizzato in cuccetta a notte fonda,\ il mercato di favori e scambi”. Non per ripetere, precisa generoso, Albanese, il comico – “pensavo avessero trasportato\ per scherzo\ le caricature di Antonio Albanese”. Ma il Roma-Reggio non passa per Tropea da almeno quarant’anni, quanti sono gli anni di Mellonxe, e non porta cuccette da almeno venti. Anche in questo ritorno di espiazione, la Calabria resta vittima di Albanese, il comico apulo-lombardo.
Sotto l’insegna di Moeller van den Bruck, precisa ancora Mellone. Cioè da destra?

Di Jean Paul, scrittore tedesco ora dimenticato, molto popolare ai primi dell’Ottocento, che superò molti difficili transiti della vita senza perdere l’arguzia e il buonumore, Friedrich Hebbel scrive nei “Diari”, p. 46 (§ 835). “(È strano) che Jean Paul abbia conservato tanto coraggio! Perché era stato da bambino in paradiso, e si trattava per lui semplicemente di riconquistare il paradiso”. La storia è sempre possibile.

La mafia a tavola
Il rapporto annuale del Nucleo Antisofisticazioni dei Carabinieri dà le adulterazioni e le frodi molto diffuse. Riguardano tutti gli alimenti, confermando una sensazione comune, specie i più diffusi, carne, pane, pasta. Soprattutto nei ristoranti ma anche nello spaccio al minuto. E i medicinali: nei primi cinque mesi sono stati sequestrati medicinali “non conformi” per 115 milioni. Un mercato parallelo che il rapporto, però, imputa alla criminalità organizzata, cioè alla mafia siciliana, alla camorra e alla ‘ndrangheta. La sofisticazione alimentare e farmacologica come canale per il riciclaggio, denuncia il rapporto.
Può essere. Tutto può essere riciclaggio. Anche la moda, per dire, e l’abbigliamento, nel lavoro à façon e nella copia, più o meno proibita. Ma è da un lato sottovalutare l’adulterazione dei cibi e dei farmaci e dall’altro, naturalmente, sopravvalutare le mafie. La sofisticazione alimentare è un dato “normale”: esteso cioè e punito, in rari casi, con multe. È un affare enorme, e si fa alla luce del sole, senza bisogno di kalashnikof e di tritolo. Non da mafiosi patentati, ma da decine, centinaia di migliaia di “operatori”.
L’allarme mafia del Nas dei Carabinieri si può intendere come un tentativo di agganciare l’opinione e la politica a un maggiore impegno nella prevenzione e la repressione in questo campo. E invece il rapporto è caduto nel nulla. Il tutto mafia è uno stereotipo che non paga. Una geremiade, una ritualità. E devia lì attenzione dalla mafie vere e proprie.Il solo effetto sarà stato di bollare sul dorso del Sud il big business delle frodi alimentari e sanitarie. 
Anche ammesso che le tre mafie siano dappertutto, sarebbe necessario allora individuarne le controparti. Forse è vero che le mafie hanno riciclato i rifiuti nocivi. Ma non per conto di qualcuno?

Le vie dello scandalo
Le strade e le ferrovie in Italia D.H.Lawrence, che la penisola viaggiò a lungo, trova impressionanti in “Mare e Sardegna”, 129. “La ferrovia costiera in Calabria, verso Reggio, ci farebbe orgogliosi se l’avessimo in Inghilterra”. E commenta: “Qui è una cosa ovvia”. Gli piace anche, sulle strade tortuose, la capacità di guida, “di un grande bus  o di un’automobile” che sia: “Sembra così facile, come se l’uomo fosse parte del mezzo. Non c’è niente di quel bestiale stridìo, spiacevole sensazione che uno ha al nord”.
Il “Corriere della sera” invece, dovendo registrare oggi un atto virtuoso, di un’impresa meridionale, sulla Salerno-Reggio Calabria, la consegna dei lavori in anticipo sulla data convenuta, annega l’evento in una sequela di turpitudini sulla stessa Salerno-Rc. In piena Tangentopoli, miliardaria, a Venezia, Milano e viciniori. Da cui la Salerno-Reggio è invece, malgrado tutto, esente – della grande corruzione, organizzata, sistemica. Giusto le solite bombe minatorie di piccoli malviventi. Ma lì bastavano i Carabinieri.

La Sicilia dei pupi
Termina con l’Opera dei pupi dei Cuticchio (non li nomina, ma ogni indicazione che dà li denota)  “Mare e Sardegna” di D.H.Lawrecnce. Lo scrittore ne dà un riconoscimento sostenuto per una decina di pagine, e un elogio di grande forza persuasiva.
Alcune sere l’Opera dei Pupi si chiudeva con una comica. Tra il Napoletano e il Siciliano. Che sempre esilarava i cinquanta bambinetti, nota Lawrence.

Del Siciliano D.H.Lawrence, che la Sicilia visitò e abitò a più riprese, fa questo ritratto in “Mare e Sardegna”, p. 88: “La parlata siciliana è chiusa e evasiva, come se il Siciliano non volesse parlarvi diretto. Di fatto, non lo fa. È uno stracolto, sensitivo, antico spirito, e ha in mente talmente tanti lati di sé che non ne ha nessuno definito. Ne ha una dozzina, e con difficoltà ne è conscio, e impegnarsi in una qualsiasi di esse è solo fare un trucco su se stesso e il suo interlocutore. … Il Siciliano... è troppo antico e rusé per non essere sofisticato su ogni e qualsiasi fede. Partirà a razzo, e poi si spegnerà acido e scettico anche contro la sua stessa miccia. Si simpatizza con lui in retrospettiva. Ma nella vita quotidiana è insopportabile”.

leuzzi@antiit.eu

Stupidario europeo bis

La lampadina a venti euro. Che si accende di malavoglia

Lo zucchero in bustina al bar

L’olio, l’aceto in bustina

L’olio d’oliva al 4 per cento di olio d’oliva

L’olio extravergine di oliva al venti per cento di olio d’oliva

Il latte senza latte

“Per gli e porri di categoria 1 almeno un terzo della lunghezza totale, o metà della parte ricoperta, deve avere una colorazione bianca oppure bianca tendente al verde”

Per egli e porri precoci “la parte bianca oppure bianca tendente al verde deve costituire almeno un quarto della lunghezza totale oppure un terzo della parte ricoperta”

Lo spazio aereo europeo sottoposto a trentasei organismi diversi di controllo, ognuno con tecniche e procedure diverse.

Le produzioni nazionalizzate. Fabbricate altrove e montate in Italia, in Germania, etc, per poter esibire il made in Italy, made in Germany, etc. A profitto di chi?

Il romanzo dei cattivi gesuiti

Un romanzo. Storico, psicologico, politico, religioso. Pieno di eroine, eroi, senza nemmeno spendere i nomi più prestigiosi, Pascal, lo stesso Racine, e regine, re, cardinali, principi, principesse, cattivi impuniti, e miracoli, la miracolata, la signorina Périer, essendo la nipote di Pascal. E colpi di scena. Che culmina nella guerra ferocissima, subdola, traditrice, che i gesuiti condussero contro Port-Royal, un convento di monache non di altro colpevoli che dell’esercizio della virtù. Cui furono addossate le colpe di Giansenio, non di altro colpevole che di essere – essere stato all’epoca dei fatti – un santo vescovo, devoto della chiesa cattolica romana ma non dei gesuiti. E i gesuiti non gli lasciarono un attimo di respiro, neanche a lui. Le “Lettere provinciali” di Pascal segnano l’aspetto ideologico (teologico) della vicenda, sulle varie forme della grazia divina, che non serve ritracciare. Questa “Breve storia” di Racine ne è il romanzo appassionante. Una narrazione convincente – alla fine si vorrebbero vedere tutti i gesuiti appesi.
Ci fu una guerra civile in Francia nel Seicento. Non solo nel 1652, quella propriamente detta della nobiltà della Fronda contro la corte e la stessa corona. Ma una pervicace, ostinata, e non meno delittuosa, lungo tutto il secolo, di mezza Francia contro i gesuiti, e dei gesuiti contro mezza Francia. Espulsi nel 1595, dopo un attentato al re, rientrati meno di dieci anni dopo, nel 1604, e dominanti a corte, attraverso le buone coscienze dei re, le regine e le mantenute, a cominciare da Enrico IV (il riconvertito di “Parigi val bene una messa”), Luigi XIII e Luigi XIV. Marc Fumaroli li assolve, lo storico dell’arte della Controrifirma (“La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo”): “La modernità gesuita, alla prova in Francia, apparve insieme scioccante e démodée, la fedeltà gesuita a Aristotele, a Cicerone, a san Tommaso sembrò impura ed equivoca. Benché fossero in effetti, per il loro enciclopedismo, gli ultimi frequentatori dell’Antichità vivente, i gesuiti passarono per traditori dell’Antichità. Benché fossero, col loro adattamento alle realtà del mondo del Rinascimento, i primi storici, sociologici ed etnologi del cattolicesimo, furono tenuti per i suoi peggiori reazionari”. Racine non ne censisce che malevolenze e pratiche ignobili.
La Port-Royal di Racine, degli anni di Racine, è Arnauld. La rifondatrice del convento e della nuova regola, madre Angélique, badessa a undici anni, era Arnauld. Sorella del Grande Arnauld, Antoine come il padre e il nonno, filosofo, teologo, devoto al papa, una delle tante vittime dei gesuiti. Reo di essere nipote del legista Antoine, ugonotto riconvertito cattolico dopo la Sant-Berthélémy, 1572, che nel 1594 aveva preparato con un suo sermone l’espulsione l’anno dopo dei gesuiti. La madre del Grande Arnauld, sei delle sue sorelle, Angélique compresa, e sei delle sue nipoti furono monache a Port Royal. Più cinque “solitari”, uomini che si ritiravano nelle vicinanze: Antoine stesso, un fratello e tre nipoti.
Scritto vent’anni prima della morte, dopo “Fedra” e la nomina a storico di corte, ma non pubblicato né rielaborato, il testo risente di qualche ripetizione. Ma lo sdegno resta sempre vivo, pari alla scrittura. Racine chiederà di essere sepolto a Port-Royal, dov’era stato cresciuto, forse per scongiurare le profanazioni e distruzioni a cui i gesuiti convinceranno poco dopo la sua morte il suo amato re Luigi XIV. Non si saprebbe sottovalutare quel conflitto, apparentemente così remoto dalla nostra sensibilità, e forse da quella degli stessi gesuiti. Uno dei primi perni della campagna gesuitica fu la denuncia di un “complotto di Giansenio” nel 1621, con alcuni congregati, tra cui l’abate de Saint-Cyran, confessore di Port-Royal. Le ottime annotazioni che corredano questa edizione dicono che il complotto non ci fu, ci fu solo un incontro di Giansenio e Saint-Cyran. I quali però si vollero incontrare per concordare un codice segreto con cui scriversi
Giulia Oskian, che ha ripescato e illustra la “Breve storia”, ne mette in rilievo il “nitore pittorico”. La sobrietà, specie a petto del gigantesco Port-Royal di Sainte-Beuve. E naturalmente l’istinto drammatico, anche in questo testo ritenuto minore di Racine. Ma c’è di più: il talento narrativo, l’onestà intellettuale. Racine non è un bigotto. Litiga non solo coi gesuiti, anche con Pierre Nicole, il filosofo “solitario” alter ego del suo divo Arnauld a Port-Royal nel lungo esilio di questi – salvo poi riconciliarsi in punto di morte col convento. È uomo di corte ma non si nasconde. Non sul beghinaggio della regina madre. O sui colpi di teatro di cui Richelieu si compiaceva. Mentre il cardinale de Retz, il capo in disgrazia della Fronda, fa “teologo profondissimo”. Senza timore di dire i torti del suo re, Luigi XIV, il soppressore di Port-Royal. La “Breve storia” termina con Luigi XIV, difensore e capo del gallicanesimo contro l’oltremontanismo, l’obbedienza cieca al papa anche in questioni non di fede, che chiede al papa di mettere in riga i vescovi francesi.
Jean Racine, Breve storia di Port–Royal, Edizoni della Normale, pp. 226 € 10

Lo scasso

Mai tassi così bassi
E tasse nelle casse
Con le masse all’osso

giovedì 5 giugno 2014

Problemi di base -185

spock

Craxi no Renzi sì, le idee maturano in trent’anni?

Abbiamo fatto la rivoluzione in Ucraina per un oligarca?

Anche in Egitto, abbiamo fatto la rivoluzione per un generale, un altro, dopo il tiranno che abbiamo abbattuto?

Sarà la democrazia cieca, da quelle parti, come la civetta?

Ci salverà Walesa, di nuovo?

Conta più Beccaria, in Italia, o l’Inquisizione?

Ma Beccaria, chi è?

Nelle storie dell’impero romano Cristo non c’è: una svista?

Dio è morto, oppure l’uomo?

spock@antiit.eu

Montalbano sconfigge la pioggia

Un dettaglio è falso: il pescespada d’inverno. Il resto fila goloso alla Montalbano – “nuttata persa e figlia fìmmina”. Anche se lui si vuole vecchio, duro di udito, con vuoti di memoria, infine sentimentale, con la “fidanzata” lontana. Con una chicca: la chiave è Rosebud, boccio di rosa, la parola magica che Citizen Kane-Orson Welles dice morendo – il nome che dava allo slittino sulla neve nei primi, felici, suoi anni. E una novità: Vigata sotto il fango e la pioggia, per giorni e settimane.
Camilleri si è voluto sganciare dalla solarità del regista Sironi che fissa il monumento – al punto da chiedersi: “Ma era veramente esistita da quelle parti la terra dei limoni (e macari dell’aranci)? O era stata ‘na fantasia poetica?”. Il camilleresco è anch’esso più duro, artificioso. E tuttavia il personaggio s’impone, con la Sicilia qual è, raggiratrice, apparato repressivo compreso, giudici e commissari di Polizia. Come a dire: a raggiratore raggiratore e mezzo – la legge non c’entra.
Andrea Camilleri, La piramide di fango, Sellerio, pp. 263 € 14

Stupidario filosofico

“Propendo a ritenere i negri, e in generale tutte le altre specie di uomini (perché ce ne sono quattro o cinque di specie differente), di essere naturalmente inferiori a bianchi. Non c’è mai stata una nazione civilizzata di un colore altro che bianco, né alcun individuo eminente per imprese o riflessioni. Niente imprenditori ingegnosi tra di loro, niente arti, niente scienze”. (David Hume, nota in calce all’edizione 1753-1754 del saggio “Sui caratteri nazionali”, uno degli “Essays and Treatises on Several Subjects”.)

Propendo a ritenere i negri naturalmente inferiori ai bianchi. Raramente c’è stata una nazione civilizzata di quel colore, o un individuo eminente per imprese o riflessioni (id, rifacimento della nota nell’edizione 1777).

«L’Africa (…) non interessa dal punto di vista della sua propria storia, ma per il fatto che vi vediamo l’uomo in quello stato di barbarie e di selvaticità, in cui esso non costituisce ancora un principio integrante per la genesi della civiltà…….
 “Ciò che caratterizza l’indole del negro è la sfrenatezza. Questa loro condizione non è suscettibile di alcuno sviluppo o educazione: così come li vediamo oggi sono sempre stati. Nell’immensa energia dell’arbitrio sensibile che li domina, il momento morale non ha alcun rilievo. Chi vuol conoscere manifestazioni spaventose delle nature umane può trovarle in Africa. Le più antiche notizie su questa parte del mondo dicono lo stesso. Essa non ha dunque propriamente una storia”. (G.F. Hegel, “Lezioni sulla filosofia della storia”, vol. primo).

“Perfino la natura ha la sua storia. Ma allora anche i negri hanno storia. O la natura non ha storia? Può certo sparire nel passato, ma non è che tutto quello che trapassa entra nella storia. Quando l’elica di un aeroplano gira, niente “succede” per questo. Se invece l’aereo porta effettivamente il Führer da Monaco a Venezia, da Mussolini, allora accade la Storia” (geschieht Geschichte, n.d.r., ma non è un gioco di parole): “E l’aeroplano stesso entra nella storia, e forse sarà un giorno preservato in un museo. Il carattere storico dell’aeroplano non dipende dal giro dell’elica, ma da che cosa in futuro sorgerà da questo incontro” (M. Heidegger, “Logica”, 1934, semestre estivo, negli appunti di Wilhelm Hallwachs e Helene Weiß , 11-12  - GA, 38, p. 83)

“In questo stadio lungamente intermittente la musica di un night-club vicino, che mi seguiva, giocò un ruolo straordinario. Fu strano che il mio orecchio s’impuntasse a non riconoscere “Valencia” per “Valencia”…. E quando scoprii alcune figure letterarie (gli amici Gustav Glück e Erich Unger, n.d.r.) nuovamente a un tavolo vicino, da Basso, mi dissi che avevo finalmente trovato a che cosa serve la letteratura. Ma non c’erano solo figure familiari. Qui, sul palco della più profonda fantasticheria due figure – filistei, vagabondi, chissà – mi passarono davanti come «Dante e Petrarca». «Tutti gli uomini sono fratelli»” (W.Benjamin, “Sull’hashish”,  Protocollo IV, 28 settembre 1928, sabato, Marsiglia). 

mercoledì 4 giugno 2014

Sarkozy o della stupidità al potere

Dunque, ha inguaiato Platini, oltre che l’Italia. Uno simpatico a tutti, non solo agli juventini. Senza protervia, con naturalezza: Sarkozy è stato artefice di innumeri disastri, per l’Italia, la Francia, l’Europa, le sue mogli, con naturalezza – in Italia scontiamo ancora la recessione e la guerra alla Libia. Si sapeva, già da quando faceva lo Stanlio con la cancelliera Merkel: una sera i giornalisti francesi scoprirono che la sua morigerata comprimaria se la rideva a scroscio al bar coi suoi assistenti della sua dabbenaggine. Ma nello scandalo del Mondiale al Qatar si è superato.

Può darsi che all’uomo siano legate proprietà malefiche, suo malgrado. Si spiegherebbe così la fuga, senza remissioni, delle sue mogli, contro ogni lusinga del potere e della ricchezza. All’ultima, l’inebetita Bruni, ha perfino imposto di figliare, per guadagnare un paio di settimane d’immagine. Ma con più probabilità l’uomo impersona la forza della stupidità. Della capacità incontornabile di fare il male. 

Recessione – 21

Tutto quello che bisognerebbe sapere e non si dice:
Produzione industriale ancora in calo nei primi due mesi del secondo trimestre. Anche nel secondo trimestre l’economia dovrebbe risultare in recessione.

Dopo il voto europeo, l’Istat si strappa la maschera e rivela che i disoccupati nel primo trimestre erano il 13,6 per cento della forza lavoro, non il 12 virgola di prima delle elezioni.

Sei milioni di senza lavoro, su una forza lavoro di 19 milioni di adulti 15-64 anni, conta l’Istat: tre milioni di perdenti posto e tre milioni di giovani inoccupati. Su una forza lavoro di 19 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni.

In sette anni i redditi delle famiglie si sono ridotti di un decimo, la produzione industriale di un quarto. Il presidente della Banca d’Italia Visco li dettaglia, ma i media non ne riferiscono.

Gli investimenti si sono anch’essi contratti di un quarto. La parte degli investimenti sul prodotto interno lordo è ai livelli del 1945, finita la guerra.

Il silenzio dell’amore e altre passioni

“Il silenzio non  esiste in natura”, esordisce il poeta milanese. Nella natura animata no, in quella inanimata per la verità non lo sappiamo. Non ci siamo posti il problema, il transumanismo ora ce lo potrà risolvere – il fisico de Gennes premio Nobel ha cercato a lungo le origini dei linguaggi parlati, dei suoni, nei fossili e non ce le ha trovate.  L’etimologia non aiuta, le sibilanti della parola neppure, sono rumorose.
Franco Loi ne sfiora la natura nell’amore – “il confine fra il dire e il tacere nell’empito dell’emozione”. L’amore, si può aggiungere, che più è sentito quanto più è taciuto, a parole, compresso e non disperso – quanto della banalizzazione oggi dell’amore non va con la banalizzazione del detto, per cui tutti sono tesori e amorucci (ci voleva un Pascal per dirlo, un quasi prete: “In amore un silenzio vale più di ogni altro discorso”). E poi procede per tentativi. Nella memoria, specie nella “diaristica o i memoriali della vecchiaia” - ma purtroppo non solo di quella: lo stesso Loi ha ricordi di quando aveva sei-sette mesi. Nella paura. Nel sogno. Nell’ascolto, che i papi hanno rimesso in circolo – sarà questa l’epoca della distrazione? Nella ricerca del nulla, “da Budda a Nietzsche” – la ricerca del nulla, c’è anche questa filosofia. Con nove notevolissime poesie inedite.
Franco Loi, Il silenzio, Mimesis, pp. 60 € 4,90


Milano fa ancora paura

Messa ai margini della politica nazionale dal voto domenica, dopo venticinque anni di signoraggio, e in perdita di richiami sui mercati finanziari, Milano fa ancora paura con a sua Procura. Dovendone condannare la gestione, il Csm, il basso ventre del sottogoverno, si astiene. Il supremo consesso dei giudici, che Napolitano presiede, ha scelto di lasciare le cose come stanno.
Tra Robledo e Bruti Liberati la partita è stata triplice. Contro lo strapotere di “Napoli” a Milano. Contro lo strapotere di Magistratura Democratica, gli ex Pci, nelle Procure. E anche, perché no, contro l’arbitrio, le Procure-caserme che un Parlamento tramortito ha votato: il Procuratore Capo è il colonnello comandante, lui ordina e gli altri obbediscono, l’autonomia del giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale la stessa legge ha dichiarato bufale.

Più paura fa la giustizia

Più che Milano fa paura la “legge”, questa giustizia. Il modo di concepirla e il suo ordinamento. Lo stesso giorno in cui il Csm ha preannunciato la sua astensione, un Tribunale ha condonato la pena a un generale dei Carabinieri perché il poveretto, in vent’anni di processo, aveva già “scontato la sua pena”. Roba da non credere: non si vorrebbe considerare i giudici iniqui a tal punto. 
E tuttavia non c’è via di fuga. I giudici sono un apparato fascista, dagli ermellini alle eccellenze, ai privilegi, alle impunità. Sono legati al sottogoverno, ne sono anzi la peggiore specie: litigiosa, avida. Guadagnano troppo, e non vogliono limiti. Sono neghittosi: lavorano poco o niente, e di preferenza male. Alcuni di loro lavorano, ma la maggioranza no. Si sono appropriati la giustizia, e da questo punto di forza presiedono alle peggiori turpitudini: scandali a senso unico, indagini, denunce e sentenze politiche, corruzioni scoperte non denunciate e abbuonate, favoritismi in carriera, ritardi, inadempienze. Autori o paraninfi delle vicende più nere dell’Italia, da Piazza Fontana a Paolo Baffi, Mani Pulite e la corruzione dilagante.

Privatizzazioni, il gioco dei furbi

Dunque, per Bruxelles le riforme sono una: le privatizzazioni. Il famoso scrutinio europeo che l’Italia attendeva è arrivato con una chiara indicazione: vendere. Finora chiamate liberalizzazioni, per un’infarinatura di bon ton, ora che siamo liberalizzati, soggetti cioè della petulanza quotidiana di ogni operatore del telefono, della luce, del gas, con offerte bugiarde, la cosa si chiama col suo nome: vendere le aziende pubbliche. Anzi ogni patrimonio pubblico, boschi, spiagge, le acque dolci, coi monumenti e l’aria, perché no. Venderli subito, senza stare a fare il prezzo, l’Europa è ultimativa.
La vendita non risolve il debito, questo è risaputo. Le vendite di Ciampi e Draghi vent’anni fa non hanno risolto niente. E hanno anzi provocato grossi danni, alle banche ex Iri e a Telecom Italia soprattutto – mentre le aziende rimaste sotto il controllo pubblico sono floridissime, Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Saipem, perfino Fincantieri. Anche alla Grecia ultimamente Bruxelles ha imposto di vendere, promettendo entrate per 60 miliardi in tre anni: sono assommate a 2,6 miliardi. Un gioco dei furbi, peraltro scoperto.
Una Europa che si raccomanda in questi termini si penserebbe abbia raggiunto il fondo. Ma Bruxelles non si vergogna: ha finalmente una constituency chiara, e non se ne vergogna. Certa dell’impunità. Ci chiedevamo a chi rispondessero Barroso, Van Rompuy, Olli Rehn e i loro compari. Ma alle banche d’affari e ai fondi d’investimento. Ecco perché tanta impunità, questa Europa naviga sull’oro.

martedì 3 giugno 2014

A Farage il voto anglo-asiatico

Come già Bossi anche Farage, se è razzista, farà bene a convertirsi. Bossi, che partì sparato contro i meridionali a Milano, poi ne risultò il più votato. Per Farage ha votato in massa, facendo la differenza,  il piccolo commercio. Cioè gli “anglo-indiani”, pakistani e bengalesi compresi: sono quelli che di più temono la nuova immigrazione.
L’Ukip di Farage è diventato il primo partito in Gran Bretagna agitando il timore dell’immigrazione indiscriminata che la Ue sta per aprire dai Balcani. Non ci sono risorse da investire in nuova immigrazione, questi gli argomenti. E scuola, sanità, previdenza, i servizi pubblici essenziali, sono già sotto stress con la popolazione esistente. Ma Farage ha fatto breccia soprattutto sul piccolo commercio al dettaglio, oltre che sulla manovalanza sparsa - che nel Regno Unito non è vasta, e non comunque inglese-inglese – e sui disoccupati.
Su una popolazione britannica di 55 milioni, un 12 per cento è di nuova immigrazione, nata all’estero. Valutando a un 8 per cento i nati nel Regno Unito figli o nipoti di immigrati nati fuori, la popolazione britannica di immigrazione recente, nell’ultimo cinquantennio, è il 20 per cento del totale, 11 milioni. Otto di questi vengono da fuori Europa. Sono loro il bacino elettorale di Farage. Minacciati dall’apertura totale delle frontiere agli europei, ai più poveri tra di essi.

Rock neolitico

Riparte il rock a Roma
Con i Queens di Stone Age
E a seguire i Rolling Stones
Il rock non si rottama
Dall’età della pietra

Ed ecco a voi la Mafia Republic

Mancava e quindi eccola, la Repubblica mafiosa. La cattiva azione che mancava. Sì, ambigua, “mafia republic” si può intendere, per carità, Dickie così la intende, come la ragnatela mafiosa. Ma l’allusione è chiara, chiarissima, su di essa l’autore, i recensori entusiasti, l’editore speculano. E per questo il libro si fa leggere. Sì, è “divertente”, come assicurano le autorità britanniche che illustrano il risvolto, ma quante “narrazioni” non abbiamo avuto e non abbiamo su Cutolo, Casal di Principe, Lima, Ciancimino, Riina, e compari. Mancava giusto la Repubblica di mafia.
Alla fine della lettura resta poco, come di tutte le storie della criminalità, peggio della pornografia. Non più della lettura del giornale. “Le mafie e la Repubblica sono cresciute insieme”. Ovvio, tutto cresce, è di questi profondismi che Dickie ci nutre. Il problema sarebbe che non sono cresciuti i Carabinieri. Perché la proprietà è un furto. E perché fare la ronda è sempre meglio che lavorare, distende i nervi, oppure “controllare il territorio” (multare gli onesti). Ma di queste cose, che pure tutti vedono, non c’è traccia nella apocalisse dickiana.
L’editore si fa scudo nel blurb di autorevoli firme britanniche: gli italiani si lamentano dello stereotipo? ma “il problema vero è che lo stereotipo è corretto”. E quindi mettiamo anche l’editore, già illustre, in questa “Repubblica”? L’editore dirà che lui non c’entra, naturalmente, ma si può fare eccezione solo per lui? Mettere insieme tanti crimini senza nient’altro equivale ad assimilare un paese ai suoi crimini. Certo, successo chiama successo, e l’editore esiste per vendere i libri. Ma con qualche limite - non è, si penserebbe, un circo. 
Dickie, che si era segnalato quindici anni fa a Napoli con “Darkest Italy”, uno studio sulla nascita dello stereotipo (anti)meridionale nell’Italia di fine Ottocento, mai ripubblicato e nemmeno tradotto, da qualche tempo si diverte a spese dell’Italia che insegna, da reporter aggiornato – cucina? cucina, terremoto? terremoto, mafia? mafia. Con una notevolissima bibliografia, bisogna dire, da grande lettore. Che non lo esenta dagli errori della fretta e della compilazione: la Salerno-Reggio Calabria, su cui raccoglie in poche righe alla pagina 112 una ventina di turpitudini, dice in costruzione da 50 anni, il questore Marzano a Reggio Calabria, di cui di cui è l’unico ad avere una buona opinione, sposta all’autunno del 1954 invece dell’estate, la missione riducendone e 54 giorni, Angelo Macrì dice “originario di Brooklyn”, etc. Di penna facile, alla Montanelli, è altrettanto superficiale. Uno dei tanti che sfruttano il provincialismo italiano. Qui recidiva, riscrivendo “Onorate Società”” di due anni fa. Ma che c’entriamo noi? Lettori, italiani, meridionali, antimafiosi genetici.
John Dickie, Mafia Republic, Laterza, pp. 532 € 24

L’euro corda dell’impiccato - 2

Non si analizzano le origini, che pure sono solide, del voto anti-euro di domenica 25. Ne diamo i fondamentali come “Gentile Germania” li aveva tratteggiati, 2da parte:
 “L’euro, spiega de Grauwe, cambia la natura della sovranità monetaria dei paesi membri, per il semplice fatto che essi non hanno nessun controllo sulla “loro” moneta. Meglio: sottrae loro la sovranità monetaria, senza proteggerli con l’euro. Essi sono quindi preda ideale, indifendibile cioè, della speculazione. Sono “degradati allo status di economie in via di sviluppo”, scriverà de Grauwe nel 2011 – era il caso dell’Italia. È reso inoltre impossibile “l’uso degli stabilizzatori automatici in caso di recessione” – di nuovo l’Italia. La crisi dei debiti pubblici europei è scoppiata non a causa dei fondamentali (livello del debito, solvibilità) ma per la carenza di liquidità indotta dalla Bce. Questo non succede negli Usa: la Federal Reserve sempre sostiene il debito, da ultimo nella crisi bancaria del 2007.
“L’analisi di De Grauwe è confermata dai fatti: 1) sono stati i dirigenti della Bundesbank, Stark, Weber e Weidmann, a impedire e contrastare l’azione della Bce, col blocco del consiglio direttivo della Banca e con dichiarazioni minatorie – Weber e Weidmann sono pure consiglieri ascoltati di Angela Merkel; 2) il governo Merkel ha voluto che la crisi greca - bancaria e debitoria - scoppiasse, e in modo da impedirne il risanamento. Ha imposto alla Grecia il rientro immediato dal debito, e insie-me la recessione e la disintegrazione dell’amministrazione statale, che il debito avrebbe dovuto gestire. Mentre mobilitava in chiave sciovinista l’opinione pubblica e influenti centri di potere, la Bundesbank, la Deutsche Bank, Volkswagen, l’Ifo di Mo-naco, Istituto per la congiuntura, il settimanale Der Spiegel.
“Il “modello greco”, benché i suoi effetti nocivi fossero già noti, il governo Merkel ha voluto quindi applicato al Portogallo e alla Spagna. Che non hanno un debito elevato ma banche deboli. E per due anni ha applicato all’Italia, che ha banche solide ma un debito elevato. È lo schema degli Orazi e Curiazi, ma inventato non è: è così che gli eventi si sono svolti. Allo scoperto, la Germania come sempre non si è nascosta, piena di buone ragioni come sempre lo è stata in passato”.

lunedì 2 giugno 2014

E l’onorabilità dei giudici?

“Hanno fatto bene i fondi a votare contro questa clausola di onorabilità”, dice a Napoletano Enrico Baffi, figlio di Paolo Baffi, l’onesto governatore della Banca d’Italia vittima dei giudici, per dieci anni fino alla morte, e vittima lui stesso della tortura del padre: “Occorre riflettere e molto su questi temi in un Paese come l’Italia”.
La giustizia non è semplice. Ma in Italia è chiara: per prima bisognerebbe introdurre una clausola di onorabilità dei giudici. In ogni loro ordine e grado, a partire dal loro Consiglio Superiore della magistratura, sentina di tutti i vizi, dalla lottizzazione all’interesse privato in atto pubblico: permalosi, litigiosi, avventurieri, e troppo spesso corrotti nel senso più volgare: un posto, una pensione, una consulenza, la carriera del figlio, la figlia, la nipote. Ma facili all’arresto, dove si va sui giornali – chi vive in zone di mafia conosce bene questa distropia.
“Tra le società partecipate dal Tesoro”, scrive “Il Sole 24 Ore”, “solo l’Enel ha approvato la clausola voluta dall’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che prevede l’ineleggibilità e la decadenza per giusta causa a seguito di una condanna, anche se non definitiva, o anche della richiesta di rinvio a giudizio per una serie di reati amministrativi, fiscali e finanziari”. L’ultimo (?) guasto dei tecnici, così ottimi, così intelligenti?

Marchionne vs. Merkel - 2

C’è una partita Marchionne-Merkel (che questo sito - roba da non credere - ha lesclusiva di avere segnalato, un mese fa, http://www.antiit.com/2014/05/marchionne-vs-merkel.html ) che data dal 2008, quando il governo tedesco nemmeno aprì la pratica Fiat per il salvataggio della Opel. L’Europa funziona così, e non c’è scandalo – solo in Italia si dice e si fa pensare che “siamo tutti europei”, cioè pecoroni. Ma non è questa la partita in gioco: Fiat-Chrysler vuole entrare nei segmenti alti del mercato dell’auto, quelli presidiati nel mondo dalle case tedesche, e questa sì, è una partita: la Germania non può impedirla e anzi la teme, malgrado le ironie dei suoi giornalisti.
Lo stesso Marchionne a Trento ha voluto fare il tedesco: faremo in cinque anni, ha detto, un modello Alfa Romeo più bello e conveniente di ogni modello Bmw. La partita è tutta da giocare. E quindi è possibile – come i giornalisti targati Volkswagen insinuaono – che Marchionne bluffi. Ma l’ad di Fiat-Chrysler ha con sé un fatto: ha reso la Chrysler in pochi mesi un gioiello che la Mercedes in dieci anni aveva ridotto al fallimento, depauperandola di ogni tecnologia. E ha dalla sua anche il quadro d’assieme: l’immagine del buon prodotto tedesco non è comprovata perché non è mai stata contestata – non è stata vista, volendo restare al poker. Volkswagen per esempio paga dividendi e premi di produzione stratosferici pur producendo e vendendo, come tutti, in perdita in Europa – cioè per metà della sua produzione globale, Cina e Brasile compresi. Nei bilanci Volkswagen non ci poté guardare neanche Monti, quando era commissario alla Concorrenza a Bruxelles - senza scandalo.

La rovina dell’Avvocato Agnelli

I dieci anni di Marchionne alla Fiat riscrivono, con la storia del gruppo automobilistico, quella dell’Avvocato Agnelli. Soprattutto di quest’ultimo, anche se la sua immagine di Miglior Italiano sembra inscalfibile.
L’Avvocato era spiritoso, intelligente, ben introdotto all’estero, e simpatico. Ma ha rovinato la Fiat: nei suoi quarant’anni, senza modelli, senza investimento, il quarto gruppo automobilistico mondiale, dietro i tre americani, si era ridotto al fallimento.
L’Avvocato impersonava anche un capitalismo che, sotto le apparenze della onorabilità, viveva di espedienti e contributi. Scelse come suo alter ego Romiti, a preferenza di ogni altro, magari esperto di automobili, proprio per questo. Ogni anno l’Avvocato e Romiti “facevano” il bilancio: compravano, vendevano questo o quel pezzo del gruppo, e in qualche modo pagavano il dividendo alla grande famiglia. Questa era la loro “impresa”. Col plauso e con la regia di Cuccia, l’altro padre nobile del capitale italiano del secondo Novecento, che aveva voluto Romiti e Torino e a cui Romiti faceva capo.
Non solo la Fiat, tutta l’industria dell’auto italiana Agnelli, Romiti e Cuccia ridussero a niente o poco più. Vollero il monopolio dell’industria dell’auto, e di quella che era nel 1964 la prima industria metalmeccanica europea ne fecero una residuale. Chi frequenta la Formula 1 ne ha la misura a ogni gara: si parla italiano ai box un tempo, e inglese, ma meno, ora solo alla Ferrari, e non sempre. 

Alice maestra di Pasolini

Una serie di immagini tutte in vario modo memorabili, anche il semplice taglio dei visi. Una regia inconsueta nel cinema italiano, che ha inondato di lirismi l’immaginario dei critici. Ma su un soggetto ben storicizzato: una famiglia-comune di fricchettoni, residuo degli anni 1970, non più fumati e anzi convertiti al lavoro sui campi, ecocosciente, piena di figlie, che s’incontra col mondo nuovo, se possibile più povero e più cialtrone, della televisione commerciale. Per il resto avulso dal contesto: niente scuole, maestri, vicini, paesi. Solo il lago Trasimeno, che il fango, la fatica, i sudori di queste “Meraviglie” addolcisce.
Un’utopia-distopia, come tutte le utopie abortite, seppure proiettata nel passato. Con alcunché di storico, e forse di autobiografico – il proprio padre della regista, tedesco, è stato apicoltore transumante. Una forte caratterizzazione, che apparenta “Le meraviglie” a Pasolini. Al filone “povero” del suo cinema e forse il suo più innovativo e gravido: “La Ricotta”, “Uccellacci e uccellini”, lo stesso “Vangelo”. In tutti i suoi linguaggi: la parola, la psicologia, l’immagine. Non un calco, però, né un prodotto di scuola, ma una lezione felice (riuscita), un esercizio di maestria.
Alice Rohrwacher, Le meraviglie

Il silenzio della musica

Il silenzio è “la materia prima” della musica. È così, il semplice ascoltatore l’avverte: la pausa, il “tempo debole” della battuta, ne stabilisce in realtà la scansione. Brunello, violoncellista eccellente, ne è anche innamorato: si produce nelle Dolomiti trentine in concerti d’altura, col piacere di trascinarsi su personalmente l’ingombrante strumento, o nel deserto, per provare “cosa vuol dire attraversare il silenzio con il suono”.  Col silenzio “verticale” in montagna, “orizzontale” nel deserto: “La dimensione orizzontale del silenzio nel deserto ha il potere di trascinare dentro l’esperienza del tempo reale”. Il tempo reale essendo quello “in cui il silenzio esiste in natura”. Il “silenzio nella musica”, indefinibile, accostando all’infinitamente grande (il “grande silenzio” nel quale è immerso “lo spazio vuoto del cosmo tra pianeti, stelle, galassie”) e all’infinitamente piccolo, del mondo atomico e subatomico.
Ma lo stesso silenzio Brunello dice anche “parola controtempo”. Come quello che “sta fuori del tempo, fuori del suo gioco, fuori dal sopravvenire del tempo”. E questo già non è più vero. “Il silenzio non ci appartiene”, aggiunge. Come no? “Il silenzio è della musica, della natura, delle cose”. Ma prima è dell’uomo. Dell’uomo anzi è il proprio, non c’è senza.
Lo stesso Brunello del resto lo dice a proposito di Bach. Il silenzio non c’è in Bach mentre è organico alla musica “complessa”, contemporanea – “un silenzio pieno di suoni”, questo invece non è bello. La “scrittura densa” di Bach “sembra non dare spazio a pause e silenzi”. Ma c’è un silenzio all’inizio, nell’aprire la pagina. E ce ne sarà uno alla fine, nel voltare pagina. Nonché per “la  famosa definizione della musica” di Leibniz che Brunello cita: “La musica è una pratica occulta dell’aritmetica, dove lo spirito non sa di calcolare”.

La memoria del resto si legge per le affascinanti letture che Brunello dà del silenzio nei musicisti “classici”, Mozart, Beethoven, Schubert. Nonché nello stesso Bach, negli adattamenti che la sua scarna notazione impone – Bach avrebbe detto o scritto che “la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che sta fuori”, una cosa non bachiana, essendo l’uomo di fede costante e non opportunista, ma ben detta. 
Mario Brunello, Silenzio, Il Mulino, pp. 119 € 11

L’euro corda dell’impiccato

Non si analizzano le origini, che pure sono solide, del voto anti-euro di domenica 25. Ne diamo i fondamentali come “Gentile Germania” li aveva tratteggiati:
“Fra le asimmetrie dell’euro, rispetto a ogni altra esperienza monetaria, c’è che nella forma del debito la moneta resta nazionale: il debito si finanzia in rapporto agli altri debiti della sua area monetaria. Il debito italiano non si finanzia in rapporto all’ammontare, la solvibilità e i collaterali che offre, non soltanto né soprattutto: si finanzia in rapporto alle garanzie patrimoniali e di solvibilità che gli altri debiti in euro offrono. Ma non in modo indolore: chi investe sul titolo più solido può puntare agevolmente a guadagnare anche indebolendo il più debole.
“È la differenza che lo spread misura, il differenziale di rendimento del Btp, nel caso italiano, rispetto all’analogo titolo a lungo termine tedesco, il Bund, all’interno dello stesso sist-ma monetario. Era di trenta-quaranta punti ancora nel 2004, minimo, a tre anni dall’euro, quanto bastava a riflettere la diversa incidenza del debito sul pil, uno dei “fondamentali”. Quell’anno lo Hartz IV, l’insieme di accordi sindacali e decreti per la compressione salariale e la liberalizzazione del lavoro, messo in opera dal governo Schröder, socialista, ha dato alla Germania un vantaggio comparato. Che il governo Merkel, conservatore, a partire dal 2008 ha sfruttato in termini competitivi, a danno cioè degli altri paesi dell’euro. Favorendo con dichiarazioni e diktat la moltiplicazione dello spread – la sfiducia relativa. E, di fatto, impedendo loro le politiche di risanamento che ne pretendeva, analoghe allo Hartz IV. Questo è il punto.
“I fatti sono incontestati: 1) non è possibile nessuna riforma del lavoro durante una recessione, e una così grave quale è quella indotta in Italia nel 2012-2013; 2) la recessione è stata indotta dalle politiche di austerità, 3) la crisi del debito di molti paesi è stata indotta dalla carenza di liquidità. La Bce, sia nella gestione Trichet che in quella poi di Draghi, avrebbe voluto iniettare liquidità, ma la Bundesbank prima l’ha impedito e poi ha limitato gli interventi. È questa l’analisi d’un solo esperto fra i tanti, Paul de Grauwe, un economista di Lovanio ora alla London School of Economics, che però non si contesta.
(continua)

domenica 1 giugno 2014

Il mondo com'è (175)

astolfo

Antisemitismo – Considerarlo un crimine è un crimine. Sembra un paradosso ma Orwell lo argomenta con proprietà, nella critica al saggio di Sartre, “Riflessioni sulla questione ebraica”, 1946. Tradotto in inglese col titolo “Portrait of the Antisemite”, questo in effetti il saggio è: una definizione dell’antisemita. E questo, nota Orwell, è il modo di pensare che “fonda” l’antisemitismo: “«L’Antisemita», Sartre sembra costantemente implicare, è sempre lo stesso tipo d’individuo, riconoscibile a prima vista e, se si può dire, perpetuamente all’opera”. Come “l’Operaio”, “il Borghese”, o “l’Ebreo (“«l’Ebreo» non è, anche lui, che una di questa varietà di insetti, e si potrebbe, sembra, riconoscerlo alla sua stessa apparenza”). Mentre, “se poco poco si studia la questione, si vedrà subito che l’antisemitismo è diffuso largamente, che non è limitato a nessuna classe in particolare, e soprattutto, con l’eccezione di alcuni casi estremi, è quasi sempre intermittente”.  
“Il problema è che, finché l’antisemitismo sarà considerato semplicemente come una sinistra aberrazione, quasi come un crimine, ogni individuo abbastanza istruito per averne sentito il nome pretenderà naturalmente di esserne esente”.

Bamboccioni – Sono i figli del Sessantotto – il loro dato più certo non è rilevato. Sovrastati da un’utopia che fu solo una felice congiuntura economica. Rifiutano la politica proprio dove tutto è politica, all’università, nella sanità, nella ricerca, nei media. Vittime di una purezza che è meno di un auspicio. Il testimone non è mai passato a loro. Non si sono presi l’università, per esempio, né la sanità, la ricerca, i media… Soprattutto non si sono presi la politica: la meteora di Letta è indicativa, il passaggio si fa dai settantenni ai trentenni.

I precari a vita sono i figli di quelli del Sessantotto. Di un’utopia che di dilettava del rifiuto del lavoro (dell’“integrazione”) perché il lavoro comunque era assicurato. Insieme con le pensioni, e un ottimo sistema sanitario nazionale. Ora che il lavoro “non c’è” – ma non “c’era” nemmeno prima per la verità, il lavoro si crea, non c’è - e l’ombrello previdenziale e assistenziale si è ridotto, gli stessi genitori sono propensi alla depressione.

Elite – L’unica cosa che resiste in Italia, nel terremoto che da un quarto di scolo travaglia la politica. Il sovvertimento non avviene per impulsi e con obiettivi democratici, ma tra grupi di potere. Al coperto di dubbi scudi mediatici, di banchieri e affaristi. L’opinione pubblica è palesemente prigioniera di questi gruppi d’interesse, che si possono annettere senza riserve la presunzione di rettitudine, capacità, intraprendenza, e grande intelligenza ovviamente, culturale e perfino filosofica – essendo la filosofia politica ridotta al giornalismo. Dei belli-e-buoni della Repubblica, che altrove, ormai da una dozzina d’anni, fanno invece professione di umiltà, in Germania soprattutto ma anche in Francia, di fronte alla rivolta dell’opinione pubblica. L’Italia si professa, nei media di queste élites, il laboratorio delle innovazioni politiche dell’Europa, ma allora nel senso del Grande Fratello o del “Truman Show”.

Internet – Subisce da qualche tempo una riflessione critica del tutto negativa. L’incredulità è connessa alle grandi scoperte: l’incertezza, la messa in dubbio. È anche un movimento di bascula che sempre col nuovo si ripropone: c’è entusiasmo, apertura di frontiere, orizzonti illimitati, e poi ripensamenti, delusioni. Per la rete è diverso perché gli interrogativi vengono dai suoi adepti: “Wired”, Giuliano Santoro, “Cervelli sconnessi”, Nicholas Carr, “Internet ci rende stupidi”, Lovink Geert, “Zero Comments”, “Internet non è un paradiso”, “Ossessioni collettive”, Dave Eggers, “The Circle”, Tyler Cowen, “Average is over”,  Jaron Lanier, il guru non disilluso ma limitativo.

Populismo – È difficile gabellare di populista l’elettorato inglese, e quindi Farage e la sua Ukip. Di euroscettico, sì, ma pieno di argomenti. Che nessuno si preoccupa di disinnescare. Anche il Front National non si può mettere da parte in Francia come fascista. Dopo la crisi economica, e la recessione che ancora imperversa in Italia, su indirizzo peraltro e anzi volontà della Ue, la crisi politica? O Syriza, il partito di sinistra greco, o Podemos, il movimento di sinistra spagnolo - oltre ai movimenti di destra in Grecia, in Germania e in Italia, con la Lega e lo stesso Grillo. Sarà un semestre durissimo per Renzi. Troppe mummie, non morte, anzi velenose.

Il flusso di un quarto del voto grillino sul Pd subitaneamente rivaluta la categoria: non è più populismo, è voto d’opinione. Il voto nobile, cioè, considerato, basato sulla campagna elettorale e la congiuntura politica. Mentre di fatto è un riflusso, è probabilmente lo stesso quarto di voto democrat che a febbraio 2013 era andato a Grillo – in aggiunta agli ex voto di Di Pietro, e alle nuove generazioni giovanissime di elettori. Oppure è una deriva populista che il Pd ha intrapreso? All’indegna del tutto è fattibile, se non per i soliti ignoti.
O la verità è quella che il solo Pagnoncelli, nell’alluvione di guru in tv, cioè un sondaggista (un esperto di marketing) e non uno scienziato politico, ha individuato ben precisa: che c’è un ondeggiamento pauroso in Italia, unico paese “occidentale”, tra i partiti e di partiti, che mutano, trasmutano, muoiono, si moltiplicano. Effetto, avrebbe potuto aggiungere, di un’opinione pubblica terroristica: media e giudici fanno a gara a tenere il paese in soggezione, nella paura e l’incertezza, per colpe non superiori né più nefande di quelle di altri paesi.

Categoria vecchia, peraltro indefinita. Per un mondo che è crollato. Di supponenza. D’incapacità.  Di un’ideologizzazione che si voleva precisa, coerente, “politica”, perché armata e in realtà confusa. È la cartina di tornasole che le rivela. Un fenomeno europeo, peraltro, forse legato alla decadenza, alla fine di una civiltà. Di un assetto sclerotizzato che la globalizzazione ha sconvolto. La globalizzazione che lEuropa si è dovuta acconciare a sostenere ma a cui non riesce ad adattarsi.  L’immigrazione di massa. Il lavoro sregolato, flessibile, precario. L’outsourcing, senza nessuna professione o competenza, giusto al ribasso. Il lavoro autonomo – il vecchio artigianato, ma senza le consorterie e le privative: il lavoro a tutti gli effetti pratici non è più contrattualizzato. La scomparsa del sindacato. La scomparsa dei partiti. Un mondo talmente sclerotizzato da argomentare che solo il Pd è un partito politico, che è un’assurdità.

Le piazze? Allora, le piazze sono di destra? E le manifestazioni faraoniche? E la piazza digitale? E quella mediatica, di cui il politicamente corretto si gloria? Talk-show scopertamente spettacolari, con vedettes, entrate, uscite, scalette rigide, battute scritte, e perfino gli applausi a copione.

Sovietismo – Si è voluto – si vuole – ecclesiastico, una fede. Orwell, avendolo incontrato dal vivo in Spagna, infido, traditore, lo assimilava a un bordello – alla francese: putain un jour, putain toujours. Lo assimilava alla convenienza, se non al piacere, di fare il male.

Twitter – Ci invecchia? L’hashtag ci vuole tutti sintetici, spiritosi, e più intelligenti. Tutti poeti o tutti filosofi. Tutti massime e riflessioni. Epigrammatici, apodittici, ultimativi, di saggezza, sapienza e spirito. Tutti traguardi di cui si gratifica(va) la terza età.

astolfo@antiit.eu

Quattro notti in Sardegna, di malumore

D.H.Lawrence si fa la Sardegna in quattro notti, da Cagliari a Sorgono, Nuoro e Olbia (Terranova Pausania). Fu più lungo il viaggio di avvicinamento, da Taormina, il giorno dopo Capodanno, a Messina, Palermo e Trapani in treno, e da Trapani a Cagliari col piroscafo. È attratto, dice, dalle persone e i luoghi. Stanco di vedere e ammirare “cose”, siano pure i Perugino e i Botticelli, vuole la natura e gli uomini. 
La Sardegna è pur sempre un altro mondo. La Nation Island del console inglese William Craig al tempo dell’unità. L’unica esclusa dal Grand Tour, i diari e le lettere dei viaggiatori transalpini, che fecero conoscere l’Italia agli italiani nel Sette e Ottocento, non avendo templi greci né arene romane da esibire. Dunque è il posto giusto per una evasione. Ma lo scrittore non vede molto. Anche perché ha molti paraocchi - e lo sa.
Albergatori-trici inospitali, più spesso nel sudiciume. Pane e caffè impossibili da ottenere. Il freddo, sono i quattro giorni dopo l’Epifania. La cottura del capretto alla brace. Un ambulante biondo, bello e fantasioso, di oggetti e “figli” per le donne, che chiama moglie il suo servo. Gli autisti dei bus, sempre speciali - un po’ tutti gli uomini che Lawrence nota nell’isola, per un verso o per l’altro, lo turbano. Ombre ovunque del detestato-ammirato socialismo. L’onestà, “poiché tutti lasciano il bagaglio incustodito”, e le porte aperte. Le strade, anche in Sardegna – “le strade in Italia sempre mi impressionano”, arrischiate, “naturali”. La curiosità e l’indifferenza per l’estraneo. Ma non è nemmeno molto curioso benché sappia l’italiano fin nelle sfumature. Più disponibile la moglie tedesca che lo accompagna, Frieda, che però il racconto tiene al margine, liquidandola come “a-r”, l’ape-regina industriosa. Il più è lasciato ai “romanzi di Grazia Deledda”.
Le duecentocinquanta pagine riempiono i cinque giorni di lirismo. Orosei, dove passa pochi minuti, tra gente “non amichevole”, Lawrence vede “città morta, quasi estinta”: “Oh, meravigliosa Orosei, coi tuoi mandorli e il fiume tra i canneti, vibrante di luce e del mare vicino, e così perduta, in un mondo da tempo andato, sopravvivente come le leggende sopravvivono. È arduo a credere che sia reale. Sembra così tanto che la vita l’ha abbandonata, e la memoria l’ha trasfigurata in puro incantesimo, sperduto come una perla abbandonata sulla costa orientale della Sardegna. E tuttavia eccola, coi suo pochi bisbetici abitanti che non vi daranno nemmeno una crosta di pane. E probabilmente c’è la malaria – anzi sicuro. E sarebbe un inferno doverci vivere per un mese. E tuttavia per un momento, quella mattina di gennaio che meraviglia, oh il fascino senza tempo di quel Medio Evo quando gli uomini erano signori e violenti, con l’ombra della morte”.
Cosa resta? Della Sardegna - “Mare e Sardegna” è ripubblicato in una collana Scrittori di Sardegna. Un prontuario dei costumi femminili, dei giorni feriali e delle feste. Dettagliato, ammirato. Specialmente vivo oggi, dopo i tanti decenni di sciatteria in bigio: i rossi geranio, i riflessi della malachite. La Sardegna svuotata dell’allevamento, che era la sua ricchezza, non più ricostruita, per nutrire i soldati al fronte. La questione del carbone, uno dei filoni della “vittoria defraudata”, in questo caso dall’Inghilterra usuraia: la Sardegna ce l’ha ma è “dolce”, poco calorico. I bambini in costume a Cagliari – per la Befana, di cui Lawrence si mostra ignaro. Gli adulti in maschera a Nuoro, per l’inizio del Carnevale la domenica, coi tanti uomini che al solito lo turbano e descrive goloso in dettaglio, qui vestiti da donne. E in genere una buona disposizione – dello scrittore, non dei sardi.
Molto Lawrence immagina. Specie l’indipendenza delle donne, non per civetteria ma per strafottenza, rispetto ai mariti padroni – lo scrittore è il tipo che un tempo si diceva misogino. L’insociabilità legata all’isolamento. La rusticità come profondità, del tratto, dello sguardo. Spesso dal taglio degli occhi denota una ricorrente – fino a metà libro - tipologia asiatica (giapponese, cinese) o “esquimese”,  il taglio che altrove si conformerebbe con l’età e la circolazione sanguigna. A volte invece fa l’inglesotto (l’americanino, il tedescone), quello che viaggia per sentirsi migliore, con ogni persona e a ogni scorcio che non siano di casa sua.
Un viaggio per caso? Deledda avrà il Nobel cinque anni dopo, non è un viaggio sull’attualità - la prima traduzione inglese di Deledda verrà peraltro l’anno dopo (Lawrence sarà richiesto della prefazione per la seconda traduzione di Deledda, “La madre”, nel 1923). La Wanderlust, la voglia di vagabondaggio, su cui Lawrence s’interroga alla prima pagina, ha questo inconveniente. Che si ha bisogno di muoversi, tanto per cambiare: per nervosismo, stanchezza, vacanza, per curiosità talvolta, per irrequietezza. Una voglia non irragionevole, alla fine, né malvagia. Se non che lo scrittore poi vuole scriverne. Più che altro è un libro sul mal di viaggiare.
La meraviglia maggiore è che questo fitto “Mare e Sardegna” fu scritto in pochi giorni e pubblicato subito, nello stesso 1921, a New York - e due anni dopo in Inghilterra. Di un autore che non aveva ancora scritto “L’amante d Lady Chatterley”, giusto un buon autore. Da questo punto di vista sicuramente un altro mondo.
David H. Lawrence, Mare e Sardegna, Ilisso, pp. 240, € 7

Sarà Londra a salvare la Ue

Sarà Cameron a salvare la Ue? È tutto dire, un euroscettico. Ma è l’unico, fra i capi di governo, che mostri di avere capito il voto di domenica. Dopo Renzi, ma per ragioni opposte, più in linea con l’insoddisfazione che il voto ha espresso, in tre dei maggiori paesi dell’Unione, Gran Bretagna, Francia e Italia (Grillo più Lega), e in altri minori.
Si capisce l’insoddisfazione di Renzi alla direzione del Pd, di ritorno dal primo vertice a Bruxelles dopo il voto. L’Unione va avanti come se nulla fosse avvenuto, con i soliti Juncker, contro cui Cameron ora minaccia un referendum, Van Rompuy e altri piccoli burocrati, se scegliere l’uno o l’altro. Per non fare del ersto niente, se non quello che detta Berlino.
La prima notizia stamani è che Bruxelles forse già domani, che in Italia è la festa della Repubblica, chiederà un taglio. Di quattro miliardi, forse cinque, non si sa, ma una Ue impersonale solo in una certa ottica si può ancora concepire. Mentre continua l’indifferenza verso l’immigrazione, il fatto epocale di questa fase storica dell’Europa. Merkel ne parla giusto in chiave sciovinista: “La Germania ne accoglie più dell’Italia”. È come Renzi ha detto ai suoi sul volo da Bruxelles: sembrerebbe tutto irreale se non fosse vero.