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sabato 26 gennaio 2019

Problemi di base francescani ter - 468

spock


Uno è uno, anche il papa?

Ci sarà una piattaforma Rousseau anche in Vaticano?

E a quando le primarie?

Coi gazebo, online, dove scende meglio lo Spirito Santo?

Ha più followers papa Francesco o Beppe Grillo?

Il papa ha più che raddoppiato i cardinali: todos caballeros, metodo Grillo?

O sono i nuovi cardinali, con passaporto diplomatico, anche loro perseguitati politici?

Maria influencer, come Isoardi, perché no?

spock@antiit.eu

La colpa è di Anne Frank

Un libello, contro la trasposizione teatrale del “Diario” di Anne Frank, con l’allora sedicenne Natalie Portman – Orzick lo scrisse nel 1997, per la rivista “The New Yorker”, a ridosso del successo teatrale. Criticata perché commerciale e infedele, e quasi negazionista, facendo di Anne Frank un’insegna del volemose bene, per il blurb che fascetta il libro e le locandine teatrali: “Nonostante tutto, credo tuttavia nell’intima bontà dell’uomo”. Opera dell’editore Doubleday, quando la cura del “Diario” non fu più di Barbara Zimmermann – passata alla Random con il grande editor Jason Epstein, suo futuro marito, col quale nel 1963, durante uno sciopero dei giornalisti, fonderà la “New York Review of Books”. Con la complicità di Otto Frank, il padre di Anne.
Un testo arrabbiato. La “vera” Anne Frank “è stata censurata, tramutata, tradotta, ridotta: è stata resa infantile, americana, uniforme, sentimentale; è stata falsificata, volgarizzata e, di fatto, spudoratamente e arrogantemente negata”. Ma confuso – e con un fastidioso sospetto di saprofitismo, di voler cavalcare il successo del “Diario” e della messinscena. E perché togliere Anne Frank al patrimonio comune dell’umanità? Perché disprezzare la gioia di vivere giovanile, di Anne, di Hetti Hillesum? La bontà e lo humour, la forza morale, non sminuiscono l’Olocausto, e semmai confondono nazisti ed epigoni.
L’arroganza arriva a dire tutto e il contrario della stessa Anne. Una bambina prodigio che voleva diventare scrittrice, e ne aveva le qualità. Vittima di varie “espurgazioni” – il termine più ricorrente, qui tradotto con censura: del padre, dell’editore, della messinscena. “Che il diario sia miracoloso, un lavoro consapevole di genio giovanile, non è in dubbio”, e a seguire una valanga di elogi. Ma “il diario non è un documento geniale, malgrado l’esposizione spesso vividamente satirica dell’autrice di quello che lei abilmente vedeva come «il lato comico della vita in clandestinità»”. Peggio: “Arrivare al diario senza avere prima assimilato «La notte» di Élie Wiesel e «I sommersi e i salvati» di Primo Levi (per menzionare solo due testimoni), o le colonne di cifre nei registri dei trasporti, è permettersi di cuocere in una implausibile e orrida innocenza”. E la colpa è del “Diario”: “Il veicolo che ha con più forza compiuto questa quasi universale insensibilità è il diario di Anne Frank”. Insensibilità? Universale?
Cynthia Ozick, Di chi è Anne Frank? La Nave di Teseo, pp. 80 € 7

venerdì 25 gennaio 2019

La Brexit dei Conservatori


Brexit è un problema per la Ue, è un dramma per la Gran Bretagna, è una tragedia per il partito Conservatore britannico. Che, non si ricorda, ma ha avuto (provocato) le sue crisi maggiori sull’Europa, se starci e come. Erede di Churchill, che ebbe la prima idea postbellica di una Europa unita.
È stato Edward Heath, primo ministro conservatore, a portare la Gran Bretagna nella Ue. Salvo poi perdere le elezioni. Margaret Thatcher, la “dama di ferro”, inciampò e cadde sulla Ue: il partito la costrinse ad aderire allo European Exchange Rate Mechanism, l’accordo propedeutico all’euro, e quando si oppose al passo successivo, dell’unione monetaria, la silurò. Il suo successore, John Major, cadde sull’euro. Firmò il trattato di Mastricht, come il partito voleva, con la clausola specialissima per Londra, dell’ opt-out, il diritto a derogare dalle norme europee, in materia monetaria e sociale. Ma fu travolto dal crollo immediatamente successivo alla firma della sterlina per l’attacco di Soros (in contemporanea con l’attacco sulla lira), e nell’occasione molti conservatori gli rifnacciarono l’accordo, pur privilegiato, di Maastricht. Ora tocca a May.
Più che una questione nazionale, l’Europa sembra un perpetuo regolamento di conti all’interno del partito Conservatore.

Non c’è guerra tra Usa e Cina


Non c’è voglia di sfida a Pechino contro i dazi imposti o minacciati da Trump. C’è la trattativa in corso, con la sospensione dei dazi, già imposti per ritorsione, sulle importazioni di auto americane.  E c’è già stata un’offerta di rimodulare i programmi del piano “Made in China 2025”, perché basato su “presupposti da ridefinire” – “troppo” concorrenziali verso gli Stati Uniti. Non c’è nemmeno acrimonia nella risposta cinese: il “Global Times”, il tabloid inglese del “Quotidiano del popolo”, l’organo ufficiale del partito Comunista, scrive che bisogna “coordinare gli interessi della Cina con quelli dei paesi occidentali, inclusi gli Usa”.
La Cina ha anche accettato di rinegoziare la World Trade Organization, che regola il commercio internazionale, in termini più restrittivi per le sue pratiche. E sposta sul piano procedurale l’offensiva americana contro Huawei, il gruppo cinese della telefonia mobile che si prospetta protagonista del nuovo ciclo del settore, il 5 G.

Chi ha paura di Huawei


Comprimaria, se non leader, della nuova frontiera del digitale, la telefonia mobile 5 G, nonché primo gruppo negli apparati per le reti cellulari, avendo superato nel 2017 Ericsson e Nokia, Huawei vede la sua posizione contestata negli Stati Uniti e in Europa per una serie di preoccupazioni, nonché sulla base di sostanziali contestazioni.
Oggi è il primo e imprescindibile fornitore di tecnologie per la 5 G. Con 25 contratti nazionali già siglati, 15 dei quali in Europa. Ma l’architettura del 5 G è aperta allo spionaggio: l’annullamento dei tempi di latenza (un intervallo fra due soggetti in comunicazione inferiore al millisecondo), necessita una rete di antenne a densità molto alta, tale da rendere impossibile la protezione del centro del network, che quindi diventa permeabile. Il problema era stato sollevato già per il 4 G in Germania, Francia e Gran Bretagna, e risolto escludendo Huawei dall’area di Parigi e da altri centri in Germania e Gran Bretagna.
Il sospetto su Huawei è forte perché il gruppo è nato appena nel 1988, in una zona remota della Cina, Shenzen, una delle “Zone economiche speciali” (tante Casse per il Mezzogiorno cinesi) volute da Deng Hsiaoping, e senza tecnologie proprie, limitandosi a vendere materiale di Hong Kong. Si è poi sviluppato nelle aree rurali cinesi, e a cavaliere del 2000 in Africa. Il primo contratto europeo è del 2005, per forniture alla Bt. Oggi ha nella Ue diecimila addetti, di cui 850 in Italia, e cinque centri di ricerca in Francia. Fattura sui 100 miliardi di dollari, ed è il primo fornitore mondiale per la telefonia, e il secondo per gli smartphone, dietro Samsung e prima di Apple.
Un miracolo che solleva sospetti: Huawei si ritiene sia proprietà ed emanazione dell’Esercito cinese, cioè del governo di Pechino.
La tecnologia Huawei è peraltro dipendente dalle importazioni per il lato semiconduttori. Mentre  per altri segmenti della produzione ha fatto largo uso delle contraffazioni e del furto di tecnologie. Questa procedura è comune a tutta l’industria tecnologica cinese. Più spesso è tollerata, essendo essa fornitore conveniente. Ma qualche volta è sanzionata: negli Usa Huawei e l’altro colosso cinese, Zte, sono banditi da tempo, a motivo dei “furti” di tecnologia,  e vige l’embargo sulle forniture di semiconduttori e altri componenti ai due colossi. Ora sanzionati ulteriormente per infrazioni all’embargo contro l’Iran
Per le infrazioni all’embargo, ufficialmente, Washington ha richiesto all’Italia, come alla Francia, alla Germania e alla Gran Bretagna, di tenere Huawei fuori dal 5 G. La risposta è stata immediata in Francia, Germania e Gran Bretagna: i maggiori operatori nazionali, Orange, Deutsche Telekom e Bt hanno deciso di non ricorrere a Huawei per il 5 G.

Napoli-Juventus 2-0, a Calciopoli


Il processo farsa è quello di Calciopoli. Che non può essere definito altrimenti. Quintali di registrazioni telefoniche, di cui gli originali per la gran parte sono stati distrutti, e nessuna prova, di nessun reato: partite o sorteggi arbitrali truccati, nessuna forma di corruzione, neanche il biglietto allo stadio, solo Moggi che parla con tutti. Non bisogna parlare.
Un tipico processo “napoletano”, da ammuìna. Far finta di fare, con clangore, per non fare. Da parte di una Procura che aveva accumulato, disse il Procuratore Capo Codova di cui Napoli subito si liberò, due milioni di denunce e reati intonsi, mai aperti da nessun sostituto. Una napoletanata facile, potendo contare sull’Italia non-juventina, due terzi del totale - uno legge Pistocchi oggi, l’interista ultrà cui Berlusconi confida le telecronache delle partite, e rabbrividisce: dire odio è dire poco. E infatti i vice di Lepore che sponsorizzarono le intercettazioni abusive del colonnello Auricchio, Beatrice e Mancuso, fecero immediata carriera. Gestita in un clima naturalmente da commedia, sia in Procura che in Tribunale. Dove la giudice Palaja dovette subire due attacchi della Procura di Giandomenico Lepore, in udienza e al Csm, e infine condannare Moggi.
Un processo anche “piemontese”. Degli eredi Agnelli, il lato sorelle e nipoti Elkann, che non difesero la Juventus e anzi se ne dissero scandalizzati. Volevano liberarsi di Moggi e Giraudo, di una gestione che, complice anche la quotazione del club in Borsa, avrebbe potuto portarlo fuori dal patrimonio familiare. L’ultimo errore di Umberto, che le sorelle non amavano e un po’ disprezzavano. 
Era l’ annus horribilis della “famiglia”, con la Fiat al fallimento, prima di Marchionne, che la Fiat ha reinventato.
Era anche l’anno in cui bisognava decidere la successione dell’Avvocato all’accomandita di famiglia, e le sorelle erano sempre coalizzate contro Umberto e i suoi figli – avevano accettato Giovannino, sapendolo malato, ma mai Alberto e la sorella. Giraudo e Moggi, vista la mala parata, si sono sottratti al processo come meglio hanno potuto.   
Così la Juventus perdette anche due scudetti – si può dire la rivincita infine di Napoli? L’astio della “famiglia” era tale che non si oppose nemmeno alla privazione dello scudetto 2004-2005, che Capello aveva conquistato sul campo. Come quello del resto 2005-2006, che però, a differenza di quest’ultimo, nessun giudice napoletano contestava.
La proprietà ora tenta di rifarsi in sede civile – rigettata. E di nuovo in sede sportiva: sarà rigettata. Per un motivo semplice: è la stessa giudicatura. Molto partenopea, alla Cassazione e in sede sportiva.
Pasta e Sironi mettono in rilievo l’aspetto torinese della vicenda, piemontese. Trascurando invece, probabilmente per non essere “scorretti”, o assimilati ai “forza Vesuvio”, il suo lato “napoletano”. Del processo inventato da un colonnello dei Carabinieri napoletano, tipo Scafarto, e da due giudici napoletani che, senza lavorare, hanno con Calciopoli fatto una carriera immediata e memorabile.
Mario Pasta-Mario Sironi, Il processo farsa, Guerini e Associati, pp. 142 € 12,50


giovedì 24 gennaio 2019

Secondi pensieri - 374

zeulig


Decostruzione – Ha senso come all’origine, nei primi scritti di Derrida, come proposta di traduzione dell’opera demolitoria di Heidegger sulla metafisica, da Heidegger detta Abbau  e Destruktion. Derrida trovava l’equivalente latino troppo negativo e unilaterale. Propose dapprima “sradicamento” e “demolizione antagonistica”. Poi optò per “decostruzione” perché a doppio senso: di disorganizzazioni, scomposizione, e anche di ricomposizione. Il processo di decostruzione è una costruzione: ha utensili limati e allenati, una tecnica, e un progetto.

Derrida – Il filosofo si può dire di seconda mano, “parassitario”. Più precisamente saprofita - un saprofita killer, nutrendosi, se non proprio delle carogne comunque dei cadaveri, che lui stesso ha provveduto a disanimare e sezionare.

Enigmatico – Enigmista? È uno stato o una creazione?

Linguaggio – È, è diventato, chiave-grimaldello di manipolazione della riflessione, compresa l’ontologia. In circolo vizioso, il linguaggio manifestandosi via via sempre meno significante, allusivo, inconclusivo – insignificante, se non come procedura. Fenomenologia, strutturalismo, semiologia – il Seyn di Heidegegr, Derrida “orale” (il teorico della scrittura), l’Umberto Eco sistemico tra i più citati (anche letti? analizzati?). Il professante Wittgenstein se ne teneva a distanza, rispettoso.

Marinismo – Ha un distinto sentore di marinismo, a distanza, la filosofia del Novecento, da Husserl a Heidegger e Derrida. Per nessun motivo specifico ma per il gusto di meravigliare sottilizzando, tra agudezas e distinguo interminabili. A  fini di verità, beninteso, ma senza nessuna verità, se non il diniego – il diniego assoluto facendo valere come prova pratica di scetticismo. La filosofia come opera concettista – o come le “preziose” di un secolo dopo in Francia: una costruzione che tanto più si apprezza quanto più si assottiglia e vaga, che parte o approda sempre a un concettino o agudeza, ornandolo di metafore continuate – nel mentre che le nega - e altre figure retoriche. Appassionante, forse, per un perito filologo, ma a nessun esito. Non di verità, se non che non c’è verità. Un po’ divertente, decostruire è divertente, ma poi non appassionante. 

Narcisismo –Sarà il segno dell’epoca, dei social, e dell’occhio incollato su face book, visto come uno specchio e non una finestra sul mondo. Del narcisismo prima maniera di Freud, della libido che si concentra sull’Io. Di cui però – Freud ha mancato di indagarlo – non si ha o non si dà la consistenza: è un direzione e un vezzo.

Scrittura – Derrida ne celebra l’attrattiva per il suo assunto basico (preliminare) della “indecidibilità”. Dell’indefinitezza, dell’indeterminatezza. In un primo momento. Poi della non appartenenza al soggetto, all’autore, rovesciando di segno il “performativo” del linguista di Oxford John Lanhshaw Austin, dalla “aberrazione” al linguaggio comune. Grazie alla “iterabilità” della scrittura. Alla sua autonomia dal soggetto (autore): come scambio, e come citazione e innesto.

Traduzione – È l’esercizio pratico, comune, della decostruzione. Chi traduce deve in continuazione scomporre e ricomporre, concettualmente, verbalmente, anche solo ricorrendo al dizionario bilingue o al vocabolario.

Tribalismo – A lungo rimosso o negato, per immotivato rispetto dei diritti umani, torna trionfante nel millennio, sotto il nome di identità e comunità, e sul piano politico con i sommovimenti populisti,che vi fanno largo ricorso – Brexit, sovranismo, America First, putinismo.
“Gli europei erano convinti che gli africani appartenessero alle tribù”, può spiegare John Iliffe, lo storico, ancora recentemente, “gli africani costruirono le tribù cui appartenere”. È una spiritosaggine, per figurare nell’antologia 1983 di Hobsbawm e Ranger, “L’invenzione della tradizione”, di un decostruzionismo un po’ abusivo: riusciva a spogliare i già poveri africani anche della tradizione – vero è solo che il colonialismo si assestò sugli assetti tribali come cinghia di trasmissione per i propri assetti di potere: capi e capetti, e cerimoniali e codici etnici e localistici, talvolta di comodo o morti. Ma il tribalismo non è mai morto nella civiltà, colonialismo e imperialismo compresi.  
C’è stato a lungo nel nazionalismo. E prima nella religione – dove c’è tuttora, nell’islam. Per il Dio unico della Bibbia, l’unico “Dio degli eserciti” fra i tanti “buoni”, nota Simone Weil sconsolata - la filosofa, si noti, delle radici. Ma è anche il misticismo senza Dio, in musica, filosofia, teologia, cose nobili ma senza Redenzione.
L’identità torna nella vertigine di particolarismo, noi e gli altri - il resto del mondo cioè – quale specialità o eccezionalità di stirpe e destino. Non monolitico, il tribalismo esige sottostirpi e sotto destini, quali si teorizzano ancora nel millennio.

È anche stimolo alla diversità, bene risorgente. “Uno zulu non amerebbe essere un anglobritannico, e neanche un afrikaner”. Lo sosteneva il “dottor Malan”, Daniel François Malan, il primo ministro del Sudafrica dal 1948 al 1954 che instaurò l’apartehid, e quindi è sospetto. Ma è un fatto. La tribù è un fatto e una logica: è via di mezzo tra l’etnocentrismo, o assimilazione, e il relativismo culturale. Si lega alla terra e al sangue, ma più alla storia, e smantella il conflitto quale si configura oggi, tra Nord e Sud, compreso il razzismo antirazzista. Non è un confine, che possa per esempio destinare l’Africa all’indigenza e alla violenza, e può essere un collante.
Si vede meglio in America, negli Stati Uniti. L’America segue uno speciale percorso, forte di amor patrio oltre che di leggi, essendo nazione fra i ghetti, per i neri pure e i pellerossa, e ora per i latinos. I dannati dell’Europa e dell’Asia l’hanno formata, e gli schiavi dell’Africa, e ne ha soverchiato gli odi nella lotta per la sopravvivenza – per molto meno le tribù europee, non così povere e perfino colte, si sono fatte la guerra per quindici secoli. C’è un Nord ancora feroce, per essere il Sud dago, latino cioè, cattolico e bruno, o protestante rosso di pelo e povero. E nero o ebreo. Ma è un Nord fatto di gente spesso del Sud. I bianchi poveri odiano i neri come odiano lo yankee di città, e gli ebrei. Tutto resta etnico nel centro della modernità, abbigliamento, capelli. danze. Ma dalle gerarchie passa alla diversità.

Yo-yo di Eraclito – Rivive in una lettera dello scrittore Paul Auster, che ripubblicandola in “Diario dell’interno”, lo fa seguire da questa nota: “Riferimento a uno dei più noti frammenti di Eraclito: «L’ascesa e la discesa una e stessa cosa»”.

zeulig@antiit.eu

L'amore alla liberazione, malato

È l’aprile del ’45, i lager sono via via liberati, all’arrivo dei convogli di internati a Parigi si redigono le liste dei sopravvissuti, Marguerite Duras le segue con apprensione: come giornalista, si procura le liste per pubblicarle sul suo giornale, ma è anche moglie di un deportato, Robert L. (Leroy, nome in codice nella Resistenza: è lo scrittore Robert Antelme). “Il dolore” è il racconto dell’attesa, e poi, dopo il fortunoso salvataggio di Robert, di una convalescenza lentissima, tra la vita e la morte. Che si compirà, un paio di estati dopo, a Bocca di Magra, ospiti di Ginetta e Elio Vittorini. Dove Robert riesce ad alzarsi dalla sdraio e avvicinarsi al mare, accompagnato da questa riflessione di Marguerite: “Non è morto al campo di concentramento”.
Un racconto di espiazione. Che Duras finge di avere redatto giorno per giorno a suo tempo, e ritrovato per caso nel 1984, quando lo pubblica. Quando Antelme è vecchio e malandato – morirà qualche anno dopo. Marguerite lo ha cercato, salvato e curato col suo amante, D.(Dyonis Mascolo), che poi ha deciso di sposare. E a Robert che le chiede se dopo il divorzio potrà rivederla, racconta, ha risposto di no. A Bocca di Magra in realtà Antelme era già l’autore celebrato di un classico sui lager nazisti, “La specie umana”, uscito nel 1947 - che Vittorini tradurrà.
La storia vera è ancora più complicata. Marguerite viveva con D. già da due anni, quando Robert l’1 gugno 1944 è stato arrestato dalla Gestapo. Una sorte di ménage à trois, rafforzato dalla comune appartenenza allo stesso nucleo della Resistenza, quello di Mitterrand (“Morland”) – il futuro presidente nel racconto è specialmente efficiente: riesce a evitare l’arresto di Marguerite quell’1 giugno, ritrova Robert a Dachau nel lazaretto degli incurabili, sospetto di tifo, lo trafuga travestito da ufficiale francese, e lo porta in salvo a Parigi. Sposa di Robert Antelme dal 1939, Marguerite con lui aveva avuto un figlio nato morto nel 1942, poco prima, o subito dopo, l’avvio della relazione con Mascolo. Tutt’e tre poi militeranno nel partito Comunista fracese, che nel 1950 si servirà dello “scandalo” per espellerli. La decisione era amturata per l’insofferenza dei tre allo stalinismo: fu presa quando Duras ne fece una critica su “France Observateur”, poi “Le Nouvel Observateur”, il settimanale radicalsocialista. Ma la motivazione fu l’immoralità. Dopo un processo politico in cui l’accusa fu affidata a Henri Lefebvre, allora “filosofo del partito”, allievo dei gesuiti, invano difesa da Edgar Morin. “La mia fiducia nel partito resta intatta”, lei ribattè. Ma anche: “Forse mi trattano da puttana perché non trovano altro”. S’era iscritta nel ‘44 omettendo di dirsi scrittrice, “perché il Partito non amava gli intellettuali1”.
Tutto questo non c’è nel racconto, ma gli dà il tono. Il racconto dell’attesa dei sopravvissuti, a mano a mano che la Germania era occupata dagli Alleati e i prigonieri – politici, S.T.O.(Service Travail Obligatoire, il lavoro forzato) ed ebrei – venivano liberati e rimpatriati. In una Parigi già in mano a De Gaulle, e ai gollisti tronfi, dame di carità in rutilante divisa, coi gallon, e il disprezzo per la gente comune. Poi racconto del salvataggio del morto vivente Robert – “quando c’è il sole, si vede attraverso le sue mani”. Grazie a D., “il suo migliore amico”.
Le vicende reali dietro i due racconti purtroppo non sono come Duras le presenta. E questo, sapendolo, ne rende la lettura indigesta - un saggio breve, a firma Gabriel Jacobs, sul “Journal of Romance Studies”, n. 2, 1997, “Spectres of Remorse: Duras’s War-Time Autobiography,” dice la raccolta “una prolungata espiazione della colpa”. Ma la lettura vergine dei fatti reali, come il film “La douleur” l’ha trascitta in immagini, o forse proprio per questo, per il camuffamento, sfiora il capolavoro.
“Il dolore” è assortito da cinque altri racconti, del tipo venuto in voga negli anni 1980, della trasgressione con collaborazionisti, delatori e miliziani – specie non più bandita ma gente come noi, “che aveva le sue ragioni”. “Il Signor X., detto qui Pierre Rabier”, è dell’infatuazione che Marguerite corre col francese della Gestapo che ha arrestato Robert. Un romanzo breve. Che Duras ha la tentazione di allargare, il francese gestapista facendo “probabilmente” tedesco, con un nome falso preso da un congiunto morto, che lavora come francese per la Gestapo perché ha carichi pendenti in Germania - ma poi avrà pensato che non poteva fare i tedeschi della Gestapo stupidi. “Rabier” ammira Marguerite perché la sa scrittrice, ha visto un suo romanzo sul tavolo di Robert quando lo ha arrestato. E ha tutto pronto, “l’impero vincerà”, per fare il libraio d’arte. Sono i mesi di giugno e luglio 1944, i tedeschi hanno deciso di lasciare Parigi – la capitale sarà liberate ad agosto – ma “Rabier” porta Marguerite per ristoranti e bistrò stracolmi di ogni ben di Dio malgrado i cinque anni già trascorsi di guerra, frequentati dai tedeschi e dai francesi filotedeschi.
Seguono testi che Duras vuole “sacrés”, e avvenuti. In uno, “Albert des Capitales”, tortura un informatore dei tedeschi. In due, “Ter il miliziano” e “L’ortica spezzata”, ha “voglia di farci l’amore”, col miliziano – ma è un informatore - giovane menefreghista, anche davanti alla morte. L’utimo, “Aurelia Paris”, è “inventato, letteratura”: un omaggio, d’“amour fou per una piccola ebrea abbandonata”.

Marguerite Duras, Il dolore, Feltrinelli, pp. 160 € 7

mercoledì 23 gennaio 2019

Appalti, fisco, abusi (135)

Un documento del centro europeo Breugel, “Providing funding in resolution”, opera del direttore del centro e della sua vice, Guntram Wolff e Maria Demertzis, ridicolizza il Fondo di risoluzione bancaria, a difesa delle banche, appena varato dall’Eurogruppo, dopo il salvataggio del Banco Popular spagnolo, passato l’anno scorso al Santander: a pieno regime, fra cinque anni, il Frs avrà una dotazione di appena 60 miliardi.
La scarsa dotazione è stata vantata come un esempio dell’indipendenza delle istituzioni europee dal mondo bancario. Ma di fatto sarebbe un invito alla speculazione.

Wolff e Demertzis calcolano che tra il 2008 e il 2013 i governi europei – con la notevole eccezione dell’Italia - sono intervenuti con 1.500 miliardi a sostegno del capitale e del patrimonio delle loro banche, e hanno fornito garanzie al sistema bancario per 4.300 miliardi.
La sola Hypo Real Estate tedesca ha beneficiato nei tre anni 2008-2010 di garanzie pubbliche per 145 miliardi. Il salvataggio di Dexia nel 2008 è stato sostenuto dai governi francese, belga e lussemburghese, e dalla Banca Nazionale del Belgio, con garanzie per 135 miliardi.

Sembra tutto così semplice - e dunque così colposo (con una buona action anche giudizialmente)? Bastava poco: un minimo di garanzie durante l'amministrazione controllata, e non si sarebbero avute le costosissime, per i risparmiatori, crisi bianco-rosse, Popolare Vicenza, Banco Veneto, Banca Etruria e le altre delle ex regioni rosse. Per non dire del Monte dei Paschi. Tutta incapacità non può essere, i precedenti di Wolff e Demertzis non saranno stati ignoti a Banca dItalia e Tesoro.
I rendimenti dei fondi sono da un anno e mezzo in calo - meno 3,4 Arca, 3,5 Anima, i più diffusi. Si  dice per lo spread, per il debito, per la manovra. Niente di tutto questo. Per incapacità di gestione, degli investimenti.
In America si può fare una dote ai figli, con le Borse in ascesa oppure no, investendo (risparmiando) in fondi. In itali è sempre stata una continua perdita, dacché i fondi esistono, trentacinque anni.

Su un consumo medio mensile di 170 kWh, per una spesa annua di circa 450 euro, l’operatore restituisce per il 2018 circa 220 euro. Trentacinque in una fattura e venti in una seconda fattura un nese dopo (ripensamento, ricalcolo?) per una delibera dell’Autorità per l’Energia naturalmente incomprensibile – Del. 463\16 (VS”) – e ben 165 per “ricalcoli”. Bontà dell’operatore? Un sistema di rilevazione e calcolo da galera.

“Il ricalcolo avviene”, dice la fattura di rimborso, “alla ricezione di nuove letture\consumi reali oppure a causa della modifica di letture\consumie\o prezzi su un periodo già fatturato” . Poiché i prezzi non si modificano al ribasso, l’utente è preda di letture\consumi casuali. Rilevate dal contatore, così si asserisce in bolletta, ma non “reali”. Sembra incredibile, ma è così.

Ombre - 448


Si aprono i Cara, 2008: sono centri di detenzione. Si chiudono i Cara: mille (cinquemila, cinquantamila…) posti di lavoro persi. C’è solo la polemica politica, gli immigrati non contano – da dove vengono, che fanno, che vogliono.

Lino Banfi dopo Grillo e Di Battista, la lista dei comici che ci governano si allunga. E Conte? Anche Tria non scherza.


Santevecchi pubblica sul “Corriere della sera” oggi il “manifesto” di Xi Jinping, il presidente a vita della Cina: trenta articoli e infiniti commi, in linguaggio spesso allusivo – proverbiale, di fantasia – che, in aggiunta alle leggi dello Stato, gli consentono di governare in modo assoluto. Non si riflette mai che il mondo globale sta appeso a una dittatura. Una dittatura su un miliardo e mezzo di persone o poco meno – quanto di più imprevedibile.

Elio Lannutti, che per sentirsi vivo ridà l’impero del mondo ai Rothschild con i “Protocolli di Sion”, è oggi senatore di Grillo dopo esserlo stato di Di Pietro, e mancato dei Verdi e prima ancora del Pdup, una costola del Pci, animatore di “Avvenimenti”, con Diego Novelli e Claudio Fracassi.
Un insaziabile.

Si celebra l’accordo Macron-Merkel, dopo un anno e mezzo di trattativa, come l’asse di una nuova Europa.  Un accordo che non decide né propone nulla, tra due leader che rappresentano solo se stessi.

La cosa più curiosa di questo accordo è che Macron e Merkel si promettono di creare unità militari miste. Pur sapendo che molto probabilmente nel 2020 già loro non ci saranno. Ma dimenticando che la Francia ha rigettato la Costituzione Europea nel 2004 per non legarsi troppo alla Germania. E per lo stesso motivo nel 1954 la Ced, la Comunità europea di difesa, un trattato proposto dalla stessa Francia due anni prima. Che avrebbe creato un’Europa realmente unita, senza i calcoli furbi  dell’euro, già da sessant’anni, e probabilmente ancora protagonista nel mondo globale.

Si gioca una partita di cartello, Genoa-Milan, alle 15 di un lunedì lavorativo. Per i pensionati? Ma a quell’ora i pensionati riposano.

Si dice: è la new economy, bisogna giocare al calcio per la pubblicità in tv. Nella tv peraltro a pagamento – per i pochi che possono spenderci 700 euro l’anno. Per una pubblicità che nessuno vede. La new economy non è intelligente?

Nessun subbio, guadando Napoli-Lazio a velocità normale,senza nemmeno i replay, che l’arbitro R occhi si è inventato due ammonizioni e una punizione che non c’erano, in azioni semplici, non complicate, a danno della Lazio. Errori? Ma Rocchi è l’arbitro “migliore”. E quindi?

“L’interscambio della Germania con la Lombardia vale tanto quanto quello tra la repubblica di Berlino e l’intero Giappone”, Dario Di Vico, “Corriere della sera”. Vero, 40 miliardi un anno fa.

Si sa da sempre che il Lombardo-Veneto fa regione economica unica con la Germania meridionale. Non si capisce allora perché il suo leader politico, Salvini, faccia l’anti-euro, anti-Ue, anti-Germania. È un gioco delle parti? Vogliono guadagnare con al Germania e con l’anti-Germania?

La nuova leva dei Democratici americani, Alexandria Ocasio-Cortez, 29 anni, tacchi a spillo e pantacollant, rinnova il partito insegnando a manovrare twitter. Non è vero, il partito sa bene cosa è twitter, ma serve per postare in qualche modo la vamp – una didascalia alla “Playboy”, benché l’onorevole sia vestita. Poi dice che c’è il populismo.

Alexandria Ocasio-Cortez ha una pagina entusiasta per questo di Massimo Gaggi, sul “Corriere della sera”, il giornale più diffuso e più autorevole. Poi dice che c’è il populismo.

Nessun sindaco al mondo ha i follower che ha Virginia Raggi, oltre 900 mila. Neppure i sindaci di città grande tre e quattro volte Roma: New York, Parigi, Londra. Di una sindaca che nessuno a Roma sembra apprezzare, confusionaria al meglio e incapace. Effetto della democrazia diretta? Effetto della piattaforma Rousseau, della Casaleggio Associati – una promozione commerciale?

Si guarda la partita Juventus-Milan e si vedono - oltre le ragazze saudite dei social che sperimentano la loro prima volta, gli italiani che lavorano in Arabia, gli ultrà che non sanno altro, evidentemente anche tra i sauditi - mamme con marito e bambini. Le mamme che vanno allo stadio per portarci i bambini, una festa di famiglia. In Arabia Saudita.

Liberare i figli dai padri mafiosi

Liberi di scegliere sono i figli minori di genitori latitanti o condannati per mafia, che il giudice Roberto Di Bella, dal 2011 presidente a Reggio Calabria del Tribunale dei minori, sceglie da qualche tempo di far vivere fino alla maturità lontani dall’ambiente familiare, in case famiglia o altri alloggi, invece che in casa di correzione. Una strategia di protezione invece che di punizione, che a giudizio del giudice funziona. Non è stato semplice, poiché bisognerebbe prima togliere la patria potestà anche ia genitori non condannati o incriminati. Ma Di Bella c’è riuscito: a oggi una quarantina di ragazzi avrebbero evitato il percorso obbligato criminale.
Un film didascalico, drammatizzato il giusto. Che dà ragione al giudice Di Bella indirettamente, se tra Reggio Calabria e Messina si trovano ambiti e soluzioni non pertinenti alle mafie - alle quali la vulgata reduce le due città e i loro contorni. In un vivere tranquillo, perfino gioioso. A  conferma che l’ambiente può essere risolutivo in senso buono. Con un solo errore: un mafioso brutto con moglie e figli intelligenti e belli, e casa aperta sul mare, invece che blindata e videosorvegliata, e arredata con gusto?
Giacomo Campiotti, Liberi di scegliere, Rai 1

martedì 22 gennaio 2019

Cronache dell’altro mondo 23


Un terzo degli americani non conosce i nonni, nemmeno i nomi di battesimo.
L’America ha la pena di morte, come l’Iran e la Cina. Non tutta, buona parte. Senza vergogna. Al più ritarda le esecuzioni o le fa in segreto.
Gli incendi che hanno devastato la California, con 83 morti e danni miliardari, sono stati provocati, 19 su 21, dalla Società californiana della luce e del gas. Per scintille e incendi provocati da vecchi pali caduti, fili troncati, centraline scoppiate.
Il servizio sanitario americano costa più di qualunque altro al mondo, 9.403 dollari l’anno per persona, il 17,8 per cent del pil, ed ha le peggiori performance fra i paesi industrializzati – in Italia, per fare un confronto, che è al secondo o terzo posto per la qualità delle cure, e si lamentano gli sperperi, il servizio sanitario costa 1.850 euro pro capite.
Un video, viralizzato su tre quarti dei tweet americani sabato, mostra dei liceali cattolici, alla Marcia per la Vita a Washington, che deridono un vecchio capo indiano, un capo politico, un veterano del Vietnam, eccetera, a Washington per la Marcia dei Popoli Indigeni. E, si dice, gridano: “Build the Wall!”, sì al muro, di Trump. Un montaggio: il video è tagliato e rimontato, nonché potenziato al massimo per la diffusione, dalla ripresa degli indiani marciatori che si avvicinano ai liceali urlando il vecchio slogan: “Questa è la nostra terra, voi bianchi ce l’avete rubata”. Il ragazzo del video non risponde e non urla, solo guarda sorpreso.
Il video non è tutto. Si fanno ricerche sul ragazzo dal sorriso che si vuole sfottente, ma lo si scambia con un altro, che invece non era a Washington. Si identifica la famiglia e l’indirizzo di questo ragazzo e s’instaura una persecuzione di due giorni, sabato e domenica, mentre era impegnata in un matrimonio, accusandola di razzismo e minacciando ritorsioni. È il paese dell’odio – “1984” era al di qua della cortina d ferro, il governo della Verità.

Stalin a Parigi


Un processo staliniano a Parigi, nel 1949. Che il partito Comunista francese, rappresentato dallo scrittore Aragon, affrontò – e di fatto vinse – a difesa di Stalin. Di cui la storia non si fa. Eccetto questo vecchio resoconto, opera a suo tempo di una russa emigrata, la narratrice Berberova – si ripubblica la vecchia traduzione del 1990 con una presentazione di Belpoliti.
Viktor Kravčenko, ufficiale dell’Armata Rossa, diplomatico sovietico a Washington, aveva defezionato nell’aprile del 1944, richiedendo asilo politico negli Usa. Un anno e mezzo dopo, a febbraio 1946, aveva pubblicato “Ho scelto la libertà”, una testimonianza contro il regime staliniano, del terrore e del Gulag, contro comunisti invisi all’autocrate. Non era una novità, Koestler l’aveva preceduto di un anno, con “Zero e l’infinito” (e Boris Suvarine di un decennio), ma Kravčenko ottenne un successo straordinario in Francia, con oltre mezzo milione di esemplari venduti, e il partito Comunista francese si mobilitò. Aragon, direttore di “Les Lettres Françaises”, settimanale culturale del partito Comunista francese, denunciò il libro come una manipolazione dei servizi americani. Kravčenko si querelò per diffamazione. Il processo fu lungo, il Pcf schierò i suoi maggiori esponenti a difesa di Aragon, Kravčenko ebbe ragione, ma da risarcire con un franco simbolico, malgrado gli enormi costi del processo – poco dopo si suiciderà. Fra gli accusatori più determinati di Kravchenko fu Roger Garaudy, allora filosofo marxista - qualche anno dopo lascerà Marx per la chiesa cattolica.
Il resoconto di Berberova, che seguì il processo come redattrice di un periodico di emigrati russi, si legge ancora come testimonianza sui testimoni, su quelli portati da Kravčenko e su quelli di Aragon e il Pcf.
Fra i tanti si segnala Margarete Buber-Neumann, per una vicenda ancora più staliniana di Kravčenko. Sposa dapprima di Rafael Buber, figlio di Martin, poi di Heinz Neumann, entrambi esponenti di primo piano del partito Comunista tedesco tra le due guerre, molto attiva negli ultimi anni di Weimar, aveva subito nel 1938 la disgrazia del marito, col quale si era esiliata a Mosca, ex pupillo di Stalin, e fu confinata a Karaganda, nel Kazakistan, un campo di concentramento “grande due Danimarche”, nel quale disponeva di un capanno d’argilla, infestato da milioni di cimici, guardata da pattuglie mobili. Scambiata da Stalin nel 1940 con fuoriusciti russi in Germania, nel quadro dell’accordo con Hitler, era stata richiusa nel lager femminile di Ravensbrück, dove s’ingegnò di sopravvivere – benché osteggiata dalle internate politiche per il suo comunismo: dapprima dalle stesse internate comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Il tribunale di Parigi non credette a Margarete, che era stata in un campo in Kazakistan “grande due volte la Danimarca”, sentenziando non potersi dire un campo una prigione “se non è cinto da mura”.
Nina Berberova, Il caso Kravchenko, Guanda, pp. 294 € 18,50

lunedì 21 gennaio 2019

Letture - 371

letterautore


Arte - È dell’inimicizia, più che dei manufatti estetici? Giuliano Briganti ne dà incontestabile-…   testimonianza negli articoli raccolti dalla sua sposa Laura Laureati sotto il titolo – satirico? - “Affinità”. In tutti gli articoli c’è una rissa, un odio, un dispetto. Ricordando, per esempio, Argan, di cui Briganti è stato amico, storico dell’arte da lui apprezzato: “È difficile ignorare che si configurò allora nel campo dei nostri studi lo schieramento di due parti avverse che si estese, dal campo specifico della storia dell’arte, all’università, e di conseguenza ai concorsi universitari, all’editoria, alle rubriche dei giornali e delle riviste, ai rapporti con l’arte contemporanea e a qualsiasi spazio dove l’arte anche marginalmente potesse entrare in campo”. Il campo di Roberto Longhi, di cui Briganti era stato l’assistente, il campo di Lionello Venturi, patrono accademico di Argan.
Argan Briganti un po’ lo assolve, Venturi no: “Ho potuto apprezzare tanti suoi scritti sul Settecento e sull’Ottocento che anche hanno fato parte della mia formazione. Il che non potrei dire davvero per gli scritti di Lionello Venturi”. Che, va aggiunto, sabotò all’origine, e quindi per sempre, la carriera accademica di Briganti, discepolo di Longhi: confinato all’università allora di terz’ordine, un esamificio, di Siena, Briganti arriva a Roma solo nel 1983, a 65 anni, relegata a Magistero – oggi Terza Università.
Più in là, a proposito dell’amicizia con Zeri, quarantennale, la trova e la dice unica in questo senso: “Le lunghe amicizie (chi non lo sa?) sono molto rare fra gli storici dell’arte. Siamo abituati piuttosto alle lunghe inimicizie, così lunghe che vanno anche al di là della morte e si ereditano, come quelle degli antichi clan scozzesi”. 
La faziosità è fortissima, come si sa, nel mondo intellettuale, che si penserebbe lontano – la cultura – se non immune da beghe, ritorsioni, vendette. Anche perché ha poco da dividere, soldi, incarichi, prestigio. E più aspra è nella vita accademica, che in quella culturale è ora la più indigente - ma la guerra si sa è senza fine tra poveri.

Dante – Islamofobo più che islamico, come è giusto. In quanto tale si ripropone per uno studio, che si vuole affascinante come un romanzo, di un quadro del Maestro di Memphis, un allievo di Filippino Lippi, alla National Gallery di Londra, dov’è conosciuto come “L’adorazione del vitello d’oro”. La filologo Roberta Morosini, dell’università americana di Wake Forest, sarebbe riuscita a farne, in quattrocento pagine, “Dante, il Profeta e il Libro: la leggenda del Toro dalla Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio” (L’Erma di Breitschneider), una appassionante, se non persuasiva, allegoria anti-islamica. Morosini era già nota per essersi posto il problema del perché l’islam, che Tommaso d’Aquino presenta nella “Summa contra gentiles” come un’eresia cristiana, sia da Dante considerato invece uno scisma, poiché mette Maometto nel canto XXVIII dell’“Inferno” tra i seminatori di divisioni.
C’è differenza sostanziale, dal punto di vista politico, tra eresia e scisma? Ma, poi, ogni critica del Dante anti o filo islamico non tiene conto che cristianesimo e islam erano in guerra perpetua, al suo tempo, da almeno cinque secoli. In Spagna, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, sulle coste liguri e anche toscane, e un po’ ovunque – per non dire delle crociate. Con qualche punta di interesse a Palermo, al tempo di Federico II, e poi in Spagna, dove Brunetto Latini si esercitò come arabista, ma in un quadro ostile – anche da parte islamica.

Sull’anti-islamismo di Dante, specificamente suo cioè e non del contesto e dell’epoca, la tesi più convincente è dell’accademico della Crusca Mahmud Salem Elsheikh, studioso egiziano allievo a suo tempo del filologo Contini, in un saggio, “Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad Inferno, XXVIII”, nei “Quaderni di Filologia Romanza”, 2015, pp. 263-299. Elsheikh ricorda e documenta l’ovvio: l’immagine nemica di Maometto nella pubblicistica medievale – e anche successiva, sembra evidente – tanto ignorante quanto ostile: mago, capomafia, monaco intrigante (uno che briga per il patriarcato di Gerusalemme…). Nello specifico del canto XXVIII dell’“Inferno”, Elsheikh segnala due accostamenti rivelatori, tra i “creditori colpevoli”, di Maometto col maestro di Dante ripudiato Brunetto Latini, corrivo panarabista, in Spagna e a Firenze,  e col poeta provenzale Bertran de Born, che il “De vulgari Eloquentia” aveva segnalato come “il maggiore cantore delle armi”. Maometto è in compagnia dei due ripudi culturali maggiori di Dante. Che qui sarebbe dunque particolarmente cattivo per la “sindrome del debitore” – da qui anche il “contrappasso”, hapax del poema.

Henry Miller – L’infinita superiorità di Henry Miller su Kerouac” è tema di lunghe discussioni notturne del giovane Paul Auster (“Diario dall’interno”) con i suoi amici a New York, e con la scrittrice Lydia Davis, che sarà la sua (prima) moglie.

Nizan – L’autore di “Aden Arabie”, col definitivo “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”), sopravviverà di poco, una quindicina d’anni ancora, il partito Comunista francese avendolo scomunicato a morte. Nel 1939 fu dichiarato da Aragon e dal Pcf una spia e un traditore. Un delatore, esattamente, “donneur”,  reo di avere criticato il patto Hitler-Stalin. Nizan andò volontario in guerra a trentacinque anni e morì a Dunkerque.
Sartre, che ne era l’amico del cuore, formavano la coppia “Nitre-Sarzan”, i due occhialuti della classe 1905 all’École Normale Supérieure, ne scrisse in morte un racconto nostalgico, che non pubblicò.

Scrittura – Era all’origine risentita come il digitale oggi? La diffidenza e le obiezioni al digitale sono curiosamente le stesse che Socrate poteva argomentare nel “Fedro” quando il dio inventore di Naucrati, Theuth, idea i numeri – il calcolo, la geometria, l’astronomia, i giochi della dama e dei dadi - e la scrittura. Al re dio dell’Alto Egitto Tamos, che deve disporne l’utilizzo, Theuth loda in particolare la scrittura: “Ho scoperto un “farmaco” per la memoria e la saggezza”. Farmaco in greco è “pozione magica”, che è insieme cura e veleno. Ma Thamos obietta - preveggente?: “Quelli che scrivono indeboliranno l’esercizio della loro memoria, diventeranno dimentichi, si baseranno su segni esterni della scrittura invece che sulla loro capacità interna di ricordare le cose. Hai scoperto un farmaco per rammentare, non per la vera memoria. Quanto alla saggezza, tu offri agli studenti la mera apparenza di essa non la realtà. Riceveranno molte cose da te ma senza adeguata istruzione. Sembreranno conoscitori mentre sono piuttosto ignoranti, e sarà difficile andarci d’accordo - esibiranno la presunzione della saggezza invece di essere realmente saggi”

Vita accademica - Non ha memorie grate. Si penserebbe il contrario, tra addetti al pensiero e alle sue applicazioni, immuni dal bisogno in quanto grand commis pubblici, appassionati alla formazione. È invece luogo e focolare di frustrazioni. E le frustrazioni non sono battaglie (perse) di idee, ma ripicche, gelosie, invidie. Di incarichi, cattedre, promozioni, nepotismi, mafie. Per la divisione del poco – il “bottino” si può dire irrilevante: un palazzinaro, anche di un solo palazzo, guadagna di più che un accademico in tutta la sua carriera, con lunghe vacanze e senza gastriti. Non l’Olimpo ma una guerra dei poveri. Usavano un tempo le celebrazioni della vita accademica, ora le esecrazioni.

letterautore@antiit.eu

Recessione (76)

Le banche Usa (Bank of America et. al.) rivedono al ribasso le stime dell’economia italiana, dando per il quarto trimestre il pil in calo dello 0,2 per cento, e quindi un’economia in recessione “tecnica” (produzione in calo per due trimestri consecutivi).

La recessione si prolungherà nel 2019,  anno per il quale la crescita complessiva viene ridotta allo 0,2 per cento, con i primi due trimestri in recessione.

Il pil po capite reale – al netto dell’inflazione - è diminuito tra il 2007 e il 2017 del 7,9 per cento – di un dodicesimo (“Il Sole 24 Ore”). È ora, nella media nazionale, con notevoli dislivelli tra regione e regione,  a 26.426 euro – era a 28.700 euro prima della crisi.

In Molise, Umbria, Lazio e Sicilia il pil pro capite è diminuito nel decennio di più del doppio.
Solo in due aree è aumentato, Bolzano (1,3 per cento) e Basilicata (3 per cento).

Nelle altre economie europee il pil pro capite è invece aumentato (Eurostat).

Fatto 100 il pil pro capite nel 1995, l’economia italiana è quella che è cresciuta meno tra tutti i paesi industrializzati, a quota 106 nel 2017. Tutti gli altri paesi industrializzati (37) sono cresciuti a partire da un indice 120 in su – l’area euro, esclusa l’Italia, del 134,7 per cento.

L’attesa ambigua della liberazione


Un film claustrale, d’immagini sfumate, sfuocate – l’unica solare è la fuga dei tedeschi da Parigi (e il mare, da ultimo, un giorno di libeccio, alla foce del Magra sotto Monte Marcello). È l’aprile del 1945, gli Alleati sfondano ovunque in Germania, gli internati ritornano, attesi da moltitudini di donne, ma non c’è festa.
Un’attesa che è un racconto risarcitorio, o di espiazione, della propria Marguerite Duras, dedicato a un Frèdéric Antelme, che potrebbe essere il figlio nato morto di Marguerite e Robert. È l’attesa del ritorno del marito Robert Antelme: un’attesa disperata ma ambigua, di sensi di colpa, vivendo già l’autrice con Dyonis (Mascolo), amico di Robert e suo compagno nella rete di Resistenza di Mitterrand – il quale s’incaricherà personalmente di ritrovare Robert ancora vivo a Dachau nel sttore moribondi, in quarantena per sospetto tifo, e di trafugarlo alla libertà e alla rinascita. “Sì, Robert non è morto a Dachau” è la conclusione. Dopo che lei gli ha detto di voler divorziare, per fare un figlio (perché attende un figlio, n.d.r.) con Dyonis, e ha risposto no alla sua richiesta di continuare a rivedersi. Quarant’anni dopo, cinque prima della morte di Antelme, Marguerite Duras “ritrova” questo vecchio testo, il racconto è in forma diaristica, come contemporaneo ai fatti, e lo pubblica.
Il film utilizza nella prima parte uno dei racconti che Duras aveva aggiunto a “La douler”: “Monsieur X, detto qui Pierre Rabier”, sul francese della Gestapo che li ha arrestati – Marguerite è sfuggita all’arresto per l’intervento in extremis di Mitterand. In una versione già anni 1980, post “Portiere di note”, il film di Liliana Cavani, e Pasolini di “Salò Sade”, sull’ambiguità del male.
Un film semplice, che ripete pari pari i racconti di Marguerite Duras, e complesso: sa dare forma alle paure, forzate, e alle ambiguità della protagonista, pur senza scalfire il senso di tragedia che è in questa liberazione, il senso del titolo: il dolore dell’attesa e anche della sua soluzione.  
Emmanuel Finkiel, La douleur

domenica 20 gennaio 2019

Problemi di base francescani bis (467)

spock

Dopo il coro, perché non la cappella Sistina – è uno scandalo?

Perché il papa si agita, non ha fede?

Dopo le benedizioni, le maledizioni?

Viaggia poco e breve, papa Francesco, ha paura del golpe?

Se il diabolico è divino, il divino è diabolico?

Il papa dev’essere aperto alle critiche, di Scalfari?

“L’oscitanza delle coscienze è fatale più che la risoluta incredulità” (Cesare Trevisani)?

spock@antiit.eu

Plauto malinconico e musicale


Un pescatore ridotto in miseria, che ha perduto la figlia, la ritrova. Nel mezzo la vita agra dei pescatori, tra stenti e truffe. Rudens  è la gomena, che si lancia alla barche per l’attracco. Poco vi si áncora, il mare è avaro. Ma abbastanza per far rinvenire una cassetta preziosa, che contiene le chiavi di tutto.
La commedia forse meno rappresentata di Plauto, perché poco “plautina”, povera di lazzi, doppi sensi, giochi di parole, e anzi fantasiosa, onirica, quasi fantasy. Che Vincenzo Zingaro ripesca e riadatta per il suo Centro Stabile del Classico, stimolato dall’ispirazione che Shakespeare (“La tempesta”) e Della Porta (“La fantesca”) ne hanno tratto, dopo Ruzzante (“La piovana”) e Ariosto (“La Cassaria”). Ma con important accorgimenti, che potrebbero portare a innovare la ricezione di Plauto, la sua lettura, senza tradirla.
È un’opera che si pone al passaggio tra la commedia neo greca e quella latina, la fabula palliata,  comica e insieme malinconica. Che poi deriverà nella commedia dell’arte, e ora nella commedia all’italiana. È la lettura che Zingaro privilegia, in una vicenda che fa svolgere corale. Accentandone il realismo con la caratterizzazione dialettale dei personaggi, sarda, siciliana, romanesca. Assecondato da una compagnia partecipe, Annalena Lombardi, Piero Sarpa, Rocco Militano. E il fiabesco con la scena - da un lato la casa, dove non c’è vita familiare, dall’altra il tempio, dove non c’è divinità – d’immobile solarità, le luci, i costumi, i nomi, il canto.
I nomi, adattati, sono favolistici: Ombrina, Alghetta, Muggine, Marmora, Squalo. Le parti cantate – tutte originali, naturalmente, musiche di Giovanni Zappalorto – sono la novità maggiore di questa ripresa. La commedia di Plauto era recitata e cantata, proprio, era commedia musicale, e la compagnia dello Stabile ne restaura l’uso.
Tito Maccio Plauto, Rudens, Teatro L’Arcobaleno Roma