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sabato 19 ottobre 2019

Problemi di base - 515

spock


Perché una famiglia ricca non sarebbe meglio di una povera?

Con lo psicoterapeuta per di più?

Bisogna che ci siano i poveri perché ci sia la carità?

I furbi sono furbi con se stessi?

Il sommo bene consiste nel nulla, Lao Tze?

“Quando la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza non per questo diventa verità”, Stanislaw Jerzy Lec?

Ce n’è altra, di verità?


spock

La sinfonia dell’amore


Una visione. Dall’idillio, col valzer sognante al secondo movimento, e gli elfi e le fate del terzo. Al sabba, cui Berlioz non fa mancare il “Dies Irae”, trademark dell’“impio” (non pio), ma con trilli giocosi dei violini. Una favola, la favole dell’amore. Un exploit dela forza di Beethoven. Che consacra lo sconosciuto, autodidatta, musicista. Una composizione subito famosa, di autore prima non considerate, per una storia inverosimilmente capricciosa – come tutte quelle di Berlioz con le donne.
La storia infatti è diversa – la musica non si fa condizionare dalla storia. La Sinfonia nacque ispirata dall’attrice Harriet Smithson, l’irlandese che recitava Shakespeare a Parigi. Che Berlioz, affatato, insistette per prendere in moglie, con un profluvio di lettere. Harriett resistette. E quando cedette le andò tutto storto.
Miss Smithson evitò a lungo ogni incontro col compositore, perfino le prime esecuzioni della “sua” sinfonia, da lei ispirata. Quando infine cedette, fu fischiata a teatro, ebbe il volto sfregiato dal fuoco, finì invalida e querula, e morì sola in povertà, ventisette anni dopo il fatale incontro, lasciando infine libero Berlioz, che da mesi faceva di nascosto il trasloco dalla loro casa coniugale, un pacchettino alla volta, di risposarsi immediatamente.
Scrivendo di “Lélio” a miss Smithson, 1832, due anni dopo la “Sinfonia fantastica”, Berlioz faceva, dopo quello che sarà lo “Chant d’amour” per tenore e arpa, la suprema confidenza: “L’amico, l’amante tuo, t’invoca in soccorso”. Glielo scriveva in alessandrino, prolisso come in musica, dopo averla chiamata Ofelia e Giulietta – aveva avuto il colpo di fulmine ascoltando Harriet in teatro nel ruolo di Ofelia: “Oh perché non ritrovarla, questa Giulietta, questa Ofelia che il mio cuore invoca! Perché non posso inebriarmi della gioia mista a tristezza che il vero amore offre, e una sera d’autunno, cullato con essa dal vento del Nord su qualche selvaggia brughiera, addomentarmi infine tra le sua braccia in un malinconico ed estremo riposo”. Miss Smithson non era superstiziosa. Non che si sappia. Ma, essendo Ofelia non soltanto sul palcoscenico, “sapeva” che la stessa lettera Berlioz l’aveva composta per la già nota pianista Camille Moke.
Camille, “grazisoa ragazza”, amica del pianista-compositore Ferdinand Hiller, a sua volta confidente delle pene amorose di Berlioz, sarà autrice di pettegolezzi micidiali su Harriet, di ritorno da fallite tournées in Olanda e Inghilterra, e sul punto di essere abbandonata dal pubblico parigino. Non era sola: “La compiango e la disprezzo”, scriveva  Berlioz all’amico Ferdinand, “è una donna ordinaria, dotata di un genio istintivo per esprimere gli strazi dell’animo umano, che essa non ha mai provato, e incapace di concepire un sentimento immenso e nobile come quello del quale la onoravo”. Scrive di Harriet, che poi sposerà, non di Camille. Della bella pianista, di cui ha avuto il letto e la promessa, il compositore ha anche la sorpresa a distanza di qualche settimana di saperla sposata.
“Non potevamo vivere insieme, né lasciarci”, dirà Hector in morte di Harriet Smithson. Per tre anni ha abitato nell’appartamento di lei, ottenendone un “vi amo” ma non il letto. Sposando nel 1833 la matura attrice la trova, scrisse a Liszt, “vergine, tutto quello che c’è di più vergine”. Nel 1848 Harriet, al quinto attacco, resta paralizzata. L’agonia sarà lunga sei anni. E solo allora Hector, a cinquant’anni, si sentirà libero, dopo l’interminabile trasloco, di sposare Maria Recio, una cantante che “canta come dodici gatti”, la cui stupidità aveva per anni fuggito, che lo teneva coi fianchi forti e gli impedirà l’amicizia di Wagner e ogni altra opportunità.
Già dieci anni prima a Praga, dopo essere stato riacciuffato a Weimar da Maria, che aveva disertato la notte a Mannheim, l’aveva presentata come sua nuova moglie, dicendo Harriet morta. Preparava le vacanze con Maria con la stessa metodica del trasloco finale, facendo uscire di casa per più giorni in pacchetti i materiali musicali e ciò che gli serviva per il viaggio, e la stessa Maria lasciò a Mannheim con analoga tecnica. Ma non si può dire nemmeno Berlioz uomo di nessuna amabilità, poiché tante donne lo importunarono con perseveranza. Il destino a volte si prevale della mediocrità delle persone e della storia.
Pappano ha esaltato, trascinante, i toni melodici. Fino a privarsi nel quinto movimento, del sabba, dei violini e le viole che con l’archetto percuotono lugubri il legno. Secondato dallo stato di grazie dei fiati, oltre che degli archi all’unisono. Il pianista Kissin, che ha voluto assistere alla “Sinfonia” dopo la sua performance, il Concerto n. 2 di Lizst, seguito da ben quattro bis, ne era estasiato.
Hector Berlioz, Sinfonia fantastica, Antonio Pappano, orchestra e coro dell’Accademia Santa Cecilia, Roma

venerdì 18 ottobre 2019

Problemi di base anagrafici - 514

spock


Togliere il voto a Grillo, settant’anni?

E la parola?

Grillo è stanco di votare?

E di recitare?

Si può dire tutto?

Di che stiamo parlando?

Verba volant?

Bisogna che ci siano i comici?


spock@antiit.eu

Letture - 400

letterautore

Austria-Vienna – Il paradiso dei mitteleuropei è rifiutato dai suoi Autori, il Nobel Handke e il Nobel-di-tutti Bernhard , come già da Ingeborg Bachmann. Anche l’altra Nobel, Jelinek, non è tenera. Handke e Bernhard si può supporre per motivi personali: entrambi illegittimi, nati da madri nubili con uomini sposati. Entrambi cresciuti con un patrigno, con la sola autorità paterna, a distanza, del nonno materno. Bachmann e Bernhard in polemica col tiepido antinazismo austriaco, bollato come nazismo. Handke, di madre slovena, arrivato al punto di coltivare lo slavismo, almeno fino alla guerra contro la Serbia, a preferenza del germanesimo. Bachmann e Handke hanno scelto di vivere fuori dell’Austria, Bernhard in continua polemica.

Auto elettrica – Gadda si diverte, scrivendo nel 1931, su una vecchia foto del principe di Galles, il futuro Edoardo VII, che all’Expo di Parigi nel 1900 “siede pieno di bonomia in una elefantesca carcassona ad accumulatori, che doveva certo raggiungere i 12 km. orari”. Velocità ritenuta temeraria.

Balzac – Ha 2.060 personaggi, secondo un “Répertoire de la Comédie Humaine” di Cerfberr e Christophe, citato in Pierre Abraham, “Créatures chez Balzac”, che qualche anno dopo prendeva le misure dell’autore sotto tutti i possibili aspetti scientifici – statistici, psicologici, etici, eccetera.

Burgess – Ha tradotto in italiano Joyce, “Finnegans Wake”, ha cominciato a tradurlo, insieme con la moglie Liana. Ne diede l’annuncio alla rivista “American Scholar” nel numero Inverno 1971-72: “Il nostro titolo di lavorazione, a proposito, è pHorbiCEtta: forbicetta significa «earwig»; si possono vedere le iniziali di Humphrey Chimpden Earwicker saltare fuori dalla parola in tutto o in parte”; si rivolge al mondo – orbi; è insieme papa e insetto”. 
Qualche anno dopo, 1975-77, Burgess collaborerà con Zeffirelli per “Gesù di Nazaret”. 
La Fondazione Burgess conserva una traduzione in italiano di 11 pagine. Una col titolo,  “pHorbiCEtta. James Joyce”, manoscritto e illustrato da Burgess, e forse dal figlio Andrew. Quattro pagine di prova di traduzione manoscritte, che corrispondono alla pagina 70 di “A shorter Finnegans Wake”, col dattiloscritto della stessa prova di traduzione, con una correzione autografa. Una pagina di traduzione provvisoria, corrispondente alla prima pagina del romanzo, con correzioni manoscritte di Burgess. Cinque righe di traduzione della prima pagina, con correzioni manoscritte di Liana Burgess e Anthony Burgess.  

Dialetto – Ha dato i migliori risultati nella prosa novecentesca con scrittori di cui non era la lingua madre, il romanesco di Gadda e Pasolini. Mentre il napoletano Eduardo italianizza. E il Pirandello siciliano è stato presto desueto – Camilleri non fa testo, il suo “siciliano” è legato a personaggi caratterizzati del ciclo Montalbano.  
Gadda nel 1954 faceva della pratica naturale del dialetto la condizione della sua riuscita letteraria. Recensendo l’“Hypnerotomachia Poliphili” del “trevigiano Francesco Colonna, frate, il tipo di umanista claustrale”, “una sorta d macchinone allegorico-fantastico-sensorio di una rara stoltezza,  redatto in un italiano-latino-greco della più strana qualità, nato dalla solitudine e dalla follia letteraria”: “La prosa del dissennato umanista perviene (involontariamente?)  ai confini della maccheronea e del grottesco…. Ci mostra in quale «impasse» è venuto a cacciarsi lo scrittore da tavolino che vuole inventare una lingua su documenti letterari senza tener conto della realtà realmente linguacciuta  di Padania, o di Toscana, o di Napoli”. 

Diritti – Verdi ebbe un anticipo di un milione di euro per “Otello”, mantenendo per sé i diritti d’autore – da documenti di Casa Ricordi esposti a New York, alla mostra “Verdi” alla Morgan Library and Museum.
Manzoni “ha fatto meno soldi di Moravia e Pasolini e Germi e Fellini”, secondo un indispettito Gadda (ne scrisse in tal senso a Citati il 26 luglio 1960). Indispettito contro Moravia che aveva diminuito Manzoni presentandolo nei Millenni Einaudi. “Il Manzoni era un signore, malato d nervi, un po’ fissato sulla cioccolata…come conservatore ha fatto meno soldi….”.

Fenici – Sono sconosciuti a Roma. Negli stessi luoghi, il Colosseo e il Foro Romano, dove una insistente pubblicità dice che sono celebrati in una grande mostra. La richiesta d’informazioni a due addetti all’informazione del Foro Romano, perfetti nelle divise, compiti al tratto, non due coatti rivestiti, sul dove la mostra annunciata fosse visitabile ha prodotto sguardi smarriti e non so. Non meglio è andata allo 060606, il centralino di informazioni di Roma Capitale, solitamente servizievole. Allo 060608, il centralino di Roma Capitale per gli spettacoli e “gli eventi”, uguale incertezza. Dissipata all’ultimo, per caso, per aver detto “Ma sì, i Fenici, i Cartaginesi”. L’operatrice si è allora illuminata: “Allora lei intende la mostra Carthago”.
Scontato che l’operatore pubblico è pagato per non lavorare, però: non deve avere la terza media?

Finnegans Wake – Fu subito indovinelli e sciarade. Mentre era ancora in mente a Joyce. Già nel 1929, mentre la scrittura era agli inizi, più programmatica che realizzata, il riferimento era a un “work in progress”, si pubblicava una corposa raccolta di saggi esplicativi, col debutto nelle lettere di Samuel Beckett. Non spessa, una ottantina di pagine, ma dal titolo finneganiano, “Our Exagmination round his factification for incamination of Work in progress”, e si avvaleva di una decina di contributi. Tra essi quelli di William Carlos Williams, Eugene Jolas, Marcel Brion, Robert McAlmond – si segnalava per l’assenza Pound, ostetrico e mallevadore dell’“Ulisse”.
Beckett apre la raccolta con otto pagine sulle influenze italiane maturate da Joyce: “Dante… Bruno. Vico… Joyce”.

Il volume, tradotto nel 1964 da Francesco Saba Sardi, con una prefazione di Sylvia Beach, era stato già segnalato da Eco nel 1962, con la parodia “My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni”, in cui fa attribuire “I promessi sposi” a Joyce – che ha poi incluso in “Diario minimo”.

Generazione X - Lamenta Scurati sul “Corriere della sera” “l’infecondità” della sua generazione, di quaranta-cinquantenni, la Generazione X, oggi “padri senza figli”. Curioso lamento in contemporanea col ritorno dei padri contro i figli, Del Vecchio e De Benedetti. Dopo il ritorno, qualche tempo prima, di Luciano Benetton e del poi defunto Caprotti. Di padri che si sono riprese le aziende che avevano legato ai figli. Troppi casi per essere “casi”: l’Italia è un Paese bloccato, anche generazionalmente. Non per colpa dei vecchi, dato che al ritorno sono migliori dei giovani.

Giallo  - “La Lettura” si dedica al giallo. Con cinque giallisti di fama, De Giovanni, Lucarelli, Lagercranz, Fiona Barton, Michael Connelly. Che sottolineano ognuno una ragione del successo di pubblico di questo genere, in Italia a lungo marginale. Ma nessuno che dica quella probabilmente più importante: la “popolarità” dei personaggi, più che gli intrecci, anche morbosi, o gli inquirenti, anche di peso, come Montalbano o Maigret. È il successo tv che lo dice: i gialli sono visti da “tutti”. Perché fanno partecipare “tutti”, la portinaia e il bifolco, il drogato e la ragazza pia. Si dice il realismo del giallo un realismo nuovo, non il “naturalismo” fine Ottocento, alla Zola, alla Verga. Ma in una vena ordinaria, della quotidianeità. Epico di fatto, ma dei piccoli e ignorati.  

Nievo – Gadda ne era conoscitore e estimatore, che lo apparenta più volte a Stendhal, nelle recensioni dei primi anni 1930 ora raccolte in “Divagazioni e garbuglio”. Recensendo il cugino Piero Gadda, gli trova (ironicamente) patrons Stendhal e Nievo, “i quali non sono così lontani fra di loro, almeno se si pensi a certo Stendhal della ‘Certosa’”. Per poi dire che Piero “va avanti benissimo per conto suo”, senza scomodare Stendhal, e senza Nievo: “Né il Nievo gli ha prestato la sua prosa robusta, elegantissima e classica, polposa e icastica, ma forse un po’ del suo tono e del suo clima, e di quel brio così dolcemente umano e satirico a un tempo,e di quella così chiara aura come chi dicesse una luce d’Italia, malinconica e serena oltre il migrare delle tempeste”.

Stendhal – “Livio e Cesare sono stendhaliani più che uno non pensi”, C.E.Gadda (“Divagazioni e garbuglio”, 60-61). Anche se “il senso tragico ed ossessivo della morte e dello scannamento vi domina (jam ad necem pervenerant) e quell’altro del presente volere, opposto al destino”.

letterautore@antiit.eu

Enciclopedia del populismo

Un libro di Scienza Politica infine “sul pezzo”: che dice di cosa parliamo. Sulla rivista “Trasgressioni”, che ha fondato e anima, Tarchi ha promosso una serie di saggi sui tanti aspetti del populismo: la storia, le tipologie, gli esiti. E soprattutto sul rapporto con la democrazia, di cui è espressione, la si voglia pure esasperata.
Un’indagine vasta e critica, benché vista da una posizione culturale che al populismo di questi anni 2010 ha dato avvio. Contestatrice di un assetto sociopolitico insoddisfacente dopo la fine delle ideologie – dopo la caduta del bolscevismo. Con contributi di provenienza varia, geografica, linguistica e politica.
La destra non è populista, spiega Tarchi, che al “Cesare Alfieri” di Firenze ha la cattedra che Sartori ha illustrato. Cioè lo è anche, ma il populismo non la esaurisce. Né il populismo si risolve nella destra.
Non una soluzione, ma un’indicazione - la politica non è una soluzione. Per chi fa politica e per chi si limita a votare. Di più per chi la commenta, che spesso non sa di che parla.
Marco Tarchi (a cura di), Anatomia del populismo, Diana Edizioni, pp. 365 € 19

giovedì 17 ottobre 2019

Il deserto di Trump

Non si capisce perché Trump si ritira dal Medio Oriente? Perché è desertico, come dice lui – “lì c’è abbastanza sabbia per tutti, per giocarci”? Oppure sì, si capisce: in politica estera, e soprattutto nelle strategie militari, tutto è calcolato. Ma non si sa. È calcolato da da chi? Dal Dipartimento di Stato, dal Pentagono, dalla Cia? Nel quadro di quale politica? Nemmeno ai “volenterosi” di tante coalizioni americane per il Medio Oriente, dal Libano all’Afghanistan, passando per la Somalia, viene dato un cenno di spiegazione.
In altre circostanze si sarebbe parlato di onore  disonore. Gli Stati Uniti, che hanno schierato i Curdi contro Assad e contro i terroristi islamici, ora li abbandonano. Trump non tiene in conto il concetto di onore, che pure vale in politica estera - la parola data, la fiducia reciproca - e pazienza. Ma dovrebbe nella sua etica sapere che i compagni di merende non sono affidabili. Ora sta tutto con Erdogan - garantisce ai Curdi cinque giorni di tregua, ma per ritirarsi dalle aree che hanno sempre abitato e che Erdogan vuole. Ma che cambiale ha su Erdogan, parlando in termini di diplomazia degli affari, che Erdogan è tenuto a pagare? Non ne ha.
Dice: i Curdi sono comunisti. Mah. Trump è ignorante, ma stupido non è
Ruhollah Zam, un oppositore degli ayatollah, in esilio in Francia, è indotto dai servizi segreti francesi, che lo proteggevano, a recarsi in Iraq, per finire in una trappola dei servizi segreti iraniani. Un favore, si dice, agli ayatollah per ottenere il rilascio di alcuni francesi arrestati in Iran per spionaggio. Il ricatto funziona, dunque.
Ma il khomeinismo è già passato per i servizi segreti francesi: l’oscuro ayatollah Khomeiny fu fatto arrivare in Francia, dopo una vita anonima in Iraq, e da lì montato mediaticamente fino ad abbattere lo scià, troppo filoamericano.
Nei rapporti con l’islam, cioè col Medio Oriente, qualcosa sfugge sempre: sono affari esoterici?
Anche l’abbandono del Medio Oriente alla Russia di Putin sfugge a ogni considerazione politica. A un Putin che invece si vuole bersaglio di sanzioni e boicottaggi. La politica estera non va per caso, è sempre analizzata e pesata. Perché dobbiamo boicottare la Russia, le nostre esportazioni in Russia, e regalarle mezzo Medio Oriente – Iran, Siria, Iraq – tra l’altro pieno di petrolio?
Resta un mistero anche l’alleanza stretta degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita, ora anche militare. Non c’è sabbia anche lì? Per non dire dei regimi patrimoniali, che nella penisola arabica si tengono nel Duemila come gli analoghi feudi in Europa coi Normanni qualche secolo fa. Creando castelli. Ma non più stabili dei regimi militar-teocratici che Trump abbandona.

Secondi pensieri - 398

zeulig


Gesù – È figura popolare nell’intellettualità asiatica, anche tra i non credenti. Come figura storica e come parte delle religioni asiatiche. Mentre perde terreno nell’intellettualità occidentale. È motore del “progresso”, della costruzione della storia?  V. Ian Johnson, “The Eastern Jesus”, in “The New York Review of Books”, 24 ottobre,
In India da lungo tempo nei commentatori religiosi – oltre che, va aggiunto, nella persistenza del culto nestoriano in Kerala di cui in Arundhati Roy, “Il Dio delle piccole cose”. .In Corea del Sud e in Giappone come adesione popolare al cristianesimo nella fase postbellica di occidentalizzazione. E ora soprattutto in Cina, proprio fra gli Han, i cinesi-cinesi, il 92 per cento della popolazione, purché entro i limiti posti dal regime: adesione al Partito, disciplina, patriottismo, eccetera.  Con adattamenti altrove della figura di Cristo. Specie in India, dove viene spogliato della nascita virginale, nonché di comportamenti non-etici, quali mangiare la carne e il pesce.
È il motore del “progresso”, della storia-che-si-fa, prometeica?
Contemporaneamente è figura che si perde - stinge, evapora, si dimentica – in Occidente. In quello che si considerava il suo Occidente. 
È questo dellOccidente un affrancamento? Una involuzione? Stinge nell’intellettualità. Che per altro non brilla in questa fase in Occidente – ristagna, la mente come l’economia.

Masochismo - Il masochismo è la forma più dura di sadismo, inscalfibile. Un complesso di colpa che non ha complesso di colpa. O: dove il complesso di colpa si esprime – si esercita, infierisce -  liberamente, senza complessi, senza freni.

Nuovo – È il must di ogni bene intenzionato. Disfarsi del vecchio, pensare e agire “nuovo” – nuovo ha sostituto rivoluzione e rivoluzionario. Ma è approssimato, una mozione della volizione, senza più. Mentre resta vero che “pensare con chiarezza è il primo necessario passo verso la rigenerazione politica”, di G.Orwell, “La politica e la lingua inglese”.

Paternità – In desuetudine perché ingiusta? Nel rapporto padri-figli, secondo il detto notarile “le mort saisit le vif”, il morto entra in possesso del vivo, attraverso i beni che gli trasmette – e attraverso la memoria.
La maternità svolge questo ruolo in vita, con i figli maschi e – nell’antitesi – con le femmine.

Patriottismo – Non è reazionario: è argomentazione di Orwell in guerra, nel 1941, “Il leone e l’Unicorno”, ma con valenza più ampia. V. p.85. “Nessun rivoluzionario è mai stato un internazionalista”, scopre Orwell: l’internazionalismo della rivoluzione francese era imperialista. Lo stesso il bolscevismo, che sotto l’ombrello dell’internazionalismo schiavizzò mezza Europa. O del partito Comunista cinese, dal Tibet a Hong-Kong.
“Il patriottismo non ha niente a che fare col conservatorismo”, è l’argomento di Orwell: “è di fatto l’opposto del conservatorismo, poiché è la devozione a qualcosa che cambia in continuazione e tuttavia è sentito come misticamente lo stesso. È il ponte tra il futuro e il passato. Nessun rivoluzionario è mai stato internazionalista”.

Selfie – “Nevo narra Nevo, che romanzo!”, è entusiasta Piperno dell’ultimo libro del romanziere israeliano. La vita - presunta ovvio, propria o altrui , nel vecchio genere della biografia ora passato alle immagini (docufilm) – come romanzo. Narrazione. Storytelling. Parte dello “storione familiare” freudiano. Ma con una prospettiva accorciata, semplificata: Non l’occhio-memoria di uno su un  altro, ma su se stesso. Con un’accresciuta dunque implausibilità. La plausibilità è quella romanz-ata-esca, ma poi?
Niente mi sembra danneggi per sempre il ricordo di un uomo più dell’autocompiaciemnto. Anche quando si presenta nelle vesti della modestia” è riflessione di Wittgenstein, “Movimenti del pensiero”, 39.

Storia – “La storiografia, seppur la confortino pergamene e decretali, brevi e brevetti, ceralacche e diplomi, è pur sempre una attività dello spirito: la pelle della pecora diplomatica, o il sasso della stele di Lione non impediscono Eràto di esser musa”, C.E.Gadda, “Divagazioni e garbuglio”, 101.
Ib.:”La storiografia presuppone una memoria, una percezione del nostro essere di genti o famiglie umane, che sia vasta e profonda al possibile. Dobbiamo vederci e sentirci consecuzione vivente di chi ha vissuto. E talora alcuno di nostra gente, quando si chiama Livio o Vergilio, rivive e risogna nell’attimo quella che è stata la tragica figurazione della storia”.
Id. p. 145: “Il senso del passato, inteso come necessario supporto della nostra efimera contribuzione  alla conoscenza, si manifesta operante negli spiriti più alti”: Platone, Virgilio, Dante, Michelangelo. Mentre “il verboso epinicio del futuro, per converso,  esplode come trombone in fiera e petardo dalla pseudo-epilessia  del dipoi accademico Filippo Tommaso Marinetti. Pim pùm pàm!” – “il futuro è garentito al limone”.
La storia è sedimentazione. Il futuro invece opinabile: tra il fuoco d’artificio e la trenodia – si è volentieri negromantici sul futuro. È una forma di scongiuro?

Tempo – C.E.Gadda ha “il ruminante tempo”, “Divagazioni e garbuglio”, 129.

Umanesimo – Si tende a farne, con intento celebrativo, un momento storico, meglio se italiano (nazionale), di cambiamento di ottica, dal celeste e soprannaturale, o religioso, al terreno e l’umano, ma altrettanto celestiale, dominato da impulsi di pace e di giustizia – dalla virtù. In identificazione con l’“Occidente”. In antitesi  con la modernizzazione benché anch’essa “occidentale” : il balzo in avanti, la tecnologia, l’indistinto o amorfo planetario, finanche di un postumano – di un Prometeo autodistruttivo. Mentre è un sostrato, il lievito attivo di ogni palingenesi, sia pure distruttiva – quanta distruzione nell’umanesimo classico, dei secoli successivi al Quattrocento, dell’umanesimo storico, fino a oggi, alle vecchie, vecchissime e sempre rinnovate guerre di religione.


zeulig@antiit.eu

Le visioni di Poe


Dei “Marginalia” che oggi farebbero una fama e una carriera. Diminutivi, come era nel carattere schivo di Poe – “il nonsense è il senso essenziale della Nota a margine”. Prose giornalistiche – recensioni e elzeviri - come note a margine, di una vasta biblioteca. Che Poe non possedeva, ma ne aveva la cultura.
Scriveva le note per bisogno, e anche per il piacere di “vedere con chiarezza il meccanismo di qualunque opera d’arte”. Con la chiave, forse, dei “terrori” narrativi per cui è famoso, quando spiega la sua capacità di memorizzare le “visioni” tra sonno e veglia, I sogni, la parte dei sogni, che si ricordano: “Sono in grado di passare di soprassalto da quel punto alla veglia – e di trasferire in tal modo il punto stesso nel regno della memoria – di trasmetterne le impressioni, o più esattamente le rimembranze, a una situazione ove io possa esaminarle con occhio analitico” – altrove annota: “Dal volume della Disperazione, rilegato in ferro”. 
Pasolini teneva un taccuino a portata di mano per segnare le “visioni” ai risvegli notturni. Lovecraft non mancava di segnarsi gli incubi. Poe riusciva a fissare le immagini che si accavvalano al punto del risveglio, del “sonno attivo o paradossale”, i cinque-quindici minuti della “fase Rem”, rapid eye movement.
È l’edizione Theoria del 1994, con la stessa traduzione, di Cristiana Mennella,  e con la sempre suggestiva “nota al margine” di Ottavio Fatica. Di cui in questo sito un suggerimento per la riedizione, due anni e mezzo fa:
Poe è letterato di sterminata erudizione e intuizione, in entrambe le “due culture”. È ben lui l’autore anche di “Eureka”, il poema in prosa che Valéry poteva dire ancipatore della teoria della relatività. A torto, ma a ragione era ben nel solco di quello che sarà il darwinismo, con annessa teoria del Big-Bang, del mondo che ha un iniziio e che è in evoluzione. Questi marginalia sono divaganti ma bien pondus.  
Edgar Allan Poe, Marginalia, Adelphi, pp.249 € 14

mercoledì 16 ottobre 2019

Problemi di base finali - 513

spock


“Perché gli uomini si aspettano in generale una fine del mondo” Kant?

“E, quand’anche si conceda loro questo, perché proprio una fine accompagnata (per la gran parte del genere umano) dal terrore”, Kant?”

Se la fine non ci fosse, sarebbe un dramma (teatro) senza senso, Kant?

Il terrore che accompagna questa certezza viene dall’opinione che la storia sia essa stessa senza senso, Kant?

È la storia senza senso?

Ma dove altro è il senso, se non glielo diamo noi?

La fine è sempre terribile, Kant?

Sperare è difficile, Kant?


spock@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo (41)

Una serie di mostre si tiene a New York sul complottismo, quanto piace in America.
GoFundMe, il più grande sito di sottoscrizioni volontarie online, ha raccolto nel 2017, l’ultimo anno di cui dà i numeri, oltre 5 miliardi di dollari.  Attraverso sottoscrizioni molteplici, per ogni bisogno o evento, che in media non raccolgono duemila dollari ognuna. La richiesta di aiuto incontra mediamente la sottoscrizione di un paio di dozzine di donatori.
La maggiore raccolta singola di fondi su internet è stata per il muro al confine col Messico: 25 milioni a fine 2017.
 Licking è il nuovo hashtag social. Farsi leccare in viso dal cane - come da sua ambizione, ambizione di tutti i cani - è stata la (pre)occupazione estiva del celebrato “New Yorker”, il settimanale degli americani intelligenti. Che l’ha risolta rovesciandola: se e perché non leccare il cane - dato che farsi leccare dal cane è considerato pericoloso per la salute - con i relativi benefici, e il nessun costo, non affettivo.
Trump che abbandona l’alleato curdo, d’accordo con la Turchia, per facilitarne l’aggressione, è il minor titolo di obbrobrio nei media americani, pure tanto determinati contro il presidente in carica.
I media americani all’unisono criticano e tampinano Trump dove i servizi segreti vogliono, sulla Russia e ora sull’Ucraina. Non su altre possibili colpe, o torti, pure più facili da indagare: affari, tasse, stalking.

Gadda filologo beffardo

A Roma “oggi, senza la macchina è difficile vivere, ed io vivo difficilmente”. È il tenore di queste prose “disperse” fra i giornali, qualcuna ancora nei cassetti: recensioni di libri per lo più, e articoli, appunti. Lepide a volte, tutte sapide. Senza macchina sarà un pretesto per farsi imbarcare dagli amici – Parise ci ha scritto sopra pagine lepidissime, sapidissime – gratis, sempre con i noti scongiuri per la velocità. Ma, certo, la macchina è un disturbo ai nervi, specie le serrande dei “garages” e “boxes”, nonché dei regolari, che partono invariabilmente alle cinque di mattina, Gadda dice alle tre, sbattendo lo sportello e dando rumorosamente gas – all’epoca non c’era l’accensione elettronica. 
Un Gadda com’era, colto e goliardico. Di cultura robusta e approfondito uso di mondo, o esperienza, ma – per questo – leggero e giovanile, non il cumenda sulfureo, un po’ bolso, dei tardi agiografi. Un quarantenne che inizia una nuova vita, lontano dalla carriera di ingegnere e dalle cure familiari. Nel bisogno: lo pensa, lo reitera (collaborerà per questo nel dopoguerra, cinquantenne, anche col “Popolo”, il giornale della Dc, Leone Piccioni non potendogli proporre altro di “alimentare”). Con un’esperienza di mondi, di mondo, unitamente a quella della guerra al fronte e della prigionia, incomparabile con la domesticità dei nuovi compagni di merende ai caffè letterari. Per non dire della formazione, filosofica e letteraria oltre che tecnica e scientifica, nei suoi piani di gioventù, anch’essa al di sopra della media, molto.
L’unico che ha sensibilità per il quotidiano, il vissuto: il quartiere, il palazzo, il condominio, le pareti in foratino. S’impone anche, in parallelo sempre con Pasolini, ma qui da “secondo”, la conoscenza delle periferie romane, fin nelle borgate, in una lunghissima e attenta considerazione. Di affettuosa, benché lagnosa, attenzione, senza pari, per Roma: per i quartieri, la toponomastica, i modi di dire, i caratteristi. E di considerazione dubitosa, tra fervore nostalgico e ironie insopprimibili, per la sua Milano, dove non fu felice – e decide, in un paio di occasioni in cui considera l’opzione, soprattutto l’ultima, con l’età e le malattie, di non tornare. Non esclusa la sottile, non più scherzosa, paranoia che sempre lo accompagna dai quaranta, da quando a Firenze e altrove si fa personaggio pubblico.
I molteplici interessi di Gadda sono documentati: letterari, linguistici, e anche civili e politici. Una personalità speciale, tutto il contrario del carattere misantropico e misoneistico che gli è stato cucito addosso. E forte a molti tasti, resocontista professionale, documentato, ferrato, impegnato. Che tutti sa rendere interessanti. Un Gadda anche serioso, inventivo anche in questa veste, ingegnoso, propositivo. Sulla difesa del latino – lingua solida e durevole, esatta e quindi scientifica. Sulla ricerca dell’italiano – molti i contributi alla romana questione della lingua tra 1950 e 1960. Con Sinisgalli pedagogico e gnoseologico.

E uno perfino spensierato, negli anni 1960-1963, alla vetta degli onori e della sicurezza, col piccolo Nobel “Formentor”. Nella scrittura e nella corrispondenza, che la curatrice documenta in nota. Con “Il cetriolo del Crivelli” e altre prose divertite. A teatro si diverte senza vergogna, in tempi pure bui, aprile 1945. Alla “Cena delle beffe” inscenata dal duo Amedeo Nazzari-Rossano Brazzi alla Pergola di Firenze. Ai Satiri di Roma si avvicina con una buffa lettura della tonomstica, dai Giubbonari alla Pollarola e agli stessi Satiri – con Pompeo nel mezzo. O alle messinscene di “Luchino” (Visconti) – anche se a spese di Čechov: Gadda è difensore dell’ammodernamento scenico, dell’attualizzazione dei drammi e commedie. Notevole, oltreché al solito acuto, il riesame della “Mandragola”.
Un libro ponderoso. Testimone che le dure fatiche lamentate da Gadda non erano nevrosi. Dovette scrivere articoli, che lo angustiavano (gli prendevano una settimana e lo stremavano), per tutta la vita attiva in letteratura, dal 1927. Ma ben cosciente di sé, del capitale accumulato: “Il convoluto Eraclito di via San Simpliciano”, il domicilio milanese, si fa dire da Pasquali. E della propria debolezza: recensendo nel 1946 i “Pensieri” di Devoto s’illumina al § 6 del cap. “Antefatto”, “Capri espiatori”,  “di cui particolarmente ringrazio l’Autore”: “Lumeggia la psicosi dell’addebitamento di colpa, il meccanismo di formazione dei miti (erroneamente) punitivi in seno alla collettività stanca, delirante, malata”.  Ne dà conto, anche profuso, nella recensione di Berto, “Il male oscuro” – titolo e esergo Berto aveva mutuato dalla “Cognizione del dolore”: elaborata e concettosa, benché destinata alla lettura alla radio, sulle tante forme del mal di vivere. Senza privarsi di notare che spesso fa emergere il ridicolo.  
L’apologia manzoniana che apre la raccolta un po’ allontana: cerebrale, impositiva. Ma presto si riprende, già con le semplici recensioni gionalistiche, di Morand (“1900”), Arland (“Essais critiques”), il cugino Piero, Pierre Abaham, uno statistico di Balzac, pretesti al gaddismo puro – “Il modo dei modi è un mistero dei misteri, non meno che la causa delle cause”. Ironico e anzi beffardo volentieri, per la forza della logica – della cosa denudata, del dire senza già detto. Un volume perfino un po’ troppo denso.
Pieno di cose, naturalmente. Che riverberano sul fenomeno Gadda. C’è già nel 1932 la Brianza triste della “Cognizione del dolore”, nella recensione al cugino, eletto antifrastiscamente,  cioè ridotto, a cultore della Brianza (p.62): “Come specialista in fatto di Brianza intendo ed apprezzo quel pacato e malinconico lirismo gaddiano, che di là dai dolci pioppi d’Eupili avvolge il grigiore del Resegone”, con “la trombetta degli usseri nei chiari mattini” della caserma, “fragorosamente contrappuntato dalle campanone simplicianone”che interrompevano il sonno – “disciogliendosi ne’ loro sproloquî i bei sogni filosofici di mia primavera, fiorita di calcolo differenziale”.  Con una passione filologica dichiarata. Su Goethe e il “Faust”: Goethe è uno Shakespeare infelice nel “Faust”, enfatico, di testa, e Gadda lo mostra leggendo in parallelo l’“Amleto”. Della lirica e metrica di Catullo, di pregno o coltivatissimo sedimento filologico: nell’ambientazione politica, del poeta come anticesariano preveggente, nello studio ritmico, e “per la religiosa catarsi del carme 34 (che inspira il Carmen saeculare di Orazio)”.  Sulle traduzioni in genere, su quelle del “Faust e su quella di Manacorda. Su simbolo e allegoria. Sul senso religioso.
Con giudizi anche affilati. Non umorali, Gadda è professionale anche nelle recensioni: avvedute e spiegate. Contro Foscolo, contro Carducci – smonta il “Ça ira” verso a verso. Di Quasimodo traduttore di Catullo in versi liberi, operazione che in privato dice “uno spasso!”, (p. 503), si limita a concludere: “Siamo grati al poeta del poetico esperimento”. Su Montale ritorna quattro o cinque volte, superelogiativo (ma Montale era riservato nei suoi confronti, nota Liliana Orlando, che ha curato la raccolta), come su Bacchelli, incuriosito e forse irretito dal romanzo storico. Amichevole e lucido. Per “l’Aldo” soprattutto, Palazzeschi. Per Angioletti, suo nume tutelare in una lunga serie di occasioni, fino all’impiego provvidenziale, risolutivo, in Rai. Per Luigi Russo. E per Pasquali: amico e estimatore, l’autorevole filologo classico, che ama e apprezza la conversazione di Gadda come Gadda la sua, e lo conosce anche bene, se gli scrive, nel 1933: “Se una volta nella sua vita riuscisse a conseguire serenità e gioia, a esser meno malcontento almeno di sé”…”.
Saldo cristiano, con Rensi e il suo “umanesimo cristiano”, secondo dopoguerra. Anche ottimo reporter, minuzioso, inventivo: la visita di palazzo Braschi, nella lunga epifania dell’“Aldo” (Palazzeschi), è una sorpresa dietro l’altra. O la visita ai “Quartieri suburbani”, 1955, per la “Civiltà delle macchine”. Anche serioso: gli è capitato di fare il relatore a un premio di poesia, Le Grazie, nel 1949, assegnato a Parronchi – ne approfitta per l’ennesima filippica contro Foscolo, nel quale incarna il trombonismo ottocentesco, ma non si evita, qua e là, di apprezzarlo, per esempio come traduttore.
L’ultimo dei Quattro saggi che Gadda ha scritto su Belli, nel 1963, qui con il titolo “Canto, cantica, girone”, che tutti li riassume, è un manifesto di poetica. Con le parole di Vigolo, curatore nel 1953 dell’opera di Belli per i Classici Mondadori: “Il sarcasmo è in lui il virus antiretorico per eccellenza che agisce in profondità, rendendo impossibile una presa del falso sull’animo: è una «regola» spirituale che il Belli si dà ed è l’analogo perfetto, in sede psicologica, dell’altra regola che si era imposta nel linguaggio, escludendone ogni forma o modo che non fossero schiettamente di popolo”. Con la postilla, dopo aver riportato Belli a Porta: “Il dramma dell’espressione è nel Belli, come è nel Manzoni”. Rivendicandone, giulivo, “la dissonanza insistente – cupo pedale, dice Vigolo – tra la carcerata voce dell’io e il dorato coagulo del supersistema: aulico, accademico, instituzionale”. Con la conclusione, con parole proprie, programmatica: “La verità, la dialessi del Belli, comprende o comporta il mito plebeo della città e de’ suoi modi e delle sue genti: lo incorpora nel poema: e non solamente come antitesi… Col Belli, non meno che col Piranesi e col Pinelli, si finisce per amare la totalità di questo epos”.
Su Manzoni si commuove. L’“Apologia” è di testa, la critica al Manzoni di Moravia è invece veemente. “Ho letto dieci volte i P.S. da ragazzo fra i 9 e i 16”, premette scrivendone a Citati per un consiglio, “e sempre mi hanno incantato, pagina per pagina”. I Millenni Einaudi si erano affidati a Moravia per presentare la lussuosa edizione del romanzo, con tavole di Guttuso, e “Alberto” lo aveva fatto infuriare. La stroncatura della stroncatura di Moravia di rilegge come un capolavoro di filologia. E di storiografia, trattandosi di mondi e personaggi del Sei-Ottocento e di un romanzo storico: “Noi amiamo anche il passato, e leggiamo talora nel passato più veramente che nel futuro. Una storia ci può appassionare e incitare più che un’utopia”. Con una schematizzazione del romanzo che ne fa il primo caso di narrazione degli umili, e di denuncia dei poteri - il fine Ingegnere non dice che Moravia ha fatto il compitino sulla traccia di Gramsci nei quaderni del carcere, fa lui il vero trascinano. La chiusa è al “volemose bbene”, tirata sul pettegolezzo che tutti unisce, ma la tirata è ben polemica. Salvo beccare qua e là il Manzoni purista e poeta, il “futuro proprietario della villa di Brusuglio”.
Scritti da definire noti, perché tutti già pubblicati. Ma in epoche e su veicoli remoti. Riuniti insieme fanno una sorta di monumento. Non celebrativo, non è il Gadda a cavallo o il mezzobusto, ma un personaggio vivace, dagli interessi poliedrici, e sempre con qualche soddisfazione (curiosità) per il lettore: uno scrittore solido, con tutte le sue ansie e le ubbie. Più Gadda si conosce e più si irrobustisce.
Liliana Orlando, che cura la raccolta, ne facilita la lettura - e un po’ anche la rianima – con nutrienti note di contestualizzazione, lavorando sulla corrispondenza, le testimonianze, gli appunti, per lo più inediti. Una sottile tessitura imbastendo, senza parere, di fonti, rinvii, riferimenti, retropensieri dell’arguto incontenibile Ingegnere. 
Carlo Emilio Gadda, Divagazioni e garbuglio, Adelphi, pp. 554 € 26

martedì 15 ottobre 2019

De Benedetti, il ritorno

De Benedetti che fa un’opa sull’azienda dei figli, l’editrice del gruppo La Repubblica-L’Espresso, merita la rilettura di un breve ritratto abbozzato su questo sito il 17 giugno 2011 - in parallelo con Berlusconi quando i due duellavano, due ex immobiliaristi. Anche per valutare i possibili sviluppi.

venerdì 17 giugno 2011
I due duellanti – De Benedetti vs. Berlusconi
La sfida continua nei media. Anche in politica, per la verità. Con identico schema, se ci si rifà alla cosiddetta Prima Repubblica, quando gli schieramenti avevano senso. Dc con appoggio socialista Berlusconi, Dc con appoggio comunista De Benedetti. Berlusconi tra Andreotti (tenne fermo il governo contro la dimissione di cinque o sei ministri demitiani contro Berlusconi…) e Forlani, De Benedetti con De Mita - che impose a Scalfari e Caracciolo, quanto di più penitenziale per i due high tories - e Prodi.
In politica in astratto non c’è gara, De Benedetti non corre. Non personalmente. Persegue però con determinazione, da almeno trent’anni, il disegno di fare un centro-sinistra a guida centrista, che, bisogna concedergli, non è facile. È stato aiutato da Prodi in affari, nelle dismissioni Iri, e ha aiutato Prodi nelle vittorie elettorali – con un contributo che lui ritiene determinante, e probabilmente lo è stato. Ma essendo fortemente prevenuto contro gli ex Pci, D’Alema soprattutto e alla fine anche Veltroni, si trova sempre a metà strada. Una rivincita è ora dietro l’angolo, con la candidatura di Prodi alla presidenza della Repubblica fra due anni, alla quale De Benedetti è attivamente impegnato e che lo sparigliamento di Fini e Casini rende possibile – ma gli resta da convincere Bossi e, sotto sotto, anche Di Pietro.
La sfida vera tra duellanti resta però nei media. Non tanto sulla questione della proprietà. La controversia Cir-Fininvest è stata riaperta dal giudice, De Benedetti ne è rimasto sorpreso quanto Berlusconi. Col lodo Mondadori, per il quale la giustizia lombarda ora gli fa regalare 745 milioni da Berlusconi, e la successiva quotazione di Repubblica-L’Espresso in Borsa, contro il parere di Scalfari, De Benedetti s’intascò 252 milioni che invece avrebbe dovuto dare al fisco. Che ora glieli contesta e ha ottenuto di riaverli indietro. 
In materia di affari i due non si fanno fregare. La gara è sull’idea: su chi è migliore notabile - editore, padrone occhiuto di giornali e giornalisti, innovatore, padre della patria.
Berlusconi si conferma nelle ultime due consultazioni elettorali, per i Comuni e i referendum, irrimediabilmente antimedia: non capisce nemmeno i segnali evidenti. Pur facendosi forte dei suoi sondaggi. Conferma cioè che è un fenomeno politico antimediatico, e questo potrebbe addurre a suo vantaggio: che è al di fuori dell’opinione pubblica, o populismo che dir si voglia. È padrone dei media, di una parte consistente di essi, ma non li usa o non li sa usare. Per fare soldi sì ma non per fare opinione. E quando l’opinione è netta non la cavalca: si potrebbe dirlo un uomo di principi invece che un opportunista.
Particolarmente significativa è l’insensibilità che Berlusconi esibisce sulla sconfitta di Milano, che è a tutti gli effetti una catastrofe. Anche perché il sindaco e la giunta sono stati i migliori degli ultimi vent’anni. Anche Napoli è una sconfitta, che era una città già conquistata e senza difese. Berlusconi ha capitalizzato sulla voglia di cambiare, di rompere con la morsa del compromesso, e degli interessi costituiti che il compromesso difende. Ma non ha saputo cambiare, e forse non poteva perché il paese non glielo consente – che ora se ne fa beffe. Il paese che è da vent’anni nient’altro che Milano, la sua città, l’establishment di Milano, la parte “migliore”, l’arcivescovado e le banche, che ora rincorrono scopertamente l’ipotesi neoguelfa, della nuova Dc. Il re dei media è il più grande Antipatico e Antipatizzante che sia stato dato vedere in tv – non fosse per l’aspetto burla che la sua maschera sottintende ma non è vero.
È pur vero che Berlusconi re dei media lo è: lui lo pensa, lo vuole. La verità è dunque doppia. E ha un doppio fondo nascosto. Uno è che Berlusconi non fa l’opinione, ma si lascia fare dall’opinione – non fa l’agenda ma la recepisce. L’altro è che si lascia fare da un’opinione contraria – apparentemente contraria? È l’opposizione, non il supposto re dei media, che fa l’agenda in Italia. Quasi ogni giorno con rinnovata verve, e sempre ultimativa: il Grande Centro di Fini e Casini, quello di Montezemolo e Della Valle, quello di Tabacci e Montezemolo, la sfiducia, Zappadu, le minorenni, le escort, il lodo Mondadori, la Carfagna, la Mussolini, e i tanti ministri che gli fanno le scarpe, Alfano, Tremonti, Gianni Letta. Quasi mai un tema è imposto da Berlusconi. Che al contrario non se ne fa scappare nessuno dell’opposizione.
Volendo razionalizzare, questa opinione gli è contraria solo in apparenza: gli consente cioè di governare non governando. Che nel suo caso vuol dire impedire la funzione di governo: catturarlo, farselo prigioniero, per impedirne il funzionamento. Ci sono delle cose che vanno, che sono sempre andate nei suoi due governi – il primo gli fu impedito da Scalfaro. L’adeguamento dei conti pubblici ai parametri dell’euro, per esempio, della stabilità monetaria. La lotta alla mafia, condotta con freddezza, come un dover essere, come deve uno Stato. Il contrasto dell’immigrazione clandestina, che è un malaffare prima che un’opera di carità come dicono i monsignori. Qualcuno (per esempio D’Alema, Napolitano) potrebbe aggiungervi le guerre, la risposta pronta agli appelli degli Stati uniti. Anche la legge Biagi, ma già suo malgrado, e forse senza nemmeno sapere di che si trattava (di stabilizzare il lavoro precario). Ma tutte le cose di cui l’Italia aveva e ha bisogno, che sempre promette, non le ha mai avviate: la giustizia, una delle massime diseconomie dell’Italia; un fisco almeno semplificato, dato che non si può ridurlo; una legge sulla concorrenza che apra un po’ il mercato, alla legalità e gli investimenti esteri; le opere pubbliche (la Milano-Lione, l’Alta Velocità con la Svizzera, il Ponte sullo Stretto, la variante di valico); le leggi sulla bioetica.
Ma sui media come business, la televisione, i giornali, i libri, Berlusconi non ha sbagliato mai un colpo. Mentre è sui media che De Benedetti più soffre di stare indietro a Berlusconi. Senza gelosia: ha offerto a Berlusconi di fare parte dell’ambizioso progetto CdbWebTech, e Berlusconi si lasciò sedurre dall’idea di fare soldi con la rete – salvo defilarsi saggiamente al momento di metterci i soldi veri (fece al rivale un elegante portage pubblicitario). Berlusconi è riuscito in tutto, sa fare perfino i periodici, che per De Benedetti e gli altri editori sono zavorra. Ma soprattutto ha avuto la sua idea: la pubblicità. Un mercato che ha “creato” (trent’anni fa lo portò in pochi mesi da mille a diecimila miliardi l’anno), facendolo fruttare sugli “spazi” gratuiti delle frequenze e dell’Auditel.
De Benedetti, che poteva aver trovato la sua idea nella telefonia mobile, viste le applicazioni che essa oggi consente, anche nel mercato pubblicitario, non ha resistito alla tentazione del superguadagno immediato. Poi, sono ormai una dozzina d’anni, ha puntato sul web. S’informa, anticipa, investe (poco), dapprima con Kataweb, di cui voleva fare una delle famose start-up dot.com, ma non ci riuscì, poi con CdbWebtech, anch’essa virtualmente fallita, ora con “Repubblica” online. Con i tanti progetti di far pagare la lettura, ma coi soli (magri) introiti della pubblicità. E una serie di stati di crisi che hanno minacciato l’integrità patrimoniale dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti.
È attesa ad horas – è in ritardo già di un paio di mesi – la decisione della Corte d’appello di Milano sul processo Cir-Fininvest per la Mondadori. Si sa già che la sentenza non sarà decisiva, e che la partita sarà decisa in Cassazione, quindi fuori di Milano. Come si sa che la Corte d’Appello non darà ragione alla Fininvest, pur riducendo la penale rispetto al primo grado, quando il giudice monocratico le comminò un’ammenda di 745 milioni di euro – alla corte d’Appello è stato “autorevolmente” suggerito (la giustizia a Milano e in Italia si fa così) di ridurre la penale di 250 milioni. Non sarà dunque l’ultimo atto, e probabilmente nemmeno il penultimo, di un “mano a mano” come si diceva nelle corride, di una sfida di bravura fra Berlusconi (Fininvest) e De Benedetti (Cir). Che si rispettano personalmente, ma se le danno senza esclusione di colpi da cinquant’anni, non appena possono. Con De Benedetti, bisogna dire, che rincorre Berlusconi, finora più bravo e più fortunato – più ricco non si sa, essendo De Benedetti da tempo residente fiscalmente in Svizzera.
Sembrano diversi, ma molto hanno in comune. La ripubblicazione recente di Mandeville, “La favola delle api”, il teorico dei “vizi privati pubbliche virtù”, con prefazione di Carlo De Benedetti, meglio sarebbe attagliata, si è detto, a Silvio Berlusconi. Coetanei, De Benedetti del 1934, Berlusconi del 1936, figli di famiglie di media fortuna, l’hanno tentata in proprio comprando e vendendo immobili, la tappa tradizionale per chi ha talento ma non capitali, negli anni del boom. Con pari successo. Poi però Berlusconi le ha indovinate tutte o quasi, De Benedetti le ha fallite tutte o quasi.
Berlusconi s’è fatto imprenditore, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità, infine nell’editoria, tre settori dove ha sempre guadagnato – non ha mai licenziato nessuno (il che, nelle logiche milanesi, è un caso unico e forse un miracolo). Carlo De Benedetti pure è partito con l’immobiliare – comprare la mattina a dieci e rivendere nel pomeriggio a cento. Nel 1972 col fratello Franco rilevò l’immobiliare Gilardini, che fu trasformata in holding, di attività soprattutto automotive. Fu un successo, che portò Carlo alla guida degli industriali piemontesi nel 1975 e nel 1976 in Fiat, con una quota in cambio del gruppo Gilardini, e l’incarico di amministratore delegato – i rapporti erano buoni con gli Agnelli, di cui i De Benedetti erano stati inquilini a lungo, e per l’amicizia di Carlo col coetaneo Umberto, compagni di scuola al ginnasio. Poi passò alla finanza, con esiti alterni.
Ha fallito la scalata a Société Générale, alla Sme e a Mondadori, nonché alla Fiat, l’episodio forse più increscioso, dove già in novanta giorni era riuscito a operare contro gli Agnelli che l’avevano nominato amministratore delegato – e per questo era stato licenziato bruscamente. Più sul ridicolo l’operazione Société Générale: si recò un lunedì mattina dei primi del 1987 dal presidente Étienne Dauvignon a dire l’acquisto già fatto, con un vassoietto di marrons glacés, da vincitore benevolo, ma i potenti soci del grande gruppo laico franco-belga lo lasciarono fuori della porta.
Dove è riuscito c’è l’ombra dell’usura: nel Banco Ambrosiano di Calvi, e nell’acquisto del gruppo L’Espresso-Repubblica, con evizione di Scalfari. O della speculazione: l’acquisto-vendita di Buitoni, e l’acquisto-vendita di Omnitel-Vodafone - qui a ottimo prezzo, con un guadagno netto in pochi mesi di tredicimila miliardi di lire del 1996, ma la licenza Omnitel aveva avuto con una serie d’incontri, anche conviviali, con Berlusconi e i suoi collaboratori a palazzo Chigi sul finire del 1994, qualche giorno prima di “segarlo” con i suoi giornali. Dappertutto De Benedetti ha seminato licenziamenti, e quando ha tentato l’imprenditoria, alla Olivetti, è finito addirittura in un fallimento.

Come Berlusconi ha anche sfiorato in più punti la giustizia. Alla Olivetti per le forniture alla pubblica amministrazione e le morti sospette in fabbrica. Nell’affare Sme per avere avuto da Prodi, allora presidente dell’Iri, un gruppo da 5 mila miliardi a gratis. Anzi con un attivo di trenta miliardi, su un prestito a titolo gratuito di 300 miliardi da parte dello stesso Iri. L’operazione, svelata dai quotidiani “Reporter” e “Il Manifesto”, non andò in porto. Ma fu l’inizio delle guerre con Berlusconi, che promosse una cordata alternativa di acquirenti con Barilla e Ferrero. Anche questa vinta sul piano giudiziario: lo scandalo dell’accordo con Prodi fu rapidamente insabbiato dalla Procura di Milano, che invece inquisì e processò a lungo, con dispiego di mezzi, specie la giudice Boccassini, Berlusconi.